Scarica Donne, razza e classe - Riassunto completo e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! Donne, razza e classe Prefazione di Cinzia Arruzza Questo saggio è stato scritto e pubblicato in prigione nel 1971. Qui la Davis spiega le motivazioni che la spinsero a intraprendere questo studio sulla condizione delle donne afroamericane durante lo schiavismo. Si trattava soprattutto di sfatare il mito del matriarcato nero il quale aveva gravi conseguenze politiche all’interno del movimento antirazzista e delle varie correnti della “black power”. Secondo tale mito lo schiavismo non solo avrebbe distrutto i rapporti familiari tradizionali, ma avrebbe avvantaggiato le donne nere in termini comparativi, conferendo loro un maggiore potere e autorità rispetto agli uomini. Questo rapporto differenziale dello schiavismo rispetto a uomini e donne avrebbe spiegato anche l’assenza di ribellioni delle donne e sarebbe stato all’origine della persistente crisi della mascolinità e dei rapporti familiari afroamericani nei decenni successivi all’emancipazione, e addirittura una delle cause dell’alto tasso di povertà e disoccupazione fra gli uomini afroamericani. Davis fa notare come tali miti e cliché ebbero una certa diffusione anche all’interno delle comunità afroamericane. Fortemente influenzato dal nazionalismo nero di Malcolm X, il black power ne ereditò anche i presupposti e le pratiche misogini, basti pensare alle testimonianze di molestie e violenze subite nell’ambito del movimento Black Panther. Il libro è dedicato a George Jackson, imprigionato a 18 anni per furto e ucciso dalle guardie della prigione. Nella sua dedica la Davis scrive che lo conobbe e che ebbe modo di vederlo sviluppare un’acuta sensibilità rispetto ai problemi delle donne nere. Solo qualche anno prima Jackson scrisse alla madre che lei in quanto donna non poteva capire la situazione degli uomini neri, le cui donne non li fanno nemmeno comandare in casa dopo tutto quello che devono sopportare nel mondo esterno. La Davis con questo saggio si propone di sfatare il mito del patriarcato mostrando come le condizioni di schiavitù non lo permettessero a prescindere e di come questo comportasse forme specifiche di oppressione e sfruttamento delle donne. Dall’altro lato Davis intende anche mettere in luce il ruolo dimenticato delle donne nere nelle ribellioni, sfatando il mito che fossero meno propense alla lotta. La speranza di Davis era che il movimento di liberazione nero ripensasse pienamente il processo di liberazione dall’oppressione razziale come al tempo stesso liberazione delle donne dall’oppressione di genere. Se i primi capitoli del volume riprendono i temi del saggio del ’71 e sviluppano la critica al matriarcato nero, quelli successivi si propongono il compito ambizioso di una critica ai limiti fondamentali del movimento femminista americano. Ciò che emerge è la persistente cecità di larga parte del movimento femminista americano rispetto alle differenze di esperienze e di politicizzazione tra donne bianche e nere. Come detto dal titolo, l’analisi dei rapporti di classe svolge un ruolo fondamentale all’interno della ricostruzione. Davis adotta un approccio marxista riguardo alla questione del rapporto strutturale tra capitalismo americano e oppressione delle donne di colore. Ciò emerge soprattutto nell’ultimo capitolo e in “Lavoratrici, donne nere, e la storia del movimento suffragista” in cui Davis mostra come l’esclusione delle donne nere dal movimento ebbe un marcato carattere di classe colpì anche donne bianche di classe operaia. Donne, razza e classe è considerato come uno dei testi seminali del femminismo nero americano ed ha aperto un nuovo terreno e un metodo di ricerca basato, da un lato, sulla riscoperta e valorizzazione della storia dimenticata dei processi di ribellione, partecipazione e soggettivazione politica delle donne nere, dall’alto su un approccio integrato all’interconnessione dei rapporti di classe, razza e genere, non solo in prospettiva soggettiva ma anche dal punto di vista della loro dinamica nei rapporti di produzione capitalistici. punizioni di chiunque altro, se in alcuni casi non avveniva era solo perché il proprietario apprezzava il valore di un bambino come si apprezza il valore di un vitello. Quando nel sud furono promossi tentativi di industrializzazione, il lavoro degli schiavi integrava quello degli operai liberi, gli industriali si servivano di schiavi e quando i proprietari terrieri glieli offrivano in affitto la domanda di donne e bambini era pari a quella degli uomini. Le donne non erano troppo “femminili” da non poter lavorare in miniere di carbone, fonderie, ecc… L’uso di donne schiave in sostituzione delle bestie da soma ricorda l’uso della forza lavoro di donne bianche in Inghilterra descritto da Marx nel Capitale. Le donne schiave erano di gran lunga più redditizie degli operai liberi o degli schiavi maschi in quanto costavano meno dei maschi di prima categoria in termini di costo iniziale e mantenimento. Obbligate dalle richieste del padrone che le voleva “maschili” nel rendimento, le nere hanno subito conseguenze profondamente deleterie dalle loro esperienze di schiavitù. In un frammento di un viaggiatore dell’epoca che ha visto delle donne nere nel Mississippi si legge che queste erano 40 delle più grandi e forti donne che avesse mai visto. È improbabile che queste donne ne provassero orgoglio. Quando i primi incerti tentativi di strutturare il lavoro nelle fabbriche, precedenti alla guerra civile, cedettero il passo a un’industrializzazione aggressiva va degli USA, molte donne bianche si ritrovarono defraudate dell’esperienza di eseguire un lavoro produttivo. Mentre l’ideologia della femminilità – un sottoprodotto dell’industrializzazione – diventava popolare e si diffondeva grazie alle nuove riviste per signore e ai romanzi sentimentali, le donne bianche che cominciarono ad essere percepite come parte di una sfera separata dal regime del lavoro produttivo. “Donna” diviene il sinonimo di “madre” e “casalinga” e queste etichette portano con sé uno stigma di fatale inferiorità. Fra le donne nere questo lessico non trovava posto, le relazioni maschio-femmina all’interno della comunità degli schiavi non potevano conformarsi al modello ideologico dominante. La definizione della famiglia nera come struttura biologica matrilocale ha molto a che fare con gli schiavisti. Gli atti di nascita di molte piantagioni omettevano i nomi dei padri e in tutto il sud le legislazioni statali adottavano il principio per cui il bambino segue la condizione della madre, ciò anche perché non pochi figli erano figli dei padroni.Molte analisi storiche hanno dato per scontato che il rifiuto del padrone di riconoscere la paternità tra i propri schiavi conducesse direttamente a una forma matriarcale, secondo questa tesi l’origine dell’oppressione sarebbe un “groviglio patologico” creato dall’assenza dell’autorità maschile fra i neri. Questa tesi fu proposta da un sociologo bianco ma anche molti colleghi neri ne sostenevano una simile. Né Moynihan né Rainwater hanno inventato la teoria del deterioramento intrinseco della famiglia nera sotto la schiavitù. Questo è frutto del sociologo nero Frazier e del suo libro “the negro family” degli anni ’30 in cui veniva descritto in maniera drammatica l’orrendo impatto della schiavitù sui neri ma fallì nel rendere giustizia alla resistenza che essi posero all’insinuarsi dello schiavismo nella propria vita sociale. Gutman d’altra parte produsse delle ricerche, poi pubblicate in “the black family in slavery and freedom” nel ’76, in cui c’erano convincenti prove a sostegno dell’esistenza di un’istituzione familiare che nel corso della schiavitù era prospera e in via di sviluppo e nella quale partecipavano tutti i membri. Gutman conferma che innumerevoli nuclei familiari di schiavi furono distrutti con la forza attraverso la vendita indiscriminata, ma come sottolinea l’autore, i legami affettivi e le norme culturali che governarono la famiglia e il desiderio di rimanere uniti sopravvissero all’assalto della schiavitù. Gutman dimostrò anche che gli schiavi aderivano a norme vincolanti sul funzionamento degli accordi familiari, norme diverse da quelle che governavano la vita dei bianchi circostanti. I loro accordi domestici e reti parentali rendevano evidente ai loro figli che gli schiavi non erano “non uomini” o “non donne”. Nonostante ciò, sfortunatamente, Gutman non ha cercato di determinare la vera posizione delle donne nella famiglia di schiavi ma dimostrando l’esistenza di una complessa vita familiare ha distrutto uno dei principali pilastri della tesi del matriarcato. Nonostante ciò non ha messo in discussione l’assunto complementare secondo il quale, laddove vi erano famiglie con due genitori, la donna dominasse l’uomo. inoltre, come confermato dalle sue ricerche, la vita sociale nei quartieri degli schiavi era in gran parte un’estensione della vita familiare. Pertanto il ruolo delle donne nella loro famiglia doveva essere definito in vasta misura dal loro status sociale all’interno della comunità nel suo insieme. Secondo Elkins il ruolo della madre sembrava più vasto agli occhi del bambino di quello del padre, era lei che controllava la casa, preparava il cibo e educava i figli. Anche il fatto che gli schiavi venissero chiamati “boy” dal padrone era secondo Elkins un riflesso della loro incapacità di prendersi carico delle proprie responsabilità paterne. Stampp si spinge ancora più in là dicendo che la famiglia era matriarcale perché il ruolo della madre era molto più importante di quello del padre e che quest’ultimo era spesso pensato come un assistente o un possedimento. È vero che la vita domestica aveva un’importanza esagerata perché forniva loro l’unico spazio in cui potevano sentirsi esseri umani. Le nere per questa ragione e perché erano lavoratrici quanto gli uomini non furono svilite nelle proprie funzioni domestiche come invece accadde alle bianche, al contrario di queste loro non potevano essere considerate solo come “donne di casa”. Ma sostenere che dominassero i propri uomini è distorcere la realtà. Le funzioni domestiche della donna schiava erano essenziali alla sopravvivenza della comunità, trattandosi di lavoro non richiesto dal padrone, e la sua centralità implicava che non fosse esclusivamente femminile: mentre la donna cucinava e cuciva, l’uomo poteva occuparsi dell’orto e cacciare. La divisione del lavoro non è di tipo gerarchico, erano tutti ugualmente necessari. L’aspetto rilevante che emerge dal lavoro domestico negli alloggi degli schiavi è quello dell’uguaglianza di genere, il lavoro fatto dagli schiavi per sé stessi e non per il padrone era messo in atto in forme egualitarie: i neri hanno trasformato un’uguaglianza negativa (un’uguale oppressione patita in quanto schiavi) in una qualità positiva: l’egualitarismo che caratterizzava le loro relazioni sociali. Anche se la tesi di Genovese è problematica (che il popolo nero accettasse il paternalismo associato alla schiavitù), fornisce tuttavia una penetrante immagine, per quanto limitata, della vita domestica degli schiavi. Egli dice che assumere che l’uomo fosse un’ospite in casa non è appropriato, infatti quella che è stata spesso considerata supremazia femminile era in realtà un’approssimazione a una salutare uguaglianza di genere nei rapporti familiari, migliore forse di quella delle famiglie bianche. Il punto più affascinante che Genovese solleva ma non sviluppa è che le donne spesso difendevano gli uomini dai tentativi di umiliazione portati avanti dal sistema schiavista, le donne, in quanto avevano compreso che se i loro uomini fossero stati degradati, lo stesso sarebbe successo a loro, volevano che i loro ragazzi diventassero degli uomini e per fare ciò avevano bisogno dell’esempio di un forte uomo nero. Se le donne hanno sostenuto il fardello dell’uguaglianza, hanno anche resistito alle aggressioni sessuali dei bianchi, difeso le proprie famiglie e partecipato alle rivolte. Come mette in evidenza Aptheker in “american negro slave revolts”, le donne avvelenarono i propri padroni, compirono atti di sabotaggio e alla pari dei maschi si unirono alle comunità maroon di fuggiaschi. La donna che accettava il destino di schiava era più un’eccezione che la regola. Douglas rievocò nei suoi scritti le torture e le fustigazioni di molte donne ribelli. Molte altre testimonianze mostrano come le donne resistevano e sfidavano continuamente la schiavitù. Le comunità maroon, formate da schiavi fuggiaschi, erano diffuse in tutto il sud. Servivano da basi per le spedizioni contro le piantagioni e talvolta facevano un lavoro di direzione nei progetti di ribellione. Quando c’era da combattere, le donne combattevano tanto quanto gli uomini. La resistenza a volte includeva l’insegnamento clandestino di lettura e scrittura. Va ricordata anche la figura di Harriet Tubman che realizzò straordinarie imprese e salvo più di trecento schiavi grazie a una ferrovia sotterranea. Ciò che ha fatto è stato semplicemente esprimere a modo proprio la forza e la perseveranza che così tante altre donne della sua razza avevano acquisito. Questo conferma che le donne nere, nel subire l’oppressione, fossero uguali ai loro uomini e nella comunità di schiavi avevano uno status pari a quello dei maschi. Questo è uno dei più grandi paradossi del sistema schiavistico: soggiogando le donne senza distinzioni di sesso si gettarono le fondamenta affinché queste reclamassero la loro uguaglianza nelle relazioni sociali. Una scoperta terrificante per i padroni che cercarono di rompere questa catena di uguaglianza attraverso una brutale repressione riservata in special misura alle donne, come lo stupro. Lo stupro era un’arma di dominio e di repressione col fine di distruggere la volontà di resistere delle donne, demoralizzando al tempo stesso gli uomini. In Vietnam le donne non erano certo immuni alla violenza inflitta sugli uomini, ma sono state scelte in maniera deliberata come vittime del terrorismo di una forza militare sessista governata dal principio che la guerra fosse esclusivamente un affare maschile. Gli schiavisti potrebbero aver fatto questo ragionamento: dato che le donne hanno conquistato consapevolezza della propria forza e un forte desiderio di resistenza, gli assalti sessuali violenti ricorderanno la propria condizione essenziale e inalterabile. Nella visione suprematista maschile di quel periodo, questa condizione implicava passività, acquiescenza e debolezza. Nonostante le testimonianze sugli stupri, il tema degli abusi non è stato affatto considerato dalla tradizionale letteratura sulla schiavitù. A volte si da addirittura per scontato che le donne fossero compiacenti e incoraggiassero le attenzioni sessuali degli uomini bianchi. Frazier credeva di aver individuato nella “mescolanza razziale” la più importante conquista culturale del popolo nero durante la schiavitù ma al tempo stesso non può ignorare quelle donne che non si sottomettevano senza lottare. Le bianche abolizioniste si sentivano offese dalle aggressioni sessuali verso le nere. Queste donne hanno contribuito in maniera inestimabile nella campagna contro la schiavitù, tuttavia, spesso non sono riuscite a comprendere la complessità della condizione delle schiave che le avevano portate a sviluppare certi tratti di personalità che le distinguevano dalle donne bianche. “La capanna dello zio Tom” della Stowe è uno dei più popolari prodotti della letteratura abolizionista, tuttavia la sua enorme influenza non può compensare la totale distorsione, nel libro, della vita degli schiavi. La figura femminile centrale è una parodia della donna nera, l’incarnazione della maternità femminile su un volto nero. Forse la sua speranza era che le lettrici bianche si identificassero con lei. Eliza, la figura femminile, è inconsapevole dell’ingiustizia della schiavitù, la sua sottomissione in quanto donna l’ha indotta ad arrendersi alla schiavitù e solo quando il suo status di madre è minacciato trova la forza di sollevarsi e lottare. Stowe, idolatrando l’ideale materno del diciannovesimo secolo, fallisce nel descrivere la realtà e l’autenticità della resistenza delle donne nere, donne di cui esistono testimonianze e la cui forza deriva non dal loro essere madri ma dalla loro concreta esperienza di schiave. Se Eliza non fosse stata minacciata dalla vendita di suo figlio probabilmente avrebbe vissuto per sempre felice sotto la benevola tutela del padrone. Se sono mai esistite donne così, sicuramente erano casi bizzarri, sono state altre le donne a passare alle discendenti un’eredità di duro lavoro, perseveranza, fiducia in sé stesse, tenacia, resistenza, determinazione: in breve, un’eredità che getta le basi per la nuova condizione delle donne. 3) Classe e razza agli albori della lotta per i diritti delle donne A Londra nel 1840 ci fu la World anti-slavery convention che secondo molti segna l’inizio del movimento organizzato delle donne degli US. Senza dubbio le donne statunitensi che parteciparono divennero furiose quando si ritrovarono escluse dal voto di maggioranza. Lucretia Mott, come altre che rappresentavano ufficialmente l’American anti-slavery society, aveva ulteriori ragioni per essere arrabbiata e indignata. Era appena uscita da una lotta sul tema del diritto delle donne di partecipare in piena uguaglianza ai lavori della Anti-slavery society. Al contrario della Mott, Elizabeth Cady Stanton non aveva esperienze come attivista politica e partecipò in qualità di moglie di un leader abolizionista. Sebbene sconfitte al congresso di Londra, le abolizioniste si resero conto che con le lotte passate avevano raggiunto risultati positivi. Al loro fianco vi erano leder uomini che si opposero alla scelta di escluderle. Secondo molti Garrison fu l’unico che si unì alle donne in galleria. Non tutti gli uomini erano abolizionisti bigotti, come riporta la Stanton. Nonostante il suo interesse per l’abolizionismo fosse recente, la Stanton aveva condotto in giovinezza una lotta personale contro il sessismo, era molto istruita, ma nel 1848 era madre e casalinga a tempo pieno. La sua vita monotona la rendeva sensibile a queste problematiche. Questi sentimenti la spinsero a ricontattare la Mott per lanciare un appello per un congresso femminile. Partendo dall’esempio della lotta alla schiavitù sarebbe stato possibile lottare per l’uguaglianza e spezzare le catene contraddittorie che portano una donna libera e istruita a sacrificarsi come casalinga. Durante i preparativi per il congresso di Seneca Falls la Stanton propose una risoluzione che sembro troppo radicale anche per la Mott (non perché non fosse d’accordo ma perché le sembrava un argomento troppo controverso per il primo meeting), ossia di estendere il suffragio alle donne. L’unica figura di spicco che la appoggiò fu Douglass. Al congresso c’erano circa 3000 persone e l’unico argomento divisivo fu il diritto di voto alle donne. Fu grazie alla mobilitazione di Douglass che la questione assunse portata pubblica, egli introdusse ufficialmente il tema dei diritti delle donne nel movimento di liberazione dei neri dove venne accolto con entusiasmo, Douglass scrisse anche “the rights of Woman” i cui contenuti erano molto radicali per l’epoca. Passò solo un mese da Seneca Falls e vi fu un congresso a Rochester che divenne il punto di riferimento del movimento. Al cuore della dichiarazione di Seneca Falls c’erano l’istituzione del matrimonio e i suoi effetti negativi sulle donne: le privava dei diritti di proprietà, rendendo le mogli dipendenti dal marito su un piano economico e anche morale. Esigendo l’assoluta obbedienza delle mogli, il matrimonio concedeva ai mariti il diritto di punirle e le leggi su separazione e divorzio si basavano tutte sulla supremazia dell’uomo. Le donne pativano una disuguaglianza nelle istituzioni educative e nelle professioni. Le professioni redditizie erano inaccessibili. La dichiarazione concludeva la lista di denunce evocando la dipendenza mentale e psicologica delle donne che aveva lasciato in loro scarso rispetto e fiducia in se stesse. Questa dichiarazione rappresentava l’apice teoretico di anni di sfide, tuttavia, essa ignorava le donne di classe operaia e le nere. Si trattava di un’analisi della condizione delle donne che ignorava tutte le donne non di classe media. La realtà lavorativa delle donne nelle industrie tessili era tremenda, venduta come addestramento alla vita matrimoniale, consisteva in orari di lavoro lunghissimi con brevissime pause pranzo, cibo tremendo e malattie. Ancor prima di Seneca Falls le operaie lottavano, a partire dagli anni ’20 dell’Ottocento, contro la doppia oppressione che subivano. Piano piano le donne Yankee furono sostituite dalle figlie di immigrati che non avevano scelta. Queste lottarono per la riduzione della giornata lavorativa a 10 ore e la Lowell Female Labor Reform Association cominciò a presentare delle petizioni nel ’43 e ’44. Questa opera di avanguardia fu ignorata dalle figure di spicco del movimento del ’48. Charlotte Woodward e altre operaie, presenti a Seneca Falls, erano determinate. Nell’ultima sessione del congresso la Mott chiese che “alle donne venisse assicurata un’uguale partecipazione rispetto agli uomini negli affari, nelle professioni e nel commercio”. Tuttavia, va ricordato che se a Seneca Falls c’era almeno un nero, la stessa cosa non si può dire delle donne nere, completamente assenti. Considerando l’impegno abolizionista si rimane perplessi circa l’assenza di donne nere. Questo non era un problema nuovo, le Grimke avevano già criticato alcune associazioni antischiaviste femminili perché ignoravano le condizioni delle nere e per aver talvolta manifestato pregiudizi razzisti. Durante i preparativi del congresso che fondò la National Female Anti-slavery Society, Angelina Grimke dovette prendere l’iniziativa per garantire alle nere qualcosa in più della presenza simbolica e sua sorella si prese carico di fare un discorso in cui criticarono la Society per non essere riuscita a coinvolgere donne nere nei propri lavori. L’assenza delle nere a Seneca Falls era anche più evidente alla luce dei precedenti contributi alla lotta per i diritti delle donne. Dieci anni prima Maria Stewart aveva risposto a chi la criticava per le sue conferenze ribattendo di essere una donna e che ciò non era motivo di esclusione. Questa donna nera era la prima conferenziera femmina nata negli US a rivolgersi a un pubblico di uomini e donne. Una certa Matilda, donna nera, fa pubblicare una lettera sul Freedom’s Journal sul diritto allo studio delle donne, ciò avvenne un anno prima che Frances Wright, di origini scozzesi, cominciasse a dare conferenze sul diritto delle donne a un’educazione uguale a quella degli uomini. Le parole di Matilda dimostrarono che le bianche e le nere erano unite da un forte desiderio di istruzione. Sfortunatamente il congresso di Seneca Falls non riconobbe questo legame. Nell’estate del 1848 alla figlia di Douglass, dopo la sua ammissione ufficiale in un istituto femminile, venne formalmente vietato di partecipare alle lezioni con le ragazze bianche e la preside che emise quest’ordine era abolizionista. Il fatto che nel nord una donna bianca associata agli abolizionisti potesse assumere un atteggiamento razzista indicava una profonda debolezza del movimento: la sua incapacità di promuovere una consapevolezza antirazzista. Questo difetto, nonostante gli sforzi di molte personalità di spicco, fu ereditato dal movimento per i diritti delle donne. Sebbene le prime attiviste per i diritti delle donne fossero sorde ai lamenti delle nere, l’eco del nuovo movimento si faceva sentire nelle organizzazioni abolizioniste. La National Convention of Colored Freedmen nel ’48 aveva fatto passare una risoluzione sull’uguaglianza delle donne. Su iniziativa di Douglass questo incontro di Cleveland aveva deciso che le donne dovessero essere elette come delegate al pari degli uomini. Poco dopo a Philadelphia un congresso di neri invitò a partecipare delle donne nere e riconoscendo il movimento di Seneca Falls invitò anche le bianche a partecipare. Due anni dopo Seneca Falls, a Worchester, si svolse la prima convention nazionale sui diritti delle donne e Sojourner Truth era tra i partecipanti. La sua presenza e i suoi interventi nei meeting successivi rappresentavano la solidarietà delle nere con la nuova causa. Aspiravano alla libertà dall’oppressione razzista ma anche dal dominio sessista: “non sono una donna?” rimane lo slogan più citato. Ad Ackron la Truth dovette far fronte ad un gruppo di provocatori che predicavano la superiorità maschile e vi riuscì con la sua logica inoppugnabile e le sue esperienze di lavoro da schiava. Era l’unica nera presente al congresso e fu applaudita come l’eroe del giorno. L’intervento della Truth fu criticato anche dalle sue compagne bianche e razziste che non volevano che parlasse. Lei donò al movimento per i diritti delle donne uno spirito combattivo, questo è stato il suo contributo irripetibile e ricordò a tutte le bianche che le nere non erano meno donne di loro. Nel frattempo un gran numero di nere stava manifestando il proprio impegno verso la libertà e l’uguaglianza in maniere meno direttamente connesse con il nuovo movimento per i diritti delle donne con educazione, poesie, liberazione di schiavi. Anche i più radicali abolizionisti bianchi non riuscivano a capire che il capitalismo che si stava sviluppando nel nord era oppressivo. Consideravano la schiavitù disumana ma non volevano ammettere che le condizioni di lavoro nel nord fossero disumane. Sia lavoratori bianchi che schiavi del sud erano vittime di oppressione economica. Addirittura alcuni militanti si opposero con forza al diritto do organizzazione dei lavoratori salariati. Di norma gli abolizionisti bianchi o difendevano i capitalisti oppure non esprimevano alcuna appartenenza di classe. Questa accettazione del sistema capitalista era evidente anche nel programma del movimento per i diritti delle donne, i loro leader non sospettavano un legame fra schiavitù al sud, sfruttamento degli operai a nord e oppressione sociale delle donne. Allo scoppio della guerra civile le leader del movimento delle donne decisero di rivolgere le proprie energie a sostegno dell’unione, interrompendo le loro attività circa l’uguaglianza di genere. La violenta rivolta del ’63 dimostrava che i sentimenti razzisti erano profondi, diffusi e potenzialmente omicidi anche al nord anche se prima ciò non era stato riconosciuto. Se il sud deteneva il monopolio della violenza, non era certo da solo in quanto a ferocia razzista. La Stanton e la Anthony concordavano con i radicali abolizionisti che la guerra civile sarebbe potuta rapidamente terminare emancipando gli schiavi e reclutandoli nell’esercito unionista. Cercarono di chiamare masse femminili e organizzare una Women Loyal League ma non ci fu troppa unanimità in risposta alla petizione che collegava i diritti delle donne alla liberazione dei neri. Principio che fu difeso da Angelina Grimke che, all’evento inaugurale, propose una più avanzata interpretazione della guerra come “seconda rivoluzione”: se il nero è la prima vittima, l’operaio è la seconda. Bisogna combattere per rendere il paese la terra dei liberi. Se, come diceva Marx, il lavoratore bianco non può essere libero finché il lavoratore nero è in catene, è anche vero, come ha sostenuto la Grimke, che le lotte per l’uguaglianza delle donne potevano essere combattute in maniera efficace solo se associate alla lotta per la liberazione dei neri. Razzismo e sessismo spesso convergono e la condizione delle donne lavoratrici bianche è spesso legata allo status oppressivo delle donne di colore. Pertanto le paghe ricevute dalle domestiche bianche sono sempre state fissate dai criteri razzisti usati per calcolare le paghe delle servitrici nere. Le donne migranti guadagnavano poco più delle loro omologhe nere. Le donne nere sono state intrappolate in queste mansioni almeno fino all’arrivo della seconda guerra mondiale. Per le strade di New York c’erano veri e propri gruppi di donne nere con cartelli di cartone che cercavano un impiego non dissimile dalla schiavitù. Il lavoro domestico era anche il più difficile da sindacalizzare. Le donne bianche hanno manifestato una storica riluttanza a riconoscere le lotte delle domestiche. Questo atteggiamento era una velata giustificazione del loro atteggiamento vessatorio nei confronti delle proprie domestiche. Le persone che lavorano come servitrici sono generalmente viste come subumane. Secondo Hegel il costante tentativo di annichilire la coscienza del servo è inerente alla dialettica servo-padrone. Come ha dichiarato Angelina Grimke, le odnne bianche che non mettevano in discussione la schiavitù avevano pesanti responsabilità riguardo la disumanità di questa istituzione, allo stesso modo la Domestic Workers Union (fondata a New York nel 1934 da Dora Jones) mise a nudo il ruolo delle casalinghe di classe media nell’oppressione delle lavoratrici domestiche nere. “la casalinga va condannata come peggior datore di lavoro del paese […]” Quando gli USA entrarono in guerra e il lavoro femminile fece girare l’economia bellica, moltissime nere dissero addio ai lavori domestici. Ma questo non fu sufficiente. DuBois sosteneva che fino a quando il servizio domestico dei neri fosse rimasto la regola, l’emancipazione sarebbe sempre rimasta un concetto astratto. I cambiamenti prodotto dalla WWII fornirono solo una spinta al progresso. 6) Educazione e liberazione: le prospettive delle donne nere. Milioni di donne e uomini neri pensavano che l’emancipazione sarebbe stata la venuta del signore. Quando arrivò l’emancipazione il popolo nero ebbe difficoltà a celebrare i principi astratti della libertà, non diede sfogo ai suoi fervori religiosi. Sapevano quel che volevano: terra, diritto al voto e allo studio. I neri impararono che l’emancipazione con quaranta acri e un mulo era una crudele illusione. Per avere la terra dovevano combattere, così come per il potere politico e dopo secoli di deprivazione educativa rivendicavano con forza il desiderio di istruzione. Secondo la logica razzista i neri erano considerati incapaci di progressi intellettuali, ma allora perché avrebbero manifestato desiderio e capacità di apprendere? Gli esempi più sorprendenti di solidale sorellanza tra donne bianche e nere sono associati alla storica lotta del popolo nero per l’istruzione. Basti pensare al caso della Crandall. Myrtilla Miner lottò per fondare una scuola superiore per insegnanti nere, nonostante le preoccupazioni e gli avvertimenti di Douglass. Nonostante i gravi rischi la scuola aprì nel 1851 e lei vi insegnò per i successivi 8 anni. La sorellanza fra bianche e nere è possibile quando ha basi solide, come in questo caso. Quasi metà degli insegnanti volontari che parteciparono alla campagna educativa organizzata dal Freedman’s Bureau erano donne. Le donne bianche del nord andarono al sud durante la ricostruzione per assistere le sorelle a spazzar via l’analfabetismo di milioni di ex schiavi. Come insegnanti le donne bianche e nere sembravano aver sviluppato un profondo e intenso rapporto di reciproca stima. Dopo la guerra furono fondati nel sud college e università per neri che divennero un pilastro per il sistema scolastico pubblico. Nonostante le leggi di Jim Crow che diminuirono le opportunità educative dei neri, l’impatto degli anni della ricostruzione non poté essere cancellato. Il sogno di possedere la terra si era ormai infranto e la speranza dell’uguaglianza politica stava scemando ma la luce della conoscenza non era ancora scomparsa e questa era la garanzia che la lotta per la terra e per il potere politico sarebbe andata avanti. 7) Il suffragio femminile tra ottocento e novecento: l’influenza crescente del razzismo. Ida B. Wells fu una donna di colore che fonderà il primo club per il suffragio femminile delle nere. La Anthony in precedenti occasioni, durante i congressi svolti nel sud degli USA, aveva preferito non invitare Douglass in quanto non voleva rischiare che la sua presenza rendesse restie le donne bianche ad entrare nella National American Woman Suffrage Association, dalla cui presidenza lei stessa diede le dimissioni nel 1900. Molti stati meridionali in quel periodo emanarono nuove costituzioni per ottenere la privazione dei diritti elettorali dei neri. Le critiche prive di compromessi della Wells alla Anthony erano giustificate alla luce delle condizioni sociali dell’epoca, soprattutto alla luce dei linciaggi che avvenivano quotidianamente. La posizione neutrale della NAWSA sulla questione razziale incoraggiò la proliferazione di idee esplicitamente razziste nelle fila del movimento suffragista. Addirittura al congresso del 1895 nacque l’idea che il diritto di voto alle donne potesse potenzialmente eliminare l’incombente peso politico della popolazione nera. Per quanto anche prima il movimento delle donne aveva avuto spesso posizioni razziste, è nell’ultimo decennio del diciannovesimo secolo che la campagna per il suffragio femminile comincia ad accettare definitivamente il suprematismo bianco, politicamente sulla base del fatto che le donne capaci di leggere e scrivere erano in numero maggiore ai neri in grado di farlo. Adottando questa risoluzione le suffragiste stavano dicendo che se avessero avuto il potere di voto, in quanto donne bianche della classe media e della borghesia, avrebbero rapidamente soggiogato i tre elementi principali della working class statunitense: neri, immigrati e operai bianchi analfabeti. Ossia i tre gruppi di persone il cui lavoro veniva sfruttato e le cui vite erano sacrificate ai capitalisti che stavano estendendo il loro impero. Il terrore e la violenza obbligavano gli operai neri del sud ad accettare salari da schiavi e condizioni di lavoro spesso peggiori. Era questa la logica dietro le crescenti ondate di linciaggi e gli standard di privazione dei diritti elettorali al sud. Nel 1893 la corte suprema annullò il Civil Rights Act del 1875 e furono ratificate le leggi Jim Crow e Linch, ossia un nuovo modello schiavista e razzista. Tre anni dopo la sentenza “Plessy vs Ferguson” inaugurò la dottrina del “separati ma uguali” che consolidava il nuovo sistema di segregazione razziale al sud. L’ultimo decennio del diciannovesimo secolo fu un momento critico nello sviluppo del razzismo moderno, sia per il rilevante sostegno istituzionale che ricevette che per le sue giustificazioni ideologiche. Era anche il periodo dell’espansione imperialista. Le stesse forze che cercavano di soggiogare i popoli di quei paesi erano responsabili del peggioramento delle condizioni dei neri e dell’intera working class statunitense. Il razzismo alimentava le avventure imperialiste ed era probabilmente condizionato dalle strategie colonialiste. Nel 1899 i precetti del razzismo avevano dato forma alla politica della NAWSA nei confronti della working class statunitense, così che le nuove gesta imperialiste furono accettate senza esitazioni. Durante un congresso del 1890, una donna nera parlò della segregazione sui treni e rimase inascoltata, il rifiuto di difendere la sorella nera l’associazione abbandonava simbolicamente l’intero popolo nero nel momento della sua più intensa sofferenza dall’epoca dell’emancipazione. La Anthony non andrebbe considerata personalmente responsabile degli errori razzisti del movimento ma all’epoca ne era la leader più visibile e la sua posizione pubblica di “neutralità” riguardo la lotta per l’uguaglianza dei neri rafforzò l’influenza del razzismo all’interno della NAWSA. Nel 1899 la Wells aveva ormai completato un enorme lavoro di ricerca sui linciaggi e ne aveva pubblicato i risultati. Nei precedenti dieci anni erano stati ufficialmente certificati circa 200 linciaggi l’anno. Un anno prima chiese addirittura al presidente McKinley di intervenire con poteri federali in seguito a un linciaggio in Sud Carolina. Nel 1899, quando la Anthony appoggiò la bocciatura della risoluzione contro le leggi Jim Crow, i neri denunciarono in massa il sostegno del presidente McKinley al suprematismo bianco, egli fu accusato di essere stato colpevolmente silenzioso durante i massacri. Prima che si stabilisse definitivamente un’organizzazione nazionale dei club delle donne nere tra le dirigenti intercorse una spiacevole rivalità. Nel 1895 la conferenza di Boston convocata dalla Ruffin gettò le basi per la fondazione, nello stesso anno, della National Federation of Afro-American Women. Margaret Murray Washington fu eletta come presidente. La federazione riunì più di 30 club in 20 stati diversi. Nel 1896 fu fondata a Washington la National League of Colored Women con Mary Chruch Terrell come presidente. Le due organizzazioni, benché in competizione, decisero dopo poco di fondersi dando vita alla National Association of Colored Women’s Club che assegnò alla Terrell la carica più alta. Nonostante la fusione continuarono i dissidi interni, in particolare fra Terrell e Wells. La Terrell era figlia di uno schiavo che aveva ricevuto a seguito dell’emancipazione una considerevole eredità dal padrone (che era anche suo padre). Grazie a ciò lei poté godere di opportunità di studio eccezionali. Divenuta anche docente universitaria, fu la prima donna nera a ricevere un incarico dal Board of Education del distretto della Columbia. Più di chiunque altro fu lei a trasformare il movimento dei club delle nere in una potente organizzazione politica e benché la Wells fosse una delle sue critiche più severe ne riconobbe la centralità del ruolo. Anche la Wells era nata in una famiglia di ex schiavi, un giorno i suoi genitori morirono e lei si dovette prendere cura dei fratelli intraprendendo la carriera di insegnante ed in parallelo iniziò anche il percorso di attivista antirazzista. A 22 anni decise di fare causa al servizio ferroviario per aver subito discriminazioni durante un viaggio. Dieci anni più tardi mandava in stampa il suo quotidiano a Memphis e Tennessee. A seguito del linciaggio di 3 suoi amici decise di usare il giornale come arma contro il linciaggio. Quando il suo giornale fu distrutto iniziò la sua crociata che ottenne un seguito inaspettato. Nella sua lunga crociata contro il linciaggio divenne un’esperta di tattiche di agitazione e conflitto. Nonostante ciò poche eguagliavano la Terrell come promotrice della liberazione dei neri, nello scrivere come nel parlare. Le sue armi erano la logica e la persuasione. Come la Wells, anche lei fu attiva fino alla morte. Wells e Terrell furono senza dubbio le due nere più eccezionali del proprio tempo e portarono a traguardi grandiosi nonostante la loro faida personale. 9) Lavoratrici, donne nere, e la storia del movimento suffragista. Nel 1868, quando la Anthony pubblicò il primo numero di Revolution, le donne lavoratrici avevano da poco ingrossato i ranghi della forza lavoro, difendendo con le lotte i propri diritti. A quell’epoca il movimento operaio si stava sviluppando rapidamente e contava una trentina di organizzazioni sindacali nazionali. Tuttavia, all’interno del movimento operaio il maschilismo predominava a tal punto che solo i lavoratori delle manifatture del tabacco e i tipografi avevano aperto le loro organizzazioni alle donne. Alcune lavoratrici avevano tentato di organizzarsi, nel corso della Guerra Civile e nel dopoguerra le lavoratrici del tessile costituirono il più ampio gruppo di donne a lavorare fuori casa. Il clima sindacale iniziava a scaldarsi ovunque fioriva l’industria dell’abbigliamento. Nel 1866, quando fu fondata la National Labor Union i suoi delegati furono obbligati a riconoscere gli sforzi organizzativi delle lavoratrici del tessile. Su iniziativa di William Sylvis il congresso inaugurale decise di sostenere la generale sindacalizzazione delle donne e la piena uguaglianza salariale. Con l’elezione a presidente di Sylvis, la NLU riscosse la partecipazione di numerose delegate tra cui la Stanton e la Anthony e a seguito di ciò il congresso si vide costretto ad approvare risoluzioni più radicali sostenendo la lotta per i diritti delle lavoratrici con maggior serietà. Al congresso di fondazione della National Colored Labor Union nel 1869, le donne furono accolte fin dall’inizio, tanto che Mary S. Carey fu eletta nel comitato politico esecutivo. Anthony e il suo giornale furono usati come mezzo di propaganda antisessista e di mobilitazione delle lavoratrici, nonostante l’origine dei suoi finanziamenti che provenivano da George Francis Train, un razzista. Oltre a ciò la Anthony utilizzo gli uffici del suo giornale per organizzare le tipografie nella Working Women’s Association. Poco dopo la National Typographers divenne il secondo sindacato ad ammettere le donne e nella redazione di Revolution prese sede la prima sezione della Women’s Typographical Union. Nonostante i contributi fondamentali alla lotta delle lavoratrici la Anthony e la Stanton non accettarono mai fino in fondo i principi del sindacalismo. Così come in precedenza erano state riluttanti ad accettare che l’emancipazione dei neri potesse temporaneamente avere priorità sugli interessi delle donne bianche, allo stesso modo non abbracciarono mai del tutto i principi fondamentali dell’unità e della solidarietà di classe senza i quali il movimento operaio sarebbe rimasto impotente. Un esempio eclatante è la Anthony che fu esclusa dal congresso della NLU del 69 perché spinse le lavoratrici al crumiraggio. Anthony e Stanton se la presero con gli uomini della classe operaia, le donne erano la loro priorità ma apparentemente solo quelle bianche. Inoltre, nonostante entrambe avessero persuaso numerose dirigenti del movimento operaio a protestare per il diritto di voto, le masse lavoratrici erano troppo preoccupate dai loro problemi immediati, ossia le condizioni di lavoro, per lottare per una causa che sembrava così astratta. La Anthony non sembrava capire che la sua dialettica non attaccava le donne lavoratrici che si trovavano a dover pensare a problemi molto gravi e all’apparenza più concreti nella vita quotidiana. La posizione della Anthony era anche un riflesso della sua ideologia borghese ed è a causa di esso che non riuscì a rendersi conto di come le lavoratrici e le nere erano profondamente legate ai propri uomini dallo sfruttamento di classe e dall’oppressione razzista da non fare distinzione di sesso. Ciò non giustifica il comportamento sessista dei loro uomini ma il vero nemico era il padrone, il capitalista, il responsabile dei salari da fame e delle condizioni di lavoro estenuanti. Le lavoratrici non rivendicarono in massa il suffragio fino agli inizi del ventesimo secolo. Durante l’inverno 1909-1910 le lavoratrici dell’industria tessile di New York scesero in sciopero nell’ “insurrezione delle ventimila” e fu solo allora che il voto iniziò ad acquisire un’importanza specifica per le loro lotte. Le leader del movimento operaio sostennero che il voto sarebbe potuto essere utilizzato per rivendicare salari più alti e migliori condizioni di lavoro e quindi come arma per la lotta di classe. In seguito al tragico incendio della New York Triangle Shortwaist Company morirono 150 operaie e la necessità di una regolamentazione delle condizioni di lavoro emerse con evidenza drammatica: le lavoratrici avevano bisogno del voto per garantire la propria sopravvivenza. La Women’s Trade Union League promosse la creazione della Wage Earner’s Suffrage League. Una dirigente della New York Suffrage League, Leonore O’Reilly, difese con solidi argomenti il diritto di voto per le donne da una prospettiva working class. Rivolgendosi ai politici contrari al suffragio mise persino in discussione il culto dominante della maternità. Come proclamato dalla O’Reilly e dalle sorelle della working class, le donne operaie erano disposte a lottare per il voto ma in realtà se ne sarebbero servite per rimuovere dal loro incarico tutti quei legislatori le cui simpatie andavano al mondo degli affari. Le donne della working class rivendicavano il diritto di voto come arma supplementare per avanzare nella lotta di classe. Ciò fu la conseguenza dell’influenza del movimento socialista. Le donne socialiste portarono una nuova energia al movimento e difesero la visione di questa lotta nata dalle esperienze delle loro sorelle lavoratrici. Nel primo decennio del ventesimo secolo tra gli 8 milioni di donne lavoratrici più di 2 erano nere. Tuttavia, il razzismo era così radicato nel movimento suffragista che le sue porte non furono mai aperte alle nere ma ciò non le dissuase a portare avanti la loro rivendicazione. Margaret Murray Washington, figura leader della National Association of Colored Women, confessò che il suffragio femminile non era una sua priorità. Questa indifferenza è da considerarsi una risposta all’atteggiamento razzista della National American Woman Suffrage Association. Detto ciò, l’intero movimento dei club delle nere aveva una profonda anima suffragista e, nonostante il rifiuto ricevuto dalla NAWSA, continuarono a sostenere il diritto di voto alle donne. Quando nel 1929 la Black Northeastern Federation of Clubs fece domanda di adesione alla NAWSA, questa fu rifiutata come avvenne alla Anthony 25 anni prima e la scusa fu che gli stati del sud, venuti a conoscenza dell’ingresso di 6000 nere nell’associazione, avrebbero fatto affondare l’emendamento. Eppure le nere sostennero la battaglia per il suffragio fino alla fine. Al contrario delle bianche ricevettero il supporto di molti dei loro uomini. Come Douglass nel diciannovesimo secolo, DuBois nel ventesimo si distinse come il più grande difensore di sesso maschile del diritto di voto alle donne. Come sostenitore maschio del suffragio femminile DuBois non aveva pari. Nel 1915 BuBois pubblicò su The Crisis una trascrizione di un convegno dove si annoveravano fra i partecipanti giudici, ministri, professori, funzionari, leader religiosi ed educatori. La maggior parte delle donne che partecipò erano iscritte alla NACW e dalla loro parte ci furono pochi riferimenti alla tesi molto diffusa fra le suffragiste bianche circa la natura speciale delle donne, ossia l’attitudine alla vita domestica e l’innata moralità, fornissero una motivazione particolare per il loro diritto di votare. Ci fu tuttavia un’eccezione. La Burroughs sostenne la tesi della moralità femminile fino ad affermare l’assoluta superiorità delle nere sui propri uomini: le donne avevano bisogno del voto, insisteva, perché i loro uomini lo avevano barattato e venduto. Solo lei sostenne l’argomentazione contorta di una superiorità morale delle donne. Le donne nere in sostanza erano state più che disponibili a contribuire alla creazione di un movimento multirazziale per i diritti politici delle donne ma ogni volta furono tradite, respinte, rifiutate dalle dirigenti di quel movimento discriminatorio. Per loro le nere erano sacrificabili quando arrivava il momento di fare la corte alle bianche del sud per avere il loro supporto. Quando fu scrutinato il voto sul XIX emendamento, gli stati del sud si schierarono contro comunque e lo portarono quasi alla sconfitta. Dopo una vittoria attesa da tempo le nere del sud furono violentemente ostacolate nell’esercizio dell’attività del loro nuovo diritto. L’irruzione della violenza del KKK portò morte e impedì loro di esercitare il diritto di voto. Dalla sua autobiografia emerge che fosse da sempre consapevole dell’oppressione subita dai neri, nonostante ciò solo una piccola parte della popolazione nera poteva essere raggiunta tramite i sindacati industriali perché la maggior parte lavorava nel settore agricolo. Nel 1937 entrò a far parte del CP e collaborò con comunisti neri. In un articolo del 1948 sosteneva che la disuguaglianza fra donne e uomini veterani di guerra andava criticata perché le donne nere soffrivano ancora di più delle bianche in quanto nere, lavoratrici e donne. Questa stessa analisi del triplica rischio fu proposta anche più avanti. Durante il maccartismo fu arrestata, anche in prigione si sentivano gli strascichi della segregazione nonostante il fatto che con lo Smith Act questa avrebbe dovuto essere soppressa nelle strutture carcerarie. In prigione fece amicizia più facilmente con le nere che con le bianche e lo stesso valse per le nere nei suoi confronti. Claudia Jones Nata nel Trinidad, immigrò negli USA da piccola coi genitori. Più tardi si unì alla lotta antirazzista. La sua visione delle nere intendeva rifiutare il classico stereotipo maschilista sul ruolo delle donne. La Jones rimproverò ai progressisti e ai sindacalisti di non aver riconosciuto gli sforzi di organizzazione delle lavoratrici domestiche nere: poiché la maggior parte delle lavoratrici nere erano ancora impiegate nel lavoro domestico, gli atteggiamenti paternalistici nei confronti delle donne di servizio influenzavano la definizione delle nere come gruppo sociale. Ciò avveniva anche da parte di chi si professava progressista o comunista. La Jones era profondamente comunista, le sue critiche intendevano spingere le compagne bianche a mettere in discussione i propri comportamenti razzisti e sessisti, sosteneva che le bianche del movimento progressista e comunista dovevano assumersi una specifica responsabilità nei confronti delle nere. Più tardi, in carcere, scoprì un microcosmo della società razzista che aveva conosciuto fuori, nonostante la prigione avesse ricevuto il mandato di abolire la segregazione, lei fu mandata in una “struttura di colore”, cosa che la isolò dalle sue colleghe e amiche bianche fra cui la Flynn. Poco dopo il suo rilascio venne deportata in Inghilterra a causa del maccartismo. Da lì proseguì il suo lavoro politico pubblicando per un giornale finché la sua salute non peggiorò e morì. 11) Stupro, razzismo e mito dello stupratore nero. Negli USA e in altri paesi capitalisti le leggi dello stupro erano strutturate in origine a tutela degli uomini delle classi superiori, le cui figlie e mogli rischiavano di essere aggredite. Di conseguenza pochi uomini bianchi hanno subito un processo per violenza sessuale nei confronti delle donne della working class. Dei 455 uomini giustiziati per stupro fra il 30 e il 67, 405 erano neri. La falsa accusa di stupro emerge come uno degli strumenti più terribili forgiati dal razzismo. Il mito dello stupratore nero è stato evocato ogni volta che era necessario fornire giustificazioni convincenti alle ondate di violenza e terrore contro la comunità nera. L’assenza delle nere dal movimento contro lo stupro deriva in parte dall’indifferenza del movimento nei confronti delle false denunce per violenza sessuale come incitamento al razzismo. Dopo aver subito loro stesse violenza, inoltre, mai o quasi mai hanno trovato supporto dalla giustizia. Agli inizi del movimento contro lo stupro poche teoriche femministe hanno analizzato seriamente la condizione delle donne nere vittime di violenza. Il mito dello stupratore nero va a braccetto col mito della cattiva donna nera, entrambi finalizzati a giustificare e facilitare lo sfruttamento dei neri. Le nere hanno capito presto questa connessione e si sono schierate in prima linea nella lotta contro il linciaggio. L’assoluzione di Joan Little, donna nera che ha ucciso il suo stupratore bianco per autodifesa, fu un momento importantissimo che portò ad appelli a sostegno di neri che erano stati ingiustamente accusati di stupro. Molte nere risposero all’appello, ma poche bianche fecero altrettanto. La schiavitù si bassava sul ricorso sistematico allo stupro quanto alla frusta, le pulsioni sessuali non hanno niente a che vedere con questa istituzionalizzazione degli abusi. La violenza sessuale fu una prerogativa del rapporto fra padrone e schiava. Lo stupro era così radicato che anche dopo la guerra civile il KKK e altre organizzazioni terroristiche praticavano lo stupro di gruppo. Molti uomini credevano che i loro atti fossero semplicemente naturali, e le nere sono state ritratte come promiscue e immorali. Il razzismo ha sempre ricavato forza dalla sua capacità di alimentare la violenza sessuale. Quando i bianchi si convinsero di poter stuprare le nere nella totale impunità, la loro condotta nei confronti delle bianche ne risentì. L’esperienza della guerra del Vietnam ha fornito un ulteriore esempio di come il razzismo possa servire da legittimazione degli abusi. Ai soldati statunitensi fu ficcato in testa che stavano combattendo contro una razza inferiore: stuprare le vietnamite era necessario. In quale misura i veterani del Vietnam sono oggi condizionati da ciò nei loro atteggiamenti verso le donne? È legittimo dire che le donne negli USA risentano degli effetti di quella esperienza. Intellettuali femministe come la Brownmiller e la MacKellar hanno subito l’influenza della propaganda e dell’ideologia razzista, come si può evincere dalle considerazioni della prima sul caso Emmett Till, colpevole di aver fischiato ad una ragazza bianca per poi essere brutalmente ucciso, il quale avrebbe commesso qualcosa di più grave di una bravata adolescenziale ma una vera e propria aggressione volta a dimostrare di poter possedere quella ragazza. La seconda è arrivata ad affermare che il 90% degli stupri negli USA sono commessi da neri, mentre l’FBI afferma che si tratti del 46%. Va considerata anche la frequenza delle denunce che varia a seconda dei luoghi. Politics of Rape di Diana Russel rafforza il senso comune per cui lo “stupratore tipo” sia un nero oppure un bianco della working class. La logica utilizzata consiste nel rapportarsi all’aggressore ideale come si trattasse di un animale affamato che non ha nulla da perdere, cosa che esclude gli uomini più abbienti. Brownmiller, MacKellar e Russel sono sicuramente più sottili dei primi ideologi del razzismo ma le loro conclusioni sono le stesse. In sostanza sostengono, tramite teorie del condizionamento ambientale, che i neri sono inclini per natura a commettere violenza sessuale. Firestone teorizza che le razze non siano altro che la grande famiglia dell’uomo, uomo bianco e donna bianca sono i genitori, i neri i figli e secondo lo schema freudiano di Edipo questi ultimi hanno l’impulso di uccidere il padre e giacere con la madre per poter “essere uomini”. Tutte queste affermazioni hanno contribuito alla ripresa del vecchio mito dello stupratore nero. L’idea del nero come stupratore rinforza ulteriormente la legittimità dei bianchi a disporre dei corpi delle nere in quante queste sono, nell’immaginario, promiscue in quanto controparti degli uomini neri. Nel corso della storia degli USA le nere hanno manifestato una consapevolezza collettiva della propria condizione di vittime di violenza sessuale. Hanno anche compreso che non potevano resistere alle aggressioni sessuali senza attaccare allo stesso tempo la falsa accusa dello stupro come alibi dei linciaggi. I linciaggi avvenuti prima della guerra civile si rivolsero soprattutto verso gli abolizionisti bianchi, che non avevano valore sul mercato. Con l’emancipazione degli schiavi, questi non erano più preziose proprietà e il mito dello stupratore nero è stato costruito in relazione a questi linciaggi e si trattava di un’invenzione politica. Come sottolinea Douglass, durante la schiavitù i neri non erano etichettati come violentatori, fu dopo la guerra che avvenne. La funzione pubblica degli omicidi degli squadroni venne a galla, il linciaggio era una forma esplicita di contro-insurrezione, infatti all’inizio si giustificavano gli assassinii parlando di cospirazioni di neri, insurrezioni di neri, piani dei neri per uccidere tutti i bianchi. Quando divenne evidente che si trattava di montature, la giustificazione fu modificata: riaffermare la supremazia bianca. Dopo il tradimento della ricostruzione e la conseguente privazione dei neri dei diritti civili, ciò divenne obsoleto e lo stupro emerse come giustificazione principale. Questo esempio per Douglass è emblematico di come l’ideologia si trasforma per incontrare nuove condizioni storiche. Le ripercussioni di questo nuovo mito furono immense. Non solo riuscì a soffocare ogni opposizione al linciaggio ma riuscì a indebolire il supporto dei bianchi alla causa dei neri. Perfino le organizzazioni di donne bianche arrivavano a denigrare pubblicamente i neri. Qual è la verità dietro al mito? Sicuramente ci furono neri che stuprarono bianche ma il numero degli stupri effettivi non era nemmeno paragonabile col numero di accuse, soprattutto considerato che durante la guerra civile non si registrò nemmeno un caso di stupro di una donna bianca da parte di uno schiavo. Anche le circostanze reali di molti linciaggi contraddicevano il mito dello stupratore nero, infatti solo 1/3 delle vittime di linciaggio erano accusati di stupro. La colonizzazione dell’economia del sud da parte dei capitalisti del nord diede un vigoroso impulso ai linciaggi: se i neri, grazie al terrore e alla violenza, restava il gruppo più brutalmente sfruttato di una classe lavoratrice sempre più ampia, i capitalisti godevano di conseguenza di un doppio vantaggio. Da una parte l’ipersfruttamento della forza lavoro nera assicurava ulteriori profitti, dall’altra si potevano disinnescare le ostilità dei lavoratori bianchi nei confronti dei loro padroni: i bianchi che partecipavano al linciaggio diventavano solidali coi loro oppressori. Questo fu un momento chiave nella divulgazione dell’ideologia razzista. Se i neri avessero accettato uno status di inferiorità economica e politica i linciaggi sarebbero probabilmente diminuiti. Ma cosa giustificava i linciaggi di così tante donne nere che in alcuni casi venivano stuprate prima di essere uccise? Percependo il mito come attacco all’intera comunità, le nere si misero alla guida del movimento contro il linciaggio. La Wells ne fu il cuore pulsante e nel 1892 tre suoi conoscenti furono linciati, cosa che lei denuncio e che portò alla distruzione dei locali del suo giornale. I suoi articoli spinsero le nere ad organizzare campagne che portarono alla formazione di club. Anche la Terrell è stata un’eccezionale protagonista della lotta al linciaggio. Le bianche non risposero a questi appelli in modo massiccio fino alla fondazione, nel 1930, del Sourthern Women for the Prevention of Lynching. Nell’incontro inaugurale fu discusso il ruolo delle bianche nei linciaggi. Queste erano spesso presenti a queste incursioni razziste e a volte ne erano membri, inoltre permettevano ai loro bambini di proliferazione delle classi inferiori. Così classismo e razzismo fecero breccia nel movimento per il controllo delle nascite. Quando Margaret Sanger diede inizio alla sua lunga crociata per il diritto al controllo delle nascite, sembrava che i toni razzisti e classisti del passato potessero essere lasciati alle spalle. Di fatti lei proveniva da una famiglia di classe operaia. La sua adesione al movimento socialista fu un’ulteriore ragione per sperare che la campagna per il controllo delle nascite prendesse una direzione progressista. Aderì al SC nel 1912, durante la prima fase della sua crociata rimase iscritta al partito a cui la campagna fu strettamente associata. Purtroppo questa alleanza non durò molto dato che questo diritto presto divenne secondario agli occhi del partito e lei stessa sosteneva che la miseria dei lavoratori fosse colpa delle famiglie numerose. Quando ruppe con il SP si trovò esposta alla propaganda anti-neri e anti-immigrati dell’epoca e l’influenza delle teorie eugenetiche avrebbe presto distrutto il potenziale progressista della campagna. Le teorie eugenetiche, infatti, erano perfettamente compatibili con le necessità ideologiche del capitalismo monopolistico. Le incursioni imperialiste avevano bisogno di una giustificazione, così come gli sfruttamenti dei neri. Nel 1919 l’eugenetica aveva ormai un’influenza innegabile sul movimento, la stessa Sanger disse che l’obiettivo principale era avere più bambini da chi è adatto e meno da chi è inadatto. Lo stesso controllo delle nascite divenne un modo per impedire al popolo americano di essere sostituito da neri o immigrati. Nel 1932 la Eugenics Society poteva vantarsi di aver fatto passare la legge sulla sterilizzazione in 26 stati e di aver impedito chirurgicamente a migliaia di persone “inadatte” di riprodursi. La Sanger stessa si felicitò di ciò. Nel 1939 la Birth Control Federation of America mise a punto il “Negro Project”. Questo episodio decretò la vittoria ideologica del razzismo e dell’eugenetica nel movimento il quale era stato definitivamente spogliato del suo potenziale progressista per giungere a un vero e proprio controllo della popolazione. All’inizio degli anni ’60 le attiviste, se avessero esaminato la storia del loro movimento, avrebbero capito la diffidenza delle nere. Solo quando i media rivelarono lo scandalo della sterilizzazione di due nere in Alabama si aprì il vaso di Pandora delle sterilizzazioni forzate. Era il 1973 e la legalizzazione dell’aborto era già stata decretata ma un’opposizione di massa alla sterilizzazione forzata divenne urgente. La diffusione del caso delle due sorelle fece emergere molte altre vicende simili. Altre rivelazioni portarono alla scoperta della complicità del governo federale che finanziava i medici, nel 1972 16000 donne e 8000 uomini erano stati sterilizzati nel quadro dei programmi federali, dati che poi sono stati revisionati arrivando a centinaia di migliaia di persone, dati simili alla Germania nazista. Le native americane erano un obiettivo speciale della propaganda di governo sulla sterilizzazione. Le politiche demografiche del governo USA hanno un innegabile aspetto razzista. La diffusione della sterilizzazione di massa a fine anni ’70 è stata probabilmente più elevata che in passato, l’emendamento Hyde (eliminazione fondi aborto eccetto rari casi) del ’77 ha fornito un’ulteriore incentivo alla sterilizzazione forzata. Molte vittime comprendevano coloro per cui la sterilizzazione è rimasta l’unica alternativa all’aborto, in quanto gratuita per le donne povere. Durante l’ultimo decennio la lotta contro la sterilizzazione forzata è stata portata avanti soprattutto da portoricane, nere, chicane e native. Il movimento delle donne non ha ancora abbracciato la loro causa perché se le donne di colore sono sollecitate ad ogni occasione a diventare sterili, le bianche sono sollecitate ad ogni occasione a riprodursi. Ma al di là degli inconvenienti per le bianche di classe media, in gioco c’è la negazione di un diritto riproduttivo fondamentale per tutte le donne povere e razzialmente oppresse. 13) Verso la fine del lavoro domestico: una prospettiva working class. Le faccende domestiche occupano mediamente dalle 3 alle 4 mila ore l’anno nella vita di una casalinga e questi dati non tengono conto del tempo dedicato ai figli che viene dato per scontato. La nuova presa di coscienza dell’attuale movimento delle donne ha incoraggiato la richiesta di sgravarsi, almeno in parte, di questo lavoro ingrato. Né le donne né gli uomini dovrebbero perdere il loro tempo prezioso con un lavoro che non è né stimolante né creativo né produttivo. Oggigiorno gran parte dei compiti di una casalinga potrebbe essere incorporata nell’economia industriale, in altre parole il lavoro domestico non ha più bisogno di essere necessariamente considerato un’attività a carattere privato. Se si progettassero macchinari a tecnologia avanzata per pulire, delle squadre di lavoratori qualificati e ben pagati potrebbero passare di casa in casa per fare in poco tempo ciò che una casalinga fa a fatica con mezzi primitivi. Purtroppo, l’economia capitalistica è strutturalmente ostile all’industrializzazione del lavoro domestico in quanto la socializzazione di questo implicherebbe consistenti sussidi statali per garantire a tutti il servizio, ne deriverebbe un basso profitto, cosa che è una maledizione per l’economia capitalista. Ciononostante, l’aumento della forza lavoro femminile indica che sempre più donne stanno trovando crescenti difficoltà nell’adempiere al ruolo di donne di casa secondo gli standard tradizionali, in altre parole l’industrializzazione e la socializzazione del lavoro di cura sono diventate ormai delle oggettive necessità sociali. Finalmente il lavoro domestico come responsabilità privata e individuale può avvicinarsi al superamento storico. Come scrive Engels, la disparità dei sessi non esisteva prima dell’avvento della proprietà privata. Nelle società precapitaliste le donne hanno un ruolo produttivo pari agli uomini, nelle società a capitalismo avanzato, invece, l’attività domestica delle donne è un compito di assistenza che raramente produce un’evidenza tangibile e che ne sminuisce lo status sociale. Secondo l’ideologia borghese la donna di casa è la serva de marito per tutta la vita. In periodo coloniale il ruolo delle donne non era quello di “casalinghe” nella concezione classica, si occupavano invece di tutti quei lavori necessari come la tessitura, manifattura di corde, di candele, di farmaci, somministravano cure mediche, facevano il pane, il burro, il sapone, ecc… lasciando poco spazio alle pulizie che venivano fatte di rado. Il picco di industrializzazione prerivoluzionario portò a una proliferazione di fabbriche in cui le prime operaie furono donne, che poi in futuro saranno escluse, questo è uno dei più grandi paradossi della storia economica degli USA. Man mano che l’industrializzazione avanzava e dislocava la produzione dalla casa alla fabbrica, il lavoro domestico perse strutturalmente importanza. Da una parte i lavori tradizionali erano usurpati dalle fabbriche, dall’altra l’intera economia si allontanava dalla casa privando molte donne di un ruolo economico significativo. Mentre i prodotti lavorati in casa derivavano il loro valore dalla capacità di soddisfare bisogni basilari, le merci prodotte in fabbrica definivano il loro valore sulla capacità di soddisfare la domanda di profitto degli imprenditori. Poiché il lavoro domestico non genera profitto, fu definito naturalmente come una forma inferiore rispetto al lavoro salariato capitalista. Un significativo effetto collaterale di questa radicale trasformazione economica fu la nascita della “casalinga”. Quest’ultima però non era la regola, di fatti le donne immigrate e bianche erano innanzitutto delle salariate. Ciononostante, l’ideologia del diciannovesimo secolo impose il ruolo della casalinga e della madre come modelli universali di femminilità. E, poiché l’ideologia considerava il lavoro domestico come vocazione di tutte le donne, quelle che erano costrette a svolgere un lavoro salariato iniziarono ad essere trattate come estranee in quanto al di fuori del loro ambito “naturale”. Il prezzo di ciò sono lunghi turni di lavoro, condizioni misere e salari insufficienti: il sessismo divenne per i capitalisti una fonte ulteriore di profitto. Le nere, durante la schiavitù, lavoravano al fianco degli uomini. Quando nel sud arrivarono le industrie, lavorarono anche in esse. Per questo anche a casa, le nera godevano di una maggiore uguaglianza di genere rispetto alle loro sorelle bianche che erano “casalinghe”. Il lavoro domestico non è mai stato (anche per necessità) una priorità per loro. Come le sorelle bianche della WC anche le nere hanno cucinato, pulito e nutrito ma al contrario delle casalinghe bianche, che hanno imparato ad appoggiarsi ai mariti per garantirsi la sicurezza economica, le nere hanno impiegato di rado tempo ed energia per diventare esperte delle faccende domestiche. Il movimento per il lavoro domestico salariato ha avuto origine in Italia dove la sua prima manifestazione pubblica si è tenuta nel marzo del 1974. Le origine teoriche del movimento per il salario alle casalinghe si possono recuperare in un saggio chiamato Potere femminile e sovversione sociale in cui viene sostenuto che il carattere privato dei lavori domestici sia in realtà solo un’illusione. La rivendicazione del salario alle lavoratrici domestiche si basa dunque sull’assunto che queste producono una merce fondamentale che ha valore quanto le merci che produce il marito: le future generazioni di lavoratori. Le casalinghe sono quindi lavoratrici occulte all’interno del processo di produzione capitalistico? Se la rivoluzione industriale ha prodotto una separazione strutturale dell’economia domestica da quella pubblica, allora la casalinga non può essere definita come componente integrale della produzione capitalistica. È piuttosto connessa alla produzione in quanto precondizione della forza lavoro. Nella società sudafricana le donne vengono considerate appendici superflue e improduttive, anzi se ne sconsiglia la presenza in nelle città perché la vita domestica può diventare una base solida per costruire la resistenza all’apartheid. Il governo del Sudafrica non avrebbe mai intrapreso questa deliberata dissoluzione della vita familiare se i servizi domestici garantiti dalle donne fossero stati un elemento essenziale al lavoro salariato sotto il capitalismo. Indipendentemente da ciò, anche se vi fosse il salario per le casalinghe, quante sarebbero veramente disposte a occuparsi per sempre di quelle faccende in nome di un salario? Gli stipendi statali delle casalinghe rischierebbero di legittimare ulteriormente questa forma di schiavitù domestica. La natura problematica del salario per il lavoro domestico emerge anche dall’esperienza delle lavoratrici delle pulizie, le donne di servizio, le cameriere. Negli stati uniti le nere ricevono da decenni un salario per il lavoro domestico, ancora nel 1960 1/3 delle nere era confinato in questa occupazione. Spesso, il lavoro a casa delle bianche ha costretto le domestiche a trascurare casa propria e i propri figli. Le lavoratrici domestiche salariate, nel corso di più di 50 anni di organizzazioni, hanno rivendicato una definizione chiara delle proprie mansioni. Oltre il 50% delle donne negli USA oggi lavora per vivere e costituisce il 41% della forza lavoro del paese, eppure moltissime non hanno ancora la possibilità di svolgere un’occupazione decente. Insieme al razzismo, il sessismo è una delle ragioni principali degli alti tassi di disoccupazione femminile. Lo stesso movimento per il salario alle casalinghe disincentivava le donne a cercare un lavoro al di fuori della casa. Inoltre, il lavoro domestico se fatto a tempo pieno pervade talmente la personalità femminile che la casalinga non è più distinguibile dal suo lavoro. La possibilità di uscire dalla propria abitazione e vedere altre persone è importante quanto il salario. Il crescente numero di donne statunitensi attive nel mondo del lavoro è una ragione in più per invocare la necessità di una riduzione del lavoro domestico. I capitalisti più dinamici hanno già iniziato a sfruttare le necessità delle donne di emanciparsi dal ruolo di casalinghe: la proliferazione dei fast food mostra che un maggior numero di donne al lavoro significa meno pasti preparati a casa. Ciò che è necessario è la nascita di nuovi servizi sociali in grado di svolgere una buona parte del vecchio lavoro delle casalinghe.