Scarica Economia e Gestione della Banca - Esame intero e più Dispense in PDF di Economia e gestione della banca solo su Docsity! ECONOMIA E GESTIONE DELLA BANCA La struttura del sistema finanziario: lineamenti del Sistema finanziario; i circuiti finanziari e i saldi finanziari Il sistema finanziario [formale] è costituito dal complesso dinamico e integrato di contratti, intermediari e mercati finanziari, autorità di regolamentazione e vigilanza e banche centrali, esistenti in un dato luogo in un dato momento. L’assenza e/o il malfunzionamento di alcuni di questi meccanismi, che rendono possibile la mobilizzazione del risparmio fra le unità con contrapposte posizioni finanziarie, producono conseguenze negative sullo sviluppo dell’attività economica e sull’occupazione delle nazioni. Infatti, il sistema finanziario costituisce un’infrastruttura cruciale per il funzionamento delle moderne economie in quanto svolge importanti funzioni, quali: § realizza il trasferimento di risorse dal risparmio agli investimenti: l’allocazione dei risparmi implica la predisposizione di meccanismi formali (= componenti strutturali dei sistemi finanziari) che favoriscono l’incontro e lo scambio fra la domanda e l’offerta di finanziamenti, conciliando le esigenze contrapposte e spesso diversificate dei vari agenti economici (funzione di allocazione del risparmio o creditizia); § assicura l’efficiente funzionamento del sistema dei pagamenti, attraverso la creazione di mezzi di pagamento e la produzione dei servizi necessari per la circolazione della moneta (funzione monetaria); § trasmette al sistema economico (settore reale) gli impulsi della politica monetaria, e in particolare le variazioni dell’offerta di moneta stabilite dalle autorità responsabili (funzione di trasmissione della politica monetaria). Infine, tramite mercati e intermediari finanziari, nei sistemi finanziari vengono distribuiti e trasferiti i rischi (ad esempio, tramite le polizze assicurative) a cui sono esposti i vari agenti economici e vengono prodotte informazioni sui prezzi delle attività finanziarie trattate, sui tassi di interesse e di cambio ecc. Infatti, le decisioni degli agenti economici necessitano di informazioni continue, economiche e affidabili. I mercati possono dividersi in due grandi categorie: 1) mercati diretti, in cui è determinante la forza contrattuale delle parti nella definizione del prezzo [ad esempio crediti, depositi…]; 2) mercati aperti, in cui non è decisiva la forza contrattuale delle parti nella definizione del prezzo, ma esso scaturisce dall’incrocio di grandi correnti di domanda e offerta [mercato monetario, finanziario, dei cambi, internazionale dei capitali…]. Þ Mercato monetario: scambio di attività finanziarie di breve termine. Per le banche il breve periodo arriva fino a 18 mesi, ma per prassi le attività finanziarie di breve periodo scambiate nel mercato monetario operano fino a 12 mesi. Questi 12/18 mesi si riferiscono alla vita residua dell’attività finanziaria, sempre per prassi degli intermediari finanziari che lavorano in termini di vita residua. Þ Mercato finanziario: va oltre il breve periodo, vengono scambiate attività finanziarie aventi vita residua superiore a 12 mesi. Include anche le azioni, che non hanno scadenza. Þ Mercato internazionale dei capitali [chiamato anche “Euromercato”]: il prefisso Euro- designa attività finanziarie denominate in una valuta, ma emesse al di fuori del paese in cui quella valuta viene negoziata. In esso vengono negoziati prevalentemente “eurocrediti” (componente di mercato diretto) ed “euroobbligazioni” (componente di mercato aperto). Le banche sono attive sui mercati diretti, ma “di rimbalzo” anche sui mercati aperti, che sono fonte di importanti guadagni grazie alle spese di commissione. Nei sistemi finanziari si svolge l’attività finanziaria, ossia la produzione e l’offerta di strumenti finanziari e di pagamento, realizzando due delle funzioni sopra riportate: la funzione di allocazione delle risorse finanziarie e quella di creazione dei mezzi e sistemi di pagamento, alternativi alla moneta legale. Il corretto funzionamento e sviluppo di un sistema finanziario è collegato all’identificazione di tutta una serie di meccanismi volti alla eliminazione o minimizzazione delle distorsioni causate dalle situazioni in cui le informazioni, indispensabili per prendere decisioni di investimento o disinvestimento, sono distribuite in maniera diseguale (asimmetrie informative). Surplus: entrano più soldi di quelli che escono, risparmio > investimento, per cui possono trasferire risorse finanziarie ad altri settori (unità); Deficit: escono più soldi di quelli che entrano, accumulano passività finanziarie al fine di finanziare l’attività di investimento reale, che eccede il risparmio. I soggetti in surplus (famiglie) e i soggetti in deficit (imprese) si possono collegare grazie agli intermediari finanziari [risparmi famiglia à deposito in banca à finanziamento all’impresa]. Il collegamento è quindi indiretto, mediato da un intermediario (la banca). I circuiti possono anche essere diretti (prestito di soldi tra privati). Anche questi, oltre ad essere puri, possono essere intermediati: ad esempio, si pensi ad una famiglia che investe in titoli i soldi anziché metterli sul conto corrente; su queste operazioni la banca lucra, guadagnando una commissione legata al fatto che la banca interviene sui mercati finanziari per comprare i titoli. L’ammontare di commissioni fornisce risorse che possono essere canalizzate per finanziare le unità in deficit. È proprio in questo modo che si realizza la funzione di allocazione, ossia il sostanziale trasferimento delle risorse finanziarie tra le varie unità economiche. Tale funzione è facilitata e incentivata dalla tecnica del pooling (raccogliere piccoli depositi da tanti risparmiatori per concedere grandi prestiti alle imprese e alla pubblica amministrazione). Il collegamento tra le diverse unità può essere di due tipi: Collegamento indiretto: Le banche facilitano il trasferimento di risorse, che prevede che il bilancio della banca si interponga tra quello della famiglia e quello dell’impresa. I depositi [delle famiglie] per la banca rappresentano una passività (tasso di interesse sul c/c); essi vengono usati per concedere prestiti (attività) alle imprese. Per l’impresa, il prestito ricevuto è un indebitamento, per cui rappresenta una passività a bilancio. Le attività, invece, sono costituite dagli investimenti reali finanziati proprio grazie ai prestiti. La banca agisce così da asset transformer: trasforma le risorse che ottiene, e in particolare la combinazione di rischio e rendimento delle unità in surplus che affidano i propri risparmi. Ad esempio, le famiglie portano in banca N, depositando per 2 anni; la banca ha N risorse da prestare, ma può succedere che l’impresa abbia bisogno di M < N per 3 anni. La banca così trasforma le scadenze e gli importi, ma anche il rischio. Il rischio, infatti, non è analogo La struttura del sistema finanziario: le componenti L’allocazione dei mezzi finanziari fra gli agenti in surplus e in deficit porta alla creazione di attività finanziarie attraverso cui, sotto il profilo contrattuale, si formalizzano le condizioni giuridiche ed economiche degli scambi finanziari. I CONTRATTI FINANZIARI aiutano proprio ad effettuare i trasferimenti di risorse tra i vari settori istituzionali. In questo contesto, sono due gli elementi che qualificano un contratto: l’oggetto dello scambio (la moneta) e il tempo che intercorre fra le prestazioni di segno opposto. Dalla loro stipulazione sorgono diritti e obblighi inerenti il trasferimento di potere d’acquisto fra le parti che portano a collocare tali contratti tra le AF o PF delle due controparti. Si creano così dei rapporti tra le parti che presuppongono alcuni gradi di incertezza, come ad esempio quello relativo all’evoluzione nel tempo del valore delle poste assunte. Questo sfasamento temporale, intuitivamente, incide sul rischio implicito nelle operazioni finanziarie [insolvenza, evoluzioni sfavorevoli di tassi di interesse/cambio/inflazione…]. I contratti finanziari vengono anche chiamati attività finanziarie (AF). Un’attività finanziaria è un rapporto contrattuale nel quale le prestazioni delle controparti sono denominate in moneta e scadono in tempi diversi; prevede un trasferimento di potere di acquisto contro una o più prestazioni future di segno opposto. Le attività finanziarie possono scaturire da contratti bilaterali (informazioni riservate. Per esempio, il tasso di interesse è un’informazione riservata perché permette di capire il rischio di prestare soldi al soggetto. Mercato tipicamente diretto: rileva la forza contrattuale delle parti) o contratti di mercato (informazioni pubbliche. Mercato tipicamente aperto: irrilevante il potere contrattuale). Il contratto sottostante un’attività finanziaria può essere generalmente di tre tipi: 1. di credito: se compro, ad esempio, un titolo di Stato [ho diritto a riottenere i soldi che investo]. Questi contratti, quindi, consentono il trasferimento di risorse monetarie (da u in surplus a u in deficit) contro il contestuale impegno di chi le riceve alla restituzione a una data futura. La concessione del credito, quindi, sottende un rapporto fiduciario, per cui è fondamentale che i creditori abbiano accesso a informazioni che consentano, prima della stipulazione dei contratti, di apprezzare la capacità di rimborso dei debitori [a seconda dell’attività che svolgono e in forza della loro dotazione patrimoniale]. In questo ambito, il prezzo che si corrisponde per la temporanea cessione di risorse è rappresentato dal tasso di interesse; 2. di partecipazione: il trasferimento di fondi da parte delle unità in surplus si accompagna all’acquisizione di diritti di natura patrimoniale e/o amministrativa nei confronti del soggetto destinatario, rappresentato da una società di capitali. Ad esempio, se compro un’azione, entro nel capitale di un’azienda. In questi casi, i creditori sono esposti a un maggiore grado di aleatorietà nella remunerazione (che avviene sotto forma di dividendi) e nel rimborso delle somme investite, in quanto risultano esposti al rischio d’impresa; 3. assicurativo: le unità in surplus effettuano il versamento di somme a favore di un intermediario assicurativo, che si assume l’obbligo di risarcire eventuali danni subiti dai soggetti assicurati al verificarsi degli eventi contrattualmente previsti. Queste fattispecie vedono contrapporsi un’operazione certa (versamento del premio) e un’operazione eventuale (risarcimento). Questi prodotti vengono prodotti, intuitivamente, facendo riferimento a informazioni di natura privata. Una ulteriore categoria, di più difficile classificazione, è quella dei contratti derivati, così denominati perché il loro prezzo viene a dipendere dall’andamento del prezzo di una merce sottostante o di un contratto finanziario o di variabili finanziarie. Sono strumenti per lo più impiegati per trasferire il rischio connesso alla variazione dei prezzi delle merci e contratti/variabili finanziarie sottostanti i contratti derivati. La durata dei contratti finanziari (non bancari) può essere breve, di 12 mesi, media (da 1 a 10 anni), o lunga (oltre i 10 anni, anche senza scadenza/perpetua). NB: In ambito bancario, invece, il breve termine dura fino a 18 mesi per legge, il medio termine da 18 mesi a 5 anni. L’informazione è la base per dare vita a un contratto di natura finanziaria, costituisce una risorsa essenziale al corretto funzionamento dei sistemi finanziari. La valutazione delle varie tipologie di rischio nel corso della vita dell’attività finanziaria, infatti, dipende dalle informazioni disponibili da parte della causa, che talvolta possono non essere complete per l’entità dei costi connessi alla loro acquisizione ed elaborazione, formando le c.d. asimmetrie informative. Queste possono essere ricondotte fondamentalmente a due tipologie: a) selezione avversa (adverse selection): si verifica prima della conclusione del contratto e ha il potenziale effetto di facilitare il finanziamento di unità in deficit che hanno maggiore probabilità di esporre i datori di fondi a eventi avversi, come ad esempio l’insolvenza dei prenditori; b) azzardo morale (moral hazard): si palesa successivamente alla conclusione del contratto attraverso la messa in atto di comportamenti opportunistici di una controparte a danno dell’altra. Altre fattispecie di asimmetria informativa sono: c) insider trading: alcuni soggetti, in virtù di una posizione importante che occupano, sono in possesso di informazioni riservate, che sfruttano per ottenere profitti; d) free riding: comportamento opportunistico per cui dei soggetti non pagano alcun contributo economico per il funzionamento di un servizio, pur essendone tenuti, ma comunque ne beneficiano (ad esempio, chi evade le tasse). L’informazione è allo stesso tempo input e output dell’attività degli intermediari e dei mercati finanziari: Þ input: i processi decisionali degli operatori si basano su informazioni; Þ output: il prezzo di ciascuna attività finanziaria incorpora informazioni ed è il frutto di un percorso decisionale. L’operare congiunto di meccanismi istituzionali (regolamentazione), la produzione vincolata di informazioni di dominio pubblico (bilanci) e di mercato mira proprio a tutelare e promuovere l’efficienza informativa del sistema finanziario, minimizzando allo stesso tempo le imperfezioni nella distribuzione delle informazioni. Le AF hanno un rendimento che può essere di vari tipi, a seconda della natura dell’attività stessa: € tassi di interesse (ad esempio, su prestiti); € dividendi (su azioni); € variazioni di prezzo; € variazioni dei tassi di cambio; € variazioni del tasso di inflazione. Il rendimento va sempre corretto, ponderato per il rischio, non ci sono “pasti gratis”: per aumentare il rendimento, bisogna anche aumentare il rischio [vedi slide 4]. I sistemi finanziari svolgono un ruolo determinante nella distribuzione e nel trasferimento dei rischi cui i diversi agenti economici sono sottoposti, sia attraverso strumenti contrattuali appositi (polizze assicurative) che mediante tecniche gestionali idonee a imitare le conseguenze economiche dell’esposizione ai diversi rischi finanziari. I mercati consentono di riallocare i rischi attraverso la negoziazione di strumenti finanziari, ma anche di trasferire i rischi che sono propri degli strumenti finanziari stessi. Investitori e prenditori di fondi beneficiano di questi processi di redistribuzione dei rischi attuati dagli intermediari finanziari. L’attività di intermediazione bancaria implica la produzione di prestiti con caratteristiche difformi (entità, scadenza, tassi di interesse…) dai depositi raccolti dai risparmiatori: è questa la c.d. trasformazione dei rischi e delle scadenze. A loro volta, la banca riduce il rischio specifico di ogni investimento (e quindi il rischio complessivo dei suoi portafogli) grazie ai processi di diversificazione, facilitati dalla numerosità e varietà delle esposizioni creditizie assunte. NOTA: Il TUB, Testo Unico Bancario, entrato in vigore nel 1994, è il provvedimento principe a livello normativo a cui si farà riferimento, ma le banche si rifanno anche a un’altra normativa, quella del Testo Unico della Finanza (TUF). Il TUB disciplina l’ingresso nel sistema bancario, rischi e limiti dell’attività creditizia… mentre il TUF disciplina il mondo della finanza, cioè l’attività che la banca svolge per se stessa o per i propri clienti sui mercati finanziari. Gli strumenti finanziari sono: q valori mobiliari; q strumenti del mercato monetario; q quote di un organismo di investimento collettivo del risparmio (ad es. fondi comuni d’investimento); q contratti derivati (ad es. futures, options, swaps…). Gli strumenti del mercato monetario sono categorie di strumenti normalmente negoziati nel mercato monetario [vita residua < 12 mesi], come ad esempio i BOT, i certificati di deposito, le carte commerciali, i pronti contro termine (operazione di raccolta), le accettazioni bancarie che costituiscono un credito di firma… I valori mobiliari, invece, sono categorie di contratti che possono essere negoziati nel mercato dei capitali (“quasi-sinonimo” del mercato finanziario sopra definito), e sono costituiti prevalentemente da azioni, obbligazioni (con vita residua superiore a 12 mesi). I prodotti finanziari sono diversi dagli strumenti finanziari; con questo termine si vogliono includere gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria. Non costituiscono prodotti finanziari i depositi bancari o postali. Tutti i prodotti finanziari devono consentire in modo trasparente a chi li negozia di conoscere le norme alla loro base (obbligo di presentare, ogni volta che si offre al pubblico degli investitori). NB: I MEZZI DI PAGAMENTO (ad es. gli assegni) NON SONO STRUMENTI FINANZIARI Sui mercati si possono attuare dei meccanismi di trasferimento di risorse dalle unità in surplus a quelle in deficit (non necessariamente attraverso gli intermediari): canalizzazione dei risparmi dalle unità in surplus a quelle in deficit. Essi realizzano le importanti funzioni di creazione di liquidità, raccolta e veicolazione delle informazioni e trasferimento dei rischi. È importante distinguere: ü mercato primario: mercato sul quale per la prima volta viene lanciato un determinato strumento finanziario (ad es. banca emette un’obbligazione e la lancia sul PRIMARIO; quando qualcuno la compra e tot tempo dopo la vuole rivendere, la mette sul SECONDARIO). Consentono, quindi, agli emittenti di reperire fondi da impiegare a fini di investimento, espletando la vera e propria funzione di allocazione delle risorse monetarie; ü mercato secondario: mercato in cui vengono scambiati titoli che sono già stati emessi. Sono importanti perché permettono ai detentori di strumenti finanziari la possibilità di smobilizzare rapidamente i propri investimenti, trasformandoli in liquidità prime della scadenza contrattuale. I soggetti che lanciano strumenti finanziari sul mercato primario includono lo Stato, le imprese, le banche che vogliono reperire risorse finanziarie in cambio dello strumento stesso. Diverso è il funzionamento del secondario: nessuno si finanzia, ma si attuano degli scambi, delle contrattazioni, degli investimenti e disinvestimenti. Le unità in deficit sul mercato secondario non acquisiscono nuove risorse; tuttavia, questo mercato è fondamentale per assicurare liquidità agli investitori e consentire la valutazione nel continuo dei titoli emessi (e rendere così possibile l’attività degli investitori istituzionali e privati). L’orientamento dei sistemi finanziari Secondo Merton, la struttura del sistema finanziario è meno stabile delle sue funzioni. La struttura, infatti, può essere destabilizzata da: • fattori esogeni: regolamentazione [ad esempio, una banca per poter cedere credito deve necessariamente avere un patrimonio. Se cambia la regolamentazione sui requisiti patrimoniali della banca, ed è stato frequente negli ultimi anni, la struttura del settore viene effettivamente scossa], innovazione tecnologica, domanda, globalizzazione, ecc.; • fattori endogeni: concorrenza, innovazione finanziaria, ecc. I mutamenti nella struttura del sistema finanziario incidono sulle condizioni di efficienza ed efficacia con cui vengono svolte le sue funzioni nel tempo. Vi è un nesso fra struttura del sistema finanziario e sviluppo economico: sistemi finanziari più complessi si associano ad economie più sviluppate. Esistono numerose classificazioni dei sistemi finanziari. Una distinzione importante è quella fra sistemi basati sugli intermediari (bank based), in particolare sulle banche (Italia e Germania), e sistemi basati sui mercati (market based) (Regno Unito, Usa). I primi presentano tipicamente mercati diretti, i secondi mercati aperti. Tale classificazione non è sempre netta: gli intermediari sono importanti anche nel Regno Unito (assicurazioni e fondi pensione privati) e negli USA (banche di investimento), così come i mercati sono decisamente rilevanti in Italia. Ove l’orientamento prevalente sia ai mercati, il finanziamento delle unità in deficit si compie mediante l’emissione e il collocamento di strumenti finanziari negoziabili all’interno di un contesto fondato sulla produzione di informazioni pubbliche e scambi impersonali. Si ha così una strutturale tendenza alla ricomposizione della ricchezza finanziaria detenuta dal pubblico, mediante la sostituzione di attività e passività finanziarie con gli strumenti finanziari di mercato emessi dalle unità in deficit. Nei sistemi orientati agli intermediari, il finanziamento dei progetti di investimento e consumo viene a dipendere, invece, dall’attività di asset transformation svolta soprattutto dagli intermediari bancari. Un’altra distinzione è fra sistemi basati su relazioni strette con la clientela (relationship based) e su informazioni private (prestiti bancari: sistema basato sugli intermediari) e sistemi con un grado elevato di anonimità (arm’s lenght) e fondati su informazioni di natura pubblica (emissioni obbligazionarie: sistemi basati sui mercati). Non esiste un sistema finanziario ottimale. Al giorno d’oggi, queste distinzioni non identificano più modelli puri, ma modelli ibridi. Vantaggi e svantaggi della bank-based view: le banche possono monitorare le imprese meglio dei mercati, più tempestivamente (attraverso ritardi nelle rate da pagare…), favoriscono lo sviluppo di PMI (a cui risulta difficile accedere al mercato), hanno maggiore potenziale nel ridurre l’azzardo morale post-prestito e maggiore abilità nell’indurre i debitori a ripagare i debiti contratti. Sono inoltre più propense ad instaurare rapporti di lungo periodo e a sfruttare più intensamente le economie di diversificazione dell’offerta. Tuttavia, questo sistema comporta elevati costi di transazione, il rischio di formazione di accordi collusivi, il limitato accesso al capitale di rischio, la possibile concentrazione negli assetti proprietari delle imprese e la possibile creazione di frizioni all’innovazione e alla competizione fra imprese (per proteggere le imprese con più stretti legami bancari). Vantaggi e svantaggi della market-based view: richiede un mercato efficiente e funzionante, ma comporta l’elevato trasferimento del rischio d’impresa verso le famiglie e gli altri settori del sistema finanziario [ad esempio, dopo il crack di Parmalat/Cirio le famiglie e le banche aventi le loro azioni e obbligazioni in portafoglio ci hanno perso]. I mercati dei capitali competitivi svolgono un ruolo positivo nell’aggregare (in maniera efficiente) informazione diffuse e trasmettere queste informazioni agli investitori; i s.f. basati sui mercati rafforzano il governo societario, favorendo le operazioni di acquisizione del controllo societario e rendendo più facile collegare il compenso del management alle performance societarie; infine, i mercati facilitano la gestione del rischio attraverso la produzione/scambio di strumenti finanziari idonei al trasferimento del rischio. Uno svantaggio, invece, è dato dall’elevato trasferimento del rischio d’impresa verso le famiglie e gli altri attori del sistema finanziario L’evidenza empirica suggerisce che, piuttosto che nettamente alternativi, intermediari e mercati debbano essere considerati complementari, pur svolgendo ruoli diversi. Bank-based e market-based sono le alternative prevalenti, ma esistono anche altre tipologie di orientamento, come ad esempio la financial services view, che sottolinea l’importanza di riuscire a dare vita a un ambiente finanziario in cui gli operatori del mercato siano in grado di collocare dei servizi efficienti. In sostanza, i contratti finanziari sorgono per cogliere potenziali opportunità di investimento, esercitare il controllo societario, facilitare la gestione dei rischi, migliorare la liquidità e la facilità di mobilizzazione del risparmio. Esiste anche un “sottoprodotto” di quest’ultimo orientamento, ossia la law and finance view: pone particolare attenzione sull’aspetto giuridico, che tende ad enfatizzare il ruolo dei contratti negoziati sui mercati. Tali contratti vengono definiti - e resi più o meno efficaci - da diritti legali e meccanismi di applicazione. Da questo punto di vista, un sistema legale ben funzionante facilita il funzionamento dei mercati e degli intermediari. L’analisi della struttura dei sistemi finanziari e del loro orientamento in genere ha lo scopo di favorire valutazioni e comparazioni spazio-temporali, in modo tale da osservarne le tendenze evolutive in ottica di lungo periodo e valutarne l’efficacia e l’efficienza. La misurazione della dimensione dei sistemi finanziari può avvenire attraverso l’impiego di dati stock (tot. Attività finanziarie) o attraverso analisi comparative. Esistono degli indici per misurare l’orientamento di un sistema finanziario: ü credito totale bancario/PIL: tanto maggiore quanto maggiore è l’orientamento agli intermediari; ü capitalizzazione di borsa/PIL: tanto maggiore quanto maggiore è l’orientamento ai mercati. Esistono anche altri indici, i cosiddetti indici di Goldsmith: • grado di intensità finanziaria: AF totali/ricchezza nazionale (ΔAF totali/PIL); più è alto, più è elevato il peso delle attività finanziarie, per cui il ruolo delle banche e degli intermediari potrebbe tendere ad essere più accentuato; • rapporto di intermediazione: evidenzia se un sistema è orientato al mercato o agli intermediari, ed è definito come: AF intermediari/PF utilizzatori (anche Δ). Evidentemente le AF a numeratore sono soprattutto i crediti concessi, mentre le PF a denominatore sono soprattutto i finanziamenti richiesti dalle imprese. Intuitivamente, più questo indicatore è alto, più il sistema è orientato agli intermediari; • grado di importanza relativa delle banche: AF banche/AF altri intermediari (anche Δ). Alcune definizioni: Lo scoppio della crisi finanziaria nel 2007 ha evidenziato l’esigenza di introdurre degli indicatori utili a cogliere il rischio di propagazione delle crisi. Per interconnessione finanziaria si intende l’interdipendenza tra i vari soggetti che operano nei mercati finanziari, realizzando transazioni finanziarie. In particolare, questa grandezza si riferisce ai legami fra intermediari finanziari. Infrastrutture di supporto dei mercati e degli intermediari e terzi che interagiscono con intermediari e mercati in qualità di fornitori di servizi. Se l’interconnessione è alta, i meccanismi di propagazione all’interno del sistema sono forti, soprattutto i meccanismi di potenziale propagazione delle crisi. In un sistema finanziario altamente interconnesso, infatti, l’insolvenza di un intermediario viene trasmessa ad altre entità e all’economia reale. Il livello di interconnessione finanziaria dipende da: q dimensioni degli intermediari bancarie e finanziari; q livello di concentrazione dei sistemi finanziari; q ampiezza dell’operatività internazionale degli operatori finanziari. L'interconnessione è uno dei fattori chiave nei framework analitici per la valutazione del rischio sistemico nel settore bancario sviluppati dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), dalla Banca per i regolamenti internazionali (BRI) e dal Financial Stability Board (FSB). In Italia, il sistema finanziario non è tanto concentrato rispetto ad altri sistemi internazionali, per la presenza di un numero maggiore di banche (anche di piccole dimensioni). Perché esistono gli intermediari finanziari – Fenomeni che incidono sulla morfologia del sistema Gli intermediari finanziari che agiscono come asset broker (banche, SGR, SIM…) aiutano i soggetti che vogliono agire sui mercati per comprare azioni, obbligazioni, fondi… svolgendo, quindi, un’attività di servizio. Per svolgere questa attività, è necessario sostenere dei costi informativi e di transazione (piattaforme, IT, consulenti… vedi slide 5) che vengono remunerati mediante le commissioni (diverse dai tassi di interesse). Più elevato è il volume di operazioni svolte, più questi costi vengono ammortizzati. Anche gli intermediari finanziari che agiscono come asset transformer (banche) devono sostenere dei costi informativi e di transazione, a cui si aggiungono i costi di liquidità e il rischio di prezzo (incassi sugli impieghi e pagamenti sulla raccolta, quindi il tasso su quest’ultima deve essere più basso rispetto a quello sugli impieghi; il divario tra i due tassi viene chiamato spread o forbice). Gli asset broker possono sfruttare le economie di scala, riducendo i costi (in larga parte fissi) attraverso l’aumento dei volumi. Affrontano rischi di tipo operativo (ad esempio [gravissimo], malfunzionamento del collegamento con la Borsa). Gli intermediari creditizi che agiscono come asset transformer raccolgono fondi presso i soggetti in avanzo emettendo proprie passività (secondary securities) che costituiscono la raccolta da impiegare in crediti e, alternativamente, in titoli e partecipazioni a favore delle imprese (primary securities). La differenza di rendimento tra primary e secondary securities, ovvero tra impieghi (crediti, titoli...) e passività degli intermediari (depositi, obbligazioni...), definisce il costo del processo di intermediazione e la remunerazione lorda dell’attività degli intermediari finanziari a fronte dei rischi assunti. Le passività bancarie hanno due caratteristiche fondamentali: - sono richiamabili a vista dal depositante in qualsiasi momento e vengono rimborsate al valore nominale; - hanno natura monetaria, sono cioè accettate quale strumento di pagamento. Le peculiarità delle passività bancarie annullano di fatto il rischio di prezzo e di liquidità. Non vi è incertezza circa il prezzo di rimborso (che è sempre il valore nominale) e il profilo di liquidità dell’attività finanziaria (la banca rimborsa l’importo depositato nei tempi desiderati dal risparmiatore) molto a Conto Economico. L’assicurazione, invece, trae vantaggio dalla facilità con cui la banca trova e mantiene i clienti. Modalità di integrazione: Þ accordi distributivi e commerciali; Þ acquisizione di partecipazioni; Þ banche che danno vita ad assicurazioni; Þ assicurazioni che danno vita a banche. Queste ultime due modalità sono quelle che portano i risultati migliori. ü modelli organizzativi degli intermediari; ü sviluppo del Fintech. Funzione monetaria La funzione monetaria dei sistemi finanziari si concretizza nella determinazione delle modalità di regolamento degli scambi reali e finanziari a disposizione degli operatori, attraverso la creazione di mezzi di pagamento e la produzione di servizi necessari per la circolazione della moneta. La moneta ha principalmente tre funzioni: 1. mezzo di regolamento degli scambi: chi compra, pagando con la moneta, si libera dagli obblighi che ha nei confronti del venditore. Questa moneta può essere: ü moneta merce: origina da beni con uno specifico valore intrinseco (oro, argento…), per cui valore intrinseco ed estrinseco tendono a coincidere; ü moneta segno: divergenza molto accentuata tra valore intrinseco [che tende ad essere nullo o pressoché tale] ed estrinseco (ad esempio valore effettivo dei materiali che formano una banconota). 2. unità di conto: misura ciò che in teoria non esiste, ossia il valore intrinseco dei beni e dei servizi all’interno di un determinato contesto sociale. 3. scorta di liquidità: funzione di riserva (mantenimento del potere d’acquisto nominale, non reale). L’offerta complessiva di moneta in un sistema è data dalla somma di: ® moneta (a corso) legale: è la moneta che ha validità all’interno di un paese, non la si può rifiutare in sede di pagamento: è imposta dallo Stato e regola le transazioni economiche e finanziarie. Viene creata da un soggetto pubblico (Banca Centrale) e serve per estinguere le obbligazioni del creditore; ® moneta scritturale o bancaria o fiduciaria: costituisce un’alternativa alla moneta legale, è basata su delle vere e proprie scritture contabili [scritturale] che si trovano nel bilancio di una banca (ad es. assegno). Non necessariamente viene emessa dalle banche (anche posta o altri). Il rapporto di fiducia [fiduciaria] legato all’accettazione della moneta bancaria è essenziale (tanto tra le controparti coinvolte negli scambi quanto tra queste e i soggetti emittenti questo tipo di moneta). Essa non ha potere liberatorio: chi accetta un pagamento “alternativo” lo fa fidandosi del fatto che la controparte abbia titolo e disponibilità sui conti di deposito idonei a perfezionare il trasferimento di fondi dal conto del debitore a quello del creditore. La moneta scritturale include l’insieme degli strumenti e delle strutture di pagamento che consentono di svolgere questa funzione di alternativa alla moneta legale. Strumento di pagamento: sostituto temporaneo della moneta che permette di ritardare l’esborso monetario ad un momento successivo alla conclusione dello scambio. Procedure di pagamento: sistemi di trasferimento della titolarità della moneta (bonifici, giroconti, procedure di incasso e pagamento…). La diffusione di valute digitali alternative (criptovalute), il cui trasferimento è basato sulla crittografia e sulla DLT (blockchain), è all’ordine del giorno. Tuttavia, queste non attribuiscono alcun tipo di diritto di carattere economico (cedole, dividendi…) e non nascono dalla passività di un emittente (come la BC: NO GARANZIA). Il loro valore è soggetto a notevoli oscillazioni (instabilità) e bolle di natura meramente speculativa, per cui il loro acquisto è sostanzialmente legato alla speranza di un rialzo del prezzo. I principali pericoli delle valute virtuali (≅ bitcoin): - alta volatilità e rischio “bolla”; - nessuna protezione giuridica (no servizio finanziario regolamentato); - per l’“uscita” dall’investimento possono essere richiesti tempi anche molto lunghi; - no trasparenza sul prezzo; - uso illecito (riciclaggio, finanziamento al terrorismo…); - possibile sospensione nelle negoziazioni (o peggio); - informazioni fuorvianti. Il moltiplicarsi di iniziative di questo tipo ha indotto alcune autorità (Bank of Canada, Bank of England, ECB, Bank of Japan…) a proporre la creazione di una central bank digital currency (CBDC). La stessa BCE si è attivata per la possibile creazione di un euro digitale, che potrebbe portare molti vantaggi: § combina l’efficienza di un mezzo di pagamento digitale con la sicurezza della moneta di banca centrale; § aiuta a gestire le situazioni in cui il contante non è più la soluzione prescelta; § evita la dipendenza da mezzi di pagamento digitali emessi e controllati all’esterno dell’area dell’euro, suscettibili di minare la stabilità finanziaria e la sovranità monetaria; § garantisce la tutela della privacy. Uno strumento di pagamento deve avere tre caratteristiche: • rapidità (float): tempo intercorrente tra il momento in cui il debitore paga e il momento in cui il creditore incassa; • sicurezza; • economicità. Per questo motivo, il 21 novembre 2017, il Consiglio Europeo per i Pagamenti (European Payment Council – EPC) ha introdotto nell’area europea comune dei pagamenti (Single Euro Payments Area – SEPA) il nuovo schema per il pagamento di bonifici istantanei (SEPA Instant Credit Transfer – SCT Inst), che prevede un tempo massimo di esecuzione di ogni singola transazione non superiore ai 10 secondi e una disponibilità del servizio garantita tutti i giorni dell’anno, 24 ore al giorno. Un anno dopo, il 30 novembre 2018, la Banca d’Italia era già in grado di avviare in esercizio il servizio TIPS (TARGET Instant Payment Settlement), che consente il regolamento immediato di singoli pagamenti istantanei in moneta di banca centrale, in linea con lo schema SCT Inst. Il servizio, concepito come piattaforma di regolamento multi-valutaria, è stato sviluppato con l’obiettivo, tra gli altri, di favorire l’integrazione dei servizi di pagamento al dettaglio offerti dalla comunità̀ finanziaria europea e di eliminare le barriere dovute alla scarsa interoperabilità tra le piattaforme di regolamento preesistenti. Il sistema dei pagamenti è costituito da una serie di elementi: § strumenti (tradizionali, e-payment, m-payment, ...) § norme (Payment System Directives – PSD 1 e 2) § procedure (SEPA, TARGET) § produttori (banche, IMEL, IP, “terze parti”, ...) § autorità di controllo (BCE e BCN) la cui attività è diretta ad assicurare efficienza e affidabilità dei trasferimenti di fondi tra gli operatori economici. Esistono tre procedure/sistemi dei pagamenti: û TARGET: pagamenti all’ingrosso (superiori a 50mila €); û TARGET2 Securities: regolamento delle transazioni in titoli; û SEPA: pagamenti al dettaglio (pari o inferiori a 50mila €). Il concetto di PSD2 si riferisce a una direttiva europea di innovazione grazie alla quale è stata introdotta la possibilità per un utente di c/c on-line di effettuare pagamenti o accedere alla rendicontazione bancaria attraverso: Ø la propria banca; Ø terze parti autorizzate (Third Party Providers - TPPs), diverse dalla banca ma che consentono comunque di effettuare operazioni di pagamento. Sono previsti degli strumenti di tutela per il cliente: à conoscenza: solo il cliente conosce PIN, password… à possesso: solo il cliente dispone del dispositivo mobile… à inerenza: caratterizza solo il cliente (impronta digitale…). Le “terze parti autorizzate” sopra citate sono GAFA, FAMG, FAAMG, FANG… (G=Google, A=Amazon, F=Facebook, A=Apple, M=Microsoft, N=Netflix): appartengono al mondo big-tech e possono essere abilitati per effettuare pagamenti con soldi che si hanno presso la propria banca. Le loro funzioni sono quelle di PISP (payments initiation service provider) e AISP (account information service provider). La moneta può essere vista come somma di moneta legale delle banche e moneta legale del pubblico. La moneta legale delle banche dipende da tre elementi: - C: propensione del pubblico a detenere contanti; - RL: propensione a detenere riserva libera da parte delle banche (anche le banche hanno riserve di liquidità, ad esempio per prelievi…). La riserva libera, insieme a quella obbligatoria, compone la riserva delle banche; il suo ammontare è scelto liberamente dalle banche, in base agli esborsi che stima di dover sostenere; - RO: riserva obbligatoria detenuta dalle banche, su cui esse non hanno margine di manovra (obbligate dalla Banca Centrale): deve detenerne una certa percentuale rispetto alla raccolta detenuta. Questo ragionamento porta a identificare delle serie geometriche. La prima riga costituisce il numeratore del moltiplicatore monetario rispettivamente di depositi, riserve, prestiti e contanti detenuti dal pubblico. Distinzione tra banche e altri intermediari non bancari: le banche emettono una particolare categoria di passività, quella dei depositi a vista nei quali si identificano strumenti sostitutivi della moneta legale, preclusa agli altri intermediari. Le banche, come analizzato sopra, svolgono anche la funzione monetaria, che esalta e condiziona quella creditizia: infatti, i prestiti erogati dalle banche sono utilizzati tipicamente mediante ordini di pagamento impartiti dalle stesse (bonifici, a/b, addebiti preautorizzati…). I beneficiari di tali pagamenti possono decidere di incassarli, ricevendo in cambio moneta legale, oppure accreditarli su propri conti di deposito. Se viene preferita la seconda opzione, i prestiti concorrono a formare nuovi depositi, e di conseguenza la funzione creditizia non può essere separata da quella monetaria, per effetto della quale depositi e prestiti continuano ad autoalimentarsi. Funzione di trasmissione degli impulsi di politica monetaria L’assetto operativo costituisce l’insieme delle modalità di attuazione della strategia di politica monetaria e dello strumentario a disposizione della Banca Centrale Europea. Strategia e assetto operativo sono tra loro complementari: definito con la prima il livello dei tassi di interesse a breve necessario per mantenere la stabilità dei prezzi nel medio periodo, con il secondo si stabiliscono le modalità attraverso le quali raggiungere e mantenere tale livello. Per Politica Monetaria si intende proprio l’insieme delle azioni intraprese dalla Banca Centrale Europea per influenzare il costo e la disponibilità di denaro nell’economia. Alcune definizioni: La BCE segnala ai mercati il livello dei tassi di interesse obiettivo fissando i propri tassi operativi e deve mantenere condizioni di equilibrio della liquidità/base monetaria nel sistema bancario dell’aera dell’euro. La BC crea base monetaria quando incrementa il suo credito nei confronti del sistema, ossia quando concede crediti a un sistema (ad esempio immettendo valuta). La base monetaria può anche essere distrutta, tipicamente quando il credito concesso viene estinto (la BC toglie dal sistema risorse finanziarie). La base monetaria, dunque, è direttamente gestita dalla BCE, ma non rappresenta l’intera quantità di moneta a disposizione del pubblico, perché questa include anche i depositi bancari utilizzabili per effettuare pagamenti (attraverso assegni, carte di debito, giroconti…). NB: l’offerta di moneta è un multiplo della base monetaria; se il rapporto riserve/depositi scende, allora aumentano i prestiti effettuati dalle banche; minore è il rapporto circolante/depositi, minore è la quantità di BM rappresentata dal circolante e maggiore è quella rappresentata dalle riserve bancarie. A partire dalla definizione di moneta offerta, si possono identificare differenti aggregati monetari dell’Area Euro. Ordinati in funzione della loro capacità di trasformarsi in contante o depositi in c/c e della loro capacità di consentire transazioni, nella UEM esistono: ▪ M1: Ristretto circolante + depositi c/c ▪ M2: Intermedio M1+ dep. 2a o ritirabili con preavviso max 3m ▪ M3: Ampio M2 + titoli obbligazionari (scadenza <2a), quote di fondi monetari La BCE monitora tutti e tre gli aggregati per l’attuazione della politica monetaria, ma dà maggior importanza a M3 perché è più stabile, anche se meno controllabile nel breve rispetto a M1. Ci sono degli obiettivi finali di politica monetaria (stabilità dei prezzi; politiche economiche di piena occupazione e crescita economica). La Banca centrale per perseguire i suoi obiettivi utilizza la cinghia di trasmissione: può azionare determinati strumenti, quali rifinanziamento, operazioni di mercato aperto... che sono sotto il suo controllo diretto e sono rivolti alle banche. Se la banca centrale modifica le condizioni di questi strumenti lancia un impulso di politica monetaria che viene recepito dalle banche e che si traduce in target operativi (riserve bancarie, tassi di mercato), intermedi (quantità di moneta, credito, tassi di interesse) e finali (prezzi, tassi di cambio, reddito, occupazione). In questo modo la banca centrale permette che le banche, ricevendo questo impulso, siano in grado di trasferirlo alle unità in deficit con cui lavorano (imprese), quindi all’economia reale su cui la banca centrale direttamente non può intervenire (esempio: alzando e abbassando il tasso di interesse). Il target principale della BCE riguarda il livello del tasso di interesse di riferimento, in primis per quanto riguarda il rapporto banca centrale – banche, ma che viene poi ribaltato sul rapporto banche commerciali – imprese. Perciò, le decisioni di politica monetaria influiscono sulla spesa dei consumatori e sugli investimenti delle imprese, perché vengono trasmesse dagli intermediari bancari. In periodi prolungati di bassa inflazione e tassi di interesse contenuti, la Banca Centrale può anche adottare misure non convenzionali di politica monetaria (e.g. Quantitative easing). La liquidità del sistema finanziario viene regolata dalla banca centrale attraverso diversi strumenti, riconducibili alle c.d. operazioni di politica monetaria: 1. operazioni di mercato aperto: prevendono l’acquisto o la vendita di titoli da parte della banca centrale: se li compra, li paga e inietta liquidità nel sistema; viceversa, se vende titoli si fa pagare, drenando liquidità dal sistema. Sono operazioni effettuate dalla BCE e operativamente realizzate dalle banche centrali nazionali. Sono operazioni fondamentali perché influenzano [e quindi ne permettono il controllo] i tassi di interesse di mercato (a breve termine), segnalano l’orientamento di politica monetaria e gestiscono condizioni subottimali di liquidità sui mercati. A tali operazioni possono partecipare tutte le banche dell’Eurosistema, e in particolare quelle istituzioni creditizie assoggettate al vincolo della riserva obbligatoria (purché siano giudicate finanziariamente solide ed efficienti). I tassi a cui vengono effettuate queste operazioni assumono una valenza segnaletica molto rilevante. Possono essere: a) operazioni di rifinanziamento principale: sono operazioni temporanee di pronti contro termine effettuate ogni 7 giorni (modalità d’asta standard); b) operazioni di rifinanziamento a più lunga scadenza: pronti contro termine a 3 mesi effettuati ogni mese, non mirano a modificare il tasso di interesse di mercato; c) fine tuning: = aggiustamento al margine, sono operazioni che non hanno frequenza prestabilita, vengono utilizzate per controllare oscillazioni impreviste di liquidità e tassi (eseguite dalle banche centrali nazionali e in casi eccezionali dalla BCE, es. raccolta di depositi a tempo determinato); d) operazioni strutturali: modificano la quantità di moneta presente nel sistema a lungo termine, in modo duraturo (es. emissione di certificati di deposito della BCE). Le operazioni di mercato aperto sono realizzate attraverso due procedure, l’asta e procedure bilaterali. La più comune è l’asta, che a sua volta si divide in: § asta standard: è la più diffusa, e può svolgersi a tasso fisso (la BCE comunica il tasso alle controparti, a cui spetta specificare alle proprie BCN gli importi che intendono negoziare a quel tasso) oppure a tasso variabile (le controparti propongono alle rispettive BCN i tassi e le quantità desiderati). § asta veloce: si svolge in genere nell’arco di 90 minuti tra il momento dell’annuncio e la comunicazione dei risultati. Le controparti ammesse a partecipare sono scelte dalle BCN tra quelle del proprio stato membro che risultino particolarmente attive sul mercato monetario, dispongano di un’efficiente sala operativa e di un significativo potenziale di partecipazione in asta. Le operazioni bilaterali invece sono condotte e regolate dalle BCN in contropartita di banche operanti nel proprio Stato e, data la rapidità con cui vengono annunciate e realizzate, si svolgono in condizioni di totale intrasparenza. A seconda della veste adottata, le operazioni dell’Eurosistema si distinguono in: o temporanee: finalizzate a immettere o assorbire liquidità dal sistema per periodi relativamente brevi (tra 7 gg e 3 mesi). Esse sono effettuate mediante l’acquisto a pronti di strumenti finanziari da parte della BCE nei confronti di banche dell’area dell’euro e contestuale rivendita a termine dei medesimi strumenti contro liquidità oppure attraverso l’erogazione di prestiti a fronte di cessione di attività poste a garanzia. o definitive: consistono nell’acquisto o vendita di strumenti finanziari a opera della BCE in contropartita del sistema bancario, senza vincolo di successivo ritrasferimento degli strumenti stessi. 2. operazioni attivabili su iniziativa delle controparti (Standing Facilities): le banche potrebbero prendere l’iniziativa per effettuare alcune operazioni: Ø operazioni di deposito presso la BC: le banche possono impiegare liquidità in eccesso, in quantità teoricamente illimitata. Il tasso di interesse è al limite minimo nel mercato overnight; Ø operazioni di rifinanziamento marginale: finanziamenti overnight a fronte di garanzie, le banche possono ottenere liquidità in misura teoricamente illimitata. Il tasso di interesse è il massimo nel mercato overnight. 3. riserva obbligatoria: la riserva obbligatoria si “paga” su alcune forme di raccolta diretta effettuate dalle banche. La BCE paga degli interessi su queste riserve depositate, ad un tasso che oggi è variabile e pari a quello delle operazioni di rifinanziamento principale dell’Eurosistema (1.a). Aggregati che sono soggetti a riserva: A) tutti i depositi di durata inferiore a due anni, titoli di debito con scadenza fino a due anni, titoli del mercato monetario; B) depositi di durata superiore a due anni, pronti/termine, titoli di debito superiori a due anni; C) sono escluse le passività: verso altra istituzione di credito soggetta al medesimo obbligo (altrimenti ci potrebbe essere una doppia imposizione sulle stesse somme); verso la BCE; verso BCN Area€. Reserve Ratio da applicare: 1% sul gruppo A); 0% sul gruppo B) Ogni quanto si paga la riserva obbligatoria? Ogni mese. Il problema qui si pone per le banche di più ridotte dimensioni, per le quali l’adempimento agli obblighi di riserva obbligatoria potrebbe essere troppo pesante. Si è deciso quindi di fissare una franchigia pari a 100.000 euro sulla riserva dovuta: se l’importo dovuto è inferiore a €100k, la banca non deve pagare nulla. Numerosi sono i modelli con cui si può dispiegare l’attività di una banca: • I modelli di governance: - Società di capitale pure (shareholders oriented): le banche SPA; - Società di capitale di natura cooperativa e finalità mutualistica (stakeholders oriented): le banche di credito cooperativo (BCC) e le banche popolari; • I modelli proprietari: - Banche private (il cui capitale è in mano ad azionisti non pubblici); - Banche pubbliche (ad es. le casse di risparmio tedesche, le banche di sviluppo, le banche nazionalizzate a seguito di crisi); • I modelli di specializzazione del business: - Banche generaliste: servono molteplici pubblici con una gamma diversificata di servizi; - Banche specializzate: con focus sull’offerta di servizi specifici (ad es. mutui); • I modelli di specializzazione per clientela servita: - Banche retail: sono banche generaliste che offrono servizi ad alto grado di standardizzazione e basso livello di complessità finanziaria; - Banche che offrono servizi di private banking dedicati a clientela privata molto facoltosa; - Banche attive nel corporate & investment banking: offrono servizi a supporto di operazioni di finanza straordinaria, intermediazione mobiliare e gestione dei rischi di imprese di medio grandi dimensioni, pubbliche amministrazioni e Stati sovrani. L’esercizio dell’attività bancaria espone gli intermediari a una pluralità di rischi, conseguenti al contesto di incompletezza e incertezza informativa in cui essi operano. Nelle banche, l’ambito “rischi” è stato oggetto di particolare attenzione negli ultimi venti anni (gestione, controllo…). Essendo la banca un’impresa, infatti, essa affronta e gestisce dei rischi; l’assunzione, la trasformazione e la gestione del rischio rappresentano l’essenza stessa dell’attività bancaria, in quanto la sua redditività e stabilità dipende dall’efficacia della gestione dei rischi assunti. La banca adotta quindi sistemi di gestione dei rischi (risk management) che contemplano: • strategie e politiche di gestione dei diversi rischi, nonché procedure per l'identificazione e la misurazione dei medesimi (processo delicato e fondamentale, se non è fedele alla realtà provoca grossi danni); • adeguata organizzazione interna della banca; • adeguati sistemi informativi e di controllo interno (internal audit). Un primo rischio cui la banca è sottoposta è il rischio d ’impresa, ossia variabilità del valore del capitale economico (differenza tra valore economico delle attività e delle passività) o della sua redditività (return on equity). L’esposizione al rischio di un intermediario dipende da: - scelte di composizione del portafoglio di attività e passività; - appetito per il rischio (risk appetite per le varie aree in cui si opera); - normativa di vigilanza; - struttura e presidi organizzativi adottati; - quadro macroeconomico; - altri fattori. I rischi possono essere divisi in: Þ rischi finanziari: riguardano il credito, il mercato (= tasso e cambio) e la liquidità e sono tipici/collegati all’intermediazione finanziaria svolta; Þ rischi non finanziari: rischio operativo e altri (reputazionale, strategico…), rinvenibili in qualsiasi attività imprenditoriale. Il rischio di credito è identificabile nell’insolvenza totale o parziale del debitore nel rimborsare nei tempi e nei modi prestabiliti i prestiti bancari; si può dire, quindi, che esso “tragga origine” dal rischio di default. Esso rappresenta l’alea principale a cui è esposta l’intermediazione creditizia, essendo l’attivo delle banche in gran parte costituito da crediti. La banca deve essere in grado di stimare correttamente la probabilità di insolvenza (probability of default – PD, che aumenta al peggiorare del grado di solvibilità) dei debitori, che evidentemente dipende dalla “qualità” (rating: AAA, AA, …, CCC) dei debitori stessi. Durante la vita dei crediti, l’insolvenza può essere causata da fattori: û idiosincratici (= riferiti al singolo debitore): cattiva gestione economico-finanziaria, errori strategici relativi al business, comportamenti fraudolenti, danni subiti; û di natura macroeconomica (sistemici), possono influenzare la solvibilità dei debitori bancari. Le insolvenze aumentano al peggiorare del quadro macroeconomico, con un lieve sfasamento temporale (durante una crisi generale prolungata, le imprese inizialmente pagano i propri debiti con le riserve, che però a un certo punto finiscono). Nei portafogli di una banca ci possono essere due tipi di crediti: Þ crediti in bonis o performing, di “buona qualità; Þ crediti deteriorati o non performing: si hanno quando il pagamento di un’obbligazione rilevante (€100 per le esposizioni al dettaglio e €500 per le esposizioni non al dettaglio; l’1% dell’esposizione complessiva verso una controparte) è arretrato da oltre novanta giorni (180 per le amministrazioni pubbliche), ovvero quando la banca ritiene improbabile che, senza il ricorso ad azioni quali l’escussione (= “vendita”) delle garanzie, il debitore adempia integralmente alla sua obbligazione. La gestione del rischio di credito contempla la messa in atto di strategie a livello: Ø micro (singolo credito): screening e selezione dei debitori; definizione delle condizioni contrattuali (importo, tasso di interesse, garanzie, modalità di rimborso ecc.); monitoring dei comportamenti dei debitori; Ø di portafoglio prestiti: diversificazione del portafoglio prestiti (per natura dei debitori, durata prestiti, ecc.), trasferimento del rischio di insolvenza (mediante cartolarizzazioni e derivati creditizi). Il danno che discende dalla manifestazione del rischio di credito non si limita alla perdita del capitale prestato ma può generare altri rischi (ad es. rischio di liquidità). Esistono ulteriori tipologie di rischio di insolvenza, alcune delle quali possono essere anche considerate come componenti del rischio di credito stesso [default, downgrading, recupero]: § Rischio di recupero (recovery risk): è il rischio di mancato recupero integrale del credito concesso. Equivale al cd. Loss Given Default (LGD). § Rischio di downgrading: è il rischio di deterioramento della solvibilità dei debitori a seguito della riduzione del rating assegnato dalle agenzie di rating. § Rischio di regolamento: è il rischio che si determina nelle operazioni in strumenti finanziari quando la controparte alla scadenza del contratto [o dopo di essa] non abbia adempiuto la propria obbligazione di consegna di strumenti finanziari o di pagamento degli importi. § Rischio di controparte: rischio legato all’eventualità che la controparte di una transazione di determinati strumenti finanziari risulti inadempiente prima del regolamento della transazione stessa. Si tratta di una particolare fattispecie del rischio di credito. Come il rischio di regolamento, caratterizza per lo più le transazioni nei mercati OTC (non regolamentati). § Rischio di concentrazione: è il rischio dovuto ad un eccessivo impegno creditizio assunto nei confronti di un singolo debitore, gruppo di debitori collegati (gruppi di imprese) o settori economici o aree geografiche. § Rischio paese: è il rischio che in un paese straniero si verifichi un evento che influenzi negativamente la volontà/capacità dei debitori privati o pubblici in quel paese di ripagare, alle scadenze prefissate, i propri debiti internazionali. Può dipendere da fattori politici, economici e sociali o anche da eventi catastrofici naturali. Tipicamente le banche vi si espongono espandendo la propria operatività sui mercati internazionali. § Rischio sovrano: è il rischio di insolvenza di un debitore sovrano (governo centrale, che ha il potere legale di prelevare risorse ai contribuenti e compiere scelte di politica economica) nel rimborso dei debiti verso l’estero (sotto forma di prestiti o strumenti finanziari). Per limitare l’esposizione al rischio di insolvenza, le banche adottano una serie di tecniche e strumenti nella fase sia antecedente alla conclusione dei contratti di credito (raccolta e screening di informazioni sul soggetto che richiede il finanziamento) sia successiva alla stipulazione degli stesso (continuo monitoraggio della situazione del credito per individuare tempestivamente eventuali anomalie nei pagamenti). La gestione dell’esposizione complessiva della banca, invece, implica la continua ricerca di configurazioni ottimali di rendimento e di rischiosità dell’intero portafoglio creditizio. I rischi di mercato, invece, originano da diversi fattori che possono causare perdite del valore di singole attività finanziarie/strumenti finanziari o di portafogli di attività/passività finanziarie a seguito di variazioni inattese delle condizioni di mercato. Nella categoria dei rischi di mercato si annoverano: ® il rischio di tasso di interesse; ® il rischio di prezzo (degli strumenti finanziari); ® il rischio di cambio; ® il rischio di volatilità. Il rischio di tasso di interesse si ha nel caso di variazioni sfavorevoli dei tassi, che impattano sul bilancio della banca con riferimento al processo di trasformazione delle scadenze e alla detenzione di contratti finanziari sensibili a variazioni dei tassi stessi. Fluttuazioni dei tassi di interesse determinano sia una variazione degli utili bancari che una variazione del valore di mercato delle attività e delle passività e quindi del valore economico del patrimonio netto; l’assunzione di questo rischio, infatti, costituisce una componente normale dell’attività bancaria e può dar luogo a un’importante fonte di reddito e di valore patrimoniale. Si pensi all’acquisto di un Btp con tasso del 2% e durata 10 anni. Se i tassi di mercato salgono notevolmente (e pure le attese sono al rialzo) si crea uno svantaggio per chi detiene il Btp, perché i nuovi Btp vengono emessi ai nuovi tassi di mercato più alti. Il rischio è che il prezzo di questo strumento vada a deteriorarsi in quanto diventa meno appetibile (più la durata è lunga, più questo fenomeno è vero). Alcune fattispecie tipiche del rischio operativo: Normalmente gli intermediari tendono a scaricare sui clienti finali variazioni di tassi di mercato ecc., ma in questo caso non possono farlo, la banca risponde direttamente per questi problemi. Per fronteggiare rischio di tasso e di credito bisogna predisporre apposite dotazioni patrimoniali, ma il rischio operativo fino a tempi piuttosto recenti non è stato associato alla detenzione di dotazioni patrimoniali; oggi, invece, ci sono dei coefficienti patrimoniali legati proprio ad esso. È un rischio che non può essere azzerato, sorge inevitabilmente con l’esercizio dell’attività d’impresa. Negli ultimi anni, la crescente esposizione degli intermediari a tale tipologia di rischio ha reso necessaria l’applicazione anche in questo ambito delle prassi gestionali e delle metodologie di misurazione tipiche dei rischi finanziari. Rientra tra i rischi puri poiché comporta prevalentemente manifestazioni di perdita e non di guadagno. Nel rischio operativo sono compresi il rischio legale e regolamentare, ossia il rischio di perdite derivanti da violazioni di leggi o regolamenti, da responsabilità contrattuale o extracontrattuale ovvero da altre controversie. Non sono invece inclusi nell’accezione di rischio operativo i rischi strategici e di reputazione. Quest’ultimo in particolare è definito come il rischio attuale e prospettico di riduzione degli utili o del capitale derivante da una percezione negativa dell’immagine della banca da parte di clienti, controparti, azionisti, investitori e autorità di vigilanza. La reputazione è acquisita nel tempo, svolgendo bene e correttamente il proprio lavoro, ma può essere persa in pochi minuti per pochi comportamenti inadeguati. Questo rischio ha delle ricadute molto pesanti anche e soprattutto a livello economico e di capitale, e viene percepito da tutti. Proprio questa sua peculiarità (soggettività) rende particolarmente difficile la sua misurazione e quantificazione, viene percepito quando ormai il danno è stato fatto. È strettamente legato al (dipendente dal) rischio operativo e alle perdite da esso generate. Il rischio strategico è il rischio legato a una potenziale riduzione degli utili o del capitale derivante da decisioni aziendali errate, da un’inadeguata attuazione delle decisioni o da un’incapacità di reagire sufficientemente alle pressioni competitive. Presenta alcune peculiarità, tra cui la difficoltà di misurazione ex ante e l’assunzione speculativa (moral hazard). Può essere gestito attraverso adeguati presidi organizzativi e adeguati sistemi di controllo e governance [misure di carattere organizzativo]. [vedi slide 14] I modelli organizzativi delle banche Al giorno d’oggi per la banca è cruciale scegliere un modello organizzativo idoneo tra i tre più diffusi (banca universale, gruppo bancario, banca specializzata), ciascuno con le rispettive segmentazioni. La scelta dell’assetto organizzativo aziendale, in qualsiasi impresa, è il risultato di decisioni assunte in relazione alla modalità di divisione del lavoro tra i diversi soggetti (definizione delle parti che compongono l’organizzazione) e ai sistemi di coordinamento, comunicazione e controllo. Le scelte organizzative sono influenzate da: Þ ambiente nel quale l’impresa è inserita [complessità, concorrenza…]; Þ età e dimensione dell’impresa; Þ livello della tecnologia; Þ vincoli regolamentari; Þ mercato/i di riferimento. Tali scelte, quindi, sono il risultato delle decisioni assunte sulle modalità di divisione del lavoro tra i diversi soggetti e sui meccanismi di coordinamento, di comunicazione e di controllo. Da circa quindici anni la particolarità della banca richiede la scelta di modelli organizzativi adeguati; essa, infatti, è un’impresa che: • svolge una funzione monetaria: le sue passività sono utilizzate come mezzo di pagamento; • riduce il fenomeno delle asimmetrie informative; • esercita un’attività che presenta un forte interesse pubblico e quindi necessita di tutela; • è caratterizzata da un’attività “produttiva” sui generis, in quanto è un’impresa multi-prodotto, i cui prodotti sono tra loro fortemente interdipendenti, non provvisti di materialità e non suscettibili di essere brevettati. L’ambiente è fondamentale ai fini della progettazione organizzativa perché, in particolar modo negli ultimi anni/decenni, esso è diventato molto più dinamico, complesso e diversificato rispetto al passato, per cui le banche necessitano di un modello organizzativo non statico, che reagisce dinamicamente, si adatta, cambia a causa di: q crescente competizione e tendenza all’aumento delle dimensioni; q maggiore presenza internazionale per poche grandi banche italiane; q inserimento in segmenti di mercato specialistici e processo di ridisegno dei mercati; q marcata evoluzione della domanda; q aumento della tecnologia; q razionalizzazione della struttura organizzativa (e distributiva: processo importante di chiusura di molte filiali bancarie); q sviluppo del Fintech. Si ha la necessità, quindi, che i modelli organizzativi siano complessi, ma anche flessibili (a geometria variabile: dai correlati empirici indefiniti), con un grado di burocrazia meno accentuato. Con riferimento all’età e alla dimensione, si è osservato che mei sistemi finanziari dei paesi finanziariamente più sviluppati sono presenti da decine di anni imprese bancarie che, in virtù della loro “anzianità di servizio”, hanno proceduto a una formalizzazione significativa dei comportamenti (seppur questi non possano essere considerati immutabili a causa del dinamismo ambientale). Le banche più grandi presentano una componente direzionale più sviluppata e maggiori dimensioni medie delle diverse business units rispetto alle banche più piccole, caratterizzate da una struttura più snella e meno articolata. I sistemi tecnici si sono resi via via più complessi a causa dell’incessante evoluzione dell’information technology, che ha dato vita a molteplici forme di virtual banking e ha portato alla nascita di nuove professionalità, oltre a richiedere la presenza di un sempre maggiore numero di specialisti di supporto da inserire nelle b.u. dell’organizzazione e dei sistemi informativi. La regolamentazione in ambito bancario è piuttosto stringente a causa dell’interesse pubblico dell’attività degli intermediari. Un apparato regolamentare articolato tende a ridurre la discrezionalità operativa delle banche, ma anche a imporre la presenza di specifici organi e presidi organizzativi che favoriscono una certa standardizzazione della struttura. Il processo di deregulation avvenuto pochi decenni fa ha ampliato notevolmente le possibilità operative delle banche e non sono rare le soluzioni organizzative innovative o creative nate allo scopo di acquisire vantaggi rispetto ai concorrenti o di eludere alcuni vincoli normativi ritenuti troppo stringenti. La clientela di una banca può appartenere ai seguenti segmenti principali: ü Retail banking (o mass market); ü Affluent; ü Private; ü Corporate; ü Istituzionali. In risposta ai bisogni di tali segmenti di clientela si sono sviluppate differenti tipologie di banking: ® Retail banking vs wholesale banking; ® Private banking; ® Corporate banking; ® Investment banking. Il retail banking si rivolge al mass market, ossia a grandi volumi di clientela. Servono quindi delle modalità per raggiungere questa clientela, i canali distributivi devono presentare caratteri di capillarità. Questo si ottiene in primis con canali online, ma anche con canali distributivi fisici. L’offerta di strumenti e servizi presentata al mass market, proprio per i notevoli volumi considerati, deve presentare sostanziali caratteri di standardizzazione ed elementarità. I criteri di efficienza sono basati prevalentemente sull’attuazione di processi ripetitivi a elevato contenuto tecnologico e sull’uso sempre più importante di strumenti e canali di remote banking (smartphone, pc, tablet, …). Il guadagno per la banca in questo contesto è dato dal fatto che sia possibile “sfruttare” la poca forza contrattuale della clientela retail (che sarà soggetta a tassi di interesse maggiori). Il retail è contrapposto al wholesale banking (= ingrosso), caratterizzato da: [ strumenti e servizi complessi e integrati; [ personalizzazione rispetto al bisogno specifico del cliente; [ dimensione unitaria non piccola; [ valore aggiunto unitario elevato; [ negoziati all’interno di una relazione di clientela duratura e consolidata; [ profili di qualità elevati. Il guadagno unitario è minore rispetto al retail, ma gli importi più elevati lo rendono comunque rilevante. Il private banking riguarda la clientela con disponibilità e dotazioni patrimoniali parecchio significative, che pretende un approccio fortemente personalizzato che la distingua dal mass market. I clienti sono seguiti da un soggetto ad hoc, un private banker/consulente. Il private banking nasce per operazioni di investimento della clientela, il prestito è meno rilevante. Sono clienti che hanno più forza contrattuale, quindi il guadagno unitario è minore, ma le masse di risorse lo rendono particolarmente significativo. Il corporate banking si caratterizza per: § clientela costituita da imprese spesso di dimensioni medio/grandi (molte PMI vengono assimilate al segmento retail), e dotate di forma societaria (corporate); § area di affari complessa ed estesa; • Potenziale maggior orientamento alla relazione con la clientela e più approfondito grado di conoscenza. La clientela beneficia anche della riduzione dei tempi e dei costi di ricerca e di informazione associati alla valutazione dei servizi offerti da una molteplicità di operatori; • Economie di scala e di scopo all’aumentare delle dimensioni; • Superamento potenziali conflitti fra direzione unitaria della capogruppo e autonomia decisionale degli organi delle società partecipate. La banca universale è comunque organizzata in maniera multidivisionale, il che comporta sicuramente dei vantaggi rispetto al gruppo (no comportamenti opportunistici del management delle società controllate), ma vi sono comunque dei fattori di svantaggio per lo più legati ai costi di coordinamento e controllo (dell’attività delle divisioni), comunque esistenti. Tra le altre criticità ritroviamo: û Possibili conflitti di interesse: es. fra finanziamento mobiliare e gestione di patrimoni; fra attività di prestito e finanziamento mobiliare; û Difficoltà organizzative ed elevati costi di integrazione; û Vischiosità della struttura organizzativa; û Aumento del grado di rischiosità complessiva (seguo tutti i bisogni di un cliente, se questo va in difficoltà incide sulla mia patrimonializzazione ed economicità). È dato anche dal volersi inserire in settori operativi come quello dell’investment banking à fondamentale la capacità di governo del processo di diversificazione posto in atto. Potenzialmente si possono ingenerare conflitti di interesse anche tra la banca e la sua clientela (vedi esempi pag. 99), ma possono essere limitati attraverso: ® presenza di efficaci meccanismi di controllo e governo a livello organizzativo; ® adeguamento alle migliori best practices internazionali e adozione di regole di governance che incentivino sempre di più l’uso di amministratori indipendenti; ® inserimento di specifiche norme sui conflitti di interesse nelle normative antitrust, di vigilanza e sull’insider trading. Nella realtà, la combinazione banca universale-struttura multidivisionale non è affatto ricorrente. Tale circostanza, infatti, risulta limitata a causa di diversi fattori: - limiti posti all’universalità dalle norme di vigilanza, nonché dalle “riserve di legge” previste per lo svolgimento di alcune attività; - anche in assenza di restrizioni normative, una banca universale può propendere per una gestione mediante società controllate di servizi finanziari, che pure potrebbero essere realizzati internamente. Tipicamente ciò avviene quando si intende salvaguardare il marchio prestigioso di una società acquisita in un certo segmento di mercato. Questi fattori influenzano in modo decisivo le scelte di assetto organizzativo e portano spesso a delle vere e proprie esternalizzazioni, ossia nel mantenimento di alcune società specializzate come se fossero delle “divisioni esterne” all’intermediario. Il modello della banca universale, quindi, risulta del tutto snaturato e si configura un organismo che richiama la forma del gruppo e del conglomerato finanziario. Questa tendenza è facilmente osservabile nell’esperienza tedesca, in cui molte banche sulla carta universali mettono in atto vere e proprie strategie di focalizzazione, evitando di operare in talune aree di business. Anche le poche banche che offrono una gamma completa di prodotti e servizi finanziari sono solite operare in via indiretta, attraverso delle società specializzate. Un’altra caratteristica peculiare della banca universale riguarda il rapporto che può instaurare con le imprese non finanziarie (a cui concede credito) in virtù di due profili: 1. diversificazione dell’offerta della banca: permette di ridurre le asimmetrie informative e di monitorare in modo più agevole il rapporto, determinando un maggiore grado di efficienza allocativa; 2. possibilità di assumere partecipazioni, spesso anche solo di minoranza con la finalità di diventare azionista e un polo di offerta globale di servizi alle unità corporate ritenute più interessanti. Si viene così a configurare un ulteriore modello, quello della banca mista, che tende alla banca universale ma comunque si differenzia da essa. L’elemento discriminante tra i due modelli è dato dal differente orientamento nei confronti della separatezza tra banca e impresa. Nella banca mista si rinviene ad una pronunciata commistione tra gestione bancaria e gestione d’impresa (e a partecipazioni di rilievo nell’impresa da parte della banca), da cui deriva una concentrazione dei rischi e dei finanziamenti accordati particolarmente accentuata (che non di rado ha portato a fenomeni di patologia). Nella banca universale, invece, l’orientamento in termini di commistione gestionale tra banca e impresa risulta molto attenuato, le partecipazioni sono funzionali all’ampliamento dei servizi offerti alla clientela corporate e al consolidamento di relazioni preferenziali con essa. La banca mista può assumere partecipazioni anche di controllo in un’impresa; questo diventa un problema quando l’impresa va in crisi profonda e rischia di saltare (è quello che è successo con la crisi di fine anni ’30: la crisi di molte imprese si è portata dietro la crisi di molte banche, “salvate” mediante la costituzione dell’IRI). La banca universale potrebbe essere mista (= assumere partecipazioni di controllo), ma [come accennato sopra] potrebbe anche semplicemente assumere partecipazioni di minoranza per ridurre delle asimmetrie informative e perseguire una migliore gestione dei rischi. Il gruppo bancario Il modello del gruppo bancario rende possibile l’offerta di un ventaglio ampio e differenziato di prodotti e servizi, raggiungendo praticamente tutti i target di clientela e fronteggiando le crescenti spinte concorrenziali, pur preservando l’autonomia di ciascuna società del gruppo ed enfatizzandone la specializzazione, le peculiari professionalità e i rapporti di clientela esistenti. Esso viene scelto in alternativa al modello della banca universale principalmente per aggirare restrizioni normative (produzione di assicurazioni, attività di merchant banking…). Inoltre, l’acquisizione di società già operanti consente di inserirsi in modo più rapido ed efficace in segmenti di mercato non presidiati e di evitare di dover affrontare aspetti problematici connessi ai rischi di avviamento e alle asimmetrie informative esistenti. Il gruppo bancario è definito come sistema di società specializzate in determinati servizi finanziari, governate da una capogruppo, che esercita anche funzioni di pianificazione strategica tra tutte le società del gruppo. La capogruppo assume partecipazioni in altre banche, in una società di leasing in una società di factoring, in una SIM, in una società di gestione fondi… Tramite questa rete di partecipazioni in società specializzate (ognuna fa solo un certo tipo di attività) il gruppo riesce a costituire un polo di offerta ampio e diversificato di servizi finanziari. Attenzione: la capogruppo non è solo il soggetto che partecipa, ma ha anche l’importante ruolo di coordinare e governare ciascuna delle società appartenenti al gruppo. La holding può essere pura (solo attività di controllo e governance/gestione strategica del gruppo, no attività operativa) o mista; in quest’ultimo caso, controlla e governa, ma allo stesso tempo svolge lei stessa attività bancaria. Una capogruppo pura tende a favorire il perseguimento di un sostanziale equilibrio tra le società controllate, in quanto risulta essere neutrale rispetto agli interessi che queste esprimono, con il rischio però di riscontrare delle difficoltà nel governare le interdipendenze tra le società stesse, che potrebbero essere obbligate a instaurare delle relazioni orizzontali tra loro, non sempre agevoli e funzionali. La holding mista, invece, è presente laddove il gruppo derivi dall’espansione di un particolare intermediario bancario. Di conseguenza, non si attua una separazione vera e propria tra gestione operativa e gestione strategica, che non sempre può essere realizzata con competenze e risorse dedicate e distintive. Possono esistere anche delle subholding, ossia società finanziarie alle quali vengono imputate partecipazioni in società controllate appartenenti a raggruppamenti omogenei (non sempre presenti), aiutando la capogruppo a controllare e governare le società specializzate appartenenti al gruppo (ad es. subholding che coordina il credito al consumo, il leasing…). La presenza di diverse subholding può permettere la configurazione di vere e proprie divisioni contrassegnate da specifiche combinazioni di mercati/prodotti/clienti. Le motivazioni che portano alla necessità di avvalersi di tali strutture sono legate alla difficoltà, per la capogruppo, di gestire e controllare un numero consistente (e, tendenzialmente, in continua crescita) di partecipazioni, compiti che quindi vengono delegati alla/e subholding. Per passare dal modello del gruppo bancario a quello della banca universale, le partecipazioni nelle società specializzate devono essere tutte totalitarie (100%) e le società stesse devono essere internalizzate. I vantaggi associati a tale modello non sono semplici da individuare poiché dipendono prevalentemente dalla “situazione di partenza” in cui si trova l’intermediario che decide di formare un gruppo, tanto da essere specifici di ciascun caso analizzato (difficilmente si riscontrano gli stessi benefici con analoga evidenza e continuità in tutte le conformazioni di gruppo). In linea generale, tuttavia, il modello del gruppo bancario consente di abbinare un unico disegno strategico e imprenditoriale (ideato dalla capogruppo) alle economie di diversificazione e, soprattutto, di specializzazione che scaturiscono dagli elevati livelli di specializzazione [tecnica] che contraddistinguono i processi produttivi delle diverse società. Questo è il modello adottato in prevalenza dalle banche italiane (a partire dagli anni ‘90) per realizzare la diversificazione produttiva. Comunque, l’ottenimento di vantaggi grazie alle economie di specializzazione e diversificazione è dovuto per lo più alle modalità con cui viene attuato il coordinamento tra le diverse componenti del gruppo. Inoltre, non è assolutamente certo che tale modello possa in ogni caso consentire di isolare la banca da rischi insiti nelle diverse attività esercitate, anche non tradizionali. Il gruppo può nascere anche da operazioni di M&A (merger à banca universale; acquisition à gruppo) e bisogna tener conto della presenza di società che non possono essere internalizzate, devono restare separate (riserva di legge). In questo modello, fondamentale è il ruolo della capogruppo, che deve garantire un disegno strategico unitario, integrato e che persegua le sinergie e le interrelazioni tra le diverse attività. È necessaria una stringente e continua capacità di coordinamento, pianificazione e controllo da parte della capogruppo, pena una significativa perdita di efficienza ed efficacia organizzativa (e, di conseguenza, operativa). Inoltre, la capogruppo ha l’importantissimo e difficilissimo ruolo di instaurare con le controllate rapporti che evitino il manifestarsi di ostruzionismi e spinte centrifughe ma, nel contempo, consentano loro di sfruttare snellezza e dinamicità al fine di adeguarsi ai continui cambiamenti dell’ambiente esterno. Si rivelano dunque particolarmente strategici gli assetti di governance, la natura della capogruppo e la scelta delle modalità di integrazione tra le varie componenti del gruppo. Le principali configurazioni “pure” di gruppo bancario sono riconducibili a: Þ modello funzionale - ridotta complessità gestionale e ambientale; - elevata autonomia per controllate à contenuta attività di coordinamento della capogruppo; - contenimento costi di struttura e di coordinamento (no controllo stringente); pregiudizio per l’efficiente funzionamento dei mercati ed apprezzabile riduzione del livello di concorrenzialità. Le banche specializzate È il modello numericamente più diffuso in Italia. La Banca Specializzata può teoricamente essere un polo di offerta completa sulla base delle indicazioni del TUB, ma si specializza su prodotti/servizi specifici, canali distributivi, clientela, zona geografica [non necessariamente in maniera congiunta]. La specializzazione, quindi, è oggi una pura SCELTA strategica dei vertici della banca [tranne c.d. specializzazione ope legis, es. riserva di attività]. Le banche specializzate spesso nascono da processi di trasformazione di società finanziarie di vario genere (soprattutto di gestione dei patrimoni mobiliari, credito al consumo, leasing, ecc) in banca per motivi di ampliamento e diversificazione del business. Le banche che nascono da questi processi di trasformazione sono banche redditizie, con una clientela e un business preesistente che viene ampliato; questo evidentemente è un fenomeno diverso dalla nascita di nuove banche, tipicamente con finalità di copertura di una certa area geografica. Le nuove banche (a differenza delle società finanziarie che si trasformano) in genere dopo 4/5 anni dalla nascita non esistono più o non sono più autonome, perché non hanno una preesistente clientela (ma solo quella residuale, che le altre banche non vogliono/non affidano). I sistemi a rete (network) sono forme di strategie collaborative attorno ad un organismo centrale che ricerca sinergie tra gli aderenti e benefici comuni. Costituiscono tipici progetti comuni in campo informatico, sistema dei pagamenti, formazione ecc; è il caso delle BCC e del Gruppo bancario cooperativo. Sono soggetti che non hanno un’integrazione degli assetti proprietari (non sono realtà partecipate, altrimenti sarebbero la replica del modello del gruppo bancario). Aderendo a un network, le banche possono sfruttare i vantaggi dati dall’unione di risorse umane e finanziarie, andando ad alimentare progetti che non riuscirebbero a portare avanti autonomamente per via della loro ridotta dimensione. Se una banca piccola viene comprata da una di dimensioni maggiori (tipo Intesa) il network a cui apparteneva diventa inutile, può usare i canali della banca che l’ha acquistata; in altre parole, la concentrazione attenua gli elementi di omogeneità che costituiscono il prerequisito per la costituzione di un network. La specializzazione può essere operativa, e cioè intesa come uno specifico orientamento da parte di un intermediario in termini di: - segmento di clientela: es. persone fisiche o imprese; - prodotto: titoli e risparmio gestito o credito; - area geografica: mercati locali circoscritti o mercati nazionali; - canale distributivo utilizzato. Le scelte possono discendere dalla precedente normativa che disciplinava gli intermediari in maniera più specifica (specializzazione ope legis): le banche operavano nel breve termine, per il medio e lungo erano presenti gli intermediari specializzati. Naturalmente la specializzazione può anche derivare da scelte puramente strategiche, volte a sfruttare competenze tecniche di eccellenza per conseguire un vantaggio competitivo o difendere la propria posizione all’interno del sistema bancario. Si possono anche individuare delle tipologie di banche che propendono “naturalmente” per strategie di focalizzazione (“nuove banche”): q società finanziarie che si trasformano in banche: si trasformano per cogliere i benefici in termini di immagine e di istituzionalità, ma anche per l’eventuale opportunità di ricorso al credito di ultima istanza, l’approvvigionamento di risorse finanziarie, la possibilità di accedere al mercato interbancario… Attuano dunque una specializzazione produttiva come segnale di differenziazione in grado di distinguerle dagli altri competitor; q banche neocostituite: tendono a prediligere una specializzazione geografica, concentrando la propria operatività in un’area circoscritta in cui cercano di soddisfare le esigenze finanziarie di base della clientela. L’altra categoria di intermediari che sovente fanno ricorso al modello della banca specializzata è identificabile nelle banche di piccola dimensione aventi uno spiccato spirito localistico, per le quali non appare funzionale ed economicamente sostenibile adottare un modello organizzativo complesso. Comunque, la scelta di specializzazione non è definitiva e immutabile nel tempo, ma può mutare in reazione a cambiamenti interni ovvero di natura strutturale e congiunturale. L’intensificarsi della concorrenza ha indebolito significativamente i vantaggi competitivi delle banche locali, spesso acquisite da gruppi creditizi o fuse con banche universali. Una modalità con la quale tali banche possono cercare di difendere la propria posizione competitiva è data dai sistemi a rete, ossia serie di accordi e relazioni tra intermediari bancari, organizzati a sistema attorno a un organismo centrale, che consente loro di migliorare la propria funzione produttiva e distributiva, creando sinergie che permettono di conseguire benefici difficilmente ottenibili mediante uno sviluppo autonomo (superando i propri limiti dimensionali ed economici). Perché un network di questo tipo funzioni, evidentemente le banche devono essere tutte di dimensioni contenute e distribuite in aree geografiche differenti e complementari. Un tipico progetto che viene sviluppato nell’ambito dei sistemi a rete riguarda la pianificazione e realizzazione dell’architettura informatica. Il modello organizzativo dei sistemi a rete ha trovato l’espressione più significativa a seguito dell’entrata in vigore della legge di riforma del credito cooperativo italiano, che ne ha modificato l’assetto organizzativo per meglio realizzare l’integrazione tra le banche che lo compongono. Questa riforma conferma una serie di specificità delle BCC: a) le banche locali che fanno parte del sistema a rete mantengono la loro licenza bancaria e la propria autonomia gestionale e operativa, preservando la propria identità locale; b) l’erogazione del credito avviene in larga prevalenza ai soci e nelle aree di operatività e almeno il 70% degli utili viene destinato a riserva indivisibile. Il gruppo bancario cooperativo, inoltre, deve essere composto da: - una capogruppo, costituita in forma di società per azioni autorizzata all’esercizio dell’attività bancaria il cui capitale è detenuto in misura maggioritaria dalle BCC appartenenti al gruppo. Esercita una continua attività di direzione e coordinamento (con l’obiettivo di sostenere la capacità di servizio della BCC a soci e clienti; sviluppo di territori; capacità di generare reddito; garantire la stabilità, liquidità e conformità alle regole dell’Unione Bancaria Europea) e deve avere un PN di almeno €1miliardo; - le BCC che aderiscono al contratto e hanno adottato le connesse clausole statutarie; - le società bancarie, finanziarie e strumentali controllate dalla capogruppo; - eventuali sottogruppi territoriali facenti capo a una banca (S.p.A.) sottoposta a direzione e coordinamento della capogruppo. La multicanalità delle banche comprende filiali, ATMs, reti di promotori, internet banking e mobile banking (APP), filiali “light”... Sta crollando tuttavia il numero degli sportelli bancari, oggi il piano strategico di una banca è ritenuto tanto migliore quanti più sono gli sportelli che vengono chiusi (non aperti). Questa tendenza va di pari passo con l’aumento dell’orientamento alla tecnologia, e in particolare al Fintech (financial technology, in sostanza l’applicazione della tecnologia alla fornitura di servizi bancari e finanziari). Quello del Fintech è un fenomeno pervasivo che coinvolge un elevatissimo numero di attori: Questi attori spesso si trovano a competere tra loro sul medesimo campo di gioco, ma è anche frequente osservare forme di collaborazione che portano alla nascita di startup e nuove realtà innovative. Questa evoluzione, di grande portata, è coerente con l’acquisizione, da parte della clientela, di una maggiore capacità e confidenza nell’uso quotidiano di supporti digitali. Anche le autorità di vigilanza italiane ed europee stanno manifestando una crescente attenzione allo sviluppo e alla disciplina di tali fenomeni. Il Fintech non solo compete con le banche internazionali, ma si integra anche ad esse (attenzione al potenziale segmento di mercato occupato dalle aziende Big Tech che sempre di più possono coinvolgere le nuove generazioni fornendo servizi finanziari). Gli ambiti operativi maggiormente impattati dall’affermarsi del fintech sono: § il sistema dei pagamenti e gli strumenti in esso inseriti; § il settore dei prestiti commerciali e al consumo; § la consulenza finanziaria (robo-advisory); § l’attività assicurativa. (wholesale: gli operatori di grandi dimensioni sono potenzialmente in grado di assicurare un monitoring efficace, disponendo delle necessarie competenze e professionalità), ma anche dagli stessi risparmiatori (retail: più che altro, loro hanno un’importante capacità di azione, con riferimento alle passività che detengono). Tuttavia, la scarsa trasparenza informativa dovuta alla natura privata degli intermediari potrebbe rendere inutili tentativi di questo tipo. Risulta più efficace, dunque, lasciare che intervengano soggetti esterni di matrice pubblica (organismi, comitati, BC…) per agevolare la raccolta di dati e informazioni, contenere il costo (economico, ma anche sociale) della crisi finanziaria di una banca, sempre tutelando l’interesse collettivo. Nonostante la stringente regolamentazione e vigilanza, si è detto che dissesti episodici e crisi sistemiche possono comunque manifestarsi, per cui è sempre necessario costituire una rete di protezione (safety net) che consenta di gestire adeguatamente la crisi, mitigando i costi e le esternalità negative legate al dissesto degli intermediari, ma anche evitando che un eventuale malfunzionamento dei mercati possa compromettere l’operatività dei soggetti finanziari. Il safety net si compone di: 1. prestatore di ultima istanza (lender of last resort), gestito dalla banca centrale (BCE): è un’attività svolta dalla BC attraverso le operazioni che la collegano ai sistemi bancari (mercato aperto, rifinanziamento marginale). La BC, infatti, interviene costantemente nei mercati monetari con operazioni (di mercato aperto) che ne regolano la liquidità aggregata. Gli interventi della BC possono diventare prestiti di ultima istanza in situazioni eccezionali: offre liquidità al sistema per volumi elevatissimi, talvolta addirittura illimitati, per far fronte a degli shock di liquidità, assorbendoli e garantendo il graduale ristabilirsi di condizioni di normale operatività del mercato monetario. Si parla di interventi in qualità di prestatore di ultima istanza in senso stretto, invece, quando la BC fornisce liquidità a singoli operatori/gruppi che non sono. In grado di coprire i propri fabbisogni finanziari ricorrendo ad altre fonti. In ogni caso, le attività di rifinanziamento sono garantite da attività stanziabili e concesse a tassi di interesse penalizzanti. La funzione di prestatore di ultima istanza genera peraltro delle importanti criticità, tra cui la difficoltà di distinguere tra intermediari illiquidi e insolventi [riservati alle azioni di salvataggio]. La seconda criticità riguarda l’opportunità di concentrare in un’unica autorità le competenze monetarie e di vigilanza, che garantirebbe una migliore trasmissione e gestione delle informazioni; 2. schema di assicurazione dei depositi (differenze a livello territoriale, ma ora si tende a regole uniformi a livello UE): è un fondo, serve a fare in modo che i depositanti di una banca che salta non subiscano contraccolpi negativi. In un primo momento si copre la differenza tra valore delle attività e valore delle passività della banca fallita (P > A), evitando la corsa agli sportelli e il contagio a livello sistemico della crisi. Sotto il profilo istituzionale, gli schemi di garanzia hanno spesso natura di fondo consortile, di matrice pubblica o semi-pubblica, ad adesione obbligatoria. Le risorse vengono accantonate dagli stessi intermediari in periodi particolarmente redditizi, in funzione (crescente) del profilo di rischio di ciascun intermediario. Si deve comunque ricordare che schemi di questo tipo sono strutturati per risolvere insolvenze di singole banche (crisi episodiche e non sistemiche). Inoltre, esistono degli intermediari “troppo grossi per fallire”, perché coinvolgerebbero una molteplicità di interessi in vari settori tale che la propagazione della crisi potrebbe portare a conseguenze gravissime. Esistono anche intermediari “troppo grossi per essere salvati”, ossia di tali dimensioni da rendere insufficiente l’intervento di primo livello del fondo. Si può pensare, quindi, a degli interventi di secondo livello, attivando delle garanzie pubbliche, ma sono operazioni particolarmente onerose anche dal punto di vista sociale. Quali sono delle possibili soluzioni? – sinergia con la regolamentazione prudenziale (riduzione del grado di rischio); – limitazioni della copertura (natura del depositante, limiti di ammontare, tipologia passività, ecc.) – “correzione” del contributo in funzione del grado di rischio effettivo. Per sostenere eventuali necessità di attivare garanzie pubbliche senza innescare crisi del debito sovrano negli Stati coinvolti, l’UE e i paesi dell’Eurozona hanno deciso schemi di intervento finanziario a supporto dei paesi in potenziale difficoltà organizzati in forma di fondi sovranazionali, costituiti con il contributo degli Stati finanziariamente più solidi (à Meccanismo Europeo di Stabilità = MES). Va inoltre considerato che la copertura assicurativa potrebbe portare i manager bancari a comportamenti opportunistici ovvero di moral hazard (in particolare, se è assicurata la copertura integrale dei depositi la banca potrebbe aumentare il profilo di rischio del proprio attivo per cogliere opportunità di profitto elevate, traslando in capo al soggetto assicuratore il costo di eventuali risultati negativi). Questo problema viene arginato coordinando strettamente l’organizzazione degli schemi assicurativi con la regolamentazione prudenziale [capitale minimo in base al rischio], introducendo limitazioni all’estensione della copertura assicurativa e correggendo le contribuzioni in funzione del rischio. Quella del safety net è una prerogativa “esclusiva” delle banche, ossia non copre l’operatività dei mercati finanziari e delle relative infrastrutture. Tuttavia, il problema è dato dalla molteplicità delle autorità, il che comporta la necessità di un adeguato grado di coordinamento, pena lo scorretto intervento nella gestione delle situazioni di crisi. L’architettura del safety net è strettamente legata alle modalità di risoluzione delle crisi che possono essere decise dalle autorità di vigilanza sulla base degli strumenti e delle operazioni regolamentari disponibili. Come riportato sopra, la vigilanza non deve essere assoluta, ma adeguata; infatti, risulta particolarmente delicato e difficile decidere il livello di dettaglio e di pervasività, oltre ai costi sociali che necessariamente ne derivano, che la norma deve avere per raggiungere efficacemente gli obiettivi che si prefigge. Una normativa troppo stringente ridurrebbe sensibilmente l’iniziativa imprenditoriale degli operatori, abbassando in maniera eccessiva il livello di concorrenza all’interno del sistema. I principali obiettivi della regolamentazione, che devono essere sempre perseguiti tanto a livello microeconomico [singolo operatore] quanto a livello macroeconomico [sistema finanziario], sono tre (essenziali): 1. stabilità (a livello micro e macro): la regolamentazione è volta ad assicurare condizioni di liquidità e solvibilità attraverso la definizione di vincoli all’assunzione dei rischi. In ottica macroeconomica, la stabilità è perseguita predisponendo meccanismi di prevenzione idonei a fronteggiare situazioni di crisi che potrebbero manifestarsi, capaci di assorbire le difficoltà dei singoli intermediari ed evitare che la crisi si propaghi all’intero sistema; 2. efficienza: allocativa e tecnico operativa. Con la prima si intende la capacità degli intermediari di finanziare iniziative imprenditoriali e progetti d’investimento con rendimenti attesi più elevati, al netto del grado di rischio complessivo; la seconda, invece, è connessa alla capacità gestionale di offrire i propri prodotti e servizi al minor costo possibile, o comunque di massimizzare il livello di produzione a parità di costo; ☞ attenzione!! esiste un trade off tra stabilità ed efficienza (nel breve periodo, in relazione al fatto che la concorrenza favorisca l’efficienza ma aumenti l’instabilità a livello di sistema). Nel m/l questa contrapposizione viene meno, lasciando spazio ad una complementarità: la maggiore efficienza aumenta la capacità competitiva degli intermediari, rendendoli pronti ad affrontare i continui cambiamenti ambientali 3. trasparenza delle informazioni e correttezza nel comportamento degli operatori ≅ equità nella distribuzione delle risorse (informazione ≅ risorsa à corretta ripartizione tra i contraenti). In ottica macroeconomica, la trasparenza è esplicativa dell’efficienza informativa (). Da un punto di vista microeconomico, invece, essa si distingue dalla correttezza comportamentale: la trasparenza riguarda la messa a disposizione di informazioni compiute e comprensibili nelle relazioni contrattuali con i clienti, ma anche nella trasmissione di dati al mercato; la correttezza riguarda il rispetto di tutte quelle regole comportamentali che gli intermediari devono rispettare per assicurare il perseguimento degli interessi degli investitori e dell’integrità del mercato. L’attività di regolamentazione può essere articolata in diversi modi: Ø modello accentrato (single regulator): a un’unica autorità è attribuito il compito di regolamentare e vigilare tutti i comparti del sistema finanziario. Tra i pregi di questo modello vi sono la riduzione dei costi di vigilanza in capo all’autorità e agli operatori grazie a economie di scala e di scopo, la possibilità di fruire di una visione unitaria dell’intermediario osservato, la maggiore chiarezza nell’individuazione delle responsabilità di controllo. I principali rischi riguardano l’eccessiva complessità dei modelli organizzativi (ampia burocratizzazione) e le situazioni di potenziale conflitto di interessi tra le diverse finalità da perseguire; Ø modello decentrato: prevede la presenza di più autorità, la cui suddivisione di competenze può essere operata sulla base della tipologia degli intermediari, delle attività da questi esercitate oppure degli obiettivi perseguiti dalle singole autorità: q vigilanza istituzionale (per soggetti): prevede la presenza di un’autorità per ciascuna categoria di operatore finanziario (3+1: intermediari bancari, mercati finanziari, assicurazioni + antitrust per la concorrenza). L’efficacia di tale vigilanza si scontra però con il venir meno della cosiddetta riserva di attività, al giorno d’oggi gli intermediari esercitano congiuntamente più attività di intermediazione finanziaria. Ciò può dar luogo all’applicazione di regole non uniformi per operazioni che presentano la stessa natura ma vengono svolte da soggetti differenti, determinando fenomeni di c.d. arbitraggio regolamentare. Inoltre, potrebbe verificarsi il fenomeno della “cattura del regolatore”, ossia di veri e propri accordi collusivi tra l’autorità di vigilanza e intermediari di grandi dimensioni che rappresentino una significativa quota di mercato. q vigilanza per attività: a ciascuna attività di intermediazione corrisponde un’autorità regolamentare e di controllo. Anche qui vengono a crearsi diverse criticità, legate soprattutto alla sovrapposizione di più organismi regolamentari sul medesimo soggetto (no visione unitaria), ma anche alla duplicazione dei controlli (aumento dei costi per gli operatori vigilati) e al fatto che siano gli intermediari a fallire, non le attività. q vigilanza per finalità: ogni autorità ha un preciso obiettivo (stabilità, efficienza, trasparenza, concorrenza) e l’attività normativa e di controllo viene perseguita in maniera trasversale su tutti gli operatori. Questo orientamento è in grado di assicurare omogeneità regolamentare ed efficacia nei controlli, ma non è scevro da limiti: duplicazione dei controlli, ma anche duplicazione regolamentare per mancata chiara definizione delle rispettive competenze. q vigilanza per funzioni: non ha trovato applicazione nella realtà per le difficoltà oggettive in esso implicite. Essa parte dal presupposto che al sistema finanziario siano attribuite alcune funzioni economiche (produzione di moneta, riduzione asimmetrie informative…) meno suscettibili di modifiche rispetto a quanto accade per gli operatori e le autorità regolamentari medesime, in termini di struttura e competenze. Dovrebbero essere quindi le funzioni il focus dell’attività di regolamentazione e vigilanza, in virtù della loro sostanziale “stabilità” nel tempo. Ciò è molto difficile da tradurre concretamente e molto spesso la vigilanza funzionale ha finito per coincidere con quella per attività. Non esiste un modello ottimale di vigilanza, ma solo soluzioni che di volta in volta vengono giudicate ottimali in relazione alla struttura e all’operatività del sistema finanziario. Essa si compone di tre pilastri: Questi tre pilastri sono proprio orientati alla definizione di regole comuni che scoraggino comportamenti opportunistici. Il problema dell’introduzione di un Single Supervisory Manual sta nel fatto che esso debba essere accettato e riconosciuto da tutti i paesi appartenenti all’Unione. Il Meccanismo Unico di Vigilanza, attuato da BCE, autorità nazionali di controllo (BCN) e EBA; esso assegna alla BCE la vigilanza dei gruppi bancari più significativi (Significant Institutions SI), ossia quelli con totale Attivo ≥ 30 miliardi di euro oppure pari ad almeno il 20% Pil nazionale, lasciando le altre banche alla vigilanza delle ANC. In ogni caso, “controlla” i primi tre gruppi (Q3) di ciascuno stato aderente al Meccanismo di Vigilanza Unico. I compiti di vigilanza di tale meccanismo riguardano: – autorizzazione e revoca all’esercizio dell’attività bancaria; – assunzione di partecipazioni nelle banche; – processo di revisione e valutazione prudenziale – SREP (si valutano i business model, la governance e gestione del rischio, la capital adequacy, il rischio di liquidità e di provvista…); – valutazione dell’idoneità dei membri degli organi di gestione; – ispezioni in loco (vigilanza ispettiva sopra); – gestione delle crisi di banche. Esistono anche delle banche meno significative (Less Significant Institutions), della cui vigilanza come riportato sopra si occupano direttamente le Autorità Nazionali di Controllo (in Italia la Banca d’Italia). Per le banche meno significative, la BCE effettua una vigilanza indiretta (diretta per le SI), pur avendo sempre il diritto di avocare a sé il controllo diretto anche su questi intermediari qualora ciò si renda necessario. L’EBA è responsabile della definizione del Single Supervisory Rulebook (assicurando regole prudenziali uniformi, comuni attraverso lo strumento degli standard tecnici comuni), mentre la BCE si occupa di ogni tipo di intervento di vigilanza macroprudenziale, anche degli stress test a cui vengono sottoposte le banche per valutare la «resilienza» del sistema bancario e il rischio sistemico del sistema finanziario dell’UE. La vigilanza day by day, invece, spetta ai gruppi di vigilanza comuni; le ANC continuano ad essere responsabili per la protezione dei consumatori, la normativa antiriciclaggio, la vigilanza sui servizi di pagamento, i controlli sulle banche extra UE… Per l’EIOPA – ESMA, invece, è previsto il mantenimento delle funzioni che hanno sin dalla loro nascita (vedi sopra). Per garantire un efficace funzionamento del SSM, è stato predisposto un Manuale Unico di Vigilanza (SS Manual) in cui vengono descritti i processi e le procedure di supervisione da seguire. Gli altri due pilastri dell’Unione Bancaria Europea sono: § Meccanismo Unico di Risoluzione (SRM): prevede la creazione di un fondo (presumibilmente di 55 miliardi di euro) alimentato dai contributi delle singole banche, che sarà a regime entro il 2022 dapprima nella forma di comparti nazionali, a seguire in un fondo unico. L’obiettivo è quello di raccogliere risorse a cui si possa attingere in caso di crisi per attenuarne gli effetti e i contraccolpi sui cittadini del paese colpito. Su di esso intervengono diversi provvedimenti normativi (BRRD; CRD IV; CRR), con gli obiettivi di evitare interventi di salvataggio degli enti creditizi con il denaro dei contribuenti e di prevenire l’insolvenza e ridurne gli impatti sistemici. L’organo con maggior potere decisionale è il Comitato di risoluzione unico (SRB), che assume le decisioni in merito ai piani di risoluzione e all’avvio della risoluzione; l’attuazione concreta delle misure è lasciata alla responsabilità delle autorità nazionali di risoluzione. Il SRB è anche responsabile delle fasi di pianificazione (oltre che risoluzione) delle banche transfrontaliere e delle banche significative, oltre che di ogni altro intermediario qualora per la risoluzione si debba ricorrere al fondo. Gli interventi sono distinti a seconda che ci si riferisca al risanamento di una banca in difficoltà (recovery) ovvero alla risoluzione di una situazione di crisi (resolution). In particolare: a) i piani di risanamento cercano di stabilizzare le condizioni di una banca in crisi per riportarla in condizioni di ordinato funzionamento; hanno natura in buona parte preventiva (di conseguenze peggiori che possano portare ad un punto di non ritorno); b) i piani di risoluzione si attuano successivamente a una situazione di crisi che ormai è conclamata, è difficile se non impossibile tornare indietro (banca ormai dissestata). Gli strumenti a disposizione, utilizzabili in via coattiva (non è necessario il consenso né degli azionisti né dei creditori/depositanti), sono diversi e comprendono la vendita dell’attività d’impresa (attività, diritti, passività, ma anche azioni o altri titoli di proprietà), ma anche l’ottenimento di finanziamenti ponte erogati tipicamente da altre banche (bridge bank): può essere cessionario di azioni o altri titoli di proprietà, attività, diritti, passività (in mancanza di soluzioni di mercato). Altri possibili interventi sono riconducibili alla separazione delle attività (es. cessione a bad bank, che porta al suo interno attivi di cattiva qualità, ma specializzata nel selezionarne le parti intatte che possono essere rivendute sul mercato) oppure alla svalutazione o conversione in capitale delle passività (bail in). Quest’ultimo in particolare prevede la partecipazione alle perdite da parte dei creditori (anche depositanti e obbligazionisti), attraverso la conversione delle passività in azioni della “nuova” banca; esistono passività ammissibili e passività escluse da questa procedura: § Disciplina armonizzata per i sistemi di garanzia dei depositi (Deposit Guarantee Schemes DGS), attualmente in fase di “lavorazione” a causa del “problema” del debito sovrano di alcuni paesi membri (tra cui l’Italia). L’obiettivo è l’armonizzazione massima del funzionamento dei sistemi di garanzia nazionali con riferimento ai livelli di protezione e alle modalità di intervento. La nuova direttiva ha confermato il livello minimo di copertura garantita per un importo pari a 100mila euro per depositante, ridotto il termine del rimborso a sette giorni lavorativi (da adottarsi entro il 2024) e semplificato le modalità di accesso al rimborso. È anche stato rafforzato il profilo dell’informativa al pubblico. Per assicurare la pronta disponibilità delle risorse è stato previsto un meccanismo di finanziamento obbligatorio ex ante per i fondi di garanza dei depositi (in forma di contributi da parte delle banche in maniera progressiva, entro il 2024). La vigilanza Una prima distinzione da effettuare è quella tra normativa primaria e normativa secondaria. La prima include: • Testo Unico Bancario TUB d.lgs. 385/1993): regolamenta l’attività di intermediazione svolta da banche e altri intermediari finanziari; • Testo Unico della Finanza TUF d.lgs. 58/1998): detta disposizioni in materia di attività di intermediazione mobiliare, prestazione dei servizi di investimento e funzionamento dei mercati mobiliari; • il Codice delle Assicurazioni Private (d.lgs. 209/2005): disciplina l’attività assicurativa sia nel ramo vita sia nel ramo danni; • la normativa in materia di forme pensionistiche complementari, contenuta nel d.lgs. 252/2005, che regolamenta i fondi pensione. Sono tutti soggetti a modifiche, integrazioni e cancellazioni continue anche dovute al ruolo della BCE (da novembre 2014) e delle istituzioni europee (direttive e regolamenti). Della regolamentazione e della vigilanza in Italia si occupano organi politici (Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio (CICR), Ministero per l’Economia e le Finanze (MEF)), che svolgono così una funzione di raccordo con gli organi legislativi, e organi tecnici (Banca d’Italia/BCE, Consob, AGCM + Ivass e Covip). In particolare, il CICR si occupa dell’alta vigilanza in materia di credito e di tutela del risparmio, deliberando (su proposta della Banca d’Italia) principi e criteri per l’esercizio della vigilanza. Le guidelines dell’attività di vigilanza riguardano la rapidità dell’innovazione finanziaria e le modifiche continue nella regolamentazione (ma senza appesantire l’operatività degli intermediari), oltre alla ricerca della better regulation: – coinvolgimento dei destinatari (consultazione preventiva); – armonizzazione a livello internazionale (best practices) ed esigenze di collaborazione e coordinamento sempre più ampie; – disciplina per principi piuttosto che per regole dettagliate; – regolamentazione e controlli interni. Le norme di vigilanza e regolamentazione riguardano le banche, che esercitano in esclusiva l’attività bancaria (art. 10 TUB: “1. La raccolta di risparmio tra il pubblico e l'esercizio del credito costituisce l'attività bancaria. Essa ha carattere d'impresa. 2. L'esercizio dell'attività bancaria è riservato alle banche. 3. Le banche esercitano, oltre all'attività bancaria, ogni altra attività finanziaria, secondo la disciplina propria di ciascuna, nonché attività connesse o strumentali. Sono salve le riserve di attività previste dalla legge”), e gli intermediari finanziari diversi dalle banche (art. 106 TUB) che si occupano di concessione di finanziamenti al pubblico, emissione di moneta elettronica e prestazione di servizi di pagamento, prestazione di servizi di investimento e altre attività (connesse o strumentali). dalla banca. La frequenza e l’intensità dello SREP, inoltre, tengono conto della rilevanza sistemica, delle caratteristiche e del grado di problematicità delle banche. Il patrimonio di vigilanza (= fondi propri) costituisce la variabile chiave di tutta la normativa prudenziale; esso deve essere predisposto a fronte dei rischi che una banca intende assumersi. Esso è dato dalla somma algebrica di alcune voci positive e negative ed è suscettibile di essere suddiviso in grandezze (voci/sotto voci) che lo compongono, molto importanti. Un adeguato livello di patrimonializzazione permette alla banca di svolgere le proprie attività con ampi margini di autonomia, pur conservando la necessaria stabilità. Il rafforzamento patrimoniale viene perseguito sia mediante l’innalzamento della qualità dei fondi propri (ricomposizione del capitale a favore di azioni ordinarie e riserve di utili) sia con la fissazione di livelli minimi più elevati per il capitale di migliore qualità e il mantenimento di riserve di capitale in eccesso. Le macro voci che compongono il patrimonio di vigilanza (patrimonio totale o Total Capital TC) sono: – patrimonio di base o Tier 1: ricomprende le voci patrimoniali più tipiche. È dato dalla somma di Common Equity Tier 1 (CET1: è quello più “genuino”, autentico con riferimento alle voci patrimoniali che lo compongono: capitale sociale, azioni ordinarie, sovrapprezzo azioni, riserve di utili, altre riserve palesi) e Tier 1 aggiuntivo (strumenti finanziari subordinati a tutto, no garanzie, no data di scadenza, no clausole di rimborso anticipato, discrezionalità in materia di dividendi). – patrimonio supplementare o Tier 2: comprende voci meno tipicamente patrimoniali, spesso si parla di Near Capital (strumenti finanziari con requisiti specifici; alcuni accantonamenti per perdite su crediti). [per le rispettive composizioni vedi slide 2.7] – deduzioni (aggiustamenti regolamentari): vengono portate principalmente a diminuzione del CET1 e sono espressamente definite dalla normativa, ovvero imposte recuperabili in futuro. Il patrimonio assorbe le perdite potenziali, coprendo i rischi (o parte di essi). Il Tier 1 assorbe le perdite di un’impresa bancaria che si trova in una situazione di ordinato funzionamento (in condizioni di continuità d’impresa). Il Tier 2, invece, fa riferimento a tutte quelle che sono le situazioni di crisi delle banche, per cui non basta il Tier 1 per fronteggiare le perdite. Il rapporto tra patrimonio di vigilanza e le risk weighted assets (attività ponderate per il rischio) deve essere almeno pari all’8%: TC/RWA ≥ 8%. Altri coefficienti patrimoniali: Tier1/RWA ≥ 6%; CET1/RWA ≥ 4,5%. È data poi facoltà alle autorità di supervisione di imporre riserve di capitale aggiuntive (buffer patrimoniali) rispetto ai minimi regolamentari, con l’obiettivo di dotare le banche di mezzi patrimoniali di elevata qualità da utilizzare nei momenti di tensione del mercato per prevenire disfunzioni del sistema ed evitare interruzioni nel processo di erogazione del credito, oltre che per far fronte ai rischi derivanti dalla rilevanza sistemica di talune banche. Il capital conservation buffer del 2.5% viene applicato quando si verificano particolari situazioni che rendono insufficienti i coefficienti patrimoniali minimi, a cui deve essere sommato. Il countercyclical buffer ha funzione anticiclica (contrastare le recessioni, i cicli economici negativi); il suo valore oscilla tra lo 0 e il 2.5% a seconda delle decisioni dell’autorità di vigilanza. Il systemic risk buffer contrasta il rischio sistemico e la sua misura non è predefinita, può anche variare da paese a paese. Le riserve di capitale per gli enti creditizi a rilevanza sistemica globale (G-SIB) e per gli altri enti a rilevanza sistemica nazionale (O-SIB) prevedono un buffer che oscilla tra lo 0 e il 3.5%. La banca, quindi, deve sempre essere pronta a realizzare delle operazioni di aumento di capitale. Nel processo SREP vengono individuate diverse riserve (equivalenti ai buffer sopra) che contribuiscono a generare il requisito di capitale obbligatorio: Si viene così a definire il requisito patrimoniale complessivo previsto dallo SREP che, sommato alle riserve di capitale aggiuntive, determina il requisito patrimoniale complessivo (OCR). Tra le varie disposizioni regolamentari che le banche devono osservare, si è recentemente anche aggiunto il MREL, ossia il “Minimum Requirements for own funds and Eligible Liabilities”; è stato introdotto dalla BRRD per garantire un miglior funzionamento del meccanismo del bail in, aumentando la capacità di assorbimento delle perdite di una banca. Viene fissato dalla SRA (autorità di risoluzione) e non è reso noto al mercato. Coinvolge un “sottoinsieme” delle passività coinvolte in caso di bail in, utilizzando i c.d. bond “cuscinetto” (senior non preferred). Gli accordi di Basilea affrontano tematiche legate a diversi rischi: – rischio di credito: connaturato allo svolgimento dell’attività bancaria, fino a tempi relativamente recenti era suscettibile di destabilizzare una banca. Tuttavia, questo rischio non necessariamente è “cattivo”, spesso è l’elemento che porta a un guadagno, ad un contributo importante al Conto Economico (concedendo credito solo a imprese “iper-solvibili”, le sofferenze sicuramente sono basse, ma il profitto resta contenuto per via del più basso tasso di interesse applicato). Comunque, le imprese più rischiose possono essere finanziate nella misura in cui la banca disponga di sufficienti risorse patrimoniali. I crediti non sono tutti uguali, ma vengono ponderati in relazione al loro grado di rischiosità (Risk Weighted Assets). Le componenti del rischio di credito sono: • perdita attesa → rettifiche sul valore dei crediti (LLP - loan loss provisions - CE). È un evento negativo, ma pianificato, c’è un certo grado di copertura in bilancio. La perdita attesa dipende da tre grandezze (perdita attesa = PD ∙ LGD ∙ EAD): La PD è la probabilità che l’impresa “si renda inadempiente nell’arco di un dato orizzonte temporale” e dipende dalle caratteristiche economico-finanziarie e di business dell’impresa; l’EAD “stima l’ammontare della linea creditizia accordata, destinato ad essere utilizzato in caso di inadempienza”, mentre l’LGD è quella “parte dell’esposizione che andrà perduta all’eventuale verificarsi dell’inadempienza”. Queste ultime due dipendono dalle caratteristiche tecniche del finanziamento, dalle garanzie, dalle procedure e dai costi per il recupero in caso di insolvenza. La perdita attesa si calcola anche in base a M, ossia la “scadenza economica residua dell’esposizione”; • perdita inattesa → coperta attraverso il patrimonio (Fondi propri); Risulta molto difficile (e costoso) stimare PD, LGD, EAD, M, quindi vengono previsti due metodologie (Basilea 2) per la valorizzazione dell’attivo ponderato: - metodo standard (“semplificato”): prevede l’applicazione di coefficienti di ponderazione sulla base di parametri stabiliti da soggetti esterni (Agenzie esterne di valutazione del merito di credito; Agenzie di credito alle esportazioni); [es. pagina successiva] - metodo basato sui rating interni (IRB): le banche sviluppano in maniera autonoma una propria procedura di valutazione e misurazione del rischio di credito dei propri debitori, in modo tale da stimare la probabilità di insolvenza di ciascuno di essi in un dato orizzonte temporale, assegnandogli un rating. La banca, valutando dall’interno, può valutare con un Basilea 4 stabilisce che le richieste di capitale generate con i modelli IRB (interni) non possono andare al di sotto di una certa percentuale rispetto a quelle generate secondo il metodo standard. Il patrimonio di vigilanza impatta anche sulle partecipazioni detenibili: - dalle industrie nelle banche à ex comma 6, art 19 TUB; - dalle banche nelle industrie à ex limite di separatezza (Istruzioni di Vigilanza emesse dalla Banca d’Italia). Per partecipazione si intende il possesso di azioni o quote nel capitale di un’altra impresa che, realizzando una situazione di legame durevole con essa, è destinato a sviluppare l’attività del partecipante. Un legame durevole sussiste in tutti i casi di controllo e di influenza notevole ai sensi delle presenti disposizioni nonché nelle altre ipotesi in cui l’investimento della banca si accompagni a stabili rapporti strategici, organizzativi, operativi, finanziari. Le banche possono partecipare nelle altre imprese, i limiti sono stati sensibilmente ridotti rispetto al passato. Una banca può avere partecipazioni in banche (es. gruppo bancario, non ci sono dei vincoli perché controllante e controllata svolgono la stessa attività), assicurazioni, società strumentali (che lavorano per la banca, es. società di informatica oppure società di gestione del patrimonio immobiliare della banca) e imprese non-finanziarie [= industrie sopra]. Le motivazioni tipiche che stanno alla base dell’assunzione di partecipazioni in un’impresa da parte di una banca sono legate sì ai dividendi, ma anche e soprattutto all’acquisizione di informazioni più approfondite e attendibili su quell’impresa (à migliore consulenza) e ai finanziamenti non andati a buon fine (mancato rimborso da parte dell’impresa, che è in difficoltà non transitoria). In quest’ultimo caso, l’operazione permette (anziché portare a perdita la posizione, interrompendo il rapporto con l’impresa) di trasformare il valore del credito residuo esistente in partecipazione. Le partecipazioni qualificate sono tutte quelle partecipazioni almeno pari al 10% del capitale della partecipata o che attribuiscono il 10% dei diritti di voto o consentono di esercitare il controllo o un’influenza notevole. Esse sono più controllate a livello normativo in quanto più suscettibili di influenzare in maniera più forte la gestione/amministrazione dell’impresa: Si possono assumere singole partecipazioni in imprese (a prescindere dal loro importo) purché non superino il 15% del patrimonio di vigilanza; il monte partecipazioni, invece, non può eccedere il 60% del patrimonio di vigilanza. Esiste anche un limite generale: l’ammontare complessivo degli investimenti in partecipazioni, unitamente agli immobili posseduti, non può superare il valore del patrimonio di vigilanza (solo Tier1). Esiste anche una vigilanza conoscitiva (informativa), che può essere effettuata: à a distanza (modalità più diffusa), attraverso segnalazioni di vigilanza da trasmettere alla Banca d’Italia o alla BCE, con una certa periodicità (proporzionale, in genere ogni mese), al fine di monitorare lo stato di salute della banca e percepire tempestivamente l’eventuale emergere di situazioni di difficoltà, programmando prontamente i necessari interventi. Si fa uso anche della matrice dei conti (flusso di ritorno dalla BdI alla banca, utile per effettuare un’analisi di posizionamento strategico partendo da segnalazioni statistiche-contabili), che costituisce il vero Singola partecipazione Somma di tutte le partecipazioni e proprio nucleo centrale della vigilanza informativa, e della Centrale dei rischi (per quanto riguarda i prestiti ≥ 30mila € e le sofferenze di qualunque importo). In questo contesto, fondamentale è l’invio del bilancio d’esercizio, completo in tutte le sue componenti, da utilizzare per analisi di situazioni aziendali, vigilanza e verifica della trasparenza informativa. Dal 2018 si aggiunge Anacredit, archivio europeo dei crediti e del rischio di credito, che viene gestito dalla BCE e utilizzato per soddisfare le esigenze informative di funzioni istituzionali del Sistema Europeo delle Banche Centrali. à on site (ispettiva): degli ispettori si recano nella sede della banca per raccogliere dati, informazioni... Può avere natura ordinaria (ogni tot anni, a seconda di come va la banca) oppure straordinaria. A volte gli ispettori non sono solo di BdI, ma appartengono al Joint Supervisory Team (misto BdI/BCE, vigilanza su scala europea). Essa completa e integra la vigilanza informativa, consentendo di verificare l’attendibilità dei dati segnalati e di esaminare con maggiore e migliore grado di dettaglio i profili qualitativi della gestione (modelli organizzativi, professionalità del management, correttezza di comportamento…). La vigilanza informativa ha un ruolo fondamentale nell’attività di supervisione sull’intermediazione finanziaria, ruolo che nel corso degli anni si è profondamente modificato e ampliato per meglio adattarsi ai cambiamenti rilevanti che hanno contraddistinto mercati e intermediari. Non sempre si riescono a prevenire le situazioni di crisi degli intermediari bancari; anche per questo motivo, le autorità di vigilanza si impegnano nella predisposizione di adeguati early warning system (segnali premonitori, dicono che una banca si sta deteriorando); segnalano dunque delle difficoltà gestionali che necessitano la ricerca di soluzioni adeguate. Essi possono essere attivati anche in quei casi in cui la crisi sia giudicata irreversibile, per limitarne gli impatti sul sistema finanziario. Ha un suo ruolo in questo ambito anche il RAF (risk appetite framework, vedi sotto). La vigilanza può essere anche “protettiva”, quando viene attivata in questi casi di crisi attraverso: • piani di risanamento aziendale (recovery Plans): indicazioni delle autorità su come rispondere alle crisi, in genere sono dati da misure per il ripristino dell’equilibrio patrimoniale & finanziario (ricapitalizzazione, cessione attività, modifiche nella struttura, ingresso nuovi soci e manager); • amministrazione straordinaria: se la crisi è risolubile, vengono nominati dalla BdI dei commissari straordinari per un periodo al massimo di un anno, con il compito di accertare la situazione di crisi, rimuovere le irregolarità che l’hanno generata e adottare tutti i provvedimenti utili a garantire l’interesse dei creditori, in primis dei depositanti. Decorso il tempo dell’amministrazione straordinaria, la gestione dell’intermediario deve essere ricondotta alla normalità; • liquidazione coatta amministrativa: si è superato il “punto di non ritorno”, per cui vengono nominati dei commissari liquidatori e un comitato di sorveglianza, con lo scopo di cercare di vendere le attività “sane” per fare cassa e rimborsare il più possibile i creditori della banca. L’Unione Bancaria e la direttiva BRRD hanno modificato significativamente le procedure di gestione delle crisi bancarie, prevedendo che la banca in crisi venga sottoposta a risoluzione nell’interesse pubblico attraverso una o più soluzioni tra le seguenti: û vendita di parte delle attività a un acquirente privato; û bridge bank, svolge le più importanti funzioni della banca in vista di una prossima cessione sul mercato; û bad bank, si trasferiscono le attività deteriorate a una società specializzata che ne gestisce la liquidazione; û bail in, svalutare azioni e crediti e convertirli in azioni per assorbire le perdite e ricapitalizzare la banca in difficoltà [vedi sopra]. Occorre ricordare che gli orientamenti della Commissione europea prevedono la necessità di coinvolgere azionisti e creditori subordinati prima di un eventuale supporto pubblico, attraverso la svalutazione o la conversione dei crediti in azioni, quale misura di burden-sharing necessaria per ritenere il sostegno pubblico compatibile con la disciplina sugli aiuti di Stato. Tra gli interventi ex post vi è anche il sostegno da parte dei sistemi di assicurazione dei depositi [in Italia: Fondo interbancario di tutela dei depositi, Fondo di garanzia dei depositanti del credito cooperativo], che hanno lo scopo di tutelare i risparmiatori “inconsapevoli”, che ricorrono alle forme più semplici di investimento (depositi bancari) non essendo in grado di valutarne il livello di rischiosità. Tuttavia, la vigilanza da sola non basta... per qualunque azienda, è necessario un efficace ed efficiente assetto organizzativo e di governo societario. La regolamentazione definita dalle autorità, infatti, fissa gli obiettivi della disciplina, rimandando all’autonomia del singolo intermediario la soluzione concreta e più idonea alla realizzazione, secondo criteri di proporzionalità. Alla BCE e alla BdI spetta poi il compito di valutare l’adeguatezza delle soluzioni adottate dalle singole banche, con particolare riguardo alle funzioni di supervisione strategica, gestione e controllo poste in essere dai diversi organi aziendali. Le norme in materia organizzativa e di governance fanno riferimento prevalentemente alla circolare 285 di BdI, dal contenuto ampio e variegato in riferimento ad assetti proprietari, statuto e modifiche, sistemi di remunerazione dei vertici & incentivazione, sistema dei controlli interni, requisiti esponenti aziendali, conflitti di interesse, contrasto a riciclaggio e usura, gestione dei rischi, obblighi di disclosure vs/ investitori e mercato (più stringenti per società quotate), ... Con riferimento alla remunerazione dei vertici, una parte di essa (spesso molto cospicua) è variabile, “a bonus”, legata al raggiungimento di determinati risultati. L’indagine sulla remunerazione deve essere pervasiva, deve riguardare tutte le società di un gruppo bancario. Anche quando si raggiungono dei risultati importanti è opportuno predisporre un meccanismo di premi a vantaggio non solo del top management, ma anche di tutti gli altri dipendenti. È comunque difficile misurare l’apporto individuale in modo abbastanza meritocratico. Le norme in materia di vigilanza e assetti organizzativi seguono un principio di proporzionalità: ø Banche di maggiori dimensioni o complessità operativa: TotATT ≥ 30 miliardi € ø Banche intermedie: 30 miliardi € ≥ TotATT ≥ 5 miliardi € ø Banche di minori dimensioni o complessità operativa: TotATT ≤ 5 miliardi € La BCE e la BdI sono responsabili della valutazione dell’adeguatezza MA la definizione spetta alle funzioni fondamentali della banca: F supervisione strategica (*): nel modello tradizionale, spetta al CdA; F gestione (*): nel modello tradizionale, spetta al CdA; F controllo (#): nel modello tradizionale, spetta al Collegio Sindacale. CdA e Collegio sindacale, quindi, sono i primi responsabili di fronte alle autorità di vigilanza. Il sistema dei controlli interni è costituito dall’insieme di regole, procedure, funzioni, strutture, risorse, processi che mirano ad assicurare l’attuazione delle strategie aziendali. Esso, quindi, è un elemento fondamentale del complessivo sistema di governo delle banche; esso assicura che l’attività aziendale sia in linea con le strategie e le politiche aziendali e sia improntata a principi di sana e prudente gestione. Un efficace sistema di controlli interni ha diversi obiettivi, tra cui l’efficacia/efficienza dei processi aziendali, il contenimento del rischio entro il RAF, la protezione dalle perdite, garantire l’affidabilità delle informazioni, la conformità (compliance) a leggi e regolamenti, la salvaguardia del valore delle attività… Inoltre, i sistemi interni presentano diversi livelli di controllo: § primo livello: controlli di linea (riguardano le diverse strutture operative: filiali…) – compliance § secondo livello: controlli su rischi e conformità – compliance & unità di risk management § terzo livello: revisione interna, riguarda il rispetto adeguato delle procedure – internal audit La cartolarizzazione e la crisi del 2008 Al di sopra del sistema finanziario ci sono le autorità di vigilanza, soggetti che appunto hanno il compito di vigilare sul buon funzionamento del sistema finanziario. A un certo punto è stato necessario costituire degli enti che vigilassero il sistema finanziario perché le conseguenze di un fallimento del sistema sono temibili e sono ben note soprattutto a causa di eventi passati [anche recenti], come la crisi del 2008 (definito come un nuovo 1929). La crisi del 2008 ha rappresentato un vero e proprio caso di malfunzionamento del sistema. Gli obiettivi principali della vigilanza sono quelli di dare stabilità al sistema e salvaguardare la fiducia. Uno dei rischi principali delle crisi è il fatto che esse possano diffondersi a tutti i campi (anche all’economia reale, con conseguenze potenzialmente drastiche). Questo grafico rappresenta l’andamento di un tasso di interesse interbancario (Euribor a 3 mesi) che misura il livello di fiducia che regna all’interno del sistema bancario (tra le banche). Sapendo che il tasso di interesse misura sempre il rischio di investimento, più l’Euribor è alto e più la situazione si aggrava, in quanto segnala poca fiducia tra le banche. Come si può notare dal grafico, tra la fine del 2000 e il 2001 circa c’è stato un periodo di crisi dato dallo scoppio della bolla speculativa “.com”. Ancora più importante è la crisi scoppiata nel 2008 portata da una serie di eventi precedenti. Per capire cosa ha generato questa situazione bisogna iniziare dalla presidenza di Bill Clinton (dal 1993 al 2001). In quegli anni l’economia americana aveva bisogno di un rilancio, fatto partire dal settore immobiliare con lo slogan "una casa per tutti”, che ovviamente spinge tutti gli americani a comprare un’abitazione. Dal settore immobiliare si riesce a far ripartire tutti i settori ad esso collegati. Il fatto di spingere gli americani a comprare una casa è rivoluzionario per la cultura e la mentalità del popolo, per cui servono delle condizioni per favorire questa rivoluzione. La principale condizione riguarda la possibilità per tutti di ottenere mutui a basso costo: accedere ad un finanziamento con tassi di interesse bassi e per fare ciò serve la collaborazione delle banche e, soprattutto, della Federal Reserve (BC). Grazie ai mutui a basso costo il sistema effettivamente riparte: aumentano le richieste di finanziamento e di conseguenza aumentano i mutui concessi da parte delle banche. Le banche devono avere una garanzia sul mutuo, quindi pongono un’ipoteca sulle case comprate attraverso essi. Questo meccanismo porta all’aumento della domanda di immobili, il che naturalmente sfocia in un aumento del prezzo degli immobili. Il meccanismo funziona (o meglio, sembra funzionare) e più si va avanti, più aumenta il clima di euforia che porta ad una riduzione della percezione del rischio. Le banche a loro volta iniziano a concedere finanziamenti anche a soggetti poco affidabili (tanto avevano la garanzia dell’ipoteca). Inoltre, i prezzi delle case continuano ad aumentare (quindi anche se il cliente cosiddetto subprime non avesse restituito i soldi, la banca avrebbe venduto la casa ad un prezzo sempre più alto). Le banche devono però tenere conto del fato che i mutui concessi tornano liquidi solo nel medio/lungo termine, e questo potrebbe portare ad una crisi di liquidità. Per questo motivo si fa ricorso al sistema della cartolarizzazione, che veniva già utilizzato in passato ed era assolutamente legale. Questo sistema consiste nel creare una società SPV (nella forma di società per azioni), che acquisisca attività (patrimoniali) da altri soggetti (principalmente società), traendo dalle attività acquisite tutti i vantaggi. La SPV, quindi, è una sorta di scatola vuota a cui le banche vendono i mutui, diventa titolare del mutuo ceduto dalle banche. In questo modo la banca smobilizza i crediti prima della loro naturale scadenza e acquisisce liquidità con cui può concedere altri finanziamenti. La SPV per comprare i mutui dalle banche oltre a prendere soldi dal proprio capitale sociale, può emettere titoli obbligazionari (ABS – asset based security), indebitandosi. Questi titoli vengono comprati da investitori istituzionali (quali per esempio banche d’affari), ma anche da normali investitori che sperano di ottenere un profitto grazie ai tassi. A partire dal 2006, comincia quella instabilità che porta sfiducia tra gli intermediari e provoca l’innalzamento dell’Euribor. Nel 2006, infatti, accadono due eventi particolari: terremoto in Cina (uno dei Paesi leader nella produzione di materie prime); elevata siccità su scala internazionale (che colpisce principalmente i Paesi produttori di materie prime). Questi due eventi portano alla riduzione dell’offerta di materie prime su scala mondiale (che stanno alla base della catena alimentare), con un conseguente aumento dei prezzi, responsabile a sua volta dell’aumento dell’inflazione. I tassi di interesse, che sono parametri a cui si agganciano ovviamente anche i tassi sui mutui, iniziano a salire. A causa di questo fenomeno finanziario le imprese cominciano ad entrare in crisi e quindi a licenziare personale (persone che hanno un mutuo) e, contestualmente a ciò, a causa dell’aumento dei tassi, molte persone hanno ancora più difficoltà a pagare le rate del mutuo. Sempre più persone diventano quindi insolventi e le banche, come avevano previsto, iniziano a vendere sempre più immobili. Le case vengono vedute all’asta. Questo causa una vertiginosa diminuzione del prezzo degli immobili, causando un enorme problema per le SPV, che non riescono a recuperare abbastanza soldi dalla vendita degli immobili. I titoli obbligazionari che le persone avevano precedentemente comprato dalle SPV non fruttano più. Le conseguenze più gravi non hanno colpito i cittadini privati, ma soprattutto le banche d’affari che avevano comprato un grande numero di titoli obbligazionari dalle SPV e che si ritrovarono a possedere solo titoli spazzatura. Queste banche d’affari sono gli enti “too big to fail”, ma visto che non ci sono le risorse per salvare tutti, bisogna “scegliere” chi sacrificare per salvare gli altri. Per fermare questo meccanismo si deve fare in modo che la maggior parte delle persone che si ritrovano a non poter più pagare il mutuo vengano messe nelle condizioni di restituire tutti i soldi. I profili di gestione bancaria L’analisi successiva [!!!riferita alle commercial banks!!!] si concentrerà sulle condizioni operative con cui una banca deve svolgere queste attività in modo equilibrato, cioè senza assumere eccessivi livelli di rischio e senza generare situazioni di instabilità che possano nuocere a depositanti, richiedenti debito e azionisti. La complessità delle attività bancarie, infatti, richiede un solido equilibrio economico-finanziario e patrimoniale e una adeguata impostazione dell’attività creditizia e finanziaria per poter erogare i prodotti e servizi in condizioni di economicità e, allo stesso tempo, gestire i rischi assunti. L’attività della banca può essere quella di asset transformer ovvero quella di asset broker; inoltre, una banca produce output molto diversi tra loro (servizi di finanziamento, servizi di investimento, servizi di pagamento). La natura dell’attività bancaria presenta sì delle analogie con le altre imprese di servizi, ma mantiene delle differenze importanti. I servizi bancari possono essere tangibili o non intangibili [spesso un mix, con una spiccata prevalenza dei secondi]; esiste una stretta congiunzione tra produzione ed erogazione, ma bisogna sempre tenere conto del ruolo della tecnologia e della “separazione” delle attività. Si ha anche la partecipazione significativa da parte del cliente per taluni servizi e l’elevata (e fondamentale) componente fiduciaria. L’input dell’attività bancaria, invece, include il capitale proprio (con influenza sulle disposizioni normative, sulla copertura rischi, sull’operatività), l’IT, le risorse umane (a cui si richiedono specifiche competenze e professionalità), le informazioni. La figura alla pagina precedente è un tentativo di rappresentare l’insieme delle aree gestionali di una banca attraverso il bilancio. Le aree gestionali collocate all’esterno del bilancio (risk management, ALM, gestione della liquidità) sono quelle la cui attività si rivolge contemporaneamente al lato dell’attivo e del passivo. Ciascuna area gestionale incide, direttamente o indirettamente, su tutte le condizioni di equilibrio di una banca, quindi ciascuna di esse deve essere perfettamente coordinata con tutte le altre. I servizi mobiliari La gestione del portafoglio titoli riguarda tutte le decisioni relative agli investimenti in titoli, e in particolare profili fi rischio, volume degli investimenti, obiettivi di redditività. Essa si propone finalità speculative, di gestione finanziaria [creare riserve di liquidità] e di copertura dell’esposizione della banca ai rischi finanziari. In principio, l’attività della banca si poteva sostanziare nella seguente frase sintetica spesso usata dai banchieri di un tempo: “comprare, vendere, trasferire risorse finanziarie”. Successivamente, i servizi mobiliari e la gestione titoli hanno assunto nuovo appeal e oggi svolgono un contributo decisivo al conto economico bancario [e quindi alla redditività della banca]. A partire dagli anni Settanta, infatti, la gestione delle attività fruttifere diverse dai prestiti alla clientela è cresciuta di complessità e importanza in risposta all’aumento del debito pubblico (necessità di collocare i titoli di Stato), alle spinte concorrenziali derivanti dal cambiamento dell’impostazione di vigilanza e dalle innovazioni tecnologiche e finanziarie, all’ingresso sul mercato di nuovi intermediari. Le banche, quindi, si sono “disintermediate”, hanno adottato livelli di intermediazione diversi da quelli originari. Queste evoluzioni, evidentemente, cambiano la composizione del bilancio bancario; infatti, queste attività tipicamente sono caratterizzate da un assorbimento patrimoniale inferiore rispetto ai prestiti. L’attività di intermediazione mobiliare e gestione titoli della banca presenta una forte interconnessione con tutte le altre aree di gestione e operatività della banca: – raccolta: necessaria per avere le risorse da investire in titoli (oltre che da prestare); – impieghi: una [non grande] parte dei depositi va a titolo di riserva obbligatoria, mentre il resto può essere investito, sia in prestiti che in titoli per il portafoglio della banca (quello che non viene investito in prestiti, viene impiegato in titoli); – liquidità: il portafoglio titoli può essere un ottimo “cuscinetto” di liquidità, alcune tipologie di titoli possono essere facilmente smobilizzate quando ci sia particolare bisogno di liquidità; – capitale. Si è detto che tale attività risulta particolarmente importante per i suoi riflessi sul conto economico (margine di intermediazione; costi e ricavi da servizi; profitti e perdite da operazioni finanziarie…). Non ha senso, quindi, esaminare in modo «isolato» l’attività in titoli: essa va piuttosto considerata in un’ottica di asset-liability management (ALM). La gestione titoli, infatti, come già accennato, va letta in termini di gestione integrata dell’attivo e del passivo perché è collegata a: ® quantità di prestiti che è possibile erogare (non solo la raccolta incide su di essa!); ® gestione della liquidità di una banca (molti titoli sono vere e proprie riserve di liquidità); ® capitale che viene assorbito, tipicamente più contenuto nella gestione titoli (esplosione del private banking); ® gestione delle partecipazioni (si creano o si partecipa in intermediari specializzati nell’operatività in servizi mobiliari). La stessa attività di intermediazione mobiliare, come si accennava sopra, si è evoluta negli anni a causa di: • Disintermediazione: Þ dal lato dell’attivo [collocamento titoli emessi altre società, che si affidano al placing power (capacità distributiva) della banca] Þ dal lato del passivo [concorrenza dei titoli di Stato (anni ‘80); diversificazione dei portafogli finanziari delle famiglie (a partire dagli anni ‘90 in poi); ruolo del trading online e del Fintech] • Cambiamento normativo (TUF 1998; Direttive MIFID I e MIFID II). L’attività di intermediazione mobiliare svolta dalle banche rappresenta un’area d’affari molto complessa e articolata, che può essere ripartita in tre aree: F gestione del portafoglio titoli di proprietà; F servizi agli investitori: intermediazione in senso stretto, gestione di portafogli, consulenza; F servizi agli emittenti: collocamento, consulenza… [anche questi contribuiscono a formare il margine di intermediazione]. Intuitivamente, la dimensione delle attività svolte dipende dal modello di business della banca. I servizi offerti agli investitori e i servizi offerti agli emittenti appartengono alla generica categoria dei servizi di investimento [hanno ad oggetto strumenti finanziari] (art. 1, comma 5 TUF). Tra questi rientra anche la consulenza in materia di investimenti, ossia la prestazione di raccomandazioni personalizzate a un cliente, dietro sua richiesta o per iniziativa del prestatore del servizio, riguardo a una o più operazioni relative ad un determinato strumento finanziario. La consulenza personalizzata è strettamente legata alle attività di private banking. La gestione del proprio portafoglio titoli da parte di una banca si esplicita nella decisione della composizione quali/quantitativa del portafoglio stesso, per cui bisogna analizzare: obiettivi; destinazione (dei titoli); motivazioni. I titoli possono avere come destinazione: a) il portafoglio di negoziazione; b) il portafoglio titoli di proprietà, per due finalità/obiettivi: – ptf tesoreria: tesoreria ≠ liquidità sotto il profilo temporale, i bisogni di tesoreria sono urgenti (3/5/10 giorni), mentre quelli di liquidità sono più protratti nel tempo (es. due mesi e mezzo) à liquidità; – ptf investimento à redditività. La dottrina è solita distinguere tra investimenti liberi e investimenti vincolati, essendo questi ultimi effettuati per adempiere a eventuali obblighi di legge. I primi presentano elevati profili di flessibilità, mentre i secondi intuitivamente sono più rigidi à specifici criteri gestionali. Tutte le classificazioni effettuate sono difficili da osservare nella realtà. Comunque, la banca deve considerare gli aspetti quantitativi di dimensione ottimale del portafoglio titoli (in relazione all’attività svolta) e qualitativi, per perseguire gli obiettivi liquidità e redditività sempre tenendo conto del grado di rischio che si intende sopportare. La gestione del portafoglio titoli I principali obiettivi del portafoglio titoli di proprietà, come si è detto, sono liquidità e redditività. L’obiettivo di redditività si sostanzia nella partecipazione alla produzione del reddito d’esercizio e può essere conseguito attuando diverse strategie: trading in conto proprio per ottenere un capital gain; eseguire attività di negoziazione ponendosi come controparte della clientela (commissioni attive); acquistare titoli per detenerli fino alla loro scadenza naturale [cedola + capital gain]. L’obiettivo di liquidità, invece, è legato alla sfera fiduciaria dell’operatività bancaria, in quanto questa deve accettare le passività [depositi] in modo sistematico. Queste passività devono poter essere rimborsate in modo tempestivo ed economico (senza sostenere costi rilevanti). In particolare, qui rileva la liquidità artificiale, data dalla possibilità di smobilizzare uno strumento prima della sua naturale scadenza cedendolo o utilizzandolo come garanzia per ottenere credito. È evidente, quindi, l’utilità per la banca di detenere titoli che per caratteristiche tecniche e di durata consentano la pronta trasformazione in liquidità a costi trascurabili. Più realisticamente, comunque, il portafoglio titoli è ripartito in comparti che si prefiggono ciascuno specifici obiettivi e contemperano le ipotesi di scuola estreme. Con riferimento alla natura, il portafoglio titoli è composto da tutte le tipologie di valori mobiliari (titoli di Stato, obbligazioni, azioni, quote di fondi comuni d’investimento, strumenti derivati…), mentre con riferimento ai principi contabili si distingue tra: • attività finanziarie detenute per la negoziazione; • attività finanziarie disponibili per la vendita; • attività finanziarie detenute sino alla scadenza. La dimensione quantitativa in riferimento al portafoglio titoli è determinata (secondo la dottrina) dalla modalità di gestione attuata. Infatti, il portafoglio titoli di proprietà può essere gestito secondo due approcci: a) gestione residuale [impostazione statica]; b) gestione flessibile/rigida (o classificazione analitica) [impostazione dinamica]. La gestione residuale è tipica di una banca che ha un rapporto impieghi in prestiti/depositi elevato, oppure un rapporto titoli in portafoglio/depositi basso. L’ampiezza del portafoglio titoli è funzione dell’oscillazione della domanda di prestiti. In altri termini, si investe in titoli quanto «residua» della raccolta dopo aver concesso prestiti. Il volume di risorse da impiegare in titoli viene determinato, quindi, secondo un criterio di priorità: soddisfazione degli obblighi di riserva, costituzione di adeguate scorte di liquidità, erogazione del credito e infine investimento delle eccedenze in valori mobiliari. Si può privilegiare l’attività in prestiti perché costituisce la tradizionale attività core della banca oppure perché, in linea di principio, è più remunerativa [à redditività]. Il portafoglio titoli diventa dunque una vera e propria riserva di liquidità, ma anche un cuscinetto di liquidità: - si sgonfia [vendita titoli] quando sul mercato si possono concedere prestiti remunerativi con un buon grado di sicurezza; - si gonfia [acquisto titoli] in caso contrario (momenti di crisi, sofferenze elevate, ecc). Le riserve di liquidità servono per aiutare la banca a mantenersi in condizioni di equilibrio finanziario. Si distingue tra: a) Riserve di prima linea (liquidità primaria): sono pronte immediatamente, possono fronteggiare un bisogno di tesoreria – Cassa – Attività esigibili presso la Banca Centrale – Crediti esigibili da altre banche – Mobilizzazione della riserva obbligatoria b) Riserve di seconda linea (liquidità secondaria) – Attività idonee a generare liquidità in modo naturale (non bisogna fare nulla di particolare perché diano origine a un flusso di liquidità) o artificiale (smobilizzo sul mercato), tipicamente titoli in portafoglio. Il nome della business unit che si occupa di fronteggiare tanto i bisogni di tesoreria quanto i bisogni di liquidità prende il nome proprio di “Tesoreria”, che oggi nella stragrande maggioranza delle banche è unica/integrata, ossia comprende le operazioni in euro e quelle in valuta. La circostanza che l’incidenza degli investimenti in titoli nell’ambito dell’attivo bancario divenga una conseguenza delle oscillazioni della domanda di prestiti sottopone la banca a rischi evidenti. Infatti, [Banalmente:] Il gestore del portafoglio esprime una preferenza sulla durata dei titoli (colonna) e sulle caratteristiche economico-tecniche (qualitative, riga) degli stessi. Il mix desiderato porta ad una specifica casella della matrice, a cui è associata tutta una serie di titoli con le caratteristiche vicine a quelle desiderate dal gestore. In ciascuna casella compare una curva dei rendimenti (per costruzione delle righe si avranno titoli mischiati in modo tale da essere pressoché confrontabili). Oggi, in realtà, modelli di questo tipo non si usano più [molto più complessi]. Comunque, hanno avuto grande successo perché venivano usati non solo per dar vita al portafoglio titoli di proprietà della banca, ma anche (in filiale) per scegliere i titoli per la clientela. I modelli di questo tipo selezionano i titoli con determinate caratteristiche, che però potrebbero non includere quelli della banca; se questa vuole ottenere redditività collocando i suoi titoli, potrebbe non essere ottimale. In conclusione, la gestione titoli dal punto di vista quantitativo segue due approcci, gestione residuale e flessibile, che nella pratica tendono spesso a convivere, non sono nettamente separati. La gestione crediti e la gestione titoli sono affrontate come complementari, senza alcun vincolo di subordinazione, ma sempre orientandosi alla ricerca dell’equilibrio economico-finanziario della banca (in ogni caso, si tiene conto delle scelte di politica monetaria della BCE). Le scelte di impiego vengono così determinate da valutazioni che riguardano la liquidità attuale e prospettica, la domanda di prestiti e la dinamica futura dei tassi di interesse, che sono le stesse variabili che vengono considerate nel dover fronteggiare fabbisogni di liquidità. Tendenzialmente, la parte più consistente del portafoglio è rappresentata dalle attività detenute per finalità di negoziazione e da quelle disponibili per la vendita (rilevano meno le attività detenute fino alla scadenza). La gestione quantitativa dei titoli è strettamente legata alla gestione dei titoli dal punto di vista qualitativo; essa persegue l’ottimizzazione del portafoglio differenziando i valori mobiliari in funzione delle diverse scadenze presentate, secondo due approcci: – laddered approach: legato a un modello di gestione residuale, ha l’obiettivo di ridurre i rischi economici e finanziari del portafoglio attraverso la sua ripartizione su scadenze temporali al fine di ottenere una disponibilità regolare e costante di flussi finanziari (da impiegare o, per quanto residua, da reinvestire in titoli). Attraverso questa tecnica si riduce il rischio di minusvalenza e di deprezzamento del portafoglio, in quanto detenuto fino alla scadenza naturale. Il problema è dato dalla necessaria emissione di titoli a intervalli regolari e con durate uniformi (non sempre realizzabili) affinché un modello di questo tipo possa essere efficace; – barbell approach: legato alla politica flessibile, prevede la costituzione di un portafoglio con soli titoli dalla duration breve e lunga (no intermedia) per trarre profitto dalle oscillazioni dei tassi. In particolare, quando i tassi sono in rialzo i titoli a breve consentono di godere del rialzo stesso, mentre in contesti di titoli al ribasso aumenta il valore dei titoli a lunga scadenza, consentendo di ottenere un apprezzamento del portafoglio. In una situazione di incertezza, in cui entrambe le variazioni risultano possibili, un approccio di questo tipo consente la massimizzazione del rendimento complessivo atteso sul portafoglio e, rispetto al laddered approach, sembrerebbe garantire un maggiore grado di liquidità e flessibilità (à fronteggiare le tensioni di liquidità e riaggiustare rapidamente il ptf dopo variazioni dei tassi). Attenzione però! Se si modifica la curva dei rendimenti per scadenza, subendo un aumento dei tassi a lungo termine e una riduzione a breve, il portafoglio si esporrebbe a un maggior rischio. Anche in questo caso, la realtà empirica offre un riscontro articolato e complesso che non può essere ricondotto a uno schema preciso. La rappresentazione contabile dei titoli I titoli nel portafoglio sono numerosi ed eterogenei per natura (azioni, obbligazioni, titoli di Stato, derivati…) e destinazione [vedi pagine precedenti], ma anche per la loro rappresentazione contabile. A partire dal 2018 è entrato in vigore il principio contabile IFRS 9, che aiuta a classificare e valutare le attività finanziarie (titoli di debito, crediti). Questo modello di valutazione tiene conto di due variabili principali: 1) finalità/obiettivo dell’inserimento di titoli in portafoglio (Business Model): mantenere (Hold to Collect), vendere (Hold to Collect and Sell)… 2) caratteristiche contrattuali dei cash flows che derivano dalle attività finanziarie: cedole, rimborso del capitale, come reagiscono a variazioni dei tassi… In generale, nella rappresentazione contabile prevale il criterio di valutazione rispetto a quello del Business Model [vedi slide 6]. Dalla combinazione di tali criteri derivano le nuove categorie contabili di classificazione delle attività finanziarie: ® attività finanziarie valutate al fair value, con impatto sul conto economico (voce 20) ® attività finanziarie valutate al fair value con impatto sulla redditività totale (voce 30) ® attività finanziarie valutate al costo ammortizzato (crediti v/banche e v/clientela, voce 40) Il concetto di fair value costituisce un’innovazione importante, soprattutto per contabilizzare le attività finanziarie e gli strumenti derivati. Per calcolarlo ci si riferisce ai prezzi rilevabili su un mercato attivo; se non esiste un mercato attivo, si utilizzano altre tecniche di valutazione: recenti operazioni di mercato tra parti consapevoli, fair value di strumenti analoghi, analisi di flussi finanziari attualizzati, modelli di pricing delle opzioni… [per esempi portafogli di attività vedi slide 5] Per concludere, la gestione del portafoglio titoli, nella pratica, come già anticipato, non coincide con i classici approcci «residuale» e flessibile» introdotti dalla teoria, ma presenta modalità e composizione variabile in relazione al tipo di intermediario e alla congiuntura sui mercati finanziari. La gestione del portafoglio avviene inoltre facendo ampio utilizzo di modelli statistico-econometrici sofisticati, mediati ed utilizzati dai gestori. Esistono peraltro modelli «Quant» che operano in modo totalmente automatico, eliminando gli aspetti emozionali che possono condizionare l’operato dei gestori. È essenziale che una banca definisca, tempo per tempo, gli obiettivi che intende attribuire alla gestione del portafoglio titoli ed il massimo grado di rischio che è disposta ad assumersi nell’ambito di tale gestione. Il bilancio della banca L’impostazione/struttura del bilancio prevista dal Codice civile poco si adatta all’attività di una banca, per cui nella predisposizione del bilancio bancario si deroga a tali norme. Il bilancio bancario, infatti, presenta complessità e particolarità rilevanti: si tratta infatti di un’azienda con problematiche informativo-contabili peculiari che derivano dal suo profilo organizzativo-gestionale, dalla tipologia e articolazione delle operazioni che pone in essere, dalla tipologia e dall’entità dei rischi a cui si espone. Il bilancio è uno strumento di informazione e reporting sulla situazione economica, finanziaria e patrimoniale della banca, rivolto principalmente: – agli azionisti; – al mercato; – agli altri stakeholders (autorità di vigilanza, risparmiatori, dipendenti, fornitori, comunità sociale...). Esso, quindi, deve essere predisposto in modo da essere di concreta utilità per il maggior numero possibile di destinatari. Vengono riportate valutazioni di organi di controllo (collegio sindacale à modello tradizionale; consiglio di sorveglianza à sistema dualistico; CdA à sistema monistico) e di società di revisione. Il quadro normativo di riferimento (direttiva 86/635/CEE à circ. 262/2005 Bankitalia) prevede uno schema unico per il bilancio bancario. In particolare, la direttiva 86/635/CEE ha introdotto l’armonizzazione dei bilanci bancari a livello europeo. Il bilancio deve essere redatto in base a postulati, criteri, procedure di contabilizzazione, valutazione e classificazione che permettano allo stesso di dare una periodica e attendibile conoscenza del risultato economico e della situazione patrimoniale dell’impresa. Con riferimento ai principi, le norme di riferimento a livello nazionale sono quelle di Consob e Ivass, a cui si aggiungono i principi contabili internazionali IFRS. Sono sempre richiesti dei requisiti di significatività, comprensibilità, attendibilità e comparabilità [armonizzazione a livello comunitario] del bilancio. Come i bilanci “classici”, il bilancio bancario deve essere quindi comprensibile per gli utilizzatori, attendibile e capace di influenzare le decisioni degli utilizzatori; deve privilegiare la sostanza sulla forma e le informazioni non devono essere presentate in modo da influenzare la valutazione dell’investitore. Non sono possibili la sopravalutazione dei ricavi e la sottovalutazione dei costi, così come eventuali accantonamenti generici. È prevista la valutazione di varie categorie di strumenti finanziari al fair value e le operazioni devono essere trattate in base a regole di classificazione, contabilizzazione e valutazione coerenti tra loro. A seguito dell’avvento della crisi finanziaria del 2008, e della crisi economica conseguente, il ritardato riconoscimento delle perdite su crediti secondo l’approccio sottostante allo IAS 39 è stato criticato come un elemento di debolezza negli standard contabili. Le perdite sui crediti (e altre attività finanziarie) venivano infatti registrate in ritardo. Il criterio della “perdita subita” (incurred loss) legava le svalutazioni all’insorgere di un “fatto nuovo” (il c.d. evento grilletto o trigger event) che dimostrasse la dubbia esigibilità dei flussi di cassa originariamente concordati. Ciò limitava la costituzione di riserve utilizzabili in futuro. A seguito di queste considerazioni, il summit G20 dell’aprile del 2009 ha richiesto agli enti regolatori (sia prudenziali che contabili) l’implementazione di misure che riducessero la prociclicità delle capacità di assorbimento delle perdite. Facendo seguito a questo mandato, lo IASB ha sostituito il modello di incurred loss dello standard IAS 39 con il modello expected loss dell’IFRS 9, entrato in vigore a partire dal 1° gennaio 2018. Il modello expected loss prevede che la banca debba informare, anche dal punto di vita contabile, che una parte dei crediti ha dei problemi, ossia della presenza di una potenziale perdita attesa. La struttura del bilancio bancario prevede uno stato patrimoniale, in cui le poste sono classificate con riguardo alla controparte (ATT: liquidità decrescente; PASS: esigibilità decrescente) e un conto economico, presentato in forma scalare (risultati intermedi à il risultato reddituale è dato dalla composizione di diversi elementi reddituali che poi vanno a sintetizzare, attraverso l’utile/perdita, l’andamento della banca; proventi e oneri operativi; proventi e oneri valutativi). Esso comprende anche un prospetto della redditività complessiva [vedi sotto] e un prospetto delle variazioni del patrimonio netto, il rendiconto finanziario, la nota integrativa, la relazione sulla gestione; è accompagnato da alti documenti: la relazione del collegio sindacale [attività di controllo & relazione all’assemblea, osservazioni e proposte su bilancio e approvazione], la relazione della società di revisione. È prevista anche una revisione legale dei conti per valutare la conformità con principi contabili e la chiarezza, veridicità e correttezza della situazione economica, finanziaria e patrimoniale e del risultato economico dell’esercizio riportate nel bilancio. I crediti, soprattutto in ambito bancario, sono stati oggetto di discussione per anni (crediti v/clientela sono l’attività core per una banca). Essi possono essere classificati in due macrocategorie: F crediti in bonis: senza alcun tipo di patologia, non hanno downgrade e vengono restituiti nei tempi e nelle modalità corrette; F crediti deteriorati non-performing Exposures (NPE): si dividono a loro volta in sofferenze, inadempienze probabili (unlikely to pay – UTP) ed esposizioni scadute/sconfinamenti. Le sofferenze sono le situazioni peggiori per la banca, rappresentano posizioni verso clienti che manifestano un chiaro stato di incapacità a far fronte ai propri fabbisogni finanziari attraverso lo stato di insolvenza [perdita certa]. Le inadempienze probabili, invece, sono quelle situazioni di credito dove la banca rileverebbe delle perdite ingenti se non attivasse i collateral, ossia le garanzie [es. mutuo ipotecario, pegno su azioni, anticipo su pegno…]. Le esposizioni scadute e/o sconfinanti sono esposizioni che, alla data di riferimento della segnalazione, sono scadute e/o sconfinanti da oltre 90 giorni e superano una prefissata soglia di materialità. Queste esposizioni possono essere determinate facendo riferimento alternativamente al singolo debitore o, per le esposizioni verso soggetti retail, alla singola transazione. Dal 1° gennaio 2021 sono entrate in vigore le nuove regole europee per le banche in materia di inadempienza del cliente e specificate da Banca d’Italia. La nuova disciplina, nota come “Nuova Definizione di Default”, stabilisce criteri e modalità più stringenti con l’obiettivo di armonizzare le regole a livello comunitario. In particolare: 1. il Cliente viene classificato a default se supera entrambe le seguenti soglie di rilevanza per oltre 90 giorni consecutivi: û in termini assoluti: euro 100 per le esposizioni al dettaglio (Persone Fisiche e PMI) ed euro 500 per le altre esposizioni; û in termini relativi: 1% dell’importo complessivo di tutte le esposizioni del cliente verso la banca. 2. La compensazione [tra linee di credito] su iniziativa della banca non è più consentita. Di conseguenza, la banca è tenuta a classificare il cliente a default anche in presenza di disponibilità su altre linee di credito non utilizzate SP ATTIVO: 3. Lo stato di default permarrà per almeno 90 giorni dal momento in cui il cliente regolarizza verso la banca l’arretrato di pagamento e/o rientra dallo sconfinamento di conto corrente 4. Con riferimento alle obbligazioni congiunte (c.d. cointestazione) sono previste alcune nuove regole di contagio del default Þ se la cointestazione è in default, il contagio si applica alle esposizioni dei singoli cointestatari Þ se tutti i cointestatari sono in default, il contagio si applica automaticamente alle esposizioni della cointestazione 5. È richiesta la classificazione obbligatoria a default nel caso in cui una rinegoziazione del debito dovuta a difficoltà finanziaria del Cliente (c.d. “misura di forbearance”) comporti per la Banca una perdita maggiore dell’1%. Il Regolamento UE 630/19 impone una deduzione dai fondi propri per le esposizioni deteriorate non sufficientemente coperte da accantonamenti o altre rettifiche: • per le NPE non garantite, dopo 3 anni dalla classificazione come esposizioni deteriorate; • per le NPE assistite da garanzie reali su immobili e i prestiti sugli immobili residenziali garantiti da un fornitore di protezione ammissibile ai sensi del Regolamento 630/2019, dopo 9 anni dalla classificazione come esposizioni deteriorate; • per le altre NPE garantite, dopo 7 anni dalla classificazione come esposizioni deteriorate. [Si applicano sugli NPE emessi dal 26aprile 2019] SP PASSIVO: Il Conto Economico fa emergere le tre grandi gestioni/funzioni di una banca (funzione creditizia à margine di interesse; servizi à margine di intermediazione; gestione finanziaria à risultato netto della gestione finanziaria). La sua struttura è di tipo progressivo in forma scalare, con indicazione dei risultati economici [anche intermedi/margini] del periodo di competenza. Esistono dei margini intermedi particolarmente rilevanti per analizzare l’andamento della gestione della banca. Tra questi, il primo è il margine di interesse, che risulta dalla differenza tra interessi attivi/proventi assimilati e interessi passivi/oneri assimilati. Esso, quindi, quantifica il risultato prodotto dalla banca attraverso le operazioni di intermediazione creditizia diretta. Il secondo margine rilevante è il margine di intermediazione, sintesi del risultato lordo del complesso delle operazioni di intermediazione finanziaria e di servizi tipiche della banca (M. interesse + commissioni nette + risultati altre operazioni di intermediazione). Per commissioni nette si intende il margine rappresentato dalla differenza tra commissioni attive per servizi prestati dalla banca e commissioni passive per servizi ricevuti. È un margine che rappresenta la capacità della banca di generare ricchezza grazie ai servizi resi (al netto delle spese per quelli ricevuti). I Risultati delle altre operazioni di intermediazione vengono riportati al fine di quantificare il risultato complessivamente prodotto da queste attività, tra loro eterogenee ma non riconducibili all’intermediazione diretta né alla prestazione di servizi. Significativo è anche il Risultato netto della gestione finanziaria (m. intermediazione ± rettifiche/riprese di valore per rischio di credito e assimilate), che esprime la performance economica delle operazioni finanziarie tipiche della banca, tenendo conto delle valutazioni relative al deterioramento dei corrispondenti valori dell’attivo. Se dal risultato netto della gestione finanziaria si sottraggono i costi operativi si perviene al Risultato operativo dell’attività ordinaria, che esprime la performance economica della banca tenuto conto dei costi di struttura sostenuti, che presentano carattere tendenzialmente ordinario e ripetitivo. Gli ultimi due aggregati prima di giungere al Risultato d’esercizio sono le Altre componenti correnti a carattere non ripetitivo [tendenzialmente straordinarie] e le Imposte sul reddito. è utile per studiare la performance reddituale della banca. Misura, infatti, il rendimento percentuale (al netto delle imposte) del patrimonio netto à sintesi della capacità della banca di produrre ricchezze degli azionisti. Il ROE viene peraltro utilizzato come parametro per confrontare il rendimento dell’investimento nel capitale di rischio di una banca con quello di investimenti alternativi con profilo di rischio similare, oppure per apprezzare la potenziale capacità della banca di distribuire dividendi e/o rafforzare il proprio patrimonio senza ricorrere ad aumenti di capitale. Il ROA (rendimento netto dell’attivo) 𝑈𝑡𝑖𝑙𝑒 (𝑝𝑒𝑟𝑑𝑖𝑡𝑎) 𝑑′𝑒𝑠𝑒𝑟𝑐𝑖𝑧𝑖𝑜 𝑇𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒 𝑎𝑡𝑡𝑖𝑣𝑜 misura il rendimento percentuale del complesso di impieghi in crediti, titoli, partecipazioni e immobilizzazioni che costituiscono l’attivo patrimoniale della banca. Nelle banche genericamente il ROA presenta ordini di grandezza fisiologicamente contenuti perché il loro business tipico comporta margini unitari sulle operazioni di intermediazione aventi anch’essi ordini di grandezza non elevati (e comunque vengono in larga parte assorbiti dai costi). Spesso, inoltre, si pone l’esigenza di misurare la redditività delle varie componenti a livello disaggregato. Infine, il ROI (rendimento lordo dell’attivo) 𝑅𝑖𝑠𝑢𝑙𝑡𝑎𝑡𝑜 𝑜𝑝𝑒𝑟𝑎𝑡𝑖𝑣𝑜 (𝑑𝑒𝑙𝑙′𝑎𝑡𝑡𝑖𝑣𝑖𝑡à 𝑜𝑟𝑑𝑖𝑛𝑎𝑟𝑖𝑎) 𝑇𝑜𝑡𝑎𝑙𝑒 𝑎𝑡𝑡𝑖𝑣𝑜 misura il rendimento percentuale dell’attivo prima di tenere conto delle imposte e degli altri componenti di reddito non operativi. Esso è quindi un indicatore di sintesi dell’efficienza e della competitività della banca. [considerazioni su ordine di grandezza ROI ≈ quelle del ROA] L’impatto di MIFID II sull’attività di consulenza sui servizi mobiliari Si ragiona in un’ottica consulenziale, ossia che riguarda raccomandazioni personalizzate (da parte dell’intermediario) che vengono rivolte al singolo cliente e che riguardano la composizione del suo portafoglio titoli. Le raccomandazioni sono personalizzate perché, in prima battuta, devono tenere conto della profilazione del cliente. La normativa europea MIFID II [per i nostri fini] ha prevalentemente due obiettivi: 1) trasparenza delle condizioni applicate alla clientela: esistono degli elementi di costo latenti che la clientela non vede e che determinano, quindi, un minore rendimento del prodotto [spesso neanche gli intermediari ne hanno una visione immediata]. MIFID II stabilisce, quindi, che la clientela debba essere messa al corrente di tutti gli elementi di costo connessi ai servizi finanziari di cui usufruiscono; 2) maggior grado di concorrenza sui mercati finanziari. MIFID II impatta su sette attività: È stato introdotto un doppio regime di consulenza: - consulenza non–indipendente: banca o suo consulente finanziario, SGR che gestiscono il portafoglio del cliente. C’è un conflitto di interessi, perché ciascuno di questi intermediari ha dei propri prodotti da offrire à li spalmano sul portafoglio del cliente; - consulenza indipendente: c’è un interlocutore – consulente indipendente (o autonomo), che non è un dipendente di una banca/altro intermediario, non ha una mandante e non ha prodotti propri (lo sfrutta come punto di forza dell’offerta alla clientela). Le differenze riguardano, tra l’altro, la remunerazione: i consulenti indipendenti richiedono “solamente” le commissioni di consulenza (fee only), mentre i consulenti non–indipendenti riportano le spese a diminuzione del rendimento del portafoglio. Nel caso della consulenza indipendente, inoltre, serve una struttura organizzativa autonoma e ci deve essere separatezza organizzativa tra le realtà (= strutture societarie) che svolgono le due tipologie di attività di consulenza. Se una banca vuole fare consulenza indipendente deve creare un’altra società, in cui lavorano soggetti diversi [unico modo]. Gli inducements sono incentivi, attività che dovrebbero indurre la clientela a selezionare i prodotti finanziari di una banca. Questi incentivi evidentemente causano delle distorsioni nella scelta dei prodotti finanziari, per cui interviene MIFID II, limitandoli in maniera significativa. Anche qui la normativa distingue i consulenti indipendenti dai consulenti non–indipendenti: Per quanto riguarda la consulenza non–indipendente, l’incentivo è ammesso con una serie di limiti: per essere considerato ammissibile, l’incentivo deve migliorare la qualità del prodotto e del servizio consulenziale dell’intermediario (es. formazione su un prodotto). Quando un nuovo prodotto viene lanciato sul mercato (es. fondo), si pone il problema di chi possa acquistarlo. MIFID II stabilisce che ogni nuovo prodotto debba avere un target market una clientela– obiettivo (ad es. non ha senso far comprare un prodotto con orizzonte di rendimento di 15 anni a un pensionato ottantenne). Questo aspetto di MIFID II in realtà non ha avuto particolare successo: tendenzialmente chi lancia nuovi prodotti individua target market enormi (es. clientela retail). I clienti, prima di poter comprare degli strumenti, devono essere profilati mediante un questionario (di profilazione) volto a verificarne l’esperienza, conoscenza, risk tolerance. Gli intermediari devono proporre investimenti coerenti con le caratteristiche di ciascun cliente. I portafogli devono essere dotati di adeguatezza: i clienti che si accorgono di avere portafogli non adeguati possono fare causa alla banca/consulente, con sicura vittoria. L’informazione è diventata in forma online per praticamente ogni cliente à scomodo ricercare gli elementi di costo à devono essere separati (o comunque evidenti) dal resto della rendicontazione. Con riferimento alla cornice regolamentare, invece, il sistema finanziario italiano si fonda sulla centralità dell’intermediario bancario. Il comparto della finanza aziendale, in Italia, ha avuto sviluppi significativi solo negli anni recenti, a causa dell’assetto normativo del settore finanziario e dell’intervento dello Stato. La riforma del ’36, infatti, era volta ad evitare il coinvolgimento diretto delle banche commerciali nelle vicende delle imprese, per evitare trasmissioni delle crisi potenzialmente molto dannose. Di conseguenza, la regolamentazione del sistema finanziario italiano fu incentrata sul principio della specializzazione temporale, realizzato attraverso la suddivisione netta tra operatori atti a raccogliere risparmi a breve scadenza e deputati a finanziare esclusivamente il redito commerciale [aziende di credito] e operatori cui era riservato il finanziamento a medio e lungo termine sul presupposto di una raccolta di pari durata [istituti di credito speciale]. A partire dagli anni Novanta, il sistema finanziario è stato protagonista di numerosi cambiamenti, dovendo adeguarsi alle esigenze della globalizzazione, all’adozione degli strumenti dell’ICT, al processo di deregolamentazione e alla progressiva integrazione dei mercati finanziari (unione monetaria europea). Si è diffuso, così, il modello della banca universale e il comparto è stato privatizzato; il tutto accompagnato dalla liberalizzazione dell’apertura degli sportelli, l’ampliamento dell’area di business, l’adozione di un sistema di vigilanza prudenziale da parte della Banca d’Italia. Un ruolo importante ha anche iniziato ad acquisirlo l’assistenza finanziaria alle imprese. Un altro elemento di cui tenere conto per comprendere il mercato italiano è che storicamente il sistema fiscale non si è posto in maniera neutrale relativamente alle scelte di finanziamento delle imprese, incentivando la crescita del sistema industriale attraverso interventi volti a favorire la convenienza a ricorrere in maniera sistematica e prevalente al finanziamento bancario. Nell’ambito dell’investment banking, quindi, l’esperienza italiana presenta diverse peculiarità, una fra tutte il capitalismo prettamente famigliare, che dà origine per lo più a piccole–medie imprese. Prevalente, quindi, è l’indebitamento bancario delle imprese (finanziamenti > ricorso ai mercati). Inoltre, sono poche le banche italiane con una vera e propria presenza internazionale [Unicredit, IntesaSP, Mediobanca]. Un altro “ostacolo” a tale categoria di attività è dato da alcuni aspetti regolamentari sugli investimenti mobiliari e sull’assunzione di partecipazioni. L’unico vero operatore italiano comparabile con le banche di investimento internazionali di grandi dimensioni (era ed) è Mediobanca, unica investment bank storica del mercato italiano. Nelle altre banche [Intesa, Unicredit] l’attività di investment banking è sì presente, ma non costituisce il core business. La gestione crediti L’impiego in crediti a fronte della raccolta di risparmio rappresenta tradizionalmente la principale attività bancaria. La concessione di affidamenti, tuttavia, espone la banca ad una serie di rischi, in primis quello di credito, accompagnato da quello di liquidità e di tasso. L’attività di impiego è un processo complesso e articolato, soggetto a vincoli esogeni ed endogeni che concorrono a definire la dimensione e la composizione aggregata del portafoglio prestiti (in una logica di diversificazione e frazionamento), ma anche la selezione e il controllo (screening e monitoring) delle singole posizioni che compongono il totale degli affidamenti. Per ogni affidamento, la banca è chiamata a definire le condizioni economiche che incorporino, tra gli altri elementi, il costo della raccolta e del capitale proprio funzionali a finanziare gli impieghi, i costi operativi associati all’attività di finanziamento nonchè il costo implicito delle perdite su crediti sia attese sia inattese, al fine di definirne la redditività. Il valore atteso del rendimento delle singole posizioni, a sua volta, determinerà il rendimento del portafoglio crediti complessivo. Per politica dei prestiti si intende l’insieme di tutte quelle azioni che sono volte a conseguire gli obiettivi programmati di: Ø Dimensione (ammontare assoluto, diversificazione, frazionamento): che rilevanza si vuole dare al mondo prestiti nel business della propria banca? Quanto è diversificato il portafoglio prestiti? Ø Composizione qualitativa (screening); Ø Rischi conseguibili (monitoring: attività più difficile e delicata rispetto allo screening, di solito è proprio quella che porta problemi); Ø Pricing: risente molto di strategie commerciali (implementate in relazione all’elasticità della domanda, ad esempio prestiti la cui domanda tipicamente è molto elastica sono i mutui). Ø Raccolta: è la “materia prima”, permette di avere risorse da impiegare in prestiti. Sono obiettivi connessi tra di loro e con il passivo della banca; infatti, la banca ha un proprio obiettivo finale di dimensione del portafoglio prestiti associato ad un determinato e prescelto livello di rischio-rendimento (à patrimonio e assorbimento patrimoniale) e cerca di perseguirlo con adeguati strumenti. Infatti, la gestione dei prestiti costituisce un’attività della banca finalizzata alla gestione del rischio di credito e alla minimizzazione delle perdite subite dalla banca nell’ambito della propria attività creditizia. Essa possiede, allo stesso tempo, natura finanziaria e natura relazionale. Ciò significa che la gestione dei prestiti deve utilizzare strumenti e tecniche di misurazione e gestione del rischio, tipiche dell’attività finanziaria, insieme ad approcci e modalità operative di natura relazionale, tipiche di attività commerciale e di gestione dei rapporti di clientela. Il nuovo approccio alla gestione dei prestiti, in particolar, si fonda su tre fattori: • misurazione analitica del rischio di credito, slegata da valutazioni soggettive; • maggiore formalizzazione e unitarietà della gestione del rischio di credito (sia micro che macro); • cultura creditizia più attenta agli effetti (perdite) determinati sul valore del portafoglio prestiti e sul CE della banca. Dunque, il punto di partenza è costituito dalla declinazione del rischio di credito, al fine di inquadrare i differenti ambiti in cui si articolano i processi creditizi e di gestione dei prestiti. È possibile articolare la definizione del rischio di credito lungo tre dimensioni: F finanziaria: legata al mancato rispetto delle scadenze contrattuali, determina per la banca costi legati alla gestione del mancato pagamento e costi finanziari e di tesoreria (es. costi di funding non remunerati); F economica: legata alla mancata restituzione, parziale o totale, delle somme dovute; F reddituale: legata a una variazione non prevista e non remunerata della rischiosità di un prestito che, a livello aggregato, si traduce in una perdita inattesa. La perdita attesa consiste nella misura della perdita che una banca si aspetta su un finanziamento erogato o su un pool di esposizioni, con riferimento a un dato orizzonte temporale (1 anno); è un evento negativo, ma pianificato, c’è un certo grado di copertura in bilancio. La perdita attesa dipende da tre grandezze (perdita attesa = PD ∙ LGD ∙ EAD): - probability of default = probabilità d’insolvenza (PD): è la probabilità che l’impresa “si renda inadempiente nell’arco di un dato orizzonte temporale” e dipende dalle caratteristiche economico-finanziarie e di business dell’impresa; - exposure at defult = esposizione al momento del default (EAD): misura la quota di capitale residuo ancora da rimborsare nel momento in cui il debitore diventa inadempiente; - loss given default = quota di credito non recuperabile (LGD): è quella “parte dell’esposizione che andrà perduta all’eventuale verificarsi dell’inadempienza”. Queste ultime due dipendono dalle caratteristiche tecniche del finanziamento, dalle garanzie, dalle procedure e dai costi per il recupero in caso di insolvenza. La perdita attesa si calcola anche in base a M, ossia la “scadenza economica residua dell’esposizione”. La perdita inattesa è la differenza tra perdita effettivamente sostenuta dalla banca e perdita attesa. Essa non è in alcun modo prevedibile e viene coperta attraverso il patrimonio (Fondi propri). Può essere generata da una variazione imprevista della PD o della LGD (anche se, in generale, deriva dal manifestarsi di più fattori in contemporanea). Il concetto di perdita inattesa è collegato al value at risk (VaR), cioè il valore massimo di perdite in cui una banca può incorrere con una certa probabilità, con riferimento a un dato orizzonte temporale e a un dato portafoglio di prestiti. La logica è quella di associare. Una probabilità a ogni eventuale valore di perdita, in modo da avere una funzione continua di tutte le possibili eventualità. Si può in questo modo quantificare l’entità di patrimonio che consenta di far fronte alle peggiori eventualità. La perdita attesa, dunque, è data dal valore medio della distribuzione delle perdite; la perdita inattesa è definita come la volatilità della perdita attorno al suo valore medio. In generale, la concessione del credito si propone di ottimizzare tre macro-aspetti: 1) minimizzare il rischio di credito; 2) valorizzare i rapporti di clientela; 3) rispettare i vincoli e gli adempimenti previsti dalla regolamentazione bancaria. Con riferimento al credit risk management, esso in estrema sintesi è impostato lungo tre direttrici gestionali: a) portfolio management (gestione, diversificazione, frazionamento del portafoglio); b) pricing, per trasferire ai richiedenti credito il costo della perdita attesa attraverso il suo inserimento all’interno del tasso di interesse (proporzionalmente al grado di rischiosità); c) selezione, per scegliere i progetti di investimento con il miglior rapporto rischio/rendimento. Queste tre dimensioni devono essere integrate e completate da altre attività volte alla minimizzazione della perdita attesa e inattesa. Pertanto, la gestione del credito risulta complessa e pervasiva dei processi organizzativi e dell’intera attività bancaria. Infatti, occorre assicurare un continuo e puntuale processo di monitoraggio del comportamento del debitore per incentivare correttezza e rispetto degli accordi contrattuali. Comunque, oltre al pricing la banca utilizza diverse modalità per trasferire il rischio di credito a soggetti terzi (es. assicurazioni, mercato, altri intermediari) attraverso polizze assicurative, derivati su crediti, cartolarizzazione. Queste modalità contribuiscono al controllo della rischiosità senza compromettere il rapporto con la clientela richiedente e, soprattutto, permettono alla banca di operare con maggiore discrezionalità, mantenendo la rischiosità entro i livelli desiderati. La gestione del portafoglio prestiti è influenzata da variabili sia tecnico-operative sia di natura strategico-istituzionale collegate agli obiettivi della banca e al ruolo svolto nel contesto socio- economico di riferimento. La prima scelta, in particolare, riguarda il volume obiettivo di impieghi in prestiti che la banca decide di detenere [influenzata prevalentemente da elementi di natura endogena: caratteristiche della raccolta, patrimonializzazione…]. Il secondo ambito di gestione del portafoglio prestiti riguarda la sua composizione; le scelte ad essa relative sono finalizzate, prevalentemente, alla minimizzazione della componente inattesa delle perdite generate dal rischio di credito (à diversificazione e frazionamento). Di seguito l’analisi dei nove elementi chiave della gestione crediti: 1. Screening e Monitoring: lo screening è l’attività di selezione degli affidamenti (tipicamente alla prima concessione), ed ha un ruolo fondamentale nella riduzione delle asimmetrie informative e nell’incentivare un adeguato livello di efficienza allocativa dei fondi raccolti. Essa è finalizzata alla gestione del rischio specifico (perdita attesa) e si articola nelle fasi di: a) raccolta delle informazioni (e verifica della loro correttezza e completezza) anagrafiche, economico-patrimoniali, di governance [per le imprese]; - Dimensione delle imprese finanziate; - Qualità delle imprese finanziate; - Screening geo-settoriale dei crediti (es. è più facile fare funding per importi piccoli al Sud, per poi impiegarli al Nord). Frazionamento in questo caso è inteso come suddivisione nei vari ambiti riportati sopra. Gestire la diversificazione del portafoglio prestiti è un’attività complessa poiché esistono difficoltà di misurazione della correlazione fra prestiti e, soprattutto, non è semplice influenzare la domanda di credito, indissolubilmente legata ai bisogni del richiedente e all’andamento del suo fabbisogno finanziario. Inoltre, molti studi hanno dimostrato come sia più efficace la diversificazione per aree geografiche, piuttosto che per settori [nel medesimo paese]. 7. Gestione crediti e risk appetite: occorre tenere conto del rischio di interesse (o altri tipi di rischi di mercato es. rischio valutario), che viene trattato nella più ampia gestione dell’asset liability management; ma anche del rischio di credito, che invece va trattato in modo più specifico nelle politiche dei prestiti. La valutazione del rischio di credito è collegata essenzialmente: •alla situazione economico-finanziaria-patrimoniale attuale e prospettica della clientela affidata; •alla quantità e qualità delle informazioni detenute sulle imprese affidate. La valutazione dell’impresa affidata è complicata dalla probabilità che si verifichi una situazione di insolvenza legata: • alla curva di vita dell’azienda; • al momento congiunturale; • alla presenza o al possibile verificarsi di una crisi settoriale o territoriale. Il problema, dunque, riguarda la definizione dei tassi «CORRETTI per il rischio» da applicare. I tassi normalmente devono essere applicati in una logica di rischio-rendimento alla luce dei vincoli esistenti (concentrazione del rischio e suoi limiti; tassi di usura: non superare certe soglie nella definizione dei tassi). 8. Crediti deteriorati e default: si riscontrano durante l’attività di monitoraggio delle singole posizioni creditorie. Sono definite attività finanziarie “deteriorate” le sofferenze (lorde: valore nominale dell’intera posizione in default, nette: importi rettificati dell’ammontare complessivo delle perdite di valore, e “rettificate”: esposizioni complessive per cassa di un affidato, eraltro segnalato alla CR in sofferenza da un intermediario, verso il sistema finanziario), gli incagli [operazioni in cui c’è stato un ritardo nell’adempimento del soggetto affidato che però non contempla ancora un’insolvenza conclamata, potrebbe risolversi, ad es., nel momento in cui l’impresa ottiene un flusso di risorse che attendeva], i crediti scaduti o sconfinanti, i crediti ristrutturati. Dal 1° gennaio 2021 è entrata in vigore la nuova definizione di default prevista dal Regolamento europeo relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento (articolo 178 del Reg. UE n. 575/2013). La nuova definizione di default prevede che, ai fini del calcolo dei requisiti patrimoniali minimi obbligatori per le banche e gli intermediari finanziari, i debitori siano classificati come deteriorati (default) al ricorrere di almeno una delle seguenti condizioni: a) il debitore è in arretrato da oltre 90 giorni (in alcuni casi, ad esempio per le amministrazioni pubbliche, 180) nel pagamento di un’obbligazione rilevante; b) la banca giudica improbabile che, senza il ricorso ad azioni quali l’escussione delle garanzie, il debitore adempia integralmente alla sua obbligazione. La condizione b) era già in vigore e non cambia in alcun modo. Per quanto riguarda la condizione a), un debito scaduto va considerato rilevante quando l'ammontare dell’arretrato supera entrambe le seguenti soglie: i. 100 euro per le esposizioni al dettaglio e 500 euro per le esposizioni diverse da quelle al dettaglio (soglia assoluta); ii. l'1 per cento dell’esposizione complessiva verso una controparte (soglia relativa). Superate entrambe le soglie, prende avvio il conteggio dei 90 (o 180) giorni consecutivi di scaduto, oltre i quali il debitore è classificato in stato di default. 9. Cartolarizzazione: in Italia una significativa parte del mercato delle cartolarizzazioni è stata riferita a posizioni di pessima qualità nel portafoglio prestiti delle banche. Per spiegazione più approfondita: vedi sopra. La banca, infine, agisce anche a tutela del credito. Il passaggio da esposizioni in bonis a esposizioni deteriorate impone alla banca di intervenire attraverso: [ la dismissione delle posizioni di credito non performing [cartolarizzazione punto 9]; [ la rinegoziazione delle condizioni del contratto; [ l’avvio di azioni giudiziali (recupero forzoso). Nella valutazione delle opzioni a disposizione, la banca è chiamata a determinare il tasso di perdita attesa per ogni soluzione alternativa, esprimendo i flussi monetari al netto degli oneri associati alle diverse ipotesi di intervento.