Scarica Educazione visuale - Previtali e più Sintesi del corso in PDF di Linguaggio Audiovisivo solo su Docsity! RIASSUNTO: “EDUCAZIONE VISUALE” di Giuseppe Previtali. Capitolo 1: L’EDUCAZIONE VISUALE OGGI. E’ ormai noto come le giovani generazioni oggi siano molto più esposte rispetto al passato ad un flusso costante di immagini, grazie soprattutto ai diversi dispositivi digitali. I bambini, già da piccolissimi, manifestano un grande interesse per i dispositivi digitali ed interagiscono con essi sempre più in fretta, portando con sé non poche criticità (bullismo filmato, sexting etc). Allora, una prima questione da porci riguarda il cosiddetto “equivoco della competenza strumentale”: se da un lato è vero che i bambini di oggi sanno utilizzare in modo raffinato i dispositivi digitali, dall’altra parte, la loro capacità di utilizzare uno strumento non esaurisce il problema di un’educazione alla medialità, ma semmai lo complica; la competenza strumentale non può essere l’obiettivo di un processo educativo, perché esso deve occuparsi piuttosto di fornire al bambino degli strumenti critici per ripensare alla propria esperienza, decostruendola anche in modo creativo. Questo processo di alfabetizzazione deve cominciare nell'ambito familiare dove è bene non abbandonare il bambino in balia dei dispositivi o dei contenuti solo per tenerlo tranquillo. Piuttosto è bene pensare al mondo dei media audiovisivi come ad una risorsa tra le molte possibili a disposizione del bambino, alla cui scoperta dovrà essere accompagnato in un percorso graduale che lo porti ad appropriarsene in modo attivo e partecipe. Tuttavia, l’educazione visuale dovrebbe trovare luogo principalmente in ambito scolastico. La disciplina scolastica che attualmente è più vicina alla prospettiva dell’educazione al visivo è senza dubbio quella di arte e immagine. Tuttavia, sebbene l’importanza dei media e della comunicazione audiovisiva all’interno del processo di crescita e sviluppo del bambino sia da tempo stata riconosciuta sia dalle indicazioni nazionali che dalla riflessione pedagogica, ancora allo stato attuale manca in molti contesti scolastici un progetto organico di introduzione ai linguaggi mediali, trasformando la materia di arte e immagine ad un qualcosa di purtroppo lontano dall’esperienza visiva concreta delle giovani generazioni. Un progetto di educazione visuale, dunque, non dovrebbe concentrarsi solo sullo studio di immagini artistiche, certamente importanti per sviluppare il gusto estetico e la conoscenza del patrimonio storico-artistico, ma bisogna anche tener conto del modo effettivo con cui le giovani generazioni fanno esperienza delle immagini (la fotografia, il cinema, i dispositivi audiovisivi devono essere oggetto di studio). Un esempio di come sia possibile operare in questi termini è offerto da Pulvirenti in un suo manuale per la scuola secondaria di primo grado in cui si propongono diversi compiti di realtà, tra cui, per esempio i ‘tableaux vivants’ in cui viene chiesto agli studenti di provare a ricreare con il proprio corpo la posizione dei personaggi di un quadro e fotografare la scena; l’attività ha l’obiettivo di far entrare gli studenti in un rapporto più diretto con l’opera: infatti, per realizzare un tableau vivant serve grande attenzione al dettaglio e una capacità di confronto costante fra l’opera che si è presa a modello e la realtà. Le fotografie ottenute potranno poi essere rielaborate attraverso strumenti come Photoshop e altri software di grafica, per sostituire ad esempio parti della foto con parti del quadro, coinvolgendo gli studenti in prima persona in un progetto creativo e partecipato. 1.1. Dalla didattica del cinema all’educazione visuale Sin dai primi strumenti di proiezione a cavallo fra il XVII e XVIII secolo, l’immagine ha sempre avuto un ruolo importante, ma al contempo problematico nei dibattiti educativi. Convenzionalmente, possiamo distinguere tre fasi nel dibattito pedagogico in Italia negli anni ’50: 1) Dal Dopoguerra ai primi anni Cinquanta: sin dalle origini il medium cinematografico è stato visto come un possibile strumento didattico in grado da un lato di far risparmiare tempo e attivare al meglio l’attenzione degli studenti e dall’altro di sostituirsi alla realtà e quindi configurarsi come illustrazione a supporto delle diverse discipline scolastiche; infatti, in questo periodo, l’unico genere cinematografico ammesso in contesto educativo è quello didattico-documentario, mentre il film spettacolare è considerato in termini negativi a causa del suo potenziale diseducativo. 2) A metà degli anni Cinquanta: la considerazione negativa del film spettacolare comincia a venir meno progressivamente e al contempo si fa strada l’idea di educare al cinema le giovani generazioni. 3) Dalla fin degli anni Cinquanta in avanti: Il film spettacolare viene rivalutato perché si riconoscono le sue potenzialità di formazione; esso inizia ad entrare nelle pratiche educative, scolastiche ed extra-scolastiche, sia come strumento che come oggetto di interventi. Cade progressivamente, nei contesti educativi, il monopolio del film didattico-documentario. Soprattutto il testo filmico non viene più visto soltanto come facilitatore di conoscenze, ma il cinema inizia ad essere inteso come qualcosa da studiare e conoscere in sé stesso. Inoltre si incominciò anche a riflettere sul modo in cui i bambini e ragazzi si rapportano ai film: si riconobbe sin da subito come la comprensione dei contenuti di un film aumenti proporzionalmente con l’età e lo sviluppo cognitivo. A tal proposito, in questo periodo ebbe particolare seguito la posizione di Henry Wallon secondo il quale si distinguerebbero in particolare due fasi principali nella comprensione di un film da parte del bambino: - dai 3 ai 6/7 anni, in cui le sequenze o addirittura un intero film non vengono colte se non in termini confusi e incoerenti. - dai 7 ai 12 anni, in cui il bambino riesce via via in termini crescenti ad accogliere e collegare i vari elementi che gli si presentano sullo schermo, giungendo ad una comprensione sufficientemente matura del linguaggio audiovisivo. 1.1.2 La Media Education. Il concetto di media education, utilizzato per definire le forme di dialogo fra saperi pedagogici e linguaggi mediali, si è diffuso in Italia a partire dagli anni ‘90. Tale concetto permette di sottolineare come oggi sia più possibile pensare di effettuare interventi pedagogici legati esclusivamente al cinema o ad altri specifici media. Secondo Rivoltella, una delle voci più autorevoli nel campo della media education in Italia, un curricolo di educazione mediale ben progettato deve prendere in considerazione almeno tre aspetti: 1) l’acquisizione di competenze tecniche; 2) l’utilizzo dei linguaggi in modo creativo; 3) lo sviluppo di una consapevolezza critica: l’obiettivo più ambizioso della media education: fornire strumenti di analisi e di giudizio delle immagini. Così come la pedagogia del cinema, anche la media education ha visto susseguirsi una varietà di approcci diversi: 1) L’approccio inoculatorio: tale approccio rimanda all’ambito sanitario. Sviluppando la metafora dell’ago epidermico, i media avrebbero la capacità di agire sotto pelle, condizionando i loro spettatori. Quindi l’azione dei media è vista come potenzialmente nociva e l’educazione ai media consiste in un’opera di protezione. 2) Il paradigma del pensiero critico: inizia a diffondersi l’idea che non sia necessario proteggere paternalisticamente gli utenti dagli effetti negativi dei media, ma piuttosto dotarli di un pensiero critico che li renda in grado di operare da soli le proprie scelte. Il compito fondamentale della media education in questo contesto è quello di dotare l’individuo di capacità decostruttive, che gli permettano di analizzare non soltanto il funzionamento dei testi mediali, ma anche di disinnescare i presupposti ideologici. 3) Il movimento delle Arti Popolari: sviluppatosi contestualmente al paradigma del pensiero critico, ma localizzato principalmente in America Latina, questo approccio evidenzia l’importanza della creatività, in risposta al potere modellizzante dei media. In un contesto culturale fortemente segnato dalla presenza di produzioni culturali importate dagli Stati Uniti, imparare a ripensare criticamente i testi mediali significa prima di tutto esercitare una forma di cittadinanza consapevole. 4) L’approccio “immagini e coscienza”: questo approccio sottolinea l’importanza di studiare i consumi e il modo in cui viene fatta concretamente esperienza dei media, valorizzando il modo in cui ciascuna cultura si riappropria di quanto fruisce. Ciò sottolinea in modo chiaro come lo spettatore non possa più essere concepito come un’entità astratta e legata alla passiva replicazione di contenuti. Da questa breve disamina, si intuisce come uno degli obiettivi chiave della media education sia quello di simile approccio è che i media continuano ad essere percepiti come qualcosa che deve rimanere al di fuori dell’aula scolastica e che implica soltanto svago e divertimento, senza alcun tentativo di integrazione delle competenze che un loro utilizzo consapevole guidato potrebbe sviluppare. Un’eccezione in questo contesto è offerta dalla diffusione, soprattutto nella secondaria di primo grado, di compiti di realtà, ossia vere e proprie situazioni-problema che lo studente è chiamato a risolvere; tali compiti rappresentano anche degli nello strumenti efficaci anche per valutare l’effettiva acquisizione di competenze trasversali funzionali all’esercizio di una cittadinanza attiva da parte degli studenti. Poiché il compito di realtà mobilità per la sua stessa natura una serie di questioni trasversali, allora al posto delle modalità di valutazione legate a prove strutturate (questionari, colloqui orali ecc), appaiono più efficaci le rubriche di valutazione. 1.2 Arte e immagine nella scuola di oggi Nella scuola di oggi è la disciplina di Arte e immagine quella maggiormente legata alle questioni della media education. Per individuare le basi della sua attuale fisionomia bisogna risalire ai programmi didattici per la scuola primaria del 1985; qui c'è il riconoscimento dell'ambiente scolastico come spazio per stimolare la creatività dello studente in accordo con una sua alfabetizzazione culturale generale. Inoltre, riferendosi specificatamente alla disciplina di educazione all’immagine, il programma ministeriale promuove un’interpretazione molto larga del concetto di immagine, che viene definita come un messaggio, cioè una sequenza di segni, suoni, forme eccetera con la quale si intende comunicare qualcosa. In questo contesto rientrano già sia l'immagine filmica che quella televisiva, alle quali lo studente dovrà essere alfabetizzato. Colpisce in particolare, anche in considerazione del fatto che in media i linguaggi mediali non sono neppure oggi perfettamente integrati all'interno delle attività didattiche. Già allora si parla della distinzione tra le immagini che derivano dal disegnare, dipingere, modellare, incidere da quelle che rimandano alle tecnologie dei mezzi di comunicazione di massa e si sottolinea l'importanza di far comprendere all’alunno il potenziale ideale e creativo di entrambi i metodi. Un pericolo da evitare a tutti i costi è quello del vuoto tecnicismo: il bambino non dovrà infatti intendere la disciplina come momento di acquisizione passiva di concetti e strumenti, ma come un vero e proprio laboratorio espressivo che lo porti alla scoperta della complessità del mondo e dei modi per restituirla creativamente. I programmi del 1985 si mostrano già particolarmente ricettivi rispetto alla centralità che media e audiovisivi hanno nella vita del bambino. Un valore fondamentale è dato non soltanto alla conoscenza degli elementi linguistici messi in gioco dai media audiovisivi, ma anche alla necessità di un’alfabetizzazione attiva legata ad esperienze di produzione, che fanno riferimento ai diatape, all'esperienza cinematografica e televisiva. Per quanto riguarda il film, la forma privilegiata di produzione scolastica si basa sull' animazione a passo ridotto, intesa come strumento privilegiato per sviluppare competenze comunicative e creative; la televisione è invece vista come qualcosa da cui il bambino deve essere difeso o almeno schermato. (Il diatape consiste in un qualsiasi proiezione, manuale o automatica, di diapositive accompagnate dal sonoro. La diapositiva, già disponibile o prodotta per l'occasione, è un'immagine fotografica che deve essere proiettata ed il diatape si costruisce per accumulazione, a partire dalla giustapposizione di una successione di diapositive. Sarebbe interessante ad esempio mostrare una diatape agli studenti di oggi per mostrare come le modalità di lavoro con le immagini sono cambiate nel corso di qualche decennio, in quanto oggi queste operazioni vengono svolte tramite computer. Anche il semplice Powerpoint può essere usato a questo scopo e affidato completamente ai bambini della scuola primaria, rivelandosi un ottimo supporto per altre attività esplorative e ludiche) Pur rinnovando il panorama didattico delineato nel 1983 e attribuendo centralità anche ai media audiovisivi, i programmi 1985 non hanno sottolineato abbastanza gli effetti profondi che un’educazione all'immagine dovrebbe porsi verso le nuove generazioni. Nonostante il riconoscimento teorico della necessità di operare in chiave interdisciplinare, l'insegnamento dell'educazione all'immagine nella scuola italiana è rimasto ancorato a metodologie e continuati tradizionali. Un’educazione al visivo che si voglia contemporenea, invece, bisognerebbe far sì che il bambino diventi più attento e critico nei confronti dell'immagine e per fare ciò lo si dovrebbe abituare a conoscere le caratteristiche e le convenzioni del linguaggio audiovisivo e dovrebbe essere abituato ad esprimersi anche con le immagini. Questo obiettivo si articola in una serie di obiettivi che riprendono le indicazioni dei programmi ministeriali; accanto a questo ci sono obiettivi trasversali e collaterali a conferma del fatto che operare con i media e sui media sviluppi una serie di competenze che possono essere spese anche in altre discipline: - maggiore precisione nell'osservazione e nella descrizione - maggiori bravura nel distinguere, collegare e confrontare - maggiori reazioni critica non solo verso le immagini ma anche verso altre realtà e stimoli - maggiore capacità di esprimersi con più linguaggi - maggiori abilità nell’organizzarsi sia nei lavori individuali che in quelli di gruppo - maggiore prontezza di riflessi - sapere scoprire e dominare meglio lo spazio nel tempo - maggiore scioltezza logico-linguistica, grafico-pittorica, mimico-gestuale, manipolativo, tecnica ed espressiva in genere. 1.2.1. Il panorama degli anni Novanta Oltre ai documenti ministeriali, un ruolo importante nell'integrazione dei media audiovisivi all'interno della scuola, oltre che nella definizione disciplinare della media education, è stato svolto dalle associazioni. Tra cui: - La EAAME (European Association for Audiovisual Media Education), avente come obiettivo la definizione di un network internazionale in grado di mettere in comunicazione tutte le figure impiegate a vario titolo nel difficile compito di educare alla medialità. Questa associazione si basa sulla convinzione dell'importanza dell'educazione ai media audiovisivi e vuole incoraggiare un atteggiamento critico e attivo nei loro confronti. - La MED (Associazione Italiana per l'Educazione ai Media e alla Comunicazione), fondata nel 1966; tra i suoi obiettivi c'è la promozione della formazione di docenti ed educatori ai linguaggi mediali e l'ideazione, implementazione e verifica di curricoli di Media Education nei vari ordini e gradi scolastici. - Il Piano nazionale per la promozione della didattica del linguaggio cinematografico e audiovisivo, un importante progetto che si proponeva di implementare in ogni ordine e grado di scuola nuove prospettive metodologiche e strategie didattiche per l'insegnamento del visivo. L'obiettivo era quello di ripensare il rapporto tra università e scuola ed istituire strategie di dialogo e laboratori permanenti per indagare e affrontare le nuove sfide che l'audiovisivo pone alla didattica. Ciò che il piano evidenzia è la necessità di adottare un'ottica il più possibile sistemica e che sia capace di includere in una prospettiva coerente le varie iniziative che da anni alcuni docenti e istituti vanno sviluppando in modo autonomo. Dal punto di vista teorico poi uno dei lasciti più importanti di questa esperienza è il riconoscimento definitivo di come l’audiovisivo sia il nostro ovvio culturale, una sorta di ambiente nel quale tutti siamo immersi e che contribuisce a definire non soltanto i nostri gusti ed atteggiamenti, ma anche le nostre reazioni e il modo in cui facciamo esperienza del mondo. Non si tratta, insomma soltanto di lavorare con gli audiovisivi, intesi come supporto didattico o sugli audiovisivi, imparando i loro linguaggi, ma più in generale di riconoscere che la nostra esposizione continua agli schermi può contribuire a produrre meta conoscenze, a sviluppare competenze di base trasversali. anni ‘90 sono insomma stati per la scuola e la media Education italiana un periodo di grande vivacità. 1.2.2. Le indicazioni nazionali per il curricolo (2007-2012) Nel 2007, le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell'infanzia e per il primo ciclo d'istruzione segna un importante aggiornamento per quanto riguarda il dibattito sul rapporto tra educazione all'immagine e linguaggi audiovisivi. La nascita di un documento unico che pone obiettivi di apprendimento graduali progressivi dalla scuola dell'infanzia alla secondaria di primo grado evidenzia la necessità di un approccio integrato che si ponga come obiettivo primario l’alfabetizzazione culturale di base dello studente, in vista di un suo esercizio consapevole e attivo della cittadinanza. Fin dalla scuola dell'infanzia, l'importanza dell'educazione all'immagine è evidenziata da uno specifico campo di esperienza (Linguaggi, creatività, espressione) che raccoglie non solo le arti visive ma anche la musica e le espressioni performativo gestuali. Si evidenzia, così, come l'educazione alle immagini debba essere intesa prima di tutto come un avviamento all'esercizio della creatività attraverso la sperimentazione di linguaggi differenti. Oltre allo sviluppo del senso estetico, ciò è funzionale ad una migliore e più approfondita conoscenza di sé, degli altri e del mondo. Con riferimento specifico ai nuovi media, si afferma inoltre che il bambino si confronta con i nuovi media e con i nuovi linguaggi della comunicazione sia come spettatore sia come attore. La scuola può aiutarlo a familiarizzare con l’esperienza della multimedialità, favorendo sin dall’infanzia la costruzione di un rapporto attivo e non passivo con i media; quindi in origine andranno preferite attività di libera esplorazione e di ripensamento delle proprie attività mediali, per cominciare a rendersi conto della complessità insita in tutti quei gesti e azioni e si compiono. Rispetto ai traguardi di competenza previsti dalle indicazioni per la fine della scuola dell'infanzia, si segnala: - il bambino segue con attenzione con piacere spettacoli di vario tipo; sviluppa interesse per la fruizione e l'analisi di opere d'arte - esplora le possibilità offerte dalle tecnologie per fruire delle diverse forme artistiche, per comunicare e per esprimersi attraverso di esse Nella scuola del primo ciclo si fa spazio progressivamente la necessità di fornire allo studente gli strumenti per un’alfabetizzazione culturale di base che passi attraverso l'acquisizione dei linguaggi e degli strumenti delle varie discipline, come punti di vista diversi sulla realtà e chiavi di interpretazione del mondo. È importante valorizzare le competenze pregresse degli alunni, considerando anche quelle acquisite in contesti di apprendimento informale (il cosiddetto ‘curricolo occulto’) per installarvi nuove conoscenze; l'abitudine a lavorare in gruppo sarà poi occasione per sviluppare un senso critico e un'attitudine al confronto. In questo modo l'acquisizione di contenuti disciplinari e delle competenze trasversali avviene solo nel momento in cui lo studenti è messo nella condizione di problematizzare ciò che apprende, considerandolo come un sapere in costante evoluzione. L'area linguistico-artistico-espressiva è quella che più da vicino riguarda il discorso sull'educazione ai media perché si pone in un'ottica transmediale: l'alunno sarà guidato a riflettere sul fatto che nella realtà quotidiana raramente un solo linguaggio assolve il compito di realizzare una comunicazione efficace in quanto i vari linguaggi si supportano e integrano. La disciplina di Arte e immagine viene inoltre concepita come un ponte tra l'apprendimento formale (la scuola) e la vita degli studenti ed è fondamentale per lo sviluppo delle capacità di analisi critica e di rielaborazione personale dei contenuti audiovisi. A questo proposito anche se nelle Indicazioni permane il riferimento alla lettura delle immagini che coinvolge soltanto le opere d'arte, si dimostra molto aperta rispetto al tema dell'introduzione dei linguaggi mediali nella scuola. La prospettiva delle indicazioni 2007 è stata ripresa e integrata dalle successive Indicazioni nazionali del 2012. Colpisce in particolare la capacità delle indicazioni 2012 di fornire una fotografia della società e della cultura contemporanea evidenziando le nuove sfide che l’educazione delle giovani generazioni presenta: la diffusione sempre più massiccia del dispositivi della comunicazione dell’informazione, infatti, non si accompagna necessariamente ad un maggior grado di consapevolezza nel loro utilizzo, cui segue l’emergere di nuove forme di emarginazione culturale e di analfabetismo. In questo ambito, quindi l’obiettivo non è il “saper utilizzare”, ma piuttosto quello di “saper utilizzare in modo critico e consapevole”. Quello di cui i giovani hanno bisogno è che la scuola si assuma un ruolo di guida, che li instradi ad una visione più complessa del mondo riuscendo a valorizzare quell’insieme di conoscenze e competenze apprese al di fuori dell'aula. E’ in questo contesto che si evidenzia il ruolo chiave della Media Education, la quale aiuta lo studente, alla fine della scuola secondaria di primo grado, a dimostrare una buona competenza digitale, ad usare con consapevolezza le tecnologie della comunicazione per ricercare e analizzare dati, per distinguere Per risolvere questa apparente contraddizione, è possibile riferirsi ad una distinzione operata da Marra (2017) fra hardware e software della fotografia. L’hardware si riferisce alla struttura materiale del mezzo, il suo funzionamento macchinale; il software, invece, si riferisce a tutte quelle idee e valori culturali che con il tempo sono stati associati all’immagine fotografica. Quindi è possibile risolvere la contraddizione: il medium fotografico, pur essendo andato incontro a importanti evoluzioni tecniche (modificando il cosiddetto hardware) sembra aver mantenuto nel tempo diverse delle funzioni sociali e culturali (software). Allora, a mutare nel tempo è stato l’hardware fotografico, mentre sono rimaste quasi inalterate le principali funzioni culturalmente attribuite alla fotografia. La struttura dell’hardware fotografico consta di due parti: - una componente ottica, il cui scopo è quello di raccogliere le immagini del mondo; la componente ottica si basa sul principio della camera obscura, che era utilizzata dai pittori del Rinascimento per la realizzazione dei dipinti. La camera obscura è replicabile anche in classe e consiste nel raggiungere l’oscurità (applicando dei panni neri alle finistre) e poi far entrare la luce attraverso un piccolo foro; una volta che gli occhi ci saranno abituati all’oscurità, si vedrà apparire sulla parete opposta rispetto al punto d’ingresso della luce, l’immagine capovolta del mondo esterno. Nel 1600 e 1700 questo meccanismo fu prodotto in formato portatile e fu aggiunta una lente in grado di ribaltare l'immagine, restituendo così al pittore una copia del reale non rovesciata; questa tecnologia è stata usata soprattutto dai vedutisti settecenteschi. - una componente chimica che permette di fissare queste immagini su una superficie sensibile; l’immagine della camera obscura, infatti, era transitoria, perciò era necessario stabilizzare l’immagine per renderla permanente. Ed è proprio a questo proposito che si rivela fondamentale la componente chimica dell’hardware fotografico. Una delle preoccupazioni fondamentali dei precursori della fotografia fu infatti quella di riuscire a fissare delle immagini che risultavano fragili e sfuggenti e uno dei primi a riuscire nell’impresa fu il frnacese Niepce. Oggi la stabilizzazione dell’immagine non avviene più per mezzo di un processo chimico, ma è piuttosto affidata a un sistema digitale; è questa in effetti una delle più profonde trasformazioni subite dall’hardware fotografico nel corso della sua storia. 2.1.1 Immagini dell’assenza Nell’Ottocento, periodo in cui la borghesia aveva da poco assunto il ruolo di nuova classe dominante, la diffusione nella fotografia non era un diritto, ma soprattutto un privilegio. La borghesia trovò proprio nella fotografia il mezzo di autorappresentarsi per confermare, dal punto di vista simbolico e visivo, il raggiungimento di un nuovo status sociale. Fra i generi fotografici, il primo che si impose fu senza dubbio quello del ritratto, che era appannaggio delle classi sociali più agiate. Dal punto di vista visivo era ancora profondamente legato all’immaginario pittorico. Il fotografo inseriva il soggetto in uno scenario che doveva trasmetterne il rango sociale, fornendone in questo modo un’immagine altamente realizzata. Le scenografie erano anche funzionali alla comodità del soggetto fotografato, perché i tempi di posa delle prime fotografie erano molto lunghi. La diffusione della tecnica del collodio e la conseguente diminuzione del tempo di posa, permise poi un’ulteriore democratizzazione dell’immagine fotografica, che progressivamente divenne abbordabile anche per altre fasce della popolazione. Sempre più persone poterono così vedere la propria immagine, entrandone in possesso e utilizzandola come strumento di memoria e costruzione di legami sociali. A ben vedere la cosa continua ad avere un senso anche oggi: continuiamo a conservare le immagini del passato, dei nostri cari che non ci sono più. Dunque, una di quelle funzioni culturalmente inscritte nella pratica fotografica, quindi parte del software, riguarda la capacità di farsi veicolo memoriale. Possiamo far riferimento, in questo caso, ad un testo di Roland Barthes, la Camera chiara, in cui egli si interroga su questa proprietà dell’immagine fotografica. La fotografia è l’emanazione di un passato che, in quanto tale, non è più. Questo frammento di tempo condensato in un’immagine sembra possedere un carattere in qualche modo inquietante: guardare una nostra fotografia può condurre ad un’esperienza di non riconoscimento perché il dispositivo, riproducendoci meccanicamente, ci oggettifica facendoci percepire come Altro da noi. Barthes collega l’esperienza di sradicamento dal tempo offerta dalla fotografia a quella della morte: guardare una propria immagine del passato è come vederci morti, perché l’istante rimasto pietrificato nella fotografia è per sempre passato e anche quell’Io che vediamo di fronte a noi è già morto. Ma di nuovo questo tipo di immagine si fa sempre come duale e contraddittorio: da una parte ogni scatto è l’attestazione di una morte che si fa via via più imminente (la fotografia ci ricorda che ci avviciniamo sempre di più alla nostra fine), dall’altra l’esistenza delle immagini garantisce una speranza di sopravvivenza e offre, a chi resta, la possibilità di produrre una resurrezione dell’assente. 2.1.2 Automatismi ed errori La fotografia ha da sempre un potere realistico: essa ha, infatti, la capacità di produrre copie perfette del reale, perché viene prodotta attraverso un apparato meccanico-industriale. A causa di questi tratti identitari, la fotografia è stata, nei suoi primissimi anni, al centro di una polemica legata al suo carattere non artistico. Secondo Baudelaire, la perfetta imitazione della natura offerta della macchina fotografica è proprio ciò che la squalifica come mezzo artistico. L’arte infatti non è mai un doppio copiativo del reale, ma una sua elaborazione mediata dalle sensibilità della l’autore, oltre che da capacità manuali e tecniche fuori dal comune. Anche Benjamin riflette sulla fotografia: la meccanicità della riproduzione fotografica sottrae all’opera d’arte la propria unicità, una caratteristica che Benjamin definisce “aura” e identifica con il suo “qui e ora” (per esempio, noi possiamo vedere una tela di Caravaggio su un sito Internet o su un social network, in un libro o su una shopper; mentre ancora ai primi del ‘900, se avessimo voluto fare esperienza di un Caravaggio avremmo dovuto recarci a Roma). La messa in crisi del carattere auratico dell’oggetto artistico avrà due conseguenze: da una parte la fotografia può permettere al fruitore di vedere dettagli inaccessibili a occhio nudo, offrendo così una visione e una comprensione migliore dell’opera stessa; dall’altra, in questo processo di proliferazione, l’opera va incontro all’uomo riattualizzandosi e democratizzandosi. La perdita dell’aura, quindi, rende l’arte più esponibile (e più esposta), ma ciò che più conta per Benjamin è che “attraverso il peso assunto del suo valore esponibilità l’opera d’arte, diventa una formazione con funzioni completamente nuove”. L’intuizione di Benjamin offre un’efficace chiave di lettura del valore che l’educazione all’immagine dovrebbe avere nel contesto scolastico. L’arte non è soltanto qualcosa la cui storia e il cui linguaggio va imparato passivamente, ma l’oggetto artistico deve essere anche qualcosa di cui appropriarsi perché possa essere risignificato. L’avvento della fotografia ha altre importanti conseguenze a livello non soltanto di interpretazione dell’opera arte; essa appare profondamente collegata alla pratica scientifica, grazie alle dimensioni sia temporali (rallentamento e accelerazione) che spaziali (ingrandimento e riduzione). Tra le funzioni non prettamente artistiche della fotografia e confinanti con le pratiche scientifiche, si distinguono in particolare: - gli studi sul movimento, che sfoceranno nelle sperimentazioni cronofotografiche di Marey e Muybridge; - la fotografia esotica e le indagini sull’Altrove geografico: nel XIX secolo la fotografia si trova ad essere alleata dei colonizzatori che sfruttarono la nuova tecnologia per riportare in patria delle immagini degli uomini visitati. È importante segnalare però che in questo contesto non è tanto la pretesa obiettività del dispositivo fotografico ad essere messa in primo piano, ma la patina di stereotipi e narrazioni coloniali; per esempio, nel L’Algeria pittoresca di Albert, vengono mostrati un seno scoperto, la sigaretta accesa etc. proprio per rivendicare la tensione erotica che attraversa questa immagine, in pieno accordo con l’idea dell’Altrove come terre dell’accesso sessuale, immediatamente disponibile per il colonizzatore europeo. - la fotografia criminologica e psichiatrica: si tratta di un tipo di fotografia, oggi di uso comune, a scopo identificativo; viene, infatti, introdotta con lo scopo di offrire alle forze di polizia uno strumento efficace di riconoscimento e controllo. Tutti questi esempi hanno a che vedere con le continuità fra pratica fotografica e sapere scientifico e sono dunque parte integrante del software della fotografia. La fotografia però vive un un’identità ibrida e non stupisce dunque, che essa abbia dato vita a pratiche es esiti profondamente diversi. Un esempio particolare è offerto dalle pratiche di alcuni artisti d’avanguardia attivi nei primi anni del ‘900. Uno dei più importanti artisti d’avanguardia fu Man Ray che ha adoperato la fotografia come mezzo espressivo avvicinandosi al Surrealismo; egli sfrutterà, ad esempio, la ricerca di punti di vista inusuali, in grado di alienare lo spettatore trasformando oggetti e superfici conosciute in territori inesplorati e a tratti inquietanti. Un’altra tecnica da d’avanguardia particolarmente rilevante è senza dubbio quella del fotomontaggio. La tecnica si basa sulla giustapposizione e/o sovrapposizione di più immagini; prevede una decontestualizzazione e successiva ricontestualizzazione. 2.1.3 Leggere una fotografia Per leggere una fotografia dobbiamo far riferimento ad una distinzione classica operata da Barthes fra due elementi che possiamo individuare all’interno dell’immagine fotografica: - lo studium, ovvero il contenuto manifesto dell’immagine, l’insieme di tutto ciò che vi appare. - il punctum (=ciò che mi punge), che non è qualcosa che il fruitore va cercando consapevolmente all’interno di una fotografia, ma piuttosto un dettaglio che lo attira, che trascende la pura apparenza dell’immagine. La presenza del punctum modifica la lettura dell’immagine. Tuttavia, è chiaro che, considerando quanto dice Barthes, il punctum non è presente in ogni fotografia e soprattutto non è oggettivamente identificabile, poiché si fonda sulla relazione irripetibile fra immagine e fruitore. Quindi, tanto lo studium è messo a punto dal fotografo e accuratamente ricercato quanto il punctum è imprevisto e imprevedibile, involontario e personale. Volendo fare un esempio pratico, possiamo considerare una fotografia scattata per esempio negli anni ’50: a livello di studium potremmo vedere una bambina che pedala su un triciclo, delle imposte di legno e poco altro. Se però iniziamo ad ipotizzare che questa foto ritragga la madre di qualcuno in giovane età, ecco che immediatamente per i suoi figli e nipoti, questa foto si carica di un significato ulteriore, eccedente e involontario. Tutto dipende dal rapporto che si instaura fra il contenuto della fotografia e chi la guarda: quelli che ad un osservatore esterno appaiono dettagli trascurabili, per lo spettatore “punto” diventano carichi di senso (potrebbe così andare in cerca dei tratti del viso che conosce o ricordare che lui stesso ha toccato e visto quel muro e quelle imposte). La presenza di un elemento potenzialmente eccedente per Barthes non è un tratto esclusivo della fotografia, ma sembra appartenere alle immagini in generale. Le riflessioni di Barthes sulla fotografia sono spendibili nel contesto della pratica didattica. La questione fondamentale del punctum è che rende esplicito come l’analisi di un’immagine non possa limitarsi al suo aspetto formale o a quello che abitualmente intendiamo come il suo significato. Il tipo di relazione che si instaura fra il fruitore e l’immagine è importante e deve essere tenuto in adeguata considerazione. E’ forse vero che un’analisi basata sul punctum può a volte portare fuori strada, tuttavia qualora in contesto scolastico dovessero emergere specifici elementi di interesse o di attrazione varrà sicuramente la pena di valorizzarli e anzi cercare di far riflettere esplicitamente sul motivi che possono essere alla base di una certa ricezione. 2.1.4 Nuovi orizzonti per la fotografia Le immagini contemporanee, pur continuando a poter essere lette attraverso le categorie proposte, ci pongono nuovi interrogativi. Un punto di partenza utile per potersi orientare nella cultura visuale contemporanea ci è offerto dalle riflessioni di Fontcuberta, che stila un vero e proprio “decalogo postfotografico”. Si tratta di una serie di nodi cruciali che l’utente, il teorico e l’educatore devono tenere presenti quando pensano alle immagini e al loro ruolo nella contemporaneità: 1. Il compito dell’artista non è più quello di produrre opere, ma di creare situazioni cariche di senso. 2. L’artista come tale non è più distinguibile da altre figure autoriali (il curatore, il collezionista, il docente, l’educatore). preferenze personali rispetto ai consumi mediali; in questo senso è molto importante che il genitore e l’educatore, per continuare ad essere interlocutori attivi e attenti, conoscano bene i film, le serie animate, i videogiochi, i fumetti che i bambini fruiscono e apprezzano. Questo è fondamentale ma non semplicemente per verificare che quanto il bambino stia guardando sia adatto alla sua età, perché come dicevamo gli approcci censori sono da evitare: sarà bene, invece, necessario responsabilizzarlo all’uso di questi dispositivi. Inoltre è anche bene che il bambino venga introdotto a scuola e in famiglia alla possibilità di produrre attivamente delle immagini: affidare a un bambino una vecchia macchina fotografica e dargli la possibilità di fotografare liberamente secondo il proprio interesse è un passaggio importante per la responsabilizzazione, la definizione di un comportamento mediale consapevole; successivamente, guardare e commentare insieme ciò che il bambino ha fotografato rappresenta non soltanto un modo inedito di capire come lui guarda il mondo, ma offre la possibilità di ripensare la pratica fotografica in modo meno banale, spiegando anche l’importanza del rispettare il diritto all’immagine proprio e altrui. Il punto chiave da evidenziare sarà comunque la non immediatezza del gesto fotografico, il fatto che esso coinvolga una serie di scelte importanti: prima, durante e dopo lo scatto. - dopo i 12 anni: con l’affaccio alla preadolescenza, i bambini entreranno poi progressivamente e attivamente in contatto con gli smartphone, i social network, con tutto quanto passo sulla rete. Ed è importante che il genitore non abdichi al suo ruolo educativo. E’ bene insegnare il valore di tre principi che per Tisseron risultano fondamentali: 1) Tutto quello che viene pubblicato su Internet può diventare di dominio pubblico; 2) Tutto quello che viene pubblicato su Internet rimarrà su Internet per sempre, anche se lo cancelliamo; 3) Occorre grande prudenza durante la navigazione, soprattutto per quanto riguarda la valutazione delle informazioni: non è sempre facile né possibile distinguere il vero dal falso. 2.2.1 Un caso particolare: la fotografia nel Sistema integrato 0-6 L'ordinamento italiano prevede, dal 2017, l’esistenza di un Sistema integrato di educazione e istruzione che si occupa dei primi 6 anni del bambino. Tra le sue finalità emerge il desiderio di promuovere la continuità educativa che supporti e completi la funzione primaria svolta dalle famiglie. In questo ambito, si nota come la familiarizzazione con le immagini assume un ruolo centrale per il bambino, che potrà così fare le sue prime esperienze in un contesto protetto e controllato, in cui l'approccio ludico-esplorativo sarà prevalente. Un’idea appropriata è quella di offrire al bambino una serie di immagini fotografiche che dovranno essere liberamente disposte negli spazi del nido e della scuola dell'infanzia, in modo che sia possibile interagirvi, esplorandole con la vista e con il tatto. Ciò è particolarmente sensato dai 12 mesi, perché è qui che il riconoscimento degli oggetti all'interno delle immagini suscita interesse nel bambino. In seguito acquisirà la capacità di comprendere linguaggi simbolici e sarà in grado di leggere la fotografia in modo più accurato. Predisporre nell'ambiente educativo delle scatole di fotografie di vario tipo a cui i bambini possono accedere offrirà lo spunto per esperienze giocose e non solo; l’educatore potrà così osservare l'osservazione dei bambini, rendendosi conto di cosa suscita il loro interesse e stimolandoli alla verbalizzazione e lettura dell'immagine. La fotografia costituisce un tema centrale nel Sistema integrato a diversi livelli. Anche per gli educatori e genitori essa si presenta come un punto di riferimento per costruire, ripensare e comunicare le attività proposte. Il momento del dialogo con i genitori, ad esempio, può arricchirsi grazie alla presentazione di foto che offrono al genitore un punto di vista inedito sui servizi educativi. Perché ciò avvenga nel migliore dei modi, l'educatore dovrà ricordare di stare producendo delle fotografie e quindi di non stare restituendo un'immagine della realtà, ma la sua interpretazione. E’ importante perciò non preoccuparsi della quantità e qualità estetica delle immagini, ma privilegiare la pregnanza educativa, la capacità di tenere assieme la dimensione documentativa della pratica pedagogica e l'emotività del rapporto con i bambini. A ciò si lega un altro interrogativo importante: cosa fotografare e come? in che modo coinvolgere i bambini nel processo di produzione delle immagini? Sicuramente si privilegeranno i traguardi e le piccole conquiste quotidiane legate all'età, e le capacità esplorative, i momenti operativi di gioco, espressione, soddisfazioni e divertimento. In relazione all’età e alla realtà del concesso educativo, è anche possibile dare ai bambini la possibilità di scattare alcune foto. In un momento in cui i più piccoli possono ancora avere difficoltà nel verbalizzare le esperienze e il proprio punto di vista, dare loro la possibilità di essere produttori attivi di immagini è un'esperienza di grande valore educativo. Osservare insieme quanto è stato visto e fotografato offrirà la base per conversazioni mirate, che forniranno anche all'educatore un punto di vista sul modo in cui i bambini fanno esperienze del mondo. Riguardo alla produzione di immagini fotografiche da parte dei bambini, Schurch ipotizza una scansione temporale in fasi che vanno dai 3 ai 6 anni e che dimostra come impadronirsi di un processo all'apparenza semplice sia in realtà un lavoro di appropriazione complesso. Le fasi individuate da Schurch sono: 1) Intorno ai 3 anni: si assiste alla cosiddetta scoperta funzionale, un momento in cui il bambino si rende conto che ciò che vede attraverso la macchina fotografica è una porzione di mondo; 2) A 4 anni circa: si entra nel momento della condensazione, dove le immagini prodotte risultano al contempo la sintesi di aspetti percettivi e processi cognitivi messi in atto dal bambino; 3) Fra i 4 e i 5 anni: il bambino comincia a usare la macchina fotografica con più consapevolezza, allo scopo di catturare un frammento di realtà che ha suscitato il suo interesse (realismo intenzionale); 4) Fase del realismo mancato: si percepisce una discrepanza tra l'intenzione del bambino e il risultato della sua foto; questa differenza il bambino intuisce l'esistenza di un rapporto tra ciò che si vuole mostrare e la sua restituzione iconica; 5) Intorno ai 6 anni: il bambino impara ad usare la macchina fotografica con piena intenzionalità comunicativa. Nel sistema integrato 0-6, si aggiunge inoltre il tema del diritto all'immagine. Nel momento in cui l'individuo si trova a produrre e condividere un'immagine fotografica è bene sapere che ci si sta appropriando delle immagini altrui. Così come è bene introdurre il bambino all’esistenza di questo diritto, anche l'educatore dovrà tenere a mente questo tema, soprattutto perché il suo lavoro di documentazione fotografica si esercita su dei minori. E’ importante perciò che chi lavora con i bambini si doti di un'etica dello sguardo: l'osservazione e documentazione delle realtà pedagogiche nell'infanzia dovrà essere attenta e capace di captare qualsiasi malessere derivante dalla presenza troppo invasiva del fotografico e, se necessario, ricalibrare il proprio modo di documentare. Adottare un approccio giocoso nella documentazione, senza dimenticare la responsabilità educativa presente in ogni immagine, è la chiave di volta per un approccio eticamente sostenibile. 2.3 Percorsi ed esercizi per una didattica del fotografico Verranno qui proposti alcuni esempi concreti di attività didattiche che hanno a che vedere con la fotografia. Triacca fornisce delle indicazioni preziose per la progettazione di attività didattiche con le immagini fotografiche. La prima fase deve essere quella del design, in cui l'insegnante definisce gli obiettivi di apprendimento e la scansione delle attività. In questa fase è importante evitare due tentazioni che spesso sono all'opera nella pratica didattica: 1. ci si deve astenere dall'uso delle immagini se il loro scopo è puramente decorativo; 2. perché l'immagine possa innescare un processo cognitivo utile, si dovranno considerare elementi quali il suo grado di complessità e la sua qualità. Non è utile innestare percorsi di analisi su immagini troppo complesse per gli studenti o usare riproduzioni scarsamente dettagliate; questo secondo problema può essere evitato grazie alle risorse messe a disposizione dalla rete. Questi due elementi definiscono un criterio fondamentale per l'educazione visuale: le immagini non devono mai essere usate come semplici riempitivi o graziosi facilitatori. L'immagine infatti è in realtà un elemento complesso e al cui funzionamento si deve essere adeguatamente introdotti; una volta predisposta la progettazione didattica e portate a termine le attività, sarà importante predisporre delle occasioni di debriefing, soprattutto se la proposta è particolarmente complessa. Ciò permetterà agli studenti di ripensare a ciò che hanno fatto e appreso e di fermare i risultati conseguiti nell'ambito della lettura, manipolazione o produzione delle immagini. 2.3.1 Leggere un’immagine Una prima modalità di lavoro con la fotografia è quella che riguarda le capacità di lettura e analisi di fotografie già esistenti. Questo tipo di attività permette di sviluppare una maggiore consapevolezza nei confronti di ciò che si vede, ma ha anche il vantaggio di essere economico dal punto di vista della realizzazione. Chiaramente il tipo di immagine scelta e il grado di complessità del lavoro di analisi dipenderanno dalla classe a cui si propone l’attività, ma il lavoro di lettura delle foto – opportunatamente semplificato - può essere svolto già nella scuola dell'infanzia. Con bambini molto piccoli si può lavorare ad esempio su altre immagini dell'infanzia; nella scuola dell'infanzia si può offrire alla lettura immagini di bambini di età inferiore, andando a cercare un tema specifico, come quello del movimento o delle emozioni. A questo punto si parte con un'osservazione libera, stimolando il commento dei bambini con domande aperte e generali; dopodiché l'educatore guiderà i bambini ad una lettura più organica e sistematica, che procede secondo un senso (da destra a sinistra/ dall'alto in basso) e che colga la presenza di elementi qualificanti del linguaggio visivo (i colori e le linee…). Dopodiché ci si sposterà verso l'individuazione delle sensazioni che queste immagini comunicano; sarà bene perciò privilegiare immagini molto semplici di bambini, ma che siano anche altamente espressive. Per esempio, se si è offerta all’analisi l’immagine di un gruppo di bambini felici, sarà sensato chiedere agli alunni che cosa renda loro felici o in quali momenti si sentano così. La restituzione di questo esercizio può avvenire oralmente oppure attraverso elaborazioni grafiche e testuali. La fase della produzione di immagini non è slegata dalla lettura e dall'analisi, ma la integra e la completa, risultandone un momento di ripensamento e verifica. Un'ulteriore attività possibile è quella di chiedere ai bambini di riprodurre graficamente il contenuto della fotografia analizzata. La differenza dei risultati andrà valorizzata come evidenza del fatto che ciascuno di noi vede le immagine in modo diverso e tende a dare più importanza agli elementi che lo hanno maggiormente colpito. Un modo per valorizzare questa pluralità potrebbe essere quello di montare le varie realizzazioni grafiche su un cartellone collettivo. Si ipotizzi ora un’attività di lettura dell'immagine fotografica per una classe terza della scuola secondaria di primo grado che non ha mai svolto percorsi educazione alle visualità. Si immagini una lezione di storia; un modo interessante di far conoscere l’Italia nel secondo dopoguerra ai ragazzi potrebbe essere quello di lavorare sulla memoria familiare e sul ruolo dell'immagine fotografica. Si può chiedere ad ognuno di formulare una breve intervista ai nonni e portare a scuola la riproduzione di una fotografia degli anni ‘50/’60 presa in prestito da loro. L'insegnante raccoglierà le immagini e farà immergere elementi di riflessione a partire da una lettura delle fotografie; i ragazzi a turno offriranno ai compagni elementi di supporto all'analisi raccontando quanto saputo dalle interviste. In base all'immagine a disposizione, si potrà per esempio approfondire l'analisi e rendersi conto di come si vivesse all'epoca, di come ci si vestisse eccetera. La restituzione finale potrebbe essere la creazione di un profilo Instagram gestito a turno dei vari studenti e che raccolga le immagini su cui si è basato il progetto. Questo tipo di lavoro chiama in causa una funzione specifica della fotografia: la sua capacità di farsi documento e fonte di testimonianza storica. Come osserva Triacca, l'uso della fotografia in questi termini presenta vantaggi dal punto di vista della didattica e del coinvolgimento degli studenti. Per ottenere al massimo questi effetti positivi, si percepisce però il bisogno di strumenti di lavoro dedicati. Un esempio di questo tipo di strumenti è la scheda Observe, Reflect, Question messa a disposizione dalla Library of Congress e organizzata in tre sezioni che permettono di focalizzare l'attenzione dello studente su alcuni nodi da indagare: 1. la sezione Observe comprende una serie di domande legate al contenuto iconografico della fotografia. Qui vanno inserite le informazioni relative agli oggetti e individui rappresentati e a tutti i dettagli che si possono vedere nelle immagini (cosa vedo?); 2. la sezione Reflect spinge l’osservatore a formulare delle ipotesi e a interrogarsi sulla loro plausibilità. Qui si appuntano osservazioni relative allo scopo dell'immagine, alla sua collocazione storica e al suo potenziale pubblico di riferimento (cosa so e prevedo?); 3. la sezione Question incoraggia lo studente a porre ulteriori domande seguendo la ben nota regola delle 5 W (who, what, when, where, why) (cosa voglio sapere?). La struttura di questo strumento, che parte dalle osservazioni per aggiungere alla riflessione, è un buon punto di partenza per l'analisi delle immagini fotografiche e adattabile a qualsiasi età (anche se è particolarmente adatta per essere impiegata nelle classi della scuola primaria e nella secondaria di primo grado). Un altro strumento è il cosiddetto Thinking Triangol, un'efficace organizzatore grafico per l'analisi di singole immagini o gruppi di esse, che prevede di rispondere a brevi domande-stimolo adoperando un numero limitato di parole.L’imposizione di un limite funziona come un incentivo alla sintesi; le singole risposte possono poi più delle preferenze personali dell'insegnante o dal desiderio di forzare il testo entro una immediata utilità didattica, che dalla conoscenza diretta delle abitudini degli studenti e delle loro preferenze pregresse di spettatori. Chi si occupa di educazione e vuole portare l'audiovisivo a scuola deve prima di tutto conoscere i film e le serie che circolano nel palinsesto e, a partire da quelle, costruire la propria progettualità didattica. Di certo può avere senso proporre ai bambini dei film lontani da ciò che conoscono ma, soprattutto nelle fasi iniziali del percorso, è bene tenere in considerazione ciò che gradiscono e già fruiscono (ad esempio un film come ‘La bella addormentata nel bosco’ rischia di colpire più per il ritmo lento che per la qualità dei disegni; alle prime classi delle elementari avrebbe più senso proporre un film come ‘Toy Story’, più vicino all' esperienza immediata di spettatori cresciuti in un contesto visuale diverso rispetto a quello sperimentato dai loro insegnanti). Un’altra indicazione da tenere presente riguarda l’approccio al cinema: spesso in passato il cinema veniva considerato non tanto un elemento integrato all'interno della didattica in modo coerente e produttivo, ma solo come un comodo riempitivo che si traduceva nella visione di film d'autore o film ritenuti artisticamente rilevanti; è come se il cinema, per entrare a scuola, dovesse rispondere ad alcuni caratteri di qualità che distinguevano i film didatticamente validi da quelli fruiti a casa o dai cartoni animati. In realtà, il senso di un'educazione visuale dovrebbe essere più vasto e coinvolgere la costruzione di uno sguardo critico e un'educazione al gusto della visione che sia personale e ogni comprensiva. In questo senso, gli educatori dovrebbero avere il coraggio di proporre, soprattutto agli adolescenti, esercizi di lettura di oggetti visivi che non tengono in considerazione il parametro astratto della ‘qualità’. In questo senso, Internet costituisce un archivio praticamente infinito di materiale visivo pronto per essere utilizzato. La vastità dei contenuti disponibili è però al contempo un'enorme risorsa e un grave limite, perché senza strumenti di navigazione adeguati, tanto lo studente quanto il docente si trovano al centro di una vera e propria overdose di stimoli. Un altro elemento da considerare è che l'esperienza del cinema nel contesto contemporaneo è profondamente mutato: è quella che Casetti chiama la rilocazione del cinema all'interno del sistema mediale. Oggigiorno, infatti, molti bambini infatti potrebbero non avere un'esperienza diretta della sala cinematografica e vedere la maggior parte dei loro cartoni animati preferiti su un tablet. L'educatore attento deve tener conto di queste mutate condizioni fruitive e usarle produttivamente per orientare la propria prassi didattica. Un esempio potrebbe essere quello di proporre un film ai bambini di scuola dell’infanzia e di scuola primaria, riorganizzando lo spazio della classe in modo da simulare una sala cinematografica. 3.1. La narrazione cinematografica Per poter progettare un intervento educativo che parta da un testo audiovisivo, è necessario che gli educatori abbiano un'idea di come funziona il linguaggio audiovisivo e che imparino a trattare il film come un testo di cui appropriarsi, smontandolo, rimontandolo e analizzandolo. Ad un primo livello, è possibile concentrarsi sulla struttura narrativa del film, ovvero sul modo in cui un testo audiovisivo racconta una storia. Certamente non si deve pensare che tutti i film seguono i modelli narrativi che verranno illustrati ma queste strutture possono rivelarsi dei preziosi alleati per guidare l'analisi e impostare attività didattiche. Un buon punto di partenza per l’analisi narrativa del film è quello di risalire al suo story concept (detto anche idea drammatica). Si tratta, concretamente, del nucleo drammatico dei film, ciò di cui la narrazione audiovisiva parla; non è il tema narrato, ma un riassunto estremamente sintetico delle vicende del film. Risalire allo story concept di un film dopo averne completato la visione è utile per comprendere la vera radice narrativa mentre, al livello della produzione, permette di giocare con archetipi già consolidati. Per esempio, consideriamo lo story concept ‘uno zio crudele uccide un re per rubargli il trono, viene smascherato e sconfitto dal principe, legittime erede’ è il principio narrativo dell'’Amleto’ di Shakespeare, ma lo troviamo anche ne ‘Il re leone’ della Disney. Questo esempio permette di fare alcune considerazioni: in primo luogo, pur non essendo un testo astratto, lo story concept è relativamente generico ed adattabile a vari contesti. E’ perciò uno spunto narrativo che può essere ripreso in più situazioni. Inoltre, le strutture narrative, pur essendo a loro modo rigide, hanno anche un certo grado di plasticità e permettono adattamenti e giochi di fantasia che ben si prestano ad essere applicati in ambito scolastico. Ugualmente, una vicenda narrativa può essere generata a partire da una conosciuta cambiando il punto di vista (es se ‘La sirenetta’ fosse narrata dal punto di vista di Ursula il risultato sarebbe diverso), immaginando cosa sia successo prima o cosa potrebbe succedere dopo la narrazione canonica (es scoprendo perchè Scar è così arrabbiato con Mufasa) oppure cambiando il tono (in volgare la bella addormentata nel bosco, otteniamo Shrek). Uno dei modi di studiare lo storico concept è quello di porlo nella forma interrogativa ‘Cosa succederebbe se...?’: è una domanda che, riempita dallo story concept del film, conduce a una certa risoluzione. Nulla vieterebbe però di immaginare varianti o complicazione di questa risposta, in grado di aprire nuove possibilità narrative (es Cosa succederebbe se un dinosauro preistorico risvegliato dalle radiazioni mettesse a ferro e fuoco la città finché non si scoprisse il punto debole? questo è la storia concept di ‘Godzilla’, che si risolve nel film originale attraverso l'uso di un'arma in grado di fermare il mostro; con un po' di fantasia però si potrebbero immaginare altre soluzioni, come l'effettiva distruzione della città o l’arrivo in extremis dei Power Rangers). 3.1.1 Il modello a tre atti Un primo esempio di struttura narrativa ricorrente all'interno del cinema narrativo è offerta dal modello a tre atti, detto anche paradigma di Syd Field dal nome dello sceneggiatore che lo ha formalizzato alla fine degli anni ‘70. Esso trae ispirazione dalla poetica di Aristotele, da cui prende la tripartizione in atti degli eventi e il ruolo centrale dell'azione. Il primo atto riguarda l’impostazione della vicenda; qui entriamo in contatto con il protagonista, i personaggi che gli gravitano attorno e il suo ambiente. Il primo atto ci pone di fronte a un mondo narrativo autosufficiente, coerente e definito, che potrebbe proseguire il suo corso senza alcuna variazione. Nella vicenda interviene poi un fatto imprevisto, che modifica in modo radicale il mondo narrativo del protagonista. È un momento cruciale per la narrazione, il cosiddetto incidente scatenante o catalyst: questo innesco della narrazione genera una rapida catena di eventi. Da qui dipende anche il primo punto di svolta (plot point 1): il protagonista, spinto dagli eventi innescati dal catalyst, si allontana dal proprio mondo e decide di perseguire un nuovo obiettivo. Il secondo atto è quello del confronto in cui si realizza il conflitto tra protagonista e antagonista. Dopo il picco drammatico raggiunto alla fine del primo atto, segue un momento di distensione, che prepara lo spettatore a quanto accadrà in seguito. Il momento di alleggerimento narrativo è però breve, perché il secondo atto è quello che vede dispiegarsi il conflitto. Esso è composto da una sequenza di vicende che complicano la ricerca del protagonista e il raggiungimento del suo obiettivo; questi impedimenti possono essere di vario tipo, prendendo l'aspetto di elementi materiali (ostacoli) o mentali (paure). Segue poi il cosiddetto punto di non ritorno, un altro momento chiave idealmente collocato nella metà del film, che impedisce al protagonista di tornare sui propri passi e che lo cambierà permanentemente. La rottura dell'equilibrio stabilito all'inizio del film è a questo punto definitiva e anche gli obiettivi del protagonista mutano radicalmente. Il punto di non ritorno rappresenta la svolta necessaria ad aprire la seconda parte del secondo atto, dove il conflitto bene/male si acuisce e si cristallizza all'interno del secondo punto di svolta (plot point 2). Si tratta dell’apice drammatico del film, che sembra annunciarne il finale, con la momentanea sconfitta del protagonista. Così come il primo plot point apriva la narrazione a nuove possibilità, il secondo sembra chiuderla e gettare un'ombra sulle imprese dei personaggi. Il terzo atto, invece, condurrà alla risoluzione finale del conflitto. Se all'inizio del secondo atto c'era un momento di distensione narrativa, l'inizio del terzo è invece segnato da un'intensificazione del ritmo, in un vero e proprio climax. Il protagonista ha un ruolo cruciale in questa fase, perché deve dimostrare di aver compiuto un percorso di crescita ed eventualmente di aver acquisito determinate capacità. L’epilogo offre, se non una restaurazione dell'ordine iniziale, almeno una risoluzione del conflitto proposto. Non sempre però la risoluzione del conflitto è definitiva: questioni rimaste irrisolte possono diventare il motore di narrazioni successive (sequel). La stessa funzione è ricoperta, in altri contesti, dalla formula dei ‘cliffhanger’, che consiste nell' interrompere la narrazione all'improvviso, subito dopo un elemento culminante o una rivelazione, con lo scopo di accrescere la suspance; questa tecnica è usata soprattutto nelle narrazioni seriali e nelle soap opera. 3.1.2 Lo schema a doppia piramide Ci concentriamo ora sui personaggi, cioè gli individui che abitano Il mondo narrativo e che agiscono al suo interno. A tal proposito, vale la pena rifarsi al cosiddetto schema a doppia piramide, utile per visualizzare graficamente i personaggi principali del racconto e verificarne le relazioni reciproche. Questo schema è costituito da due piramidi, una sopra e una sotto, che si riflettono a specchio. Le piramidi contrapposte sono separate orizzontalmente dalla linea bene/male; per convenzione, al di sopra di essa porremo il protagonista e personaggi positivi, mentre al di sotto c’è l'antagonista e i suoi sgherri. Ai vertici superiore e inferiore delle piramidi porremo l'eroe e il suo oppositore, mentre gli altri vertici di ciascun triangolo saranno occupati dall'oggetto del desiderio e dagli aiutanti del protagonista per il lato del bene e dalla dark lady e dagli scagnozzi dell'antagonista per quelli del male. Ovviamente le sei funzioni proposte non sono necessariamente tutte presenti all'interno di una narrazione e la struttura stessa dello schema doppio piramide può variare nel corso del tempo o in base al personaggio attorno cui la si costruisce. I due poli più importanti di questo schema sono il protagonista e l'antagonista; nella loro opposizione, essi definiscono la dinamica conflittuale della narrazione e contribuiscono al suo sviluppo. Sono opposti ma non incommensurabili in quanto devono avere dei punti di contatto e vicinanza che permettono, a chi fruisce la storia, di leggerli l'uno come l'opposto dell'altro (es se Harry Potter non avesse avuto poteri magici, il suo scontro con Voldemort sarebbe finito ancor prima di iniziare). Concentrando l'attenzione sul protagonista è possibile proporre una distinzione tra eroe classico e moderno. In qualità di protagonisti, entrambi sono chiamati ad agire in un contesto dove è presente un elemento di disturbo per ripristinare la situazione iniziale o per restaurare una forma di ordine. Entrambi ricevono in questo senso una chiamata ad agire, che può essere concreta o un moto interiore del protagonista stesso. La differenza tra queste due tipologie di eroi sta nel modo in cui decidono di rispondere a questo appello all'azione: l’eroe al classico accetta il mandato sociale che gli viene affidato e agisce per riportare l'ordine, riuscendo a compiere la sua missione (es James Bond o Batman); l'eroe moderno invece è rappresentato come un soggetto scisso e preso dai dubbi, che non si precipita immediatamente in azione perché ha delle riserve sulla sua adeguatezza e che spesso non riesce a riportare le cose esattamente alla loro stato iniziale (es Spider-man è un eroe moderno, restio a usare i propri poteri fino alla morte dell’amato zio Ben). A livello generale, le narrazioni che vedono come protagonisti gli eroi classici sono meno problematiche e dunque più adatte ad un pubblico infantile; man mano che la crescita porterà all'emergere di nuovi dubbi e difficoltà, saranno gli eroi moderni a risultare più interessanti per i giovani spettatori. 3.1.3 Il viaggio dell’eroe Un altro modello utile per comprendere come è strutturata una narrazione è quello teorizzato da Christopher Vogler e conosciuto come viaggio dell'eroe. L'idea di base di questo modello si fonda sul percorso di crescita e allontanamento dal mondo conosciuto che un protagonista compie per acquisire abilità e consapevolezza che gli saranno utili, una volta fatto ritorno, per svolgere il proprio compito. Il viaggio dell'eroe non è soltanto fisico e materiale: nel processo di allontanamento, il personaggio compie anche un percorso di formazione che gli fa acquisire una nuova maturità. Anche Vogel, come Field, organizza il suo schema narrativo in tre atti (il cui ordine può variare entro un certo limite e alcune fasi possono mancare): 1) l'allontanamento; 2) la permanenza nel mondo straordinario; 3) il ritorno. La storia ci fa familiarizzare prima di tutto con il mondo ordinario, il luogo dove vive il protagonista, in modo da consentire allo spettatore, prima che cominci il viaggio dell’eroe, di immedesimarsi nel suo mondo; è, infatti, attraverso gli occhi dell’eroe che la storia prende atto. La presentazione delle eroe dovrà mostrarci sia le sue caratteristiche fisiche e mentali, che i suoi desideri e le sue mancanze. La situazione di tranquillità in cui vivono gli abitanti del mondo ordinario è ad un certo punto interrotta da un evento trasformativo, la cosiddetta chiamata all'avventura; si tratta di un momento di rottura dell'equilibrio, che pone il protagonista di fronte a una scelta e alla necessità di attraversare un confine. Tuttavia, non ogni eroe accetta di buon grado, o immediatamente, la propria chiamata, soprattutto quando si tratta di un eroe moderno. proporre in chiave didattica a bambini anche piccoli, perché si basa, a livello narrativo, su presupposti di chiarezza e trasparenza. Il mondo narrativo è, in altre parole, definito da delle polarità chiare, che si sviluppano lungo l'asse bene/male; i personaggi e gli ambienti sono chiaramente definiti e questo permette allo spettatore di capire subito con quelli di loro è più facile immedesimarsi. Accanto alla narrazione forte, esistono la narrazione debole, l'anti narrazione o la disnarrazione, tutte caratterizzate da un indebolimento dei nessi causa-effetto, da una messa in questione della centralità dell'azione e dell'intera ideologia di fondo che sostiene la narrazione forte. Questi film sono poco adatti ad essere usati in contesto didattico in quanto, al di là dei contenuti trattati, che potrebbero anche non essere adatti a studenti, il modo di raccontare è meno comprensibile ed efficace nell'indirizzare chiaramente l'attenzione dello spettatore. E’ un tipo di cinema che, abdicando il primato dell'azione, assume toni più riflessivi e problematici. 3.2. Il linguaggio cinematografico Gli elementi analizzati finora sono comuni a più forme espressive e non riguardano specificatamente il cinema. Segue l’analisi degli aspetti tipicamente cinematografici. 3.2.1 L’inquadratura Uno dei primissimi film della storia del cinema fu ‘L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat’: un brevissimo film che mostra l'arrivo di un treno e lo scendere dei passeggeri. Questo esempio è paradigmatico di come venivano realizzati i film delle origini, tipici del cosiddetto modo di rappresentazione primitivo. Nei film delle origini, la macchina da presa è fissa e riprende una porzione di realtà in cui vediamo accadere un evento. Alla fine del 1800, l'invenzione del cinema assolve prima di tutto la funzione di mostrare al pubblico frammenti di mondo, fatti quotidiani e semplici. Per il pubblico dell’epoca non contava tanto che cosa si stesse riprendendo, ma piuttosto il fatto stesso di riprendere. L’inquadratura costituisce uno degli elementi fondamentali del linguaggio cinematografico e la sua durata può essere molto variabile. Inquadrare non è mai un’azione banale o meramente tecnica in quanto coinvolge una ricerca estetica (cioè il desiderio di fare una bella inquadratura) e la decisione di che cosa includere o meno entro i bordi dell'immagine (quindi sto compiendo una scelta che determinerà il senso ultimo dell’immagine che si andrà a creare). Mettere qualcosa nel quadro significa per forza lasciare qualcosa fuori: l'inquadratura è perciò prima di tutto un ritaglio della realtà. Ed è importante che i bambini, sin dai primi anni di scuola capiscano questo concetto, in altre parole comprendano cosa significa davvero inquadrare un frammento di realtà, ragionando sui diversi modi per farlo e sul senso che può avere escludere una parte del reale dall'immagine, concetto che si rivelerà utile per una cittadinanza futura che dovrà essere critica e consapevole. Elsaesser e Hagener hanno evidenziato come l'inquadratura possa essere intesa come una finestra o come una cornice; è bene precisare che non si tratta di due elementi che si escludono a vicenda, ma di due diverse modalità con cui il cinema entra in relazione con il reale. L'idea dell'inquadratura come finestra è semplificata da tutti quei casi in cui il cinema ci pone di fronte ad un mondo che sembra vivere autonomamente, anche al di là della presenza della macchina da presa. Al contrario, l'idea del cinema come cornice sottolinea l'idea di un mondo racchiuso, separato dallo spettatore, di qualcosa che denuncia la sua artificialità e la sua non appartenenza al reale. 3.2.2 Tipi di inquadrature e movimenti di macchina Esistono diversi modi di classificare le inquadrature; per un'educazione visuale non sarà importante insegnare la corretta identificazione dei tipi di inquadratura, ma piuttosto imparare a ragionare sulla funzione espressiva delle inquadrature e sul perché siano state adoperate in un certo modo. L’intento di un’educazione visuale non è infatti quello di offrire un bagaglio meramente tecnico ma di fornire strumenti di interpretazione delle immagini e del loro ruolo nella cultura contemporanea. La più nota classificazione delle inquadrature è offerta della cosiddetta scala dei campi e dei piani, legata alla distanza tra la macchina da presa e un certo evento. La scelta di una determinata inquadratura non è definita solo da caratteristiche tecniche ma soprattutto dal tipo di messaggio che si intende trasmettere. Raccontare gli eventi da una grande distanza o stando incollati ai personaggi influisce sulla significazione del testo cinematografico, a tal punto che il rapporto tra spazio e soggetto nell'inquadratura è prima di tutto di tipo emotivo. La scala dei campi e dei piani distingue l'inquadratura in questo modo: - campo lunghissimo: è un inquadratura che mostra ampissime porzioni dell'ambiente; in essa la figura umana è assente o non chiaramente riconoscibile. E’ stato canonizzato dal genere western, dove la figura umana si perde in paesaggi mitici e vastissimi come la Monument Valley; anche il cinema fantasy usa questo campo per mostrare, ad esempio, la vastità di una guerra; - campo lungo: qui la figura umana è ampiamente distinguibile, anche se l'attenzione prevalente è ancora sull'ambiente circostante. Pur non vedendo il volto del personaggio, i suoi gesti sono più comprensibili. Questa inquadratura sottolinea la distanza, fisica o mentale, tra il personaggio e l'ambiente circostante; - campo medio o totale: il corpo del soggetto acquista un progressivo protagonismo. I gesti e le espressioni del viso cominciano a farsi chiari e, pur essendo ancora immersi in un paesaggio ampiamente visibile, i personaggi occupano il centro della scena. E’ lo spazio principale dell'azione drammatica; - figura intera: l'oggetto primario dell'inquadratura è l'individuo che è ripreso dalla testa ai piedi ed assume perciò il pieno controllo dello spazio rendendo visibili le sue espressioni, i suoi gesti e le sue caratteristiche; - piano americano e mezza figura: si distinguono per il punto del corpo in cui viene tagliata l'inquadratura. Nel primo la ripresa arriva fino alle ginocchia, mentre nella mezza figura solo fino alla vita. Il piano americano è così chiamato perché è molto diffuso nel western, mentre la mezza figura è tipica del telegiornale; - primo e primissimo piano: il primo piano taglia la figura alle spalle, mentre nel primissimo piano il personaggio è inquadrato soltanto dalla fronte al mento. Il campo medio è lo spazio della narrazione, il primo piano è l'inquadratura principale dell'espressione dei moti interiori di un personaggio. Alle origini del cinema era considerato un'inquadratura mostruosa ed eccessiva; il primo piano mostra il volto come uno spazio autonomo di pura espressione, slegato dalle dinamiche narrate nel film, diventando quasi un paesaggio; - dettaglio e particolare: sono le inquadrature più ravvicinate, che concentrano l'attenzione rispettivamente su una parte del corpo o su un oggetto. Per quanto riguarda l'angolazione della camera possiamo distinguere tra: - inquadratura frontale: è il caso più comune e che possiede il minor carico espressivo. La macchina da presa è posta alla stessa altezza del soggetto filmato; - inquadratura dall'alto: la macchina da presa è posizionata più in alto dei personaggi. L'effetto è quello di schiacciarli verso il basso, facendo percepire un senso di oppressione o pericolo imminente; - inquadratura dal basso: la macchina da presa è più in basso dei personaggi ripresi, che risultano ingigantiti e in qualche modo nobilitati; - inquadratura a piombo e supina: sono le due versioni estreme delle inquadrature dall'alto e dal basso, e si hanno nei casi in cui la macchina da presa è posta in prossimità dell'asse verticale dei personaggi. Un terzo parametro che può variare all'interno delle inquadrature è l'inclinazione. Nella maggior parte delle circostanze avremo un’inclinazione normale, in cui l'asse maggiore dell'inquadratura è parallelo all'orizzonte. Quando questa condizione non è rispettata si parla di inclinazione obliqua, per identificare una situazione dove l'asse maggiore dell'inquadratura non è più in linea con l'orizzonte; si tratta di un tipo di inclinazione usata dalle avanguardie storiche. Oggi è usata soprattutto in generi come l’action o per trasmettere il punto di vista di un personaggio; in generale garantisce un certo dinamismo ed è perciò molto usata nella comunicazione pubblicitaria e nei videoclip musicali. Tutte le proprietà finora analizzate sono in realtà tipiche di qualunque forma di immagine fissa, come nella fotografia o in un fumetto. Ciò che caratterizza il cinema è invece la sua capacità di catturare il movimento, non solo dei soggetti rappresentati ma anche dei propri dispositivi di ripresa. I movimenti di macchina sono ciò che consente alle inquadrature di spostarsi, garantendo una narrazione più dinamica. I movimenti di macchine principali sono: - panoramica: è il movimento della macchina da presa attorno al proprio asse e si realizza grazie ad un supporto fisso con un cavalletto. A seconda del movimento compiuto si parla di panoramiche orizzontali, verticali o oblique; è molto usato per descrivere gli ambienti perché permetti di far scorrere lo sguardo in modo più libero; - carrellata o travelling: la macchina da presa, fissata su dei binari, si sposta all'interno dello spazio filmabile, potenzialmente in tutte le direzioni. Se la macchina si muove parallelamente al personaggio parleremo di carrellata laterale; se si muove davanti a lui di carrellata a precedere, mentre si trova dietro di lui di carrellata a seguire. Un caso particolare è la carrellata circolare, in cui la macchina da presa compie uno o più giri attorno ai personaggi. Questi sono i movimenti fondamentali che la macchina da presa può compiere. Altre soluzioni dipendono dalla disponibilità di apparecchiature adeguate: se la macchina da presa è montata su un braccio meccanico snodabile parleremo di un dolly, che permette di realizzare inquadrature molto complesse e dinamiche. Il camera-car, invece, consente di realizzare riprese stabili ancorando la macchina da presa ad un'automobile, per filmarne l'interno o l'esterno. Si parla di stedycam quando la macchina da presa è ancorata al corpo dell'operatore ed è così possibile firmare immagini di buona qualità pur compiendo movimenti con il corpo. Conoscere in modo dettagliato le tecniche di ripresa offre all'educatore un buon vantaggio nel momento in cui si decide di realizzare dei prodotti audiovisivi in contesto scolastico; movimenti di macchina complessi richiedono infatti strumentazioni troppo costose per le scuole, ma ciò può essere visto come una risorsa che dà il pretesto per cercare soluzioni creative. 3.2.3 Il montaggio e le forme della continuità Per narrare una storia è necessario collegare numerosi frammenti e metterli in relazione reciproca; questa operazione corrisponde al montaggio (una questione fondamentale per il cinema), termine che si riferisce in realtà ad un insieme di problemi diversi; il montaggio è infatti al contempo: - una fase della post-produzione, un'operazione che consiste nel collegare fisicamente le varie inquadrature sotto la supervisione del regista, per confezionare la forma finale del film. Alle origini del cinema questo lavoro veniva svolto manualmente con forbici e nastro adesivo, mentre oggi è possibile avvalersi di programmi di montaggio professionali; - un'operazione concettuale, cioè un certo modo di intendere il film e di collegare le inquadrature tra loro; questa operazione non è solo tecnica, ma coinvolge la costruzione di un'intera estetica: alcuni film fanno di tutto per mascherare i tagli di montaggio, mentre altri sfruttano il potere straniante derivato dalla giustapposizione di immagini inconsuete. Nel periodo del modo di rappresentazione primitivo il montaggio non era usato e il film corrispondeva alla singola ripresa, la cui fine marcava anche la conclusione dello spettacolo cinematografico. Uno dei pionieri nell'uso del montaggio fu il prestigiatore Méliès, che scoprì il montaggio per un incidente fortuito (a causa di un inceppamento momentaneo della macchina fotografica, il calesse che stava filmando su una stratta era stato improvvisamente sostituito da un carro funebre). Méliés, iniziò quindi a realizzare dei film che sfruttavano fino in fondo questo presupposto. Tuttavia, il collegamento di diverse immagini e la costruzione di rapporti significanti non è un’esclusiva del cinema, ma può essere rintracciato, secondo il russo Ejzenstejn, anche nell’arte rinascimentale (in cui gli artisti organizzavano lo spazio in modo da poter ospitare più scene nello stesso ambiente), nel mito (Ejzenstejn, infatti scoprì che il montaggio era una pratica antichissima) etc. Ejzenstejn svilupperà una teoria del montaggio basata sull'idea per cui il rapporto tra due immagini e deve dare luogo ad uno scontro capace di produrre nuovi concetti. Il cinema narrativo seguirà invece un'altra storia e svilupperà un montaggio della continuità, il cui presupposto di base è quello di mascherare le connessioni tra le immagini, rendendole invisibili e non immediatamente percepibili allo spettatore. Allora, la continuità imposta dal montaggio non è altro che una raffinata illusione perchè tutto il cinema narrativo si basa sulla capacità di rendere invisibili gli stacchi di montaggio e i collegamenti tra le immagini. C'è da chiedersi allora come questo sia possibile e su quali regole si fonda la continuità; questo modo di collegare le immagini tra loro si basa su un sistema di raccordi e regole di collegamento che permettono di neutralizzare l'effetto di ritaglio collegato alla pratica del montaggio. I principali raccordi cinematografici sono: - Raccordo sull'asse: si collegano due inquadrature diverse rispettando il medesimo asse e la stessa angolazione, ma variando la distanza tra la macchina da presa e il soggetto. Le due inquadrature non devono essere né troppo simili né troppo diverse, per evitare che lo spettatore percepisca la presenza di Per quanto non ci sia nulla di sbagliato nell'uso di schemi o schede da compilare, si ritiene più utile proporre questa attività in termini visivi, usando inquadrature del film particolarmente pertinenti. La scelta degli episodi chiave può essere svolta dall'educatore o dal gruppo classe. Il metodo privilegiato per la realizzazione di questo tipo di lavoro è la costruzione di un cartellone collettivo, sotto forma di linea del tempo o di pellicola cinematografica; in questo spazio sarà possibile inserire le immagini scelte disponendo in sequenza. Eventualmente, prima di questa attività, anche per fermare nella memoria gli eventi di ogni scena, è possibile fare un roleplay in cui i bambini reinterpretano gli eventi della singola scena; questo tipo di attività favorisce lo sviluppo della collaborazione e dell'autocontrollo. Ogni attività deve essere ovviamente proporzionale all'età degli studenti, ad esempio per le classi più alte della primaria si può creare una linea del tempo introducendo anche ciò che avviene nel passato (flashback), nel presente e nel futuro (lasciando alla fantasia di ognuno il compito di pensare cosa potrebbe succedere). Per la classe quinta si può proporre anche il concetto di modello a tre atti, spiegando i concetti di catalizzatore, punto di svolta e climax. Un’altra attività potrebbe essere il ‘domino degli eventi’ in cui bambini, divisi in squadre, devono riordinare dei fotogrammi chiave a partire da una disposizione casuale; i bambini a turno spostano i fotogrammi finché risultano nella sequenza corretta. Al termine, le squadre vengono sciolte e i bambini, divisi a coppie, associano ad ogni fotogramma una frase in rima (prodotta dai bambini o dall’insegnante) andando così a creare una sorta di storyboard visivo con testi rimati. 3.3.3 Lavorare sui personaggi All'interno della narrazione forte, un ruolo primario per l'immedesimazione dello spettatore è assunto dai personaggi e in particolare dal protagonista. Nella pratica didattica, dunque, si dovrà lavorare anche sui personaggi e sulla loro analisi, per far sì che i bambini possano costituire un utile aggancio alle loro esperienze di vita. A un primo livello sarà utile predisporre delle attività che permettano di evidenziare le caratteristiche fisiche o comportamentali dei vari personaggi presenti nel film. Questa attività potrebbe essere introdotta con domande guida, come: Chi è? Come si veste? Che lavoro fa? Come parla? Qual è il suo modo di fare? Come si comporta nei confronti del protagonista? Quali sono le tue impressioni nei tuoi confronti? Un tipo di attività più strutturata, per l’analisi dei personaggi, invece, potrebbe prevedere una tabella a doppia entrata con le figure dei personaggi del film e alcune informazioni da completare; oppure si può creare un cartellone con i personaggi del film e applicare post-it con le sue caratteristiche e aggettivi adeguati; in caso di personaggi che evolvono si può descrivere un personaggio all'inizio e alla fine del film, per coglierne i tratti di cambiamento. Un'altra possibilità consiste nel proporre delle drammatizzazioni in cui i bambini sono chiamati ad interpretare i personaggi del film. La drammatizzazione permette, infatti, di sviluppare una maggiore comprensione delle relazioni che legano i personaggi e una maggiore capacità di mettersi nei panni degli altri. Un altro aspetto importante è quello dei colori e delle forme, un aspetto che emerge di più nel caso del cinema animato, dove il disegno offre una plasticità maggiore e una più immediata caratterizzazione delle forme. Questo lavoro può fare riferimento agli aspetti fisici e comportamentali di vari personaggi e permette di sviluppare una capacità di visione più attenta ai dettagli. Un passaggio ulteriore non riguarda i tratti fisici e comportamentali dei personaggi, ma la comprensione delle loro motivazioni e la formulazione di un giudizio su di essi; per arrivare a questo livello di analisi, è necessario comprendere l'articolazione narrativa del film e ciò permetterà non solo di innescare dei ragionamenti ipotetici, ma anche di porre il bambino di fronte alle medesime situazioni. Ragionare insieme sulle questioni profonde sollevate dal film può portare a grandi risultati; allo stesso modo, proporre questioni ipotetiche su elementi che il film non spiega esplicitamente, può essere un utile punto di avvio per esercizi di fantasia che potrebbero tradursi in nuove narrazioni (es 'perché Scar è cattivo?’). 3.3.4 Ulteriori elementi di analisi Anche i luoghi, soprattutto nei film con un modello narrativo forte, sono caratterizzate da un'opposizione frontale tra personaggi positivi e negativi. Il pensiero alla base del film deve essere visto come una struttura testuale rigida ma flessibile, in grado di ricollegarsi alle esperienze reali dei bambini. Capitolo 4: TELEVISIONE, VIDEOGIOCHI E PRODUZIONI MULTIMEDIALI Come per il cinema, gli educatori si dovrebbero sempre chiedere cosa guardano in televisione i bambini e i ragazzi, in quanto cedere alla tentazione di pensare che quanto era visto fino a pochi anni fa sia ancora oggi al centro dell'esperienza televisiva può portare a progettazioni poco efficaci. Oggi non è più possibile pensare l'esperienza televisiva come qualcosa di rigido: negli anni ‘90 ad esempio la possibilità di un bambino di vedere il proprio programma preferito era molto vincolata, sia a livello spaziale che temporale, in quanto l'unico modo che aveva era di avere a disposizione una televisione, e se per qualche motivo perdeva l’inizio, questo era irrecuperabile. I bambini di oggi invece non si devono preoccupare di questi tipi di problemi in quanto possono vedere il loro programma preferito ovunque con una buona connessione e un’app sul cellulare, senza contare che possono recuperare il contenuto ogni volta che vogliono. Tuttavia, non è solo la forma dell'esperienza televisiva ad essere cambiata, ma anche il suo contenuto. Grazie a diversi sondaggi su bambini tra gli 8 e i 13 anni, emerge che i più piccoli sono ancora in qualche modo assimilabili ad un’immagine convenzionale dell'età infantile (i programmi preferiti sono i Simpson, Dragon Ball e il calcio); bambini più grandi guardano invece con maggiore insistenza al mondo degli adulti (tra i preferiti ci sono Amici, Soy Luna, Temptation Island, Uomini e Donne). Da questi consumi televisi emerge come bambini e ragazzi si ritrovano proiettati molto precocemente al di fuori dell'infanzia, spesso percepita come la fase dalla quale è bene uscire nel più breve tempo possibile. Nel caso dei giochi preferiti, invece, bambini e ragazze si mostrano più vicini ai consumi infantili, prediligendo giochi da tavola e di società, Barbie e videogiochi con bassi gradi di difficoltà. I ragazzi propendono invece per titoli derivanti dall’universo videoludico, come Fifa e Minecraft. La televisione e i videogiochi devono essere conosciuti dagli educatori nella loro specificità, affinché sia possibile ideare dei percorsi di analisi e produzione audiovisiva che rendono la fruizione di bambini meno passiva e più consapevole. 4.1 La serialità televisiva Fino a qualche anno fa, il medium televisivo era al centro di una grande polemica: guardare la televisione, per es. cartoni animati o telefilm, era considerata una perdita di tempo, mentre la letteratura e il cinema erano degni di interesse. La televisione era perciò accusata di corrompere la morale giovanile e di distrarre gli spettatori da attività più edificanti. Emblematica è a tal proposito la posizione del filosofo Popper, sintetizzata nel seminale “Cattiva maestra televisione”; al centro della sua indagine egli pone il potere di suggestione che il medium televisivo avrebbe sulla società, in particolare il pericolo insito nella sua capacità di influenzare e definire mode, costumi, modelli di comportamento. Popper sosteneva che ad essere pericolosa fosse soprattutto la passività che il medium televisivo finiva con indurre negli spettatori. La scarsa qualità dell'offerta televisiva, insieme al grande potere di penetrazione sociale di quelle immagini, poteva indurre comportamenti violenti e sgretolare progressivamente il confine tra realtà e finzione. La televisione sarebbe perciò stata portatrice di un'istanza anestetizzante, in grado di massificare gli spettatori e banalizzarne le capacità di lettura del reale. Per contrastare questo rischio, Popper proponeva il rilascio di una vera e propria patente per la produzione di programmi televisivi, accordata a quanti avessero frequentato un corso che oggi definiremmo di media education. La proposta di Popper è quella di favorire l’alfabetizzazione mediale di chi si occupa di produzione televisiva, incentivando la realizzazione di prodotti di qualità e sottraendo l'industria televisiva alla dittatura dell’audience e del numero di spettatori sintonizzati. Per quanto riguarda questo aspetto, la prospettiva popperiana è tutto sommato condivisibile, mentre più discutibile è l'associazione immediata tra consumo di televisione e passivizzazione dello spettatore. In realtà, come hanno visto Grasso e Penati, la televisione si è rivelata un'ottima maestra ed un suo uso controllato riesce addirittura ad accrescere le capacità intellettive dello spettatore. In generale, la letteratura è concorde nel ritenere che oggi ci troviamo nel pieno di un'età dell'oro della serialità televisiva, che prevede la fioritura di prodotti di qualità a cui il pubblico accorda un riconoscimento estetico culturale. In realtà, la storia delle serie TV è caratterizzata da almeno tre fasi di espansione, identificate come il Golden Age del medium. (box approfondimento: Nella storia della serialità televisiva americana si possono individuare tre Golden Age, ovvero momenti di grande rinnovamento narrativo, stilistico e formale. L'inizio della prima Golden Age corrisponde all'avvento del mezzo televisivo nel 1947 e coincide con un periodo di forte affermazione del medium, dove l'incertezza sul suo statuto lo porta a rivolgersi a forme spettacolari più accreditate storicamente. Si afferma così la forma del dramma antologico. Già intorno al 1950, con la massiccia diffusione dei televisori domestici, le serie iniziano a sfruttare i meccanismi di serializzazione narrativa più complessi, privilegiando strutture verticali; si iniziano a distinguere inoltre i primi generi, che ricalcano l'organizzazione di quelli cinematografici. A partire dal 1960, le serie mostrano una maggiore vicinanza alla realtà, grazie anche alla nascita di nuove problematiche sociali e culturali; gli ambienti si fanno più quotidiani e anche le vicende narrate sono più vicine alle esperienze del cittadino medio, abbandonando le convenzioni hollywoodiane. Nel 1970 i cambiamenti nel mercato televisivo fanno parlare di una seconda Golden Age, che prosegue la ricerca di realismo e vicinanza alla quotidianità. La struttura del racconto supera il modello verticale e si avvicina a quello orizzontale: si iniziano a distinguere gli archi narrativi che superano il limite del singolo episodio e attraversano una stagione o parte di essa. E’ un tipo di serie che richiede allo spettatore maggiore complicità in quanto se le serie verticali possono essere fruite anche saltuariamente, quelle a struttura orizzontale richiedono più fedeltà al pubblico, che per comprendere la vicenda non può perdersi nemmeno un episodio. Gli anni ‘90 sono un altro momento di innovazione per la serialità americana, che finalmente inizia ad essere percepita come una forma espressiva culturalmente rilevante, grazie anche alla fortuna di serie come E.R. - Medici in prima linea. Ciò è dovuto in parte anche alle reti via cavo, che iniziano a produrre le loro serie, e ad eventi come quello del regista Lynch, un autore cinematografico che mette mano ad un racconto seriale. Con il 2000 e l'arrivo del digitale tutto cambia e la proliferazione di nuove serie abitua gli spettatori a convenzioni narrative più complesse e imprevedibili. Anche la fruizione dei contenuti televisivi si è fatta sempre meno lineare in quanto la diffusione di piattaforme di streaming ha creato le condizioni per una nuova esperienza del medium. Ormai slegata da qualsiasi forma di palinsesto, la TV contemporanea offre allo spettatore la possibilità di vedere in rapida successione tutti gli episodi di serie che vengono pensati e realizzati come oggetti complessi, che prescrivono attenzione e partecipazione ad un pubblico sempre più consapevole e fedele). La serialità televisiva ha un’organizzazione specifica: essa si basa su una struttura definita dalla dinamica reciproca tra tre elementi: l'episodio, la stagione (una successione più o meno lunga di episodi) e l'intera serie (come successione di più stagioni). Anche quando sono organizzati in più episodi e si prestano a forme di serializzazione, i film non sono definiti da un'architettura complessa su tre livelli e possono dare luogo al più a una serializzazione definita “debole”: i vari episodi si svolgono nello stesso universo narrativo ma ognuno di essi è al contempo un film autonomo, che potrebbe essere fruito come singolo testo. Probabilmente oggi si preferisce guardare le serie TV rispetto ai film a causa della sua dimensione temporale: infatti, guardando una serie tv, che per sua natura ha durata molto superiore a quella di un film, lo spettatore ha più tempo di entrare in relazione con i personaggi e con le vicende narrate, partecipando del mondo raccontato in modo più profondo. Il fenomeno del binge watching (il guardare tutti gli episodi di una serie l'uno dopo l'altro senza interruzioni) e la sua diffusione dimostra quanto la serie sia capace di attrarre il pubblico e catalizzare l'attenzione. La serie televisiva fonda la propria articolazione sulla composizione di due fattori: - la verticalità: la dimensione verticale è quella che riguarda lo sviluppo della narrazione all'interno di una singola puntata. Le serie a prevalenza verticale sono quelle che presentano episodi autoconclusivi: ogni puntata racconterà una vicenda narrativa e si chiude al suo termine; la continuità tra le varie puntate sarà garantita non dal proseguire della vicenda lasciata interrotta, ma dalla presenza dei medesimi personaggi e di uno stesso setting ambientale (sono quelli che qualche decennio fa si chiamavano telefilm, es Don Matteo, Criminal Minds, I Simpson, Peppa Pig). Le serie a prevalenza verticale sono più adatte a bambini anche molto piccoli perché favoriscono un senso di completezza e mostrano la chiusura dei problemi sollevati dalla singola narrazione; a ciò si aggiunge il piacere del ritorno del già noto, che accompagna sempre il vedere nuove imprese dei propri personaggi preferiti. - l’orizzontalità: la dimensione orizzontale riguarda lo sviluppo della narrazione che eccede la dimensione dello specifico episodio e si esplica nella loro successione. Le serie che privilegiano una costruzione di tipo orizzontale non sono composte da episodi autoconclusivi, ma prevedono un filone narrativo principale che si dipana lungo una o più stagioni. In questo caso la cesura da un episodio all'altro può essere segnata dalla della necessità di ciascuno di trovare la propria dimensione identitaria, senza per forza emulare gli altri; la diversità del singolo è una forma di ricchezza che deve essere tutelata e riconosciuta. L'intera serie è piena di suggestioni pedagogiche molto valide, che vengono proposte con intelligenza nella loro complessità, senza mai cedere al rischio dell’ammaestramento. 4.2.4 Stranger things Fra le serie più viste dai ragazzi per la scuola secondaria di primo grado ci sono anche prodotti che non sono necessariamente pensati per quel tipo di pubblico; ciò ha generato preoccupazioni in diversi soggetti coinvolti con l'educazione, primi tra tutti i docenti. Tra i tanti, Stranger Things è in verità un ottimo prodotto che anche in ambito scolastico potrebbe dare il via a interessante analisi. La serie si apre con la misteriosa sparizione di Will; le indagini porteranno alla scoperta di una dimensione parallela alla realtà, il cosiddetto Sottosopra, apertasi in seguito ad alcuni esperimenti condotti in laboratorio. La serie è fruibile da diverse fasce d'età, che finiranno per immedesimarsi in personaggi diversi e con il dare maggiore o minore peso ad alcune delle linee narrative e dei temi della storia come i turbamenti amorosi o gli elementi horror. Un punto interessante su cui lavorare è il modo in cui la serie mette a tema problemi che sono al centro della vita degli spettatori: una delle grandi questioni è quella dell'accettazione del diverso e del modo in cui si cambia, talvolta anche radicalmente, durante la crescita. Ciò è reso evidente attraverso un discorso relativo agli universi familiari, rispetto ai quali la serie propone un interessante lettura. Il discorso proposto sottolinea infatti come il cardine dell'unione familiare non sia l'adesione ad un ideale normativo, ma piuttosto la capacità di riconoscere l'importanza di ciascuno e di amarlo e valorizzarlo nella sua unicità anche di fronte a qualcosa che non si riesce a capire (si veda la differenza tra una famiglia ‘canonica’ in cui c’è poca comprensione e affetto e una famiglia senza padre ma ricca di amore). Ugualmente interessanti a livello didattico potrebbe essere il tema dell'inclusione della diversità e la sua valorizzazione nel contesto dei pari, o ancora la messa in scena del passato (in quanto la serie è ambientata nel 1983 ed è percorsa da un desiderio nostalgico di riportare in vita quell'epoca). 4.3 PRODURRE AUDIOVISIVI A SCUOLA: PRINCIPI E SUGGERIMENTI Realizzare un audiovisivo in classe è un'esperienza di grande arricchimento sia per gli educatori che per i bambini/ragazzi coinvolti. E’ però necessario precisare che, per una felice riuscita di questo intervento, la progettazione preliminare è fondamentale: il docente dovrà avere un ruolo di regia e organizzazione e dovrà essere insieme rigido e flessibile. Il tipo di progetto da realizzare dovrà essere identificato preliminarmente tenendo in considerazione tre fattori: - il tempo a disposizione: la produzione audiovisiva è un processo complesso che richiede molto tempo; per questo la scuola primaria è spesso il contesto privilegiato per questo tipo di intervento che, in virtù della sua natura transdisciplinare, richiede una progettazione specifica che può contare sulla collaborazione di diversi docenti. In considerazione della necessità di un lungo tempo di lavorazione, sarà bene prediligere progetti semplici e brevi (per esempio un video di 5 minuti); - il livello di competenza degli studenti e dei docenti: bisogna adeguare le difficoltà del lavoro all’età dei bambini e al loro livello di padronanza dei meccanismi del linguaggio visivo e di altre competenze come la lettura, scrittura, disegno etc; - la disponibilità di attrezzature: è molto probabile che in ambito scolastico non siano disponibili tutte le attrezzature necessarie per la produzione di audio visivi che vogliano mimare il format del cinema o della televisione, perciò l’educatore dovrà essere abile nel valorizzare quello che ha a disposizione, lavorando anche con mezzi semplici e coinvolgendo i dispositivi dei ragazzi nel processo di produzione. Questi tre elementi devono essere alla base di una buona progettazione audiovisiva; inoltre, in questo modo gli studenti si rendono conto che produrre un'animazione o un piccolo video è un lavoro complesso e per nulla banale che richiede tempo e attenzioni, divenendo così più consapevoli dei meccanismi di realizzazione di quei prodotti visivi che fruiscono ogni giorno in maniera passiva. Inoltre, mettere le mani sul processo produttivo, dovendo lavorare in gruppo, abituerà la classe alla collaborazione e creerà così risultati importanti anche riguardo la gestione dei conflitti e delle emozioni. A questo proposito, è bene ricordare che in attività come questa il momento della progettualità e della realizzazione sono più importanti rispetto a quello del risultato finale, in quanto il docente dovrà sì valorizzare il momento di restituzione, ma soprattutto le competenze apprese durante la fase di lavorazione. Per dare il via alla progettazione è bene scegliere la vicenda da portare in scena e, soprattutto nella scuola primaria, è bene privilegiare semplici produzioni di tipo narrativo, la cui realizzazione consentirà di familiarizzare ancora di più con le strutture di base delle narrazioni audiovisive. La storia può essere già nota o può essere creata da insegnanti e studenti (questa opzione consigliata delle classi più avanzate); se la storia è complessa, il video dovrà concentrarsi su una sola sequenza della storia. Se invece si parte da una storia costruita degli alunni, è bene tenere a mente i suggerimenti che Gianni Rodari forniva nelle pagine di ‘Grammatica della fantasia’, un punto di riferimento rispetto al problema di come favorire e indirizzare la capacità narrativa nei bambini; questi suggerimenti riguardano: - esplorazione della parola attraverso il suo acronimo che potrebbe dare vita ad una narrazione (es. la parola MASSA potrebbe nascondere questa strana storia: Mamma Aveva Sette Serpenti Addosso); - utilizzo di quello che Rodari chiama binomio fantastico: una coppia di parole incoerenti, scelte a caso o estratte, dalla cui combinazione far scaturire una storia; - lavoro su uno story concept reale o ipotetico (es cosa succederebbe se la Sicilia perdesse i bottoni?); - lavorare sulla deformazione delle parole, aggiungendo suffissi e prefissi che modificano il senso e che favoriscano l'esplorazione fantastica; - ritagliare titoli di giornale, facendo a pezzi le parole che li compongono e rimescolandole tra loro per ricavarne avvenimenti assurdi; - fornire una serie di parole che suggeriscono una storia nota e interrompere la serie con una parola fuori contesto; - lavorare sul rovescio delle storie, cambiando il punto di vista delle narrazioni (es una storia in cui Cappuccetto Rosso è una peste e il lupo è buono). Questi sono solo alcuni esempi che potrebbero fornire la miccia per la generazione di una storia; queste attività possono essere proposte ad ogni singolo studente e, attraverso una lettura e un confronto condiviso, verranno fatti emergere gli elementi più interessanti. Una volta identificata la storia bisognerà adattarla alle esigenze della regia, ovvero al tempo del prodotto e al livello di complessità che si vuole raggiungere. Se finora la progettazione si è posta su un piano ipotetico, adesso serve procedere più concretamente. Uno strumento utile in questo senso è lo storyboard, una sorta di previsualizzazione grafica delle varie scene che andranno a comporre il video: serve che i vari momenti della storia vengono prodotti visivamente, appuntandosi non solo il modo in cui la scena dovrà presentarsi, ma anche i vari movimenti di effetti che si vogliono inserire. In questa fase sono consigliati strumenti touch come il tablet e la LIM, perché permettono di scrivere e disegnare liberamente, eventualmente aggiungendo o correggendo in corso d’opera il lavoro di storyboard. Fin qui, la progettazione di un contenuto multimediale animato o in live action (con esseri umani come attori), non presenta differenze. Da qui in poi le strade si dividono: nel caso di un live action bisognerà dividere i compiti tra attori, registri, operatori di camera, cercando di simulare le mansioni di un vero set cinematografico ed eseguire poi le riprese. Se si opta per un’animazione, si dovranno preparare tutti i materiali necessari (fondali, personaggi…) per poter realizzare il progetto. In questo caso si può usare la tecnica del passo uno, lo stesso meccanismo dei giocattoli ottici: il principio della persistenza retinica infatti prevede che una successione rapida di immagini simili venga percepita dall'occhio come un flusso continuo. Sfruttando questa tecnica, è possibile realizzare dei corti animati fotografando molte volte disegni anche molto semplici, a patto che si proceda per piccoli spostamenti della scena tra una fotografia e l'altra, scomponendo ogni movimento in tanti singoli elementi (es per dare l'impressione che il personaggio stia parlando, si dovranno alternare continuamente una sua versione con la bocca chiusa e uno con la bocca aperta). Una proposta per i bambini più piccoli è quella di fare realizzare dei servizi giornalistici sulla vita della scuola, su specifiche attività o brevi interviste. Le uscite sul territorio e le visite di istruzioni sono un’altra occasione che si può sfruttare per produrre contenuti video; in questo caso è bene ricordare che non per forza bisogna realizzare un documentario o un servizio giornalistico sull'uscita, ma è anche possibile realizzare un montaggio delle loro fotografie e dei loro video, creando un video-diario dell'esperienza fatta. Questo perché il prodotto non deve per forza presentare contenuti didatticamente rilevanti, ma deve essere un modo per ripensare i meccanismi di traduzione di un'esperienza in un prodotto visivo: le scelte di montaggio e della colonna sonora, delle immagini e delle parole sono già di per sé l'occasione per ragionare insieme sul modo in cui la comunicazione visiva funziona e su quanto queste funzioni tecniche possono influire sull'oggetto. Una volta terminata la fase di produzione, si passa a quella del montaggio: questa fase può essere svolta autonomamente dall'insegnante con o senza la collaborazione degli studenti, o, in classe già avanzate, può essere svolta in autonomia dagli studenti. Dato il senso di esperienze di questo tipo, questa opzione è preferibile, ma qualora non fosse praticabile è consigliabile che l'educatore costruisca almeno parte del montaggio davanti agli studenti, spiegando cosa sta facendo e consentendo loro di verificare continuamente l’effetto delle sue operazioni. Esistono in commercio diversi software di montaggio professionali, come Adobe, ma il loro costo elevato e la complessità d'uso non lo rende un software adatto per una produzione in classe. Comunque sia qualsiasi programma venga usato, esso presenta in alto uno spazio per l'upload dei materiali di base, dove si potranno caricare foto, video, musiche e tutto il necessario per confezionare un video; questi elementi andranno poi trascinati nella timeline (parte inferiore) dove sarà visualizzata la successione di tutto ciò che sarà inserito. La facilità d'uso di questi strumenti e la rapidità con cui è possibile intervenire sul progetto rendono il montaggio un passaggio denso e importante dal punto di vista educativo. (Box approfondimento: La pubblicità a scuola. La pubblicità televisiva è stata a lungo al centro degli interessi degli educatori, tanto che una delle scelte più incisive nel canale Rai YoYo riguarda la decisione di non trasmettere mai inserzioni pubblicitarie. Proposte operative che possono essere adattate ai contesti specifici in cui l'educatore opera: - pubblicità di oggi e di ieri: visione collettiva di alcuni filmati di Carosello può offrire un punto di partenza per riflettere su come funziona la pubblicità oggi e su come il tuo linguaggio sia cambiato nel tempo (si può riflettere qui sulla durata degli sport, la quantità di riferimenti al prodotto pubblicizzato, le impressioni dei bambini…); - la pubblicità come testo: lo spot pubblicitario funziona come un breve messaggio visivo che può essere scomposto e analizzato attraverso gli strumenti del capitolo 3; - decostruzione e ricostruzione di messaggi pubblicitari: utilizzando la tecnica del collage, gli studenti creano il loro personale messaggio pubblicitario per reclamizzare un prodotto; - la pubblicità sui giornali: lavorare in piccoli gruppi sui messaggi pubblicitari delle riviste è un esercizio per ragionare sulle strutture della comunicazione pubblicitaria e riflettere sugli stereotipi di genere proposti dalle riviste; - ideazione di una mascotte per la promozione di un prodotto scelto dai bambini. 4.4 Il videogioco: una risorsa educativa Così come era stato a suo tempo per il medium televisivo, molto criticato da Popper, oggi è l'universo videoludico ad essere al centro delle preoccupazioni censorie, complice la sua presunta capacità di indurre comportamenti violenti e antisociali in chi ne abusa. Il videogioco non è ancora considerato un utile strumento didattico e sono ancora pochi gli esempi di progetti di analisi e ripensamento in ambito scolastico. Il problema spesso è che, per preconcetti personali o appartenenza generazionale, gli educatori non si preoccupano di sperimentare direttamente l'esperienza del videogioco, che invece ha tanta importanza per le giovani generazioni. Come si è già detto infatti, solo attraverso una conoscenza diretta e una riflessione critica è possibile, per docenti e non solo, progettare percorsi di educazione visuale che dotino bambini e ragazzi di un armamentario critico e di nuove forme di consapevolezza. Parte dell'equivoco deriva dal termine stesso ‘videogioco’: l'attenzione quasi esclusiva rivolta all'ambito ludico rischia di mettere in secondo piano la vera specificità mediale del videogioco, che è un'opera multimediale interattiva non necessariamente pensata per divertire chi la fruisce. Come per la fotografia e il cinema, mostrare agli studenti come erano i videogiochi delle generazioni precedenti può essere il punto di partenza per ragionare non solo sull'evoluzione tecnica del medium, ma anche sui significati culturali che il videogioco ha assunto nel corso del tempo. Come per ogni forma di narrazione, anche i videogiochi possono essere raggruppati in generi e si possono distinguere meccanismi di ripetizione e variazione. Esiste però una differenza fondamentale: i generi team dove ognuno può far emergere le sue competenze, sarebbe un ottimo incentivo per una migliore valorizzazione del contributo del singolo ad un processo di costruzione del sapere che è per sua natura collettivo. (box approfondimento: Alcuni principi dell'apprendimento secondo Gee. 1. l'apprendimento segue un ciclo continuo e sempre rinnovato di esplorazione, riflessione, analisi e verifica; 2. l'esperienza dell'apprendimento implica la capacità di gestire i campi semiotici diversi e di partecipare a gruppi di affinità legati ad essi; 3. gli ambienti di apprendimento devono essere sviluppati in modo da stimolare un atteggiamento attivo e critico; 4. l'apprendimento implica la capacità di un pensiero attivo rispetto ai campi semiotici e alle relazioni tra di essi; 5. chi apprende può sfruttare un campo semiotico come luogo di esperienza controllata, senza conseguenze sul mondo reale; 6. l'apprendimento implica l'assunzione di identità multiple; chi apprende si trova in rapporto dinamico con la sua identità nel mondo reale e con l'identità virtuale; 7. è importante che nel processo di apprendimento vi siano delle ricompense proporzionate agli sforzi fatti 8. la pratica e la continua applicazione sono incoraggiate e richieste in un contesto in cui l'apprendimento non è noioso; i significati non devono mai essere astratti o generali ma anzi discendere dall'esperienza diretta; 9. l'apprendimento deve essere continuo e progressivo, dando possibilità di mettere alla prova quanto si è appreso; le esperienze devono essere concepite come sfide complesse ma non impossibili; 10. in un ambiente di apprendimento esiste più di un modo per giungere alla soluzione del problema; la scelta di una strada piuttosto che dell'altra deve essere oggetto di riflessione ed essere guidata da una consapevolezza critica sul proprio grado di competenza; 11. le conoscenze intuitive devono essere adeguatamente valorizzate; 12. chi apprende riceve istruzioni o indicazioni in modo progressivo e nel momento in cui ne ha bisogno per proseguire nella sua esplorazione; 13. l'apprendimento non è un processo monadico ma distribuito e diffuso all'interno di un gruppo di affinità dove ciascuno ricopre ruoli diversi). 5. PROGETTI DIDATTICI DI EDUCAZIONE VISUALE Vediamo tre esempi di percorsi didattici pensati per la scuola primaria: 5.1 MONSTER UNIVERSITY (per la trama del cartone vedi pag. 226) - classe quinta primaria - coinvolge discipline di arte immagine e italiano - durata: 12 ore - propone temi di importanza per il pubblico, soprattutto nel contesto di un passaggio importante come quello della scuola primaria alla secondaria di primo grado. Ogni mostro, come ognuno di noi, ha i propri pregi e difetti: e allora è necessario imparare a rispettare e valorizzare queste caratteristiche perché sono proprio quelle che ci rendono unici e particolari; viene sottolineata l'importanza dell'impegno nel perseguire i propri sogni e della collaborazione reciproca; - temi: valorizzazione della diversità in un mondo che ci vuole spesso omologati; l’importanza di perseguire con tenacia i propri sogni anche contro le opinioni altrui; il valore della collaborazione e dell'amicizia; il valore educativo del fallimento e i modi di affrontarlo per renderlo costruttivo. 5.1.1 Conosciamo meglio i mostri - Prima attività: proporre alla classe di lavorare sulla locandina del film prima della sua visione. Il fatto che nella locandina siano presenti sia i protagonisti che le comparse è molto utile perché permette di lavorare non solo sulla descrizione oggettiva di ogni personaggio, ma anche sulle aspettative di comportamento suggerite dal loro aspetto. Viene, quindi, divisa la classe in gruppi, ciascuno dei quali riceve una scheda con l’immagine di uno dei personaggi per stendere una descrizione, non solo relativa all’aspetto fisico, ma anche sul carattere e sugli hobby che si immagina possa avere, di uno dei mostri; - Seconda attività: ciascun gruppo presenta le descrizioni al resto della classe e verifica, dopo aver visto il film, le ipotesi fatte in precedenza. La possibile non corrispondenza tra le aspettative precedenti e quanto visto nel film, permette di ragionare sull'importanza di non giudicare le persone solo dal loro aspetto, perché non sempre l’esteriorità rispecchia il vero Io. 5.1.2 Immaginare la storia… a partire dal trailer Oltre che sulle locandine, è possibile lavorare con efficacia anche sul trailer del film. Dopo aver proposto alla classe la visione del trailer, si chiederà ai bambini di immaginare una possibile storia; il trailer è per sua natura un testo sintetico che non fornisce allo spettatore tutte le informazioni di cui ho bisogno; lavorando su questa incompletezza, sarà possibile costruire delle storie ipotetiche che verranno poi confermate o smentite dalla visione. Ad ogni bambino è chiesto di disegnare la breve ipotesi di narrazione che ha sviluppato sulla base del trailer, dividendola in cinque disegni, accompagnato ognuno da una breve didascalia. Si noterà così come è possibile generare infinite storie. In un secondo momento, per sottolineare la presenza di differenza tra le varie storie, si propone una variante del gioco della sigaretta in cui ogni bambino prenderà il suo primo disegno e lo passerà al compagno, che aggiunge il suo secondo disegno a quello ricevuto e passerà poi la copia dei fogli al compagno alla sua destra; si procederà fino a quando si saranno automaticamente composte delle nuove storie. 5.1.3 Aiutiamo Mike, con un flipbook spaventoso! Dopo aver visto il film, si procede alla costruzione individuale di un flipbook, che permetterà anche di riflettere sui meccanismi di funzionamento del cinema animato; per realizzarlo servono circa 50 foglietti di carta della stessa dimensione, dei fermacampioni o mollette e una fonte di luce. 5.1.4 Creiamo il nostro mostro Uno dei temi fondamentali è quello dell’omologazione e della valorizzazione della diversità: ognuno può eccellere nel proprio lavoro se riesce a sfruttare le proprie capacità. Per far emergere ciò, si chiede ai bambini di pensare a se stessi, con i propri pregi e difetti, per poi rappresentarsi in una forma mostruosa. Ognuno mostrerà poi il proprio mostro, sottolineandone un pregio e un difetto, a cui seguirà una discussione collettiva. 5.1.5 Rifletti, scrivi e… ascolta! L’ultima attività è la più strutturata (anche se non è un momento di verifica) e si compone di un questionario di 3 domande per fare riflettere i bambini sul percorso scolastico e sull'imminente passaggio alla scuola secondaria. Le domande riguardano le aspettative nei confronti della nuova scuola secondaria, il confronto tra le aspettative e quanto si è poi realizzato nella scuola primaria e il ragionare sulle situazioni in cui il bambino non è riuscito in qualcosa a cui teneva tanto, sul come si è sentito e che cosa ha fatto per risolvere la situazione. Quest'ultima domanda riguarda il tema del fallimento, importante per i bambini soprattutto perché oggigiorno si tende ad evitare il più possibile che essi falliscano. Questo non è un male, ma neppure rendere le cose troppo semplici è una strategia vincente perché in questo caso il fallimento risulterebbe più traumatico. E’ importante che i bambini capiscano che anche quando si fallisce nulla è irreparabile. Sarebbe interessante rivolgere queste domande anche agli insegnanti chiedendogli di raccontare le proprie difficoltà e fallimenti in modo da mostrare che anche loro, pur essendo adulti, non sono esenti da queste esperienze. 5.2 Animare dei piccoli fantasmini Un tema importante è quello che riguarda gli studenti con disturbi specifici dell'apprendimento, bisogni educativi speciali o altre criticità. L'educazione contemporanea, specialmente quando si propone di lavorare in contesti che coinvolgono le competenze trasversali per una cittadinanza attiva, deve essere il più inclusiva possibile e offrire ad ogni studente la possibilità di partecipare attivamente al processo di costruzione del sapere. I processi di produzione di elaborati audiovisivi sono un ottimo modo per aiutare studenti con criticità a svolgere attività che possono consentire loro di mettersi alla prova in un contesto protetto e non sanzionante. Proponiamo il seguente percorso didattico: - classe prima primaria; - si avvicina Halloween e alcuni bambini, compreso uno con un disturbo dello spettro autistico, cominciano a manifestare preoccupazione verso questa festa. Urge allora creare un'attività che possa coinvolgere tutta la classe e aiutare alcuni bambini ad affrontare più serenamente questo momento. Si procederà alla lettura animata del libro “Tre piccoli fantasmini” di Pippa Goodhart; - temi/obiettivi specifici: sviluppare capacità di ascolto e comprensione del testo narrativo; promuovere un atteggiamento positivo e propositivo nei confronti della lettura; sviluppare le competenze necessarie per ripensare creativamente e costruttivamente i contenuti di un testo narrativo attraverso varie forme di esperienza mediale; - discipline coinvolte: italiano (ascolto e parlato, e scrittura), arte e immagine (esprimersi e comunicare e educazione fisica (il linguaggio del corpo come modalità comunicativo-espressiva). 5.2.1 Lettura animata La storia raccontata nel libro è molto semplice: i protagonisti sono anche piccoli fantasmi che si sfidano in continuazione a chi è il più spaventoso, vivono in un mondo popolato di streghe, orchi e altre creature fantastiche. Decidono allora di cambiare bersaglio e si infilano nella cameretta di un bambino. Qui, a sorpresa, saranno loro a prendersi un forte spavento e a dover scappare via di corsa. Prima attività: l’insegnante dopo aver riunito i bambini in cerchio attorno a sé, dà il via ad una lettura animata della storia: dando grande attenzione al tono della voce, ai gesti e ai movimenti del corpo ed usando magari qualche oggetto reale, l'insegnante renderà più viva la narrazione e trasporterà i bambini all'interno del mondo narrativo. 5.2.2 Conosciamo meglio le creature della storia Poiché spesso il vettore di ingresso nella storia è offerta dai personaggi, con cui lo spettatore si immedesima, bisogna prevedere una parte di analisi dei personaggi - Una prima attività potrebbe essere la carta d'identità dei personaggi: questo esercizio ha lo scopo di favorire un ripensamento della storia ascoltata e una maggiore conoscenza dei personaggi e di sé; - Un secondo lavoro può essere legato alla restituzione grafica di quanto ascoltato: ad ogni bambino viene fatto scegliere uno dei personaggi principali della storia, che sarà fotocopiato, ritagliato e incollato su un cartoncino. Verrà dato ad ogni bambino un foglio su cui potranno rappresentare una delle scene della storia o una da loro inventata, su cui puoi incolleranno con una piccola molla i personaggi. Questa attività permetterà di introdurre anche il tema del movimento delle immagini. Come si vede, ognuno di questi momenti prevede più finalità senza proporre mai contenuti disciplinari espliciti; - Una terza attività può riguardare il movimento in quanto le creature del racconto si muovono e ciascuna di loro è legata ad un tipo particolare di movimento (i fantasmi svolazzano liberi nel cielo, la scopa della strega va a zig zag, l’orco avanza a passi lunghi e profondi). Attraverso attività di immedesimazione e roleplay, l'insegnante potrà introdurre l'idea che così come ognuno di loro si muove in modo particolare e unico, anche nel mondo reale esistono diversi modi per muoversi. Questo lavoro preliminare sul movimento vuole proporre l'idea che anche le immagini possono muoversi; a questo punto l'insegnante mostrerà ai bambini alcuni esempi di giocattoli ottici come il taumatropio o lo zootropio, lasciandoli liberi di soffermarsi sulle l'elemento magico coinvolto nel loro funzionamento. Si propone poi ai bambini di costruire il loro personale fenachistoscopio in tema con il contenuto della storia. 5.2.3 Realizzare un’animazione Le attività finora proposte hanno portato gli studenti a familiarizzare non solo con alcuni elementi della narrazione, ma anche con i meccanismi del movimento e dell'animazione; i bambini si sono così progressivamente avvicinati all'immaginario di Halloween, facendolo proprio ed esorcizzandolo in modo giocoso. L'ultima attività prevede la costruzione di una piccola animazione a passo uno che prende spunto dalla storia; si sceglieranno insieme le scene chiave del libro e si animerà a turno con il corpo quella scelta per poi farla diventare un vero e proprio cartone animato. Si creeranno prima i personaggi e i fondali, poi si procederà alla fase delle riprese dove i bambini si alternano sia dietro la fotocamera che nello spostamento degli elementi del disegno; segue poi la parte del montaggio e della registrazione delle voci. 5.3 Il Piccolo Principe (per trama vedi pag 241) Il film Piccolo Principe è un adattamento animato piuttosto libero del classico della letteratura per l'infanzia, in quanto la storia originale viene aggiornata a livello estetico e i contenuti vengono inseriti all'interno di una narrazione più complessa.