Scarica Elogio dello scarto e della resistenza- Pensieri ed emozioni di filosofia dell'educazione e più Appunti in PDF di Deontologia solo su Docsity! ELOGIO DELLO SCARTO E DELLA RESISTENZA Introduzione Con scarto si allude: • al marginale, a ciò che è considerato residuo in relazione a tutto quello che conta, che si colloca in primo piano e gode di una diffusa rappresentazione sociale positiva. Il sapere pedagogico, ad esempio, è scarto nei confronti sia di saperi tradizionalmente forti, sia della chiacchiera mediatica che, attraverso spot sempre più seduttivi e ricchi di effetti speciali, finisce per orientare gli stili di vita dei soggetti. • alla distanza tra: la progettualità educativa e i suoi esiti, tra i tempi delle nostre parole e i tempi delle risposte dei nostri interlocutori educativi. Si tesse l'elogio per valorizzare, con lo scarto, una costellazione di categorie e di pratiche socioeducative dense dal punto di vista teoretico e ricche di implicazioni per la materialità dell'educare. Ad es: la mancanza di riflettori sulle riflessioni e le proposte pedagogiche è una chance in più per intercettare bisogni e desideri (di bimbi e giovani) che l'induzione al consumismo individualista lascia scoperti. Morin dice che affermare e agire la complessità significa tenere insieme quello che abitualmente insieme non sta. Tenere insieme la nostra marginalità, di educatori e studiosi di educazione, e la proposta di una progettualità educativa tesa alla conquista della propria differenza non è facile, anzi, potrebbe rivelarsi perdente, se non intervenisse un solido impegno in termini di resistenza. Resistenza nei confronti degli elementi culturali più alienanti di questo momento storico; dei modelli di umanità che, imposti a livello mondiale dai pochi che possiedono molto, tendono ad impoverire e mortificare i rapporti quotidiani e i sogni degli individui rendendoli gregge. Suggerire sobiretà e attenzione per tutto ciò che vive; invitare ad accettare i limiti e le insufficienze della nostra possibile libertà sono tutti percorsi di una resistenza impegnativa e inattuale, ma ciò è motivo per perseguirla. Tali percorsi invitano a intraprendere le possibili vie di superamento dei problemi, connettendosi in termini rispettosi e collaborativi con gli altri. 1. Elogio dello scarto e della resistenza La riflessione pedagogica: inattuale, scarsamente visibile e perciò risorsa Nel 2004 è uscito un articolo, “La nuova pedagogia ordina: tutto il potere ai genitori”, scritto da un pediatra. Tale articolo fa emergere segnali di marginalità e irrilevanza cui è confinato il sapere pedagogico sul piano della visibilità e delle rappresentazioni sociali nel nostro contesto culturale. Oggi si assiste a una diffusione pervasiva di messaggi educativi che offrono indicazioni su come comportarsi coi figli, su come affrontare e risolvere i problemi d’amore, su come conquistare la felicità, il successo, il denaro, la salute. Tuttavia, tali indicazioni vengono proposte e dibattute su quotidiani o riviste, durante trasmissioni televisive. Quindi non da pedagogisti o educatori, ma da personaggi famosi. Al contempo, ci sono messaggi impliciti, espressi dietro o senza le parole, con la potenza delle immagini che il mondo pubblicitario e politico sa usare per indurre bisogni e consenso e per imporre stili esistenziali dettati da logiche volte al potere e al profitto. Dunque: espropriazione di terreni che dovrebbero avere l'impronta educativa, oltre che stravolgimento di percorsi e obiettivi. Forte sofferenza nei confronti delle indicazioni pedagogiche accusate di essere pedanti e impossibili da realizzare, in quanto troppo difficili. È all'interno di questa cornice che la riflessione pedagogica deve individuare i propri spazi se intende esprimersi, agire nella e sulla concretezza storica e sociale, sull’essere nel mondo di soggetti in carne ed ossa e non appagarsi di dibattiti anche profondi, teoreticamente audaci e originali ma confinati nell’autoreferenzialità dei circuiti pedagogici istituzionali, nazionali o internazionali che siano. Si tratterà di spazi angusti, ma in un orizzonte culturale come il nostro, in cui solo ciò che riceve l’amplificazione mediatica suffragata dagli indici di ascolto ha valore, può essere opportuno scegliere la via della sobrietà e della penombra, del detto e non urlato, del proposto e non imposto. Il tutto in linea con le riflessioni elaborate da Bertin sull’inattuale come idea pedagogica. In quanto inattuale essa non coincide né deve coincidere con le tendenze prevalenti nel presente. Ecco allora che la marginalità e scarsa visibilità possono tradursi in risorsa, richiamandoci ad uno stile improntato all’inattuale e alla valorizzazione del residuo, dello scarto. Sul piano educativo, la categoria dello scarto rimanda a una modalità di proposta che prevede uno spazio, un intervallo di riflessione e di elaborazione fra se stessa e la risposta che sollecita: un tempo tutto dell' interlocutore cui ci rivolgiamo affinché trovi la via della propria progettualità. La filosofia dell'educazione richiama a uno scarto insuperabile, ma dinamizzante, fra ciò che realizziamo e l'orizzonte del possibile, che davanti a noi indica sempre altre vie ed obiettivi. • Cioè, scarto come cifra emblematica dell'educare, da elogiare perché sollecita ad arrivare ad altri traguardi che si spostano sempre un po' più in là. Lo scarto in educazione. La pazienza dell'attesa, la distanza fra le nostre indicazioni e le loro scelte • Nel piano educativo lo scarto è proposta che prevede uno spazio, un intervallo di riflessione ed elaborazione fra sé e la risposta che sollecita: un tempo dell'interlocutore cui ci rivolgiamo affinchè trovi la via per la propria progettualità. Non il bombardamento che pretende subito il riscontro, ma la pazienza dell'attesa di chi è consapevole che il proprio contributo a favorirla può produrre i suoi effetti di geratività con lo scarto di un lungo inverno. • Scarto è anche la distanza tra strada che intercorre tra la strada che indichiamo e quella che i nostri interlocutori imboccano con autonomia. Platonov descrive bene questo scarto con il racconto “Ricerca di una terra felice”: tale racconto parla di un mitico umanissimo eroe che vuole portare alla salvezza un piccolo popolo di persone stremate da persecuzione e ingiustizie e ormai rassegnate a lasciarsi morire. Con loro inizia un viaggio nel deserto, condivide ogni pericolo finchè arrivano a destinazione e l'eroe-guida può organizzare per loro una vita di comunità confortevole, che consente loro di rinascere perchè: *riacquistano le forze fisiche *ritrovano la serenità Tuttavia, un mattino egli non trova più nessuno. Sale su un'altura e vede che tutti stanno andando via verso tutti i punti della terra: stanno affermando lo scarto tra la felicità che egli aveva trovato per loro e quella che ciascuno vuole trovare per sé. Essi possono anche andare da un'altra parte perchè non ce la fanno o pensano di non potercela fare a incamminarsi nella direzione proposta da noi: è lo scarto che, per loro, sembra segnare la distanza tra le nostre aspettative e le loro capacità. • Scarto che coglievano le insegnanti coinvolte nella ricerca sull'effetto Pigmalione, tra ciò che si aspettavano dagli allievi designati come potenziali geni e i risultati del tutto normali che essi, da alunni normali, raggiungevano: il non dubitare della loro potenzialità geniale costituiva la coloritura emozionale che rendeva accettabile quello scarto e speciale la relazione con quegli allievi. • Categoria di scarto di carattere esistenziale: riguarda gruppi e soggetti che in termini di potere sono deboli/marginali, ma da tale posizione propongono riflessioni e testimonianze di profonda significatività pedagogica. (Es: movimenti di giovani pacifisti che, immersi nei conflitti, si impegnano a lavorare insieme per una soluzione pacifica del conflitto). Cap 2- Dispositivi teoretico-metodologici di una filosofia dell'educazione critico-progettuale: il problematicismo razionalista In questo capitolo si delineano i possibili significati che un certo tipo di filosofia dell'educazione, rivolta al mondo, può assumere • in una condizione storica che si connota come globale e in cui, ad antiche e consuete espressioni di problematicità, se ne intrecciano di inedite e destabilizzanti sia a livello planetario che individuale, sia sul piano ambientale e politico-finanziario, sia dei rapporti tra i sogg, le etnie e culture; • in un orizzonte culturale che, mentre registra conquiste di rilievo e diffusione (es: in ordine al riconoscimento dei fondamentali diritti umani), rivela insufficienze e contraddizioni nel delineare traiettorie di un impegno etico-sociale teso in direzione di ragione, ovvero verso la promozione di possibilità per tutti, per gli ultimi in particolare; • nel dominio di un pensiero unico che svaluta fino alla negazione il ruolo dell'esercizio critico e sostituisce il bisogno dell'omologazione e del conformismo al diritto alla differenza. • Davanti a soggetti educativi (bimbi, giovani, adulti) che subiscono pressioni nella loro gettatezza. Tale cornice delinea lo spazio di un impegno vasto, complesso. Alla luce di ciò, si indaga un modello di filosofia dell'educazione, il problematicismo razionalista, partendo dall'inattualità. Inattualità perché costituisce connotazione positiva in un contesto che enfatizza e celebra il conformarsi a tutto ciò che è più di moda, che ha successo, che è attuale, dimenticando radici e storia e svalutando possibili aperture alla divergenza e alla creatività. L'inattualità del problematicismo razionalista nel tempo di Banfi e di Bertin Nella società italiana e nella cultura condizionate dal regime fascista e dalla guerra, Banfi imposta la sua prospettiva e il suo insegnamento universitario su 2 assi portanti: • in ottica teoretica, propone una teoria della ragione critica ed antidogmatica, volta a fondare la possibilità di una sistematica del sapere e di una fenomenologia della cultura, aperta al movimento stesso del sapere e della cultura e avversa ad ogni mutilazione arbitraria di entrambi per opera di ideologie e dogmatismi; • dal punto di vista etico, rivendica un umanesimo libero e profondo e l'indipendenza delle coscienze. Molto diversa è la trama del romanzo di formazione di Bertin, che è stata caratterizzata prima da una stagione all'insegna di motivi irrazionalisti e mistico-estetizzanti, e poi dalla scelta di pedagogia come ambito di ricerca e di intervento, elaborando la prospettiva teoretica del problematicismo pedagogico. Nel periodo in cui ha prodotto la sua letteratura scientifica, sono accaduti molti eventi da cui Bertin si è fatto interpellare e rispetto a cui si è pronunciato. Si tratta di analisi di figure di pensiero e di stili esistenziali, così come si prospettano e si realizzano nei tempi e nei luoghi concreti della storia in relazione a un'idea di ragione da far valere in senso regolativo-metodologico. In direzione di ragione: dalla problematicità dell'esperienza alla sua legge trascendentale Il primo tassello della teoria problematicista è costituito dal concetto generale di esperienza inteso come rapporto di integrazione fra due polarità, io e mondo, che sono contrassegnate da una distanza reciproca e da reciproci tassi di opacità, tali da rendere la loro integrazione sempre approssimativa e parziale. Io sperimento un rapporto con qualcuno o qualcosa che, come minimo, mi si presenta con una pluralità di messaggi e di significazioni che richiedono di essere decifrati e a volte con bisogni, richieste o proposte ambivalenti, incomprensibili o che confliggono con i miei o che ad essi si oppongono decisamente, connotandosi di segno contrario. Le mosse che compio per comprendere e farmi comprendere, per accostarmi all'altro da me, rivelano la loro insufficienza anche nei casi in cui registro un progresso in quelle direzioni: perché il fine cui tendo si sposta sempre in avanti e mi mostra la strada che ancora devo intraprendere e percorrere. L'obiettivo (l'integrazione tra le due polarità io-mondo): • vale come idea limite, regolativa, trascendentale; • serve per promuovere la nostra processualità, per favorire la ricerca delle condizioni per realizzarli in modo meno parziale, un po’ più compiuto. Se la prima figura di problematicità (assenza di significati univoci) può contribuire a farci riconoscere e superare il nostro egocentrismo cognitivo, rendendoci consapevoli della legittimità di pdv divergenti dai nostri e dell'opportunità di porli in reciproco ascolto e in reciproca comunicazione, l'incontro con ambivalenze nel mondo delle mie emozioni può costringermi a guardarle in faccia, a riconoscerle e a nominarle, affrancandomi da inconsapevolezza e analfabetismi emotivi, così come nella sofferenza del conflitto con l'altro posso vedere emergere bisogni, aspirazioni o aspettative che entrambi non avremmo saputo esprimere e forse neppure concepire, senza confliggere. Questi sono alcuni dei motivi per cui la problematicità dell'esperienza non va negata, ma è produttivo procedere alla problematizzazione di equilibri che appaiono solidi e forse sono cristallizzati o di convinzioni che possono sembrarci inoppugnabili solo perché esprimono i nostri più radicati pregiudizi. In tutti questi casi la possibilità di imparare a conoscere la propria conoscenza implica l'accorgersi delle zone d'ombra che abitano le suddette forme di esperienza e il confrontarsi con esse. Implica, inoltre, il non permanere nella problematicità, una volta riconosciuta ed affrontata, ma il tendere al suo superamento in direzione della massima integrazione possibile, ossia in direzione di ragione. Il superarla, mirando alla dilatazione e all'arricchimento di possibilità per tutte le parti coinvolte, richiede percorsi di ricerca, sperimentazione di modalità relazionali, apertura al cambiamento: impegno. La ragione problematicista è, infatti, un'esigenza e, in quanto tale, per realizzarsi, dev'essere scelta dal soggetto umano. La fenomenologia del razionale si presenta illimitata, in relazione ai diversi piani dell'esperienza e ai sistemi categoriali di riferimento (possiamo scegliere di procedere in direzione razionale nella costruzione della nostra personalità, per superare la problematicità che caratterizza l'esperienza intellettuale, sociale, affettiva, religiosa, politica). Si tratta di una scelta che tenderà a integrare direzioni potenzialmente contrastanti. La ragione problematicista, per mettersi in crisi o riconoscere la sua crisi, non aspetta processi dall'esterno dei suoi limiti territoriali perchè questi ultimi sono sfumati e perchè il suo procedere stesso implica problematizzazione. Muovere in direzione di ragione significa fare i conti con zone d'ombra, con tortuosità e conflitti che non le sono estranei. Tali dimensioni, infatti, esprimono aspetti di quella problematicità che l'attraversa e la contamina, inducendola anche a procedere nel cammino per il suo superamento. L'educazione alla ragione implica questo secondo un impegno da declinare nelle seguenti direzioni: • problematizzazione: cioè, messa in discussione, analisi-decifrazione di concetti, categorie e paradigmi che risultano condivisi dai più per le loro caratteristiche di ovvietà, ossia per la loro derivazione da sistemi di potere che li hanno elaborati e diffusi; • riconoscimento della problematicità, come elemento di potenziale alienazione di possibilità per noi e per gli altri; • individuazione di vie di superamento della problematicità, tali da favorire la propria ed altrui realizzazione, il proprio ed altrui arricchimento esistenziale. Il problematicismo come filosofia dell'educazione e come modello pedagogico: dispositivi teoretico-metodologici Bertin teorizza la filosofia dell'educazione nei termini di un'analisi critico-fenomenologica dell'esperienza educativa in grado di coglierne la struttura trascendentale, il costituzionale momento di problematicità, la tensione al superamento di quest'ultima in direzione razionale. Si tratta di una definizione che contiene i principali dispositivi teoretici che costituiscono il pdv del problematicismo pedagogico. Innanzitutto, l'esperienza educativa risulta connotata di complessità. Per indagarla nella sua complessità sembra più produttivo individuare la problematica cui essa risponde nella concretezza. Proprio perchè non è definita in astratto o da un unico punto di riferimento, tale problematica dovrà derivare e ottenere verifica dalla storia denerale dell'educazione e convalidarsi mediante la capacità di comprendere e significare le prospettive che presenta la vita educativa nel mondo contemporaneo. E, dato che al suo interno devono trovare posto tante esigenze e finalità, la metodologia d'analisi che meglio corrisponde all'intento è quella che procede per antinomie. Essa, infatti, proponendo come punto di partenza due poli concettali in opposizione radicale tra di loro, prefigura uno spazio aperto alla comprensione dell'universalità delle forme tramite cui l'esperienza educativa si manifesta. Come? L'esperienza educativa tende alla formazione della personalità dei soggetti in relazione a se stessi e al mondo. Il processo prospettato a tal fine prevede l'incontro/scontro di due esigenze antitetiche: • esigenza egocentrica, di affermazione e potenziamento della soggettività • esigenza eterocentrica, di affermazione e potenziamento di valori culturali, sociali, religiosi riferibili al mondo A seconda del predominio assegnato all'una o all'altra polarità, si prefigurano modelli pedagogici che indicano la finalità educativa nel principio dell'individualità o in quello della collettività, con ulteriori polarizzazioni in ogni termine antinomico. Dentro a ogni spazio che i due poli antinomici delineano, inoltre, si situano tutte le esigenze intermedie, dando origine a una pluralità così ricca di scelte da rendere ancora più evidente la violenza implicita nell'imposizione di una finalità educativa. Secondo Bertin la problematica dell'esperienza educativa (il processo di formazione della personalità) costituisce anche la legge trascendentale dell'esperienza educativa: ciò significa che il fine verso cui si tende rappresenta un'idea-limite per la nostra processualità zavorrata da limiti che, nella concretezza storica, possono trovare parziali soluzioni. Quindi, la formazione della personalità, in relazione con la propria soggettività, per noi diventa lo spazio della massima possibilità e della massima problematicità. Per tendere alla costruzione di una personalità razionale si prefigura anche il bisogno di confrontarsi con l'antinomicità di quelle istanze. Si dà, dunque, possibilità: • di una personalità impegnata a rapportarsi e a confrontarsi con la complessità del proprio mondo bio-psichico-mentale così come con quella del mondo naturale, sociale, culturale; • di una via di superamento dei condizionamenti, delle sopraffazioni e di ogni altra forma di violenza, in direzione di inediti, utopici modelli di umanità. Si dà anche problematicità: • la formazione della personalità prende avvio da una condizione data in cui sono date le strutture soggettive e sono date le condizioni oggettive; • l'integrazione delle istanze egocentriche ed eterocentriche viene realizzata dai soggetti Si tratta di un impegno complesso, in cui bisogna imparare ad entrare in rapporto profondo con se stessi attraverso una continua pratica di autoriflessività e il continuo esercizio del confronto con gli altri, per imparare a conoscere la propria conoscenza, scoprendo imprevisti stereotipi e pregiudizi accanto ad impreviste capacità di apertura e cambiamento di prospettiva. Se per educazione alla ragione si intende un'educazione all'arricchimento e alla dilatazione di possibilità plurilaterali per i soggetti educativi, al suo interno va prevista anche un'alfabetizzazione sul piano di emozioni e sentimenti: la loro interconnessione e mescolanza con i processi cognitivi implica, infatti, che possano crescere e svilupparsi solo nel loro reciproco intreccio e non nella rispettiva separatezza. Guadagnando consapevolezza sui piani del conoscere e del sentire, è possibile imparare ad accorgersi del proprio corpo, percependolo abitato e attraversato dal nostro conoscere. Con questa consapevolezza ci si può impegnare in una comunicazione con gli altri, anche i più diversi, fondata sull'ascolto e rivolta all'empatia, intesa come approssimazione all'altro nei limiti delle rispettive opacità che richiedono decifrazione e rispetto. È in forza del rispetto che può svilupparsi un'autentica tolleranza nei confronti delle diversità più dissonanti con la lettura dei nostri occhiali, promuovendo la gestione pacifica dei conflitti, sul piano dei rapporti tra i soggetti. Cap 3- La problematicità come destino dell'educazione Un cenno autobiografico Oltre a costituire la traiettoria dell'impegno etico-esistenziale, la ragione banfiana-bertiniana ha 3 motivi di interesse: • il suo porsi non come necessità ma come istanza, esigenza e, in quanto tale, come scelta: scelta possibile da parte dei soggetti umani, anche di quelli che non la scelgono/non l'hanno ancora scelta/temono di non poterla scegliere. • Il suo carattere trascendentale, che ha la funzione di preservare gli itinerari di ricerca- riflessività da chiusure e immobilismi: funzione che relativizza la portata delle soluzioni razionali sperimentate da individui, gruppo, società, rimettendole in discussione e aprendole a orizzonti anche inediti. • La sua struttura porosa, per cui la ragione si presenta permeabile, continuamente attraversata da complessità, ambiguità, contraddizioni, lacerazioni. Si presenta inquieta ed interrogante, in perenne ricerca di strade nuove, differenti. Problematicità come destino, ovvero condizione, sorte assegnate a ciascun essere. Nel segno della finitudine Un primo tratto di problematicità è identificabile nella finitudine degli umani che, a differenza degli altri viventi, ne hanno consapevolezza, sanno. Rilke esprime il soffrire legato all'impermanenza, alla percezione che davanti a noi lo spazio non sia aperto quanto vorremmo (all'infinito) e che, da tutto ciò che conosciamo ed amiamo, dobbiamo prevedere il distacco, essere pronti in ogni momento a lasciarlo per sempre. Secondo Heidegger, la morte è la possibilità dell'impossibilità: tutto ciò che aspettiamo, progettiamo, desideriamo, sarebbe possibile; non sicuro ma possibile, aperto al possibile che sì/ possibile che no, una partita da giocare se non fosse per l'improvviso/imprevedibile irrompere della morte che, sopraggiungendo, può rendere di colpo e definitivamente impossibili tutte le nostre possibilità. La figura che la problematicità esistenziale assume è l'angoscia dell'essere per la morte che, per Heidegger, significa accettazione autentica della morte come unica possibilità della nostra esistenza, che nulla e nessuno può rendere impossibile. In tale circostanza, il destino è il contenuto principale dell'angoscia: se la morte è inevitabile, se davvero comprendiamo che è destino, si può arrivare a comprendere anche l'esigenza, il senso dell'accettare di essere ciò che siamo. L'accettazione consapevole di essere ciò che siamo (mortali), può tenere in serbo, oltre alle inquietudini/difficoltà, anche sollecitazioni positive: indurre il nostro sguardo a sostare più a lungo sui volti e sulle cose, rendere prezioso ogni attimo di felicità, motivarci a cercare, scoprire, produrre significato per l'esistenza nostra e degli altri, stabilendo con essi legami di solidarietà profonda. La finitudine non allude solo all'impermanenza e alla morte: richiama anche i limiti che ci accompagnano nello spazio della nostra permanenza (limiti nel conoscere/sentire/rapportarsi). Quando Banfi e Bertin affermano l'inadeguatezza, quindi la problematicità di ogni forma concreta, storica di esperienza vissuta, comparandola all'idea trascendentale di esperienza, fanno riferimento alla condizione di un soggetto che, ad esempio, nel rapporto con se stesso riesce, quando riesce, a integrare solo parzialmente i propri pensieri ed emozioni, avvertendo sempre un persistere di conflitto, legati non solo ai suoi limiti personali, ma anche a quelli che condivide con gli umani di tutti i tempi. Ciò implica la fatica di un essere in relazione che si allontana da certe sue rappresentazioni pacificate e improntate ad una positività dell'incontrarsi. Quindi, la finitudine, originaria cifra di problematicità per i viventi consapevoli di sé, connotandosi come destino, comporta livelli di angoscia esistenziale, ma intrecciat a chances di conoscenza, di significato, di processualità e cambiamento. La gettatezza come condizione data La seconda figura di problematicità che emerge come destino degli umani è la gettatezza (termine heideggeriano) o la condizione data (termine bertiniano). Per Heidegger, tratto saliente dell'esistenza è il suo essere-nel-mondo, in una situazione di fatto che, mentre la caratterizza, la delimita. Il soggetto, cosciente di se, si scopre gettato nel mondo: ha un determinato DNA, è figlio di quei genitori, ha un certo aspetto fisico… non ha potuto scegliere nulla di tutto questo. Anche Bertin riflette sulle strutture date con cui il processo di costruzione della personalità deve fare i conti. Sono date: • le strutture soggettive della personalità, i suoi tratti genetici e neurofisiologici, le attitudini; • le condizioni oggettive, poiché il quadro generale, in cui il soggetto è inserito e si trova a operare, ha una sua realtà autonoma e preesistente. Nè Heidegger né Bertin considerano i condizionamenti derivanti da gettatezza o condizionata data in termini deterministici: entrambi sollecitano a considerare il come si realizzerà il percorso del soggetto e la fisionomia complessiva che assumerà la sua personalità dipendono anche dalla progettualità di quel soggetto, dalle scelte che opererà, in un orizzonte limitato ma libero. Nel momento stesso in cui scopriamo di essere pesantemente condizionati da tratti e situazioni che non abbiamo scelto noi, scopriamo anche di avere davanti l'orizzonte aperto del possibile e che la scelta di una strada o di un'altra dipende da noi, dalla nostra libertà e dalla responsabilità che ne deriva. Se anche tutti quei condizionamenti fossero positivi, il fardello risulterebbe pesante, quanto risulta pesante se i condizionamenti sono tutti o prevalentemente negativi? Eppure, le diversità, non essendo frutto di scelte dei soggetti, non dovrebbero comportare né privilegi né discriminazioni. Aprire possibilità: questo è il compito fondamentale dell'educazione nei confronti di tutti i soggetti, specie di quelli che la gettatezza ha reso svantaggiati. • possibilità di conoscere e di imparare a conoscere, di amare e di essere amati • di tendere alla realizzazione dei propri progetti • di accedere alla cittadinanza ricevendo conferme sociali • di esprimere, nel rispetto di quelli altrui, valori ed orientamenti che, condivisi o meno, siano a loro volta rispettati. Questa è la direzione verso cui si incammina chi affronta il compito e la responsabilità di educare in termini di impegno etico, molteplicità di saperi e competenze critico-riflessive: direzione che esprime il massimo di tensione razionale e, al contempo, registra il massimo di problematicità. Non sempre l'educazione si fa carico della problematicità più complessa degli svantaggiati, accettando di misurarsi su terreni dove la fatica è di casa e lo scacco incombente: in quei casi la problematicità resta e diventa sempre più destino, solo per quegli svantaggiati. Il progetto, l'impegno, la scelta Si ipotizza una situazione in cui gettatezza e condizione data aprono a orizzonti di possibilità in cui la libertà di modulare il come della propria condizione non si esaurisce in aggiustamenti. Si considerano situazioni che legittimano la progettualità. L'orizzonte cui si fa riferimento è quello del possibile. Ciascun soggetto normale può, mentre guarda la situazione di fatto da cui trae origine, guardare davanti a sé e fare progetti: per costruire la propria personalità, per realizzare cambiamenti, per tendere al superamento di diverse forme di problematicità che sperimenta o che gli sono toccate in sorte. Il possibile costituisce anche la legittimazione della progettualità perchè ad essa parte gli spazi dove delinearsi ed esprimersi e, tuttavia, rappresenta anche un elemento di minaccia per la realizzabilità dei progetti, che possono raggiungere i loro traguardi oppure no. Che qualcosa sia possibile significa che ci sono chances positive/negative, che possiamo giocare la nostra scommessa, ma che non tutto dipende da noi e che, ciò che dipende da noi, deve fare i conti con i nostri limiti. A che pro impegnarsi, se poi non si ha la certezza di realizzare ciò a cui più teniamo? Ciò è uno snodo che l'educazione deve assumere e gestire per evitare che diventi elemento depressivo per l'impegno progettuale dei più giovani. I percorsi connotati di impegno etico-razionale all'insegna del possibile prospettano molte occasioni per imparare, riflettere rapportarsi agli altri con una problematicità che è sempre in agguato, ma non può essere distruttiva degli orizzonti di senso che si sono conquistati. Dopo l'educazione La problematicità come destino dell'educazione, dopo l'educazione, implica il fatto che c'è un messaggio da comunicare agli interlocutori/una dedica pensata, elaborata per loro, comprensiva di analisi dell'esistente e di progettualità per il futuro. Tuttavia, nell'orizzonte del possibile, l'impegno educativo non è garantito in merito ai suoi esiti, quindi può capitare che quella dedica non arrivi mai al destinatario. Se, invece, si ipotizza che la dedica sia accolta, significa che gli interlocutori si dirigeranno verso la ragione, differenza, valore, senza aver ricevuto da noi l'indicazione di quali scelte operare, ma solo criteri generali cui riferirsi, per poi procedere a scelte autonome e responsabili nella concretezza del quotidiano. Qui si affacciano altri coefficienti di problematicità perché: • improntare la materialità dell'agire a criteri e valori prevede molti margini di inadeguatezza e incongruenza; • il nostro tempo presenta 2 dati strutturali che accentuano la problematicità della scelta e dei progetti, quindi del percorso esistenziale di quei soggetti, durante e dopo i nostri parte (quella giusta) aderisce talmente da confondersi con essa e disperdersi al suo interno: si uniforma alle dottrine dominanti, condivide gli stereotipi cognitivi, abbraccia le credenze più assurde. In più, oltre ad essere convinto che il suo Dio (che ovviamente è quello vero) lo abbia creato già unico ed irripetibile, cerca conferme allo statuto della sua originalità nelle mosse difensive e autoconservative dell' individualismo: dalla competitività alla ricerca del privilegio, dall'individuazione di nicchie salutiste alla scalata di grandi o piccoli poteri, all'affermazione del principio dell'avere e dell'esibire in tutti i campi possibili. L'idea di soggettività diventa così finalizzata a demarcare confini e ad alzare barriere per difenderli. Solo gli altri potrebbero porsi criticamente nei confronti di simili modalità esistenziali ma, per il fatto stesso di essere gli “altri”, non sono legittimati a esprimere dissenso. Anzi, sono penalizzati se osano farlo, incorrendo in disconferma ed esclusione sociale. Quel modello di soggetto, gerarchicamente contrapposto al resto dell'umanità e di tutto ciò che vive, è il soggetto egocentrico, autocentrato e violento, quello che, realizzandosi nell'omologazione con il gregge elitario di cui fa parte, si tutela e persegue la piccola comoda felicità gradita ai furbi. Non c'è posto per la felicità come ricchezza di significato esistenziale nel paradigma della disgiunzione: le polarità opposte (felicità, dolore) indicano eccessi da cui guardarsi per gli effetti destabilizzanti, che possono indurre nella quotidianità a cui devono attribuire colore le cose che si hanno, non i sentimenti. Questi ultimi, infatti, stanno dall'altra parte rispetto alle procedure di un conoscere-giudicare-valutare, che situa le radici nella ragionevolezza. Il soggetto dell'oltre: incompiuto e connesso col mondo Il soggetto dell'oltre, incompiuto e connesso col mondo è consapevole della propria incompiutezza, che riconosce ed accetta come propria connotazione strutturale. L'incompiutezza è dimensione di possibilità, di generatività, di disponibilità al cambiamento. Proprio perchè siamo incompiuti per sempre, ci inoltriamo nella sperimentazione esistenziale e ricerca sui terreni plurali del possibile-che-sì/possibile-che-no, partendo dai vincoli impliciti nella condizione data e progettandone le successive declinazioni per tendere ai propri traguardi di differenza insieme agli altri. In tale consapevolezza c'è posto per un primo germe di solidarietà, riconducibile alla scoperta di un'insufficienza, di tutti, che può trovare vie di arricchimento nell'individuare spazi di realizzazione che, corrispondendo alle possibilità più autentiche di ciascuno, producano riflessi positivi per tutti. Ciò significa richiamare la connessione stretta tra il soggetto ed i contesti di cui è parte: questo soggetto sa di dipendere, per la propria sopravvivenza, dai tanti legami che lo connettono con il mondo, con i sistemi di cui fa parte e dal suo porsi come segmento coevolutivo di quei medesimi sistemi, altrimenti non c'è futuro. Dato che è consapevole della propria dipendenza dai mondi socio-culturali e simbolici in cui vive, è un modello di soggetto fragile, che sperimenta la precarietà, l'incertezza, la paura come dimensioni permanenti. Siccome questa fragilità, questa consapevolezza di fragilità, non ha limiti in termini di rassegnata inerzia, di disinteresse o fuga evasiva, un altro connotato del soggetto è riconducibile alla mescolanza fra tragicità e lievità. Tragicità come consapevolezza di un limite irriducibile, che convive con una tensione continua ad andare oltre; consapevolezza che, data, è solo la condizione della gettatezza, il resto è da progettare, costruire e realizzare insieme a tutto ciò che vive. Lievità perché, al posto della mania di onnipotenza, c'è ironia /autoironia e quella volontà di donare, che consiste nel rapportarsi all'altro da sé all'insegna della disponibilità: ad ascoltare, a valorizzare, a solidarizzare. Un soggetto lieve è desiderante, ha buone possibilità di uscire dal gregge e di sfuggire ai ricatti e alle minacce, perché ha una strada aperta davanti a sé, in cui perseguire fini. Infatti, in linea con ”I care” di Don Milani, esso si oppone al menefreghismo implicito nelle scelte di chi crede di potersi salvare da solo ed è compagno di strada di coloro che, invece, conducono battaglie in difesa di tutti e di tutto ciò che subisce oppressione, di qualunque genere. Possiamo fare qualcosa noi per l'affermazione di tale modello di soggetto, tanto inattuale e utopico? Occorre l'educazione alla resistenza, pratica fondata su un continuo esercizio di autoriflessività e di metariflessività da parte di una pedagogia, che sia in grado di selezionare le info, i mesaggi impliciti ed espliciti che circolano, le testimonianze esistenziali di ieri e di oggi, per sceglierne e indicarne alcune e denunciarne, respingerne altre. Il criterio di scelta sarà correlato ai loro coefficienti di produttività in merito al fine pedagogico di promuovere la tensione a realizzare se stessi realizzando gli altri: a impegnarsi per se stesso e anche per tutti li altri. Quindi, da un lato: • educare alla problematizzazione tramite il senso critico più rigoroso e radicale, nei confronti di tutto ciò che abbaglia con la sua trasparenza per far emergere il vuoto della chiacchiera e la violenza dei pregiudizi e degli stereotipi: avendo in mente un modello di sogg lucido nella decostruzione, flessibile nel decentramento cognitivo, agevolatore di differenza. • Dall'altro, educare a modalità di rapporto divergenti da quelle dominanti, nelle quali trovino posto la gentilezza e la compassione, l'affettuosità e il rispetto, fino alla solidarietà autentica nei confronti non solo degli altri umani, ma di tutto ciò che vive. È questo il modello di soggetto che la pedagogia della resistenza prefigura e si impegna ad agevolare. Soggetti così pensano se stessi al plurale e al plurale scelgono di gioire e soffrire, sapendo di non essere onnipotenti e, al contempo, di poter avere dentro di sé tutti i sogni del mondo. Cap 5- Educare alla libertà: paradosso o direzione di senso? Postazione di partenza, la gettatezza Si deve parlare di educazione alla libertà. Per educazione si intende quell'insieme di pratiche, di relazioni e di interventi tramite cui aprire e promuovere direzioni di possibilità per i soggetti con cui si lavora. Chi incontra gli educatori deve potersene andare per la sua strada, avendo ampliato- approfondito il proprio repertorio esistenziale sui piani del conoscere, del sentire, del rapportarsi all'altro da sé e su quello della progettualità. È in questi termini, in quanto mirata a favorire l'espansione delle possibilità dei soggetti, che l'educazione può/deve porre, fra i suoi obiettivi fondamentali, anche quello di promuovere in essi la tensione alla libertà. Andando per ordine, bisogna partire dall'affermazione di Heidegger, secondo cui il soggetto umano, quando si rende conto di se stesso, si scopre gettato nel mondo (scopre che è figlio di quei genitori, ha un certo aspetto fisico/DNA e non ha potuto scegliere nulla di ciò). Inoltre, si trova immerso in una condizione data, dove tutto è preesistente: lingua, usi e costumi costituiscono la cornice nella quale lui si deve collocare e orientarsi. Si tratta di condizionamenti pesanti. Tuttavia, Heidegger e Bertin suggeriscono che il come si realizzerà il percorso del soggetto e la fisionomia complessiva che assumerà la sua personalità dipendono anche dalla progettualità di quel soggetto, dalle scelte che opererà, in un orizzonte che risulta limitato ma libero. Certo, i condizionamenti a volte possono porsi in termini pesantissimi, tanto da sembrare davvero determinanti e da non far intravedere la possibilità di scelta da parte del soggetto: si pensi a chi nasce con gravissime ed incurabili patologie che impediscono di intendere e volere o a chi nasce in un contesto di guerra, di oppressione, di sterminio… il più delle volte non è così, per fortuna, e i condizionamenti, pur pesanti, lasciano aperto uno spazio. Anche l'arrivo di una malattia grave ha la libertà del come davanti a sé: ci sono persone che riescono a vivere la malattia come un momento di scoperta. Essa può, quindi, essere vissuta in modi diversi e dipende anche da noi. A proposito di gettatezza. Quando si parla di essa e di casualità, qualcuno può pensare, in quanto credente, di non riconoscersi nella dimensione della gettatezza, ma si considera creato da Dio in quel tempo e in quel luogo, secondo un disegno della divina provvidenza. Anche se abbiamo concezioni contrastanti, possiamo comunque intenderci. Infatti, la filosofia dell'educazione proposta è laica, nel senso che non richiede ai suoi interlocutori alcun atto di fede religiosa e neanche atto di non fede. Quindi, quando si parla di gettatezza, si prevedono 2 possibilità: • se non sono credente, sono convinta di essere nata casualmente in quel momento, con quelle caratteristiche, in quel tempo e in quella famiglia. • Se, invece, sono credente, penso che questo corrisponda a un disegno divino, che Dio ha fatto su di me. Sicuramente cambia il significato di quella condizione data, ma il suo come è aperto sia per chi crede, sia per chi non crede. Per entrambi c'è davanti un'esistenza da progettare e da realizzare. Sia chi è credente, sia chi non lo è, è implicato e deve impegnarsi nella scelta, in forza di quel margine che, per i credenti, si chiama libero arbitrio. Il senso della gettatezza e della libertà del come: • Per i non credenti, si tratta di assumere i termini della condizione esistenziale di ciascuno e da lì proiettarsi in un orizzonte in cui, al caso, subentri la scelta: personale, responsbile, in linea con i propri progetti. • Per i credenti, invece, cambia il punto di partenza (si ritiene creato, non gettato) e il mistero del disegno provvidenziale lascia irrisolti gli interrogativi sul perchè, qui, ora, e, soprattutto, non determina in modo necessario il come dell'esistenza, dalla creazione in poi. Entrambi hanno un compito da svolgere (esistere, oltre che vivere biologicamente), rispetto al quale possono seguire percorsi delineati da altri in nome di credenze religiose, ma possono anche decidere di porsi come protagonisti, per trovare la direzione di realizzazione più rispondente alle proprie motivazioni. Per un credente ciò equivarrà a riconoscere la propria vocazione da parte del Dio che lo ha creato; per un non credente si tratterà di scoprire la strada della propria personale differenza. L'orizzonte del possibile Se il come non è già definito, significa che davanti a noi si apre l'orizzonte del possibile. La categoria del possibile assume rilievo nell'esistenzialismo, in coincidenza con il focalizzarsi dell' analisi filosofica sul rapporto del soggetto umano col mondo. Tale rapporto esclude la categoria della necessita, fino ad allora dominante, perchè il suo realizzarsi dipende da infinite variabili e condizioni che possono verificarsi, ma non lo devono per forza. Anche in ambito scientifico c'è un cambiamento per le scienze esatte e i loro procedimenti/risultati non rientrano più nell'ambito della certezza e della necessità. Principio di indeterminazione di Heisenberg: la conoscenza fisica implica l'inserirsi dell'osservatore fisico in una serie di eventi che risultano, da tale inserimento, modificati in modo indeterminabile. Quindi, la fisica contemporanea propone previsioni probabili, sostituendo il possibile al necessario. E se non si vuole scegliere? Anche quella è una scelta L'affermarsi della categoria del possibile introduce cambiamenti nel modo di pensare. Se davanti a noi avessimo un'unica strada, saremmo nell'ambito della necessità poiché quella sarebbe la strada da percorrere. Muoversi nella cornice del possibile significa, invece, intravedere più di una strada, molteplici itinerari percorribili e tante opzioni nel quale operare le nostre scelte,