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ENEIDE 6 VIRGILIO TRADUZIONE LETTERALE COMPLETA, Traduzioni di Letteratura latina

Traduzione letterale completa del libro 6 dell'Eneide di Virgilio per il corso di letteratura latina

Tipologia: Traduzioni

2020/2021

In vendita dal 05/09/2024

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Scarica ENEIDE 6 VIRGILIO TRADUZIONE LETTERALE COMPLETA e più Traduzioni in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! ENEIDE 6 (1-8) Così dice piangendo e allenta le briglie alla flotta e infine approda alle rive euboiche di Cuma. Volgono le prue verso l’oceano; allora con dente tenace l’ancora assicurava le navi e le poppe ricurve fiancheggiano le rive. Una schiera ardente di giovani balza fuori sul lido d’Esperia: parte cerca i semi della fiamma nascosti nelle vene della selce, parte percorre le selve, folte tane di belve, e indica i fiumi trovati. (9-13) Ma il pio Enea raggiunge le alture, a cui l’alto Apollo presiede, e, lì vicino, i recessi, antro gigantesco, della spaventosa Sibilla, alla quale il profeta di Delo ispira grande mente e animo e rivela gli eventi futuri. Già entrano nel bosco sacro di Trivia e nel tempio dorato. (14-19) Dedalo, come è fama, fuggendo i regni minoici, osò con rapide ali affidarsi al cielo, volò per una via insolita verso le gelide Orse e infine leggero si fermò sopra la vetta calcidica. Ritornato in queste terre, per prima cosa a te, Febo, consacrò il remeggio delle ali e fondò un vasto tempio. (20-26) Sui battenti c’è la morte di Androgeo; allora i Cecropidi, costretti (sventura!) a scontare la pena con sette corpi di figli ogni anno, si trova l’urna, estratte le tessere (=fatto il sorteggio). Dall’altra parte corrisponde la terra di Cnosso, elevata sul mare: qui ci sono il crudele amore del toro e Pasifae, sottoposta all’inganno, e il Minotauro, genere misto e prole biforme, ricordo di Venere nefanda; (27-31) Qui c’è quella famosa fatica della casa e l’inestricabile errore: ma infatti Dedalo stesso infatti, avendo pietà del grande amore della principessa, scioglie gli inganni e le tortuosità del labirinto guidando i ciechi passi con un filo. Anche tu, Icaro, avresti avuto una grande parte in una così grande opera, se lo avesse permesso il dolore: (32-39) Due volte aveva tentato di raffigurare l’evento nell’oro, due volte le mani paterne caddero. Certo subito avrebbero passato in rassegna con gli occhi tutte le scene, se ormai Acate, che era stato mandato avanti, non si fosse avvicinato e insieme la sacerdotessa di Febo e di Trivia, Deifobe di Glauco, che parla al re con tali parole: “Questo momento non richiede codesti spettacoli; ora sarà preferibile sacrificare sette giovenche da una mandria intatta, e altrettante pecore scelte secondo l’usanza”. (40-44) Dopo aver parlato con tali parole a Enea (e gli uomini non tardano ai sacri ordini), la sacerdotessa chiama i Teucri nell’alto tempio. Il grande fianco della rupe euboica è scavato in un antro, a cui conducono cento ampi passaggi, cento ingressi, da cui erompono altrettante voci, i responsi della Sibilla. (45-51) Si era giunti alla soglia quando la vergine dice: “È tempo di chiedere i vaticini, il dio, ecco il dio”. A lei che diceva tali parole, prima dell’ingresso, improvvisamente non rimasero il volto, né un solo colore, né le chiome acconciate; ma il petto ansante e il cuore selvaggio sono gonfi di rabbia; e sembra più grande e non emettere suoni umanamente, poiché è stata toccata dal nume ormai proprio del dio. (51-55) Dice: “Indugi nei voti e nelle preghiere, troiano Enea? Indugi? Infatti non prima si apriranno le grandi entrate della casa ispirata”. E dette tali parole tacque. Un gelido tremore corse per le dure ossa ai Teucri e il re dal profondo del cuore pronunciò delle preghiere: (56-62) “Febo, che sempre hai avuto pietà delle gravi fatiche di Troia, che dirigesti le dardane frecce e la mano di Paride contro il corpo dell’Eacida, sotto la tua guida attraversai così tanti mari che raggiungono grandi terre e i popoli dei Massili appartati nella parte più interna e i campi che si estendono tra le Sirti: ormai infine abbiamo raggiunto le coste della fuggente Italia; solo fino a qui ci abbia seguito la sorte troiana. (63-70) Ormai è permesso che anche voi risparmiate la stirpe pergamea, dei e dee tutti, a cui furono d’ostacolo Ilio e la grande gloria della Dardania. E tu, santissima veggente, presaga del futuro, concedi (non chiedo indebiti regni ai miei fati) che i Teucri, gli dei erranti e i numi tormentati di Troia, si stabiliscano nel Lazio. Allora istituirò a Febo e a Trivia un tempio di solido marmo e giorni di festa dal nome di Febo. (71-76) Grandi santuari attendono anche te nei nostri regni: io qui infatti porrò i tuoi responsi e gli arcani vaticini, predetti al mio popolo, e ti consacrerò, o veneranda, uomini scelti. Soltanto non affidare alle foglie i tuoi oracoli, affinché, sconvolti, non volino come ludibrio per i rapidi venti: cantali, ti prego”. Pose fine al parlare a voce. (77-82) Ma, non ancora docile a Febo, la veggente infuria enorme nell’antro, se possa scacciare dal petto il grande dio: egli tanto più tormenta la bocca furiosa domando il cuore selvaggio e la plasma premendo. E già i cento grandi ingressi della casa si aprirono di propria volontà e portano attraverso l’aria i responsi della veggente: (83-87) “O tu che infine ti sei messo al sicuro dai grandi pericoli del mare (ma restano quelli più pesanti della terra), i Dardanidi giungeranno nel regno di Lavinio (allontana questa preoccupazione dal cuore), ma vorranno anche non essere giunti. Guerre, spaventose guerre, e il Tevere schiumante molto sangue, vedo chiaramente. (88-97) A te non mancheranno il Simoenta né lo Xanto né l’accampamento dorico; un altro Achille è già stato partorito dal Lazio, nato anch’egli da una dea, né mai mancherà Giunone, ostile ai Teucri: quando tu sarai supplice nelle circostanze del bisogno, quali popoli degli Italici e quali città non avrai pregato! Causa di tanto grande male è di nuovo una sposa straniera ai Teucri e di nuovo talami stranieri. Tu non cedere ai mali, ma affrontali più audace di quanto la tua fortuna ti conceda. La prima via di salvezza, cosa che non pensi in nessun modo, sarà aperta da una città greca.” (98-109) Dette tali parole dal sacrario, la Sibilla cumana predice orrendi enigmi e mugghia nell’antro avvolgendo la verità con ambiguità: tali briglie Apollo scuote all’invasata e volge pungoli nel cuore. Non appena il furore sparì e la bocca feroce tacque, l’eroe Enea cominciò: “O vergine, nessuna forma di fatiche mi sorge nuova o impensata; ogni cosa ho provato e prima ho percorso tra me nell’animo. Una cosa sola prego: poiché si dice che qui ci siano la porta del re inferno e la tenebrosa palude, una volta straripato l’Acheronte, possa accadere che io vada alla vista e alla bocca del caro padre; insegnami la via e apri le sacre porte. (110-118) Io lo sottrassi su queste spalle alle fiamme e ai mille dardi che ci inseguivano e lo salvai dal mezzo dei nemici; egli, accompagnato il mio viaggio, sopportava con me tutti i mari e tutti i pericoli del mare e del cielo, pur debole, oltre le forze e la sorte della vecchiaia. In verità egli stesso pregandomi mi dava gli ordini di venire da te come supplice e di andare alle tue soglie. O veneranda, ti supplico, abbi pietà del figlio e del padre; infatti puoi ogni cosa, e non invano Ecate ti mise a capo del bosco sacro dell’Averno. (119-123) Se Orfeo poté chiamare l’ombra della moglie, fidando nella cetra tracia e nelle corde canore, se Polluce riscattò il fratello con alterna morte, e va e torna sulla via tante volte... perché dovrei ricordare Teseo, perché il grande Alcide? E per me la discendenza è dal sommo Giove”. (124-132) Pregava con tali parole e teneva le are, quando la veggente cominciò a parlare così: “Nascita dal sangue degli dei, troiano figlio di Anchise, è facile la discesa all’Averno: notte e giorno la porta dell’oscuro Dite è aperta; ma volgere indietro il passo e uscire all’aria del cielo, questa è l’impresa, questa è la fatica. Pochi, che il giusto Giove amò o l’ardente valore elevò all’etere, generati dagli dei poterono. Le selve occupano tutta la parte centrale e il Cocito, scorrendo, lo circonda con curve oscure. (133-141) Che se è tanto grande la brama della mente, se è tanto grande il desiderio di attraversare navigando due volte le acque stigie, di vedere due volte il nero Tartaro, e ti piace impegnarti in una fatica immane, ascolta che cosa prima bisogna compiere. Si cela in un albero ombroso un ramo d’oro nelle foglie e nel flessibile vimine, consacrato a Giunone inferna: tutto il bosco lo copre e le ombre lo chiudono in oscure convalli. Ma non è dato scendere nei segreti della terra prima di aver staccato dall’albero i germogli d’oro. (142-148) La bella Proserpina stabilì che le fosse portato questo suo dono; strappato il primo, non ne manca un altro d’oro e un virgulto di simile metallo si copre di fronde. Pertanto indaga profondamente con gli occhi e, secondo il rito, cogli con la mano il ramo trovato: infatti esso stesso ti seguirà di sua volontà e agevole, se i fati ti chiamano; altrimenti non potrai vincerlo con alcuna forza e non potrai sradicarlo con il duro ferro. (149-155) Inoltre ti giace morto il corpo di un amico (ahimè, non sai) e contamina tutta la flotta con il cadavere, mentre chiedi responsi ed esiti sulla nostra soglia. Prima riporta questo alle sue sedi e seppelliscilo nel sepolcro. Conduci nere bestie; siano queste la prima espiazione. Così infine vedrai i boschi dello Stige e i regni irraggiungibili per i vivi”. Disse e ammutolì con la bocca serrata. (156-165) Enea, fissato lo sguardo a terra, con il volto triste, cammina, abbandonando l’antro, e medita tra sé nell’animo gli oscuri eventi; il per lui fidato Acate va come compagno e affonda i passi con uguali preoccupazioni. Tenevano una lunga e varia conversazione tra loro, quale compagno morto, quale corpo da seppellire la veggente dicesse. E quelli, quando vi giunsero, videro sulla costa asciutta Miseno, morto di morte indegna, l’eolide Miseno, a cui non un altro era superiore nell’incitare i guerrieri con la tromba (lett.: bronzo) e infiammare Marte con il canto. (166-174) Costui era stato compagno del grande Ettore, a seguito di Ettore affrontava le battaglie, insigne sia per la tromba sia per l’asta. Dopo che il vittorioso Achille ebbe privato quello della vita, il fortissimo attaccato, essendo stato stabilito come custode, e con cui guidavo la navigazione. Giuro sui mari crudeli che ho concepito il timore non tanto per me, quanto che la tua nave, spogliata di strumenti, strappato il timoniere, venisse meno per le così grandi onde che si ingrossavano. (355-362) Per tre notti invernali il Noto violento mi trasportò nell’acqua per i mari immensi; a stento al quarto giorno scorsi l’Italia alto sulla sommità di un’onda. A poco a poco nuotavo verso la terra: già la tenevo sicura, se un popolo crudele non avesse assalito con la spada me, mentre ero appesantito con la veste madida e afferravo con le mani adunche le estremità pungenti del monte, e, ignara, non mi avesse ritenuto una preda. Ora mi possiedono i flutti e i venti mi trasportano sulla costa. (363-371) Perciò ti prego, per la luce piacevole del sole e le brezze, per il padre, per la speranza di Iulo che cresce, strappami, o invincibile, da questi mali: o tu gettami sopra della terra (infatti puoi) e cerca il porto di Velia; o tu, se c’è una via, se la dea madre te ne mostra una (e infatti, credo, non senza il volere degli dei ti prepari a navigare così grandi fiumi e la palude stigia) dai la mano destra a uno sventurato e portami con te attraverso le onde, affinché almeno nella morte io riposi nelle sedi tranquille.” (372-383) Aveva detto tali parole, quando la veggente cominciò tali parole: “Da dove, Palinuro, ti viene questo desiderio tanto empio? Tu insepolto guarderai le acque stigie e il severo fiume delle Eumenidi e senza comando ti avvicinerai alla riva? Smetti di sperare che i destini degli dei siano piegati pregando. Ma prendi memore le parole, consolazione della dura sorte: infatti le tue popolazioni vicine, condotti in lungo e in largo tra le città da prodigi celesti, espieranno le tue ossa ed erigeranno un tumulo e al tumulo dedicheranno sacrifici rituali e il luogo avrà il nome eterno di Palinuro”. Da queste parole le preoccupazioni furono scacciate e il dolore per un po’ fu respinto dal triste cuore: si rallegra della terra omonima. (384-391) Pertanto proseguono il viaggio intrapreso e si avvicinano al fiume. Quando il nocchiero ormai di là dall’onda stigia vide questi andare attraverso il bosco silenzioso e volgere il passo alla riva, per primo li aggredisce così e inoltre li rimprovera: “Chiunque tu sia, che armato ti dirigi verso i nostri fiumi, forza, parla, perché vieni, già di lì, e ferma il passo. Questo è luogo delle ombre, del Sonno e della Notte soporifera; non è lecito che la nave stigia trasporti corpi vivi. (392-397) E in verità non mi sono rallegrato di aver ricevuto sul lago l’Alcide che avanzava né Teseo e Piritoo, sebbene fossero generati da dei e invitti di forze. Quello con la mano mise in catene il custode tartareo e lo trasse tremante dal trono del re stesso; questi tentarono di portare via dal talamo la regina di Dite”. (398-404) Contro queste parole parlò brevemente la veggente anfrisia: “Qui non ci sono tali insidie (smetti di essere turbato) e le armi non portano violenza; l’enorme custode nell’antro latrando atterrisca pure in eterno le ombre esangui, la casta Proserpina conservi pure la soglia dello zio. Il troiano Enea, insigne per la pietà e le armi, discende al padre, alle ombre profonde dell’Erebo. (405-414) Se non ti muove nessuna immagine di così grande pietà, ma tu riconosci questo ramo” (mostra il ramo che nascondeva con la veste). Allora i cuori gonfi dall’ira si placano e non ci sono più di queste parole. Quello, ammirando il venerabile dono del virgulto fatale, visto dopo lungo tempo, volge la scura poppa e si avvicina alla riva. Poi respinge le altre anime che sedevano per i lunghi banchi e allarga le tolde; insieme accoglie nella barca il grande Enea. Gemette sotto il peso la barca intrecciata e ricevette, piena di fessure, molta acqua di palude. (415-425) Infine fa sbarcare oltre il fiume incolumi la veggente e l’eroe sul limo informe e nella verdastra erba palustre. L’enorme Cerbero con il suo latrato trifauce fa risuonare questi regni, stando sdraiato immane nell’antro di fronte. La veggente, vedendo i colli di serpenti già rizzarsi, gli offre una focaccia soporifera di miele e farina magica; quello spalancando le tre gole con fame furiosa, afferra l’offerta e rilassa il dorso immane sdraiato a terra ed enorme si distende in tutto l’antro. Enea occupa l’ingresso, sprofondato il custode nel sonno, e veloce oltrepassa la riva dell’onda da cui non si può tornare indietro. (426-433) Immediatamente si sentirono all’inizio dell’ingresso voci e un grande pianto e anime piangenti di infanti, che, esclusi dalla dolce vita e strappati dal seno, un giorno tetro portò via e sommerse con una sepoltura prematura. Vicino a loro i condannati a morte per una falsa accusa. (E in verità queste dimore non sono date senza sorteggio, senza giudice: il giudice Minosse scuote l’urna; egli convoca il concilio silenzioso e apprende la vita e le colpe). (434-441) Quindi tristi occupano i luoghi vicini coloro che innocenti si procurarono la morte di propria mano ed abbandonarono le anime odiando la luce. Quanto ora vorrebbero sopportare alla luce la povertà e le dure fatiche! La legge divina si oppone, e la palude triste dell’odiosa onda li lega e lo Stige che scorre in mezzo nove volte li rinchiude. E non lontano da qui estendendosi da ogni parte si mostrano i Campi del Pianto: così quelli sono detti nel nome. (442-450) Qui coloro che un doloroso amore consumò con crudele deperimento sentieri nascosti nascondono e una selva di mirto li cela intorno; gli affanni non li abbandonano nemmeno nella morte stessa. In questi luoghi vede Fedra, Procri, la triste Erifile che mostra le ferite del figlio crudele e Evadne e Pasifae; a queste va come compagna Laodamia e, un tempo ragazzo ora fanciulla, Ceneo, di nuovo e per il fato ritornata nell’antica figura. (450-455) Tra queste la fenicia Didone, dalla ferita recente, errava in una grande selva; non appena l’eroe troiano si fermò presso di lei e la riconobbe attraverso le ombre, indistinta, come colui che all’inizio del mese vede o crede di aver visto sorgere la luna attraverso le nuvole, lasciò sgorgare le lacrime e le rivolse la parola con dolce amore: (456-466) “Infelice Didone, vera dunque la notizia mi era giunta, che tu eri morta e ti eri uccisa con la spada? Oh, sono stato per te motivo di morte? Lo giuro sulle stelle, sugli dei dell’Olimpo e se c’è una qualche fedeltà nella parte più profonda della terra, contro voglia, regina, mi sono allontanato dalla tua costa. Ma gli ordini degli dei, che ora ad andare tra queste ombre, tra luoghi incolti per lo squallore e attraverso la notte profonda mi costringono, mi spinsero con i loro ammonimenti; e non avrei potuto pensare di recarti con la mia partenza questo dolore così grande. Ferma il passo e non sottrarti alla mia vista, chi fuggi? Questa è l’ultima occasione in cui ti rivolgo la parola per volontà del destino.” (467-476) Enea cercava di lenire l’animo ardente e che lo guardava in modo torvo con tali parole e piangeva. Quella, voltata dall’altra parte, teneva gli occhi fissi al suolo e non si muoveva nel volto dall’inizio del discorso più che se fosse una dura selce o una roccia marpesia. Infine si riscosse e ostile si rifugiò nel bosco ombroso, dove lo sposo precedente, Sicheo, risponde alle sue preoccupazioni ed uguaglia il suo amore. E non di meno Enea, sconvolto dalla sventura ingiusta, la segue in lacrime da lontano e prova pietà per lei mentre quella si allontana. (477-485) Quindi intraprende il cammino assegnato. E già si dirigeva negli ultimi campi, che, appartati, i gloriosi in guerra popolano. Qui a lui viene incontro Tideo, qui Partenopeo, rinomato per le armi, e il fantasma del pallido Adrasto; qui i Dardanidi, molto pianti tra i vivi e caduti in guerra: egli gemette, vedendoli tutti in una lunga schiera, Glauco, Medonte, Tersiloco, i tre figli di Antenore, Polibete consacrato a Cerere e Ideo, che ancora il carro e ancora le armi teneva. (486-493) Gli stanno attorno le anime affollate a destra e a sinistra; e non è abbastanza averlo visto una sola volta; piace trattenersi ininterrottamente e dirigere insieme il passo e apprendere le ragioni dell’arrivo. Ma i capi dei Danai e le falangi di Agamennone come videro l’uomo e le armi risplendenti tra le ombre, trepidarono per la grande paura: parte voltarono le spalle: come un tempo si recarono alle navi: parte levarono un’esile voce, il grido iniziato della bocca aperta è reso vano. (494-501) E qui vide il priamide Deifobo dilaniato in tutto il corpo, crudelmente mutilato nel volto, nel volto e in entrambe le mani, le tempie devastate, le orecchie strappate e le narici mozzate con vergognosa ferita. Tanto a stento lo riconosce, che tremava e nascondeva le orribili ferite, e di propria iniziativa si rivolge a lui con la nota voce: (502-508) “Deifobo possente in armi, stirpe dell’alto sangue di Teucro, chi tanto crudele desiderò infliggerti le pene? A chi tanto fu lecito riguardo a te? Una voce mi riferì che nell’ultima notte tu, stanco per la grande strage di Pelasgi, ti eri sdraiato su un mucchio di disordinato sterminio. Allora io ti eressi un tumulo vuoto sul promontorio Reteo e tre volte chiamai a gran voce i Mani. Il nome e le armi custodiscono il luogo; te, amico, non ho potuto vedere e, allontanandomi dalla terra patria, seppellire”. (509-519) A queste parole il Priamide: “Niente, amico, è stato da te tralasciato; tutto hai assolto a Deifobo e alle ombre del cadavere. Ma i miei fati e il delitto funesto della Spartana mi sommersero con questi mali; quella ha lasciato queste testimonianze. Infatti come conducemmo l’ultima notte tra falsa gioia, lo sai; ed è enormemente necessario ricordarlo. Quando il fatale cavallo giunse con un salto sopra l’alta Pergamo e, pesante, portò nel ventre la fanteria armata, quella, simulando una danza, conduceva intorno le Frigie che gridavano le sacre orge; lei stessa nel mezzo teneva una grande fiaccola e chiamava i Danai dalla sommità della rocca. (520-527) Allora il talamo funesto accolse me, logorato dalle preoccupazioni e gravato dal sonno e, mentre giacevo, mi oppresse un dolce e profondo riposo e similissimo alla placida morte. Nel frattempo l’egregia sposa sottrae tutte le armi dalla casa e aveva rimosso la spada fidata da sotto il capo; chiama Menelao dentro casa e apre le porte, certamente sperando che questo sarebbe stato un grande dono per l’amante e che così potesse estinguersi la vecchia fama dei mali. (528-534) Perché indugio? Irrompono nel talamo, l’Eolide, istigatore di delitti, si aggiunge insieme come compagno. Dei, preparate tali atrocità per i Greci, se con giusta parola chiedo i castighi. Ma, forza, di’ a tua volta che sorte ti ha portato vivo. Vieni condotto dagli sbandamenti del mare o per ordine degli dei? Quale destino ti spinge ad andare nelle tristi dimore senza sole, luoghi torbidi?” (535-543) A questo scambio di discorsi l’Aurora sulla rosea quadriga già aveva superato la metà della volta celeste con etereo percorso; e forse trascorrerebbero tutto il tempo concesso con tali discorsi, ma la compagna ammonì e la Sibilla parlò brevemente: “La notte si affretta, Enea; noi trascorriamo le ore piangendo. Questo è il luogo dove la via si divide in due parti: la destra, che si dirige sotto le mura del grande Dite, per noi attraverso questa è il viaggio verso gli Elisi; ma la sinistra esercita i castighi dei malvagi e manda all’empio Tartaro”. (544-551) Deifobo di rimando: “Non infierire, grande sacerdotessa; mi allontanerò, riempirò il numero e tornerò nelle tenebre. Va’, gloria nostra, va’: godi di fati migliori”. Disse soltanto questo e parlando volse i passi. Enea si guarda intorno e all’improvviso vide sotto la rupe a sinistra le grandi mura, circondate con triplice bastione, che un rapido fiume circonda con fiamme ardenti, il tartareo Flegetonte, e fa rotolare macigni scroscianti. (552-558) Di fronte la porta enorme e colonne di acciaio massiccio, tali che nessuna forza di uomini, nemmeno le divinità in persona avrebbero la forza di demolire in guerra; una torre di ferro si erge verso il cielo, e Tisifone, sedendo, avvolta da un mantello insanguinato, insonne custodisce notte e giorno l’ingresso. Da qui si sentono gemiti e risuonano crudeli frustate, allora uno stridore di ferro e catene trascinate. (559-569) Enea si fermò e, spaventato, udì lo strepito: “Quale specie di delitti? O vergine, parla, da quali pene sono tormentati? Che pianto così grande nell’aria?” Allora la veggente così cominciò a parlare: “Illustre comandante dei Troiani, a nessun innocente è lecito fermarsi sulla soglia scellerata: ma, quando Ecate mi pose a capo dei boschi dell’Averno, lei stessa mi insegnò le pene degli dei e mi condusse attraverso tutti questi luoghi. Questi durissimi regni governa Radamante di Cnosso e castiga e ascolta gli inganni e costringe a confessare le colpe, commesse tra i vivi, di cui qualcuno, compiacendosi di un vuoto raggiro, rimandò le espiazioni nella lunga morte. (570-579) Subito dopo Tisifone vendicatrice, armata di una frusta, percuote i colpevoli assalendoli e, tendendo con la sinistra minacciose serpi, chiama la crudele schiera delle sorelle. Allora infine, stridendo sul cardine dall’orribile suono, le porte sacre sono aperte. Vedi che guardia siede nel vestibolo? Che figura custodisce le soglie? L’Idra enorme, con cinquanta gole spalancate, più crudele dentro ha sede. Allora il Tartaro stessi due volte si apre a precipizio e tanto si estende sotto le ombre quanto lo sguardo del cielo all’etereo Olimpo. (580-586) Qui l’antica prole della Terra, la gioventù dei Titani, abbattuta da un fulmine, si rotola nel fondo più basso. Qui vidi anche i gemelli Aloidi, dai corpi enormi, che con le mani tentarono di squarciare il grande cielo e di cacciare Giove dai regni superni. Vidi anche Salmoneo scontare pene crudeli mentre imita le fiamme di Giove e il fragore dell’Olimpo. (587-594) Egli, portato da quattro cavalli e scuotendo una fiaccola, andava esultante tra i popoli dei Greci e tra le città del mezzo dell’Elide e chiedeva per sé l’onore degli dei: folle, che simulava i nembi e l’inimitabile fulmine con il bronzo e il galoppo dei cavalli dagli zoccoli di corno. Ma il padre onnipotente tra le dense nubi scagliò un fulmine, egli non torce né una fiaccola fumante di resina, e lo lanciò a precipizio in un gigantesco vortice. (595-600) Né non era possibile vedere anche Tizio, figlio della Terra genitrice di tutti, il cui corpo si distende per nove interi iugeri, e l’enorme avvoltoio dal becco adunco, recidendo il fegato immortale e le viscere feconde per le pene, frugare per il pasto e abitare nel profondo del cuore, e nessuna tregua essere concessa alle fibre rinate. (601-607) Perché ricordare i Lapiti, Issione e Piritoo, sui quali è sospesa una nera roccia già già in procinto di cadere e molto simile a una che cade? Splendono sostegni d’oro per alti letti suntuosi e cibi sono preparati davanti alle bocche con lusso regale; accanto giace la maggiore delle Furie e con le mani impedisce di raggiungere le mense e si alza sollevando una fiaccola e tuona con la voce. che a te è promesso, Cesare Augusto, figlio del Divo, che fonderà di nuovo i secoli d’oro nel Lazio per i campi governati un tempo da Saturno; estenderà il dominio sia sui Gramanti sia sugli Indi: il territorio giace oltre le stelle, oltre le vie dell’anno e del sole, dove Atlante portatore del cielo volge sulla spalla la volta provista di stelle ardenti. (798-807) Già ora i regni del Caspio e la terra di Meozia rabbrividiscono all’arrivo di questo per i responsi degli dei e gli sbocchi del Nilo dalle sette foci si agitano inquieti. E in verità l’Alcide non percorse così tanti territori, per quanto abbia colpito la cerva dai piedi di bronzo e abbia pacificato i boschi di Erimanto e con l’arco abbia fatto tremare Lerna; e neanche Libero che vittorioso dirige pariglie con redini pampinee, conducendo tigri dalla sommità dell’alto Nisa. E ancora dubitiamo di accrescere il valore con le azioni o il timore ci impedisce di fermarci in terra Ausonia? (808-816) Ma chi è quello lontano che, distinto da rami d’olivo, porta oggetti sacri? Conosco la chioma e il mento canuto del re romano che fonderà la recente città su leggi. È inviato dalla piccola Curi e da una povera terra a un grande impero. A lui poi succederà Tullo, che romperà la pace della patria e muoverà in armi gli uomini inerti e le schiere ormai disabituate ai trionfi. Anco, troppo orgoglioso, segue costui da vicino, già ora anche rallegrandosi eccessivamente dei favori popolari. (817-823) Vuoi vedere anche i re Tarquini e l’anima superba e i fasci recuperati di Bruto il vendicatore? Costui per primo riceverà il potere di console e le crudeli scuri e il padre chiamerà i figli che muovevano nuove guerre alla pena per la bella libertà. Infelice, in qualsiasi modo i posteri racconteranno quei fatti: vinceranno l’amore della patria e l’immenso desiderio di gloria. (824-831) Coraggio, guarda i Deci e i Drusi lontano e Torquato crudele con la scure e Camillo che recupera le insegne. Invece quelle anime concordi, che vedi risplendere in armi uguali ora e finché sono oppresse dalla notte, oh, quanto grandi guerre tra loro, se avranno toccato le luci della vita, quanto grandi schiere e stragi solleveranno, il suocero discendendo dai monti alpini e dalla rocca di Moneco, il genero schierato con i contrapposti orientali! (832-840) Figli, non abituate gli animi a tanto grandi guerre, non rivolgete valide forze contro le viscere della patria: e tu per primo, tu perdona, che porti la stirpe dell’Olimpo; getta le armi dalla mano, sangue mio! Egli, sottomessa Corinto, condurrà vittorioso il carro all’alto Campidoglio, insigne per la strage degli Achei. Egli abbatterà Argo e Micene di Agamennone e un Eacide in persona, discendente di Achille possente in armi, vendicando gli avi di Troia e il tempio profanato di Minerva. (841-846) Chi lascerebbe sotto silenzio te, grande Catone, o te, Cosso? Chi la stirpe di Gracco o i due Scipioni, due fulmini in guerra, rovina della Libia, e Fabrizio, potente nel poco, o te, Serrano, che semini nel solco? Dove mi trascinate stanco, Fabi? Sei tu quel famoso Massimo che da solo temporeggiando ci restituisci lo stato? (847-853) Altri tireranno fuori bronzi che respirano con maggiore morbidezza, lo credo davvero, altri trarranno dal marmo volti vivi, peroreranno meglio le cause, e i movimenti del cielo con un bastoncino descriveranno e indicheranno gli astri che sorgono: tu, Romano, ricordati di governare i popoli con la tua capacità di comando, queste saranno le tue arti, imporre costumi di pace, risparmiare i sottomessi e abbattere i superbi”. (854-859) Così il padre Anchise e aggiunse queste parole a loro meravigliati: “Guarda come Marcello avanza insigne per le spoglie opime e da vincitore sovrasta tutti gli uomini. Questo, da cavaliere, sosterrà lo stato romano, mentre un grande tumulto lo sconvolge, abbatterà i Fenici e i Galli ribelli e per terzo appenderà armi catturate al padre Quirino.” (860-867) E qui Enea (infatti vedeva andare insieme un giovane straordinario in bellezza e di armi splendenti, ma la fronte poco lieta e gli occhi con il volto abbassato): “Padre, chi è quello che così accompagna l’uomo che giunge? Un figlio o uno dei discendenti di grande stirpe? Che brusio di compagni intorno! Quanta grandezza in lui stesso; ma la notte nera vola intorno al suo capo con triste ombra”. (868-877) Allora il padre Anchise cominciò, mentre le lacrime sgorgavano: “Figlio, non chiedere un grande lutto dei tuoi. I fati lo mostreranno soltanto alle terre e non permetteranno che viva oltre. Troppo a voi, dei, la prole romana sembrerebbe potente se questi doni fossero duraturi. Quanto grandi gemiti di uomini quel campo porterà alla grande città di Marte! O quali esequie vedrai, Tevere, quando scorrerai oltre la recente tomba! E né qualche giovane della stirpe iliaca solleverà gli avi latini a così grande speranza, né mai la terra romulea si vanterà tanto di un figlio. (878-887) Oh pietà, oh antica fede e destra invitta in guerra! A lui armato nessuno si sarebbe posto contro impunemente, sia se da fante andasse contro il nemico, sia se con gli speroni ferisse i fianchi di un cavallo schiumante. O giovane da compiangere! Se spezzerai questi duri fati, tu sarai Marcello. Date gigli con le mani piene, che io sparga i fiori purpurei e almeno colmi l’anima del discendente con questi doni ed esegua il vano compito”. Così vagano qua e là in tutto il territorio nei campi vasti dell’aria e tutto è passato in rassegna. (888-901) Dopo che Anchise condusse il figlio nei singoli luoghi e accese l’animo con l’amore della gloria che sarebbe arrivata, poi racconta all’eroe le guerre che di seguito avrebbe dovuto condurre e lo istruisce sui popoli di Laurento e la città di Latino e in quale modo sia fuggire sia sopportare ogni fatica. Sono due le porte del Sonno; una delle quali si dice sia di corno, attraverso la quale è data alle vere ombre una facile uscita, l’altra, splendente, fatta di bianco avorio, ma i Mani mandano al cielo fallaci visioni. Lì allora con queste parole Anchise scorta il figlio e insieme la Sibilla e li fa uscire dalla porta eburnea. Egli taglia la via verso le navi e rivide i compagni. Allora si dirige al porto di Gaeta per la costa dritta. L’ancora è gettata dalla prua; le poppe stanno a riva.