Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Eneide, parafrasi libro primo, Versioni di Italiano

Parafrasi del primo libro dell'Eneide, traduzione di Giuseppe Albini

Tipologia: Versioni

2022/2023

Caricato il 16/01/2023

anna-drei
anna-drei 🇮🇹

5

(2)

22 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Eneide, parafrasi libro primo e più Versioni in PDF di Italiano solo su Docsity! "L'Eneide", Publio Virgilio Marone; tradotta da Giuseppe Albini; LIBRO PRIMO L'armi e l'uom canto che dal suol di Troia primo in Italia profugo per fato alle lavinie prode venne, molto e per terre sbattuto e in mar da forza ei de' Celesti per la memore ira de la crudel Giunone, e molto ancora provato in guerra, fin ch'ebbe fondata la città e gli Dei posti nel Lazio, onde il Latino genere e gli Albani padri e le mura de l'eccelsa Roma. Musa, le cause narrami, per quale sfregio a sua deità, di che dogliosa, la Regina de' Numi un uom costrinse di pietà sí preclaro a correr tante vicende, a incontrar tanti travagli: e son sí grandi in cuor divino l'ire? Antica città fu, gente di Tiro la possedé, Cartagine di fronte a Italia lungi ed a le tiberine bocche, opulenta, acerrima guerriera: cui frequentar dicevano Giunone piú che ogni altro paese e Samo istessa; quivi fur l'armi sue, quivi il suo carro, e che quello, assentendolo i destini, divenisse l'impero de le genti, fin d'allora la Dea studia e vagheggia. Però che udito avea, dal troian sangue scender progenie che le tirie ròcche rovescerebbe un dí; che quindi larga- mente un popolo re, superbo in guerra, moverebbe a rovina de la Libia: cosí volger le Parche. La Saturnia, questo temendo, e de l'antico stormo memore ch'essa avea guidato a Troia per Argo sua - né le cadean di mente le cagioni de l'ira e i fieri crucci; fitto rimane nel profondo seno il giudizio di Paride, il dispregio di sua bellezza, l'odïosa stirpe e gli onor del rapito Ganimede -; da tali fiamme accesa i Teucri, avanzo de' Danai e del feroce Achille, a tutte le marine travolti respingea dal Lazio, e già molti anni erravan spinti dal fato ad ogni mar: sí dura impresa era fondare la romana gente. Appena da la vista de la terra sicilïana lieti verso l'alto veleggiavano e con le bronzee prore e i nembi signoreggi e le tempeste". Ciò detto, con la cuspide rivolta percosse il fianco al cavo monte, e i venti in groppo si ruinano a l'uscita e turbinosi scorrono la terra. Calarono sul mare, e dal profondo lo sconvolgono tutto ed Euro e Noto ed Africo impregnato di procelle, e spingono a le rive i cavalloni. Segue d'uomini un grido, un cigolío di gómene. Improvvise il cielo e il giorno tolgon le nubi agli occhi de' Troiani; cupa incombe sul pelago la notte. Rintonarono i cieli, l'aer guizza di folgori frequenti, e tutto intorno è una minaccia d'imminente morte. Enea pe' membri sente un gel, sospira, ed "Oh!", tendendo alto le palme esclama. "tre volte e quattro fortunati quelli ch'ebbero in sorte di morire in vista de' padri sotto a' muri alti di Troia! O Tidíde, fortissimo de' Danai, non avere io potuto in terra d'Ilio cadere e per la tua mano spirare quest'anima! ove il fiero Ettore giace del colpo de l'Eàcide, ove il grande Sarpèdone, ove tanti il Simoenta scudi d'eroi travolge ed elmi e salme". Mentre ch'ei si sconsola, una stridente raffica d'Aquilon coglie la vela in faccia e leva fino agli astri i flutti. Infranti sono i remi; allor la prora si rivolge e dà il fianco a l'onde: incalza di gran mole scosceso un monte d'acqua. Questi pendono in cima al flutto, a quelli scopre tra' flutti l'onda spalancata il fondo, va il bollor fino a le arene. Tre navi avventa Noto a sassi occulti (Are li chiaman gl'Itali, a fior d'acqua schiena enorme), tre navi Euro da l'alto, triste a veder, sospinge in secche e sirti, le sbatte a' banchi e accerchiale di sabbia. Una, che i Lici ed il fedele Oronte portava, immensa ondata innanzi agli occhi di lui percote in poppa: a capo in giú il timonier n'è scosso, e lí tre volte il flutto aggira intorno a sé la nave ed il rapido vortice l'inghiotte. Rari natanti per il gorgo vasto appaiono, armi di guerrieri e tavole e troiana dovizia galleggiante. Già il saldo legno d'Ilioneo, già quello del forte Acate, quel che porta Abante, quel che l'annoso Alete, ha vinti il nembo: tutti per lo sconnettersi de' fianchi bevono la nemica onda sfasciati. Sentí l'immenso murmure del mare Nettuno intanto pien di meraviglia e scatenata la burrasca e i fondi rimescolati, e fuori da le schiume sporse il placido capo a riguardare. Dissipata d'Enea vede la flotta per tutte l'acque, sopraffatti i Teucri dal rovescio del ciel, né le insidiose sfuggirono al fratello ire di Giuno. Euro e Zefiro à sé chiama e lor dice: "Tanta baldanza de la vostra schiatta dunque v'ha preso? Omai l'aria e la terra senza me, venti, a perturbar vi ardite e a sollevar di simili montagne? Io vi..... Ma prima è da chetare i flutti, poi sconterete a me ben altra pena. Fuggite rapidi e al re vostro dite che non a lui, a me fu data in sorte la signoria de' mari e il gran tridente. Egli ha le vostre case, Euro, rupestri; Eolo in quella reggia si pompeggi e regni dentro il carcere de' venti". Cosí dice e piú presto del suo detto placa il gonfio elemento e fa le accolte nubi fuggire e ritornare il sole. Cimòtoe ed insiem Tritone a forza spiccan le navi da l'acuto scoglio: esso le aiuta col tridente ed apre non istenda al terren sette gran corpi e con le navi il numero pareggi. Indi va verso il porto e li comparte tra tutti i suoi; e quel vino che avea posto negli orci sul trinacrio lido Aceste il buono eroe dandoli a loro che si partían, distribuisce, e i tristi cuori cosí dicendo riconforta: "Compagni - oh già non siam nuovi a' dolori, - voi che peggio soffriste, a questo ancora porrà una fine Dio. Voi la scillèa rabbia fin presso a' clamorosi scogli sfidaste, conosceste le ciclopie caverne voi: gli spirti richiamate e cacciate il timor mesto; un dí forse questo pur ci sarà grato ricordo. Per le varie vicende e i rischi tanti tendiamo al Lazio, ove ci mostra il fato cheta stanza; ivi può risorger Troia. Durate, e a' dí serbatevi sereni". Cosí dice col labbro e pien d'affanno simula in volto la speranza, preme alto in cuore il dolor. Quelli a la preda s'accingon per lor cibo: da le coste strappan le pelli discoprendo il vivo: chi ne fa pezzi, e tremole agli spiedi le infigge, chi pone sul lido i rami avvampandoli attorno. La vivanda rifà le forze, e s'empion stesi a l'erba di vin vecchio e di pingue selvaggina. Sazia la fame e tolte via le mense, in lungo conversar bramano i loro persi compagni, tra fidanza e tema, o che sian vivi ancora o giunti al fine e non odano piú chi li richiama. Piú che tutti il pio Enea tra sé compiange or del pugnace Oronte, or la iattura d'Àmico ed il crudel fato di Lico; compiange il forte Gía, Cloanto forte. E cessavano omai, quando dal sommo mirando Giove al mare veleggiato ed a l'umili terre e a' lidi e a' lati popoli, cosí stette in vetta al cielo e ne' regni di Libia il guardo affisse. A lui che tale in cuor volgea pensiero mesta di pianto sparsa gli occhi belli parla Venere: "O tu ch'uomini e Dei regni eterno e col fulmine atterrisci, qual contro te il mio Enea colpa sí grande o poteron commettere i Troiani, a' quali dopo tante morti tutto davanti a Italia s'attraversa il mondo? Pur da loro, col volgere degli anni, nascituri i Romani promettesti; da loro un dí, dal rinfrescato sangue di Teucro i duci che la terra e il mare avrebbero in balía: deh! padre, quale pensier ti cangia? In questo io consolava il doloroso ruinar di Troia, co' fati i fati avversi compensando: invece è la medesima fortuna che dopo tanto perigliar li preme. Qual concedi, gran Re, fine a' travagli? Antènore poté di tra gli Achivi sfuggir, ne' golfi illirici securo penetrare e ne' regni de' Liburni e valicar la fonte del Timavo, onde con vasto murmure del monte va qual dirotto mar per nove bocche e risonante allaga le campagne. Pur quivi egli fondò Padova a stanza de' Teucri, diede a la sua gente un nome e appese le troiane armi; tranquillo ora in placida pace si riposa. Noi tua progenie, cui le vette assenti del ciel, perdute ahimè le navi, siamo per l'ira d'una sola abbandonati e risospinti da l'Italia. Questo premio ha pietà? cosí ci rendi al regno?". A quella sorridendo il Creatore degli uomini e de' numi con quel volto che rasserena il cielo e le tempeste sfiorò le labbra de la figlia, e dice: "Non temer, Citerèa: ti resta immoto col remeggio de l'ali ed a la Libia subito è giunto. Ecco che adempie il cenno, e depongono i Peni il cuor nemico, volente il dio: su tutti la regina mansueta si rende e generosa. Ma il pio Enea tutto in pensier la notte, come prima fruí la bella luce, si propose cercare i luoghi novi ed a che piagge l'ha portato il vento, se sia d'uomini stanza o sia di belve (ché incolto vede), e riferirne a' suoi. La flotta nel convesso de le selve nasconde sotto il ciglio de la rupe, chiusa tra gli stormenti alberi ombrosi: esso sen va, compagno il solo Acate, con due di largo ferro aste tra mano. Ecco, la madre gli si offerse incontro ne' boschi, con la faccia e la persona di giovinetta, in armi di spartana, o qual la trace Arpàlice i cavalli stanca, e supera al corso il rapido Ebro. Da cacciatrice agli omeri sospeso aveva il docile arco e sparsi al vento i capelli; scoperta le ginocchia, e rannodate le fluenti pieghe. "Oh, per prima esclamò, giovani, dite, se una qui forse de le mie sorelle con la faretra al fianco errar vedeste e gridando inseguir corso di lince dal pel macchiato o di cignal schiumoso". Cosí Venere, e fa cosí risposta di Venere il figliuol: "Udita o vista non ho nessuna de le tue sorelle, o.... Come debbo, vergine, chiamarti? l'aspetto tuo non è mortal, né donna suona la voce -; o certamente dea - la sorella di Febo? o de la stirpe de le Ninfe una? -, sii propizia e il nostro affanno allevia, qual tu sia: ne insegna sotto che cielo e in qual parte del mondo siam pur fatti vagar; nuovi degli uomini e de' luoghi vagando andiam, cacciati qua da' venti e da l'impeto de' flutti. Molte t'immolerem vittime a l'are". Venere allora: "Oh! non mi faccio degna di tanto. È l'uso a le fanciulle tirie portar faretra, e il purpureo coturno alto a' piedi allacciar. Punico regno, Tirii e città di Agenore tu vedi; ma è suol di Libia, gente rotta a guerra. Tiene Dido l'impero, qui sfuggita da la tiria città via dal fratello. È lunga offesa, lunghe trame; e solo per sommi capi toccherò le cose. Marito a questa donna era Sicheo di tra' Fenici ricchissimo di terre e ch'ella amò perdutamente, data vergine a lui dal padre e disposata co' primi auspíci. Ma di Tiro al regno seguiva il fratel suo Pigmalione, piú malvagio su tutti ed efferato. E tra i cognati si frappose l'ira. Quegli empio e cieco da l'amor de l'oro, nulla pensando al cuor de la sorella, innanzi a l'are ascosamente investe con la spada Sicheo che non si guarda; e celò il fatto a lungo e di fallace speme ingannò la mesta innamorata. Ma l'ombra venne a lei de l'insepolto sposo ne' sogni, e sollevando il viso mirabilmente pallido le aperse l'altar crudele ed il trafitto seno e tutto il bieco orror de la famiglia. Prender la fuga, abbandonar la patria le persuade, e buono al suo viaggio tesoro antico le rivela in terra, ignorato valor d'oro e d'argento. Da tanto indótta preparava Dido la fuga e i soci: si radunan quelli che hann'odio fiero del tiranno o vivo sospetto; navi erano a sorte pronte, e quelle hanno afferrate e d'oro colme. Salpa in mar la dovizia de l'avaro Pigmalion: duce una donna al fatto. né mi è dato a la man porre la mano, e parlare e rispondere sincero?". Cosí si duole e a la città s'avvia. Ma Venere d'oscuro aër li cinge e li riveste d'una nebbia folta, che vederli niun possa o toccarli, fermarli o chieder del venir cagione. Alto essa a Pafo rivolò, si rese lieta ne la dimora ov'è il suo tempio e d'incenso sabeo fumano cento altari e odoran di ghirlande fresche. Prendon quelli la via com'è segnata, e già il colle salian che ampio sovrasta la città e d'alto l'arci ne prospetta. Ammira Enea le moli, e fur capanne, e le porte e lo strepito e le strade. Sudano i Tirii a l'opera: chi stende i muri e innalza l'aree e volge a forza macigni; chi, scelto a sua casa il sito, d'un solco il gira: allogan la giustizia e i magistrati e l'inclito senato: altri qui scava i porti, altri là pone profondi del teatro i fondamenti e spicca da le rupi alte colonne, superbo onor de le future scene. Cosí l'api tra 'l sol preme il desío a nova estate per i campi in fiore, quando gli adulti nati di lor gente guidano fuori o stipano il fluente miele e spalman del nettare le celle, o alleviano dal peso le tornanti, o schierate respingon da' presepi l'ignavo stuol de' fuchi: ferve l'opra e dà sentor di timo il miel fragrante. "Fortunati, la cui città già sorge!", esclama Enea guardando alto i fastigi. E avvolto in nebbia va, prodigio a dire, per mezzo a tutti né il discerne alcuno. Nel cuor de la città, beato d'ombra un bosco fu, dove da prima i Peni da' marosi e dal turbine sbattuti scavarono il segnal che la dea Giuno predetto avea, la testa d'un destriero: onde sarà ne' secoli la gente possente in guerra ed abbondante in pace. Ivi un gran tempio la sidonia Dido fabbricava a Giunone, per i doni splendido e pel favore de la dea. Bronzea su' gradi ne sorgea la soglia, le travi in bronzo avvinte, a bronzee porte il cardine stridea. Qui nova cosa si offerse che lení prima il timore, qui prima Enea sperare osò salvezza e consolarsi de l'afflitto stato. Ché mentre sotto l'ampia volta esplora ogni cosa, aspettando la regina, mentre il fiorir de la città contempla e in gara degli artefici la mano e l'industria de l'opere, ecco vede in ordine le iliache battaglie e la guerra dovunque omai famosa, gli Atridi e Priamo e fiero a entrambi Achille. Si fermò lagrimando e disse: "Acate, qual resta luogo o regïone al mondo che non sia piena del nostro dolore? Ecco Priamo! Anche qui virtú si pregia, e piange la pietà sui casi umani. Non temer piú: ti recherà tal fama alcuno scampo". Cosí dice, e gode di quel vano dipinto sospirando e largamente inumidisce il volto. Ché guerreggianti a Pergamo d'intorno qua vedea fuggir Greci avanti al nerbo troiano, e Frigi là col carro a tergo di Achille dal chiomato elmo. Non lungi ravvisa lagrimando i padiglioni di Reso a bianche vele, che traditi dal primo sonno devastava rosso il Tidide di strage, e i bei cavalli via ne sospinse verso il campo, prima che avessero gustata erba di Troia o bevuto lo Xanto. In altra parte Troilo fuggendo, perse l'armi, infausto scelti venian da tutti i legni a chieder grazia e premevan tra il clamore al tempio. Entrati e avuta del parlar licenza, l'annoso Ilïoneo pacatamente incominciò: "Regina, cui diè Giove nova città fondare e con giustizia frenar genti superbe, te preghiamo noi Troiani infelici al vento vòlti per ogni mare: lo spietato incendio da le navi allontana, una pia stirpe risparmia, in noi piú giusto abbi riguardo. Già non venimmo a devastar col ferro i libici Penati e trarre al lido rapite prede: ché non hanno in cuore tal vïolenza né superbia i vinti. È un luogo, Esperia l'usan dire i Grai, fiera in armi e ferace antica terra: gli Enotri l'abitarono, ora è fama che dal nome di un duce i discendenti nominata la gente abbiano Italia. Era quella la meta; allor che gonfio d'improvviso flutto il nemboso Orïone ci travolse e in balía de' protervi austri per l'onde, sopraffatti dal pelago, e per gli aspri scogli ci dissipò: pochi di noi accostar ci potemmo al vostro lido. Che gente è qui? qual sí barbara patria tali modi consente? Ributtati siam da lo scampo de la sabbia: guerra movono, d'afferrar vietan la sponda. Se gli uomini e le umane armi sprezzate, oh pensate agli Dei che son custodi e del bene e del male! Era il re nostro Enea, di cui non fu piú giusto alcuno né di pietà maggiore o di prodezza. Che se il destino a noi lo serba, s'egli spira le vivide aure e ancor non giace ne le crudeli tenebre, siam salvi; né ti dorrai che gareggiasti prima tu di benignità. Città pur sono ne la region sicilïana ed armi e da sangue troiano inclito Aceste. Il fiaccato da' venti a riva trarre naviglio sia concesso, e dalle selve le tavole foggiar, sfrondare i remi: sí che, se lecito è cercar l'Italia co' soci e il re ricuperato, lieti verso l'Italia e il Lazio navighiamo; ma se persa è salvezza, e te, de' Teucri ottimo padre, il mar di Libia tiene, e piú la speme non riman di Giulo, ai porti di Sicilia ed a le pronte dimore almeno, onde qui fummo spinti, ed al regno di Aceste alziam la vela". Ilïoneo cosí: fremeano assenso i Dardanidi intorno. Breve Didone allor con gli occhi bassi parla: "Dal cuor sgombrate ogni sospetto, posate, o Teucri, da l'affanno. Il duro stato e la novità del regno questi modi a tener mi sforzano e di guardie tutti all'in giro assicurare i lidi. Chi gli Eneadi, chi può Troia ignorare? e gli eroi e l'incendio di tal guerra? Non sí ottusi sensi abbiam noi Peni né da qui sí remoto il Sol carreggia. O che l'Esperia grande ed i saturnii campi cerchiate, o d'Èrice il paese e Aceste re, vi manderò sicuri e vi agevolerò per il cammino. O qui pur vi volete, in questo regno, con me restare? La città ch'io fondo è vostra: i legni ritraete a riva; fra Teucri e Tirii non porrò divario. Fosse presente anch'esso il re, sospinto dal medesimo Noto, Enea! Ben io per ogni spiaggia manderò fedeli tutta Libia a cercar, se forse ei vada per selve o per città naufrago errando". Cresciuti in cuore a questi detti, il forte Acate e il padre Enea viepiú che dianzi ardevano d'erompere la nube. Per il primo ad Enea volgesi Acate: e i re pelasghi. Quel nemico istesso i Teucri celebrava e da l'antica stirpe de' Teucri si volea disceso. Entrate or dunque ne le case nostre, giovani. Me pur simile fortuna spinse per molte prove, e in questa terra fece al fine posar: di mali esperta a soccorrere imparo gl'infelici". Cosí parla; ed insieme Enea conduce a la reggia, insiem fa ne' templi a' Numi sacrificare. E non frattanto oblia venti tori mandar sul lido a' soci, cento di grandi porci irsute schiene e cento pingui con le madri agnelli, doni e gioia del dí. Ma di lusso regal si adorna e splende la casa dentro, ed il convito in mezzo v'apparecchiano: drappi lavorati con arte in prezïoso ostro, dovizia d'argento su le mense, e in oro incisi, serie infinita, i gran fatti de' padri, di tempo in tempo da l'origin prima. Enea, poi che il paterno amor non lascia ch'ei non vi pensi, rapido a le navi spedisce Acate, che ad Ascanio rechi le nuove e lui a la città conduca: tutto in Ascanio è di suo padre il cuore. I doni ancor sottratti a le ruine iliache ingiunge di portar, la palla rigida tutta di figure d'oro e il vel di giallo acanto attornïato, fogge che fur d'Elena argiva, ed essa, movendo a Troia ed al vietato imene, da Micene con sé le avea portate, mirabil dono di sua madre Leda; e lo scettro che un giorno Ilíone resse, de le figlie di Priamo la prima, e il monile di perle e la corona mezza tra gemme e oro. Queste cose affrettando, a le navi Acate andava. Ma Citerea nuove arti e pensier novo volge in cuor, che mutato le sembianze e venga Cupído per il dolce Ascanio e follemente accenda la regina co' doni e metta a lei per l'ossa il fuoco. Ch'ella ha in sospetto quella dubbia casa ed i Tirii bilingui, la tormenta l'atroce Giuno, e il pensier cresce a sera. Dunque a l'alato Amor cosí favella: "Figlio, potenza, onnipotenza mia, figlio che del gran Padre il dardo spregi a Tifoèo tremendo, a te ricorro, supplice imploro il nume tuo. Che in mare il tuo fratello Enea di riva in riva sbattuto vien per l'odio di Giunone inimica, son cose che tu sai e ti dolesti spesso al mio dolore. Or la fenicia Dido il tiene e lega con lusinghiere voci, e temo a che le giunonie riescano accoglienze: già non pensa a ritrarsi in sí gran punto. Però sorprender la regina innanzi vogl'io con arti e cingerla di fiamma, che per veruna deità non cangi, ma sia meco ad Enea stretta d'amore. Odi, com'abbi a fare, il pensier mio. Il fanciullo real che ho tanto a cuore del caro padre al cenno ir si prepara a la città sidonia, co' presenti salvi dal mare e da l'ardor di Troia. Lui sopito nel sonno sopra l'alta Citèra o su l'Idalio in sacra sede io celerò, cosí ch'egli non possa risaper l'artificio ed interporsi. Le sembianze di lui sola una notte simula e del fanciullo tu fanciullo il noto volto prendi, sí che quando lietissima t'avrà Didone in grembo tra le mense regali e i lieti vini, e amplessi ti darà, teneri baci t'imprimerà, e tu a lei nascoso infonda fuoco e tòsco inavvertito". A' detti de la cara genitrice ubbidïente Amor l'ali si spoglia Dator di gioia Bacco assista e amica Giuno: e al banchetto voi deh! convenite, Tirii, di cuore". Disse, e su le mense la primizia del calice spargea; indi per prima vi posò le labbra, e a Bitia il diè garrendolo: voglioso da lo spumante pieno oro egli bevve, e di poi gli altri príncipi. Il chiomato Iopa tocca la dorata cetra, discepolo che fu del sommo Atlante. Canta l'errante Luna e le fatiche del Sol; onde degli uomini la stirpe ed i bruti; onde sia la pioggia e il lampo, Arturo e le piovose Iadi e i due Trioni; e perché tanto gl'invernali soli s'affrettino a tuffarsi in mare, e qual le notti lente arresti indugio. Raddoppian plauso i Tirii e i Teucri insieme. Essa in vario colloquio l'infelice Dido la notte protraeva e a lungo bevea l'amore, molto intorno a Priamo, molto a Ettore intorno domandando, e con quali armi il figlio de l'Aurora fosse venuto, e quali Dïomede cavalli avea, com'era grande Achille. "Su via, poi dice, da l'inizio primo, ospite, a noi de' Danai l'insidia narra e de' tuoi l'offesa e il tuo viaggio; ché la settima estate or già ti porta per le terre vagante e le marine". LIBRO SECONDO Tacquero tutti, con gli sguardi a lui. Allor cosí da l'alto letto il padre Enea prese a parlar: "Tu vuoi, regina, che un immenso dolore io rinnovelli, come i Danai distrusser la potenza troiana e il lagrimevol regno, atroci cose ch'io vidi e di che fui gran parte. A raccontarle, chi terrebbe il pianto de' Mirmidoni o Dòlopi o soldato del duro Ulisse? E già dal ciel declina l'umida notte, e le cadenti stelle chiamano al sonno. Pur, se tanto affetto a conoscere hai tu le nostre pene e in breve udire l'agonia di Troia, quantunque il cuor ne sbigottisce e sempre ne rifugge, dirò. Vinti a la guerra e dal fato respinti, i condottieri de' Danäi, già tanti anni passati, con l'arte de la dea Pallade fanno un cavallo ch'è simile ad un monte, costruito di tavole d'abete. Fingon che sia per il ritorno un voto, e il grido va. Per entro il cieco fianco tratti a sorte racchiudono di furto scelti guerrieri, e le caverne e il ventre tuttoquanto rïempiono d'armati. Tènedo è in vista, un'isola famosa, dovizïosa, mentre stava il regno di Priamo, ora solamente un grembo, malfido asilo de le navi: quivi vanno a celarsi nel deserto lido. Noi li crediam partiti e veleggiare verso Micene: tutta dunque Troia sciolta respira dal suo lungo affanno. S'apron le porte; piace uscir, vedere il campo greco e i luoghi abbandonati, libero il lido: i Dolopi eran ivi, ivi il crudele Achille avea le tende; la flotta qui; là uscian le schiere in campo. Al dono pernicioso di Minerva parte si affisa e ammirano la mole del cavallo. Fra lor primo Timete di trarlo esorta entro le mura e porlo in su la rocca, o per inganno, ovvero già portavan cosí di Troia i fati. Ma Capi e gli altri di miglior consiglio gridano, o si precipiti nel mare e incenerisca con le fiamme sotto la greca insidia ed il sospetto dono, e la chiara sua gloria, cui per falso tradimento i Pelasgi e infame accusa, perché la guerra non volea, innocente trassero a morte, e spento il piangon ora; a lui compagno, e stretto anche di sangue, me il mio padre povero mandava a questa guerra su l'età mia prima. Mentr'ei saldo nel regno era e fioriva ne' consigli dei re, nome ed onore ebbi alcuno pur io. Ma poi che morto fu per livore de l'infinto Ulisse (cose sapute narro), in ombra mesta avvilito io traeva i dí, del caso fremendo in cuor de l'innocente amico. Stolto, e non tacqui! Se si offrisse luogo, se tornar mai potessi in patria ad Argo, giurai vendetta e al bieco odio m'esposi. Quindi il principio del mio male, e Ulisse sempre a incalzarmi di calunnie nove, a sparger contro me voci nel volgo ambigue e a preparar sagace l'armi. Né si risté, che ad opra di Calcante.... Ma perché mai rinfresco io la spiacente storia? perché v'indugio? Se per voi son tutti eguali i Greci, e ciò v'è assai, or m'uccidete: l'Itaco il vorrebbe e caro prezzo ne darían gli Atridi - Di chiedere e saper cresce l'ardore, ignari noi di scelleraggin tanta e de l'arte pelasga. Pauroso prosegue ed infingendosi favella: - Spesso i Danai bramarono la fuga prender da Troia e stanchi da la guerra lunga partire. Deh l'avesser fatto! Spesso li tenne lo sconvolto verno del mar e l'austro li atterrí già mossi; e piú che mai, che già questo cavallo fatto di travi d'acero sorgea, per tutto il cielo risonaron nembi. A interrogar l'oracolo di Febo mandiamo, incerti, Euripilo, e dal tempio questo amaro responso ei ne riporta: - Col sangue d'una vergine immolata placaste i venti, o Danäi, movendo prima a le sponde iliache: col sangue dee cercarsi il ritorno e con l'offerta d'un'argolica vita -. Divulgata che fu tal voce, sbigottí ciascuno col gelido tremor ne l'ossa, a cui preparin morte, chi domandi Apollo. Qui con grande scalpor l'Itaco trae l'indovino Calcante in fra le turbe, qual sia quel cenno degli Dei gli chiede: e molti già mi predicean l'atroce misfatto de l'artefice o tacendo prevedevan l'evento. Quegli tace per cinque e cinque dí; chiuso rifiuta svelar nessuno e designarlo a morte. Solo a la fin, dal tempestar d'Ulisse stretto, d'accordo schiude il labbro e me designa a l'ara. Consentiron tutti, paghi, quel che ciascun per sé temea, d'un sol meschino ricadere in danno. E già veniva il giorno maledetto, si preparava il sacrifizio mio, e il salso orzo e le bende a le mie tempie. Mi sottrassi, confesso, a morte e ruppi i legami; tra il limo e le cannucce del padule acquattato per la notte mi tenni, fin che dessero, se mai date al vento le avessero, le vele. Né speranza era in me piú di vedere la patria antica né i diletti figli né il sospirato padre, a' quali forse faran pagare il mio scampo, ed il fallo col sangue de' meschini emenderanno. Ond'io te, per i Superi ed i Numi consci del ver, per l'illibata fede, se tale alcuna sopravvive al mondo, imploro, abbi pietà di dolor tanto, pietà d'un uom senza sua colpa oppresso -. Doniam la vita a questo pianto e molta compassïon. Da Priamo è l'esempio ella non possa e il popolo guardare a l'ombra de l'antica religione. Che se la vostra mano vïolato avesse il dono di Minerva, allora grande rovina (deh! l'augurio in lui prima tornin gli Dei) ne seguirebbe a l'impero di Priamo ed a' Frigi. Ma se a la città vostra per le vostre mani ascendesse, essa verrebbe l'Asia a' muri pelopei con grande stormo, e de' nostri nepoti esser que' fati -. Per artificio tal de lo spergiuro Sinone tutto si credé; coloro furon presi agl'inganni e a un falso pianto, cui né il Tidide o il larisseo Achille né domaron dieci anni e mille navi. Qui caso altro maggior, viepiú tremendo, si offre a' miseri e turba i cuor sorpresi. Laocoonte, in sorte sacerdote tratto a Nettuno, un gran toro immolava a' consueti altari. Ed ecco due da Tenedo per l'alte acque tranquille serpenti (inorridisco a raccontarlo) sul pelago con mostruosi cerchi incombono e di par tendono a riva. Erti tra' flutti i lor petti e le creste sanguigne stanno; tutto il resto dietro spazza l'onda e divíncolasi enorme. Va un suon pe' l mar che spuma; e già la riva tenevano e, gli ardenti occhi iniettati di sangue e fuoco, con vibrate lingue lambivansi le bocche sibilanti. Qua e là fuggiam smorti a tal vista: quelli dirittamente cercan Laocoonte; e prima i suoi due pargoli figliuoli avvinghia e serra l'uno e l'altro drago e dà di morso a le misere membra, poi lui che vola in armi a lor soccorso afferran stretto nelle enormi spire, e già due volte a mezzo la persona, due volte ribaditi intorno al collo, gli sovrastan col capo e la cervice. Ei con le mani insiem sgroppar que' nodi si sforza, per le bende gocciolando del suo sangue e di reo tossico, insieme leva le grida orribili a le stelle, a que' muggiti simili del toro quand'è fuggito ferito da l'ara, scossa dal collo la malferma scure. Ma i due dragoni via strisciano verso l'alto delúbro e l'arce de la fiera Tritonide, e s'acquattan sotto a' piedi de la diva ed al cerchio de lo scudo. Novello allor ne' tremebondi petti s'insinüa sgomento a tutti: giusta- mente punito par Laocoonte, l'aver con la sua punta il sacro legno offeso ed avventatagli nel fianco la sacrilega lancia: il simulacro gridan che al tempio adducasi, e s'implori il nume de la Dea. Apriamo i muri, spalanchiam le mura. Tutti a l'opera accinti, sotto a' piedi gli pongono scorrevoli le ruote ed al collo accomandano le funi. Sale i muri la macchina fatale, gravida d'armi: giovinetti intorno e vergini fanciulle cantano inni e il canape toccar godon con mano. Quella sottentra e minacciosa scorre nel cuor de la città. O patria! o Ilio casa de' Numi, e glorïose in guerra de' Dardanidi mura! Quattro volte urtò lí su la soglia de la porta, quattro dal grembo risonaron l'armi. Pure incalziam noi ciechi di follia e il mostro infausto su la sacra rocca collochiamo. A' futuri fati il labbro apre anche allor Cassandra, da' Troiani per volere del Dio non mai creduta. Noi sciagurati, cui l'ultimo giorno esser quello dovea, per le contrade i templi orniamo di festiva fronda. Girasi intanto il cielo e vien dal mare Troia ti affida le sue sacre cose e i suoi Penati: prendili compagni de' fati e cerca lor novelle mura che grandi, corso il mare, al fin porrai -. Cosí dice, e di sua man da' riposti penetrali mi porge fuor le bende, Vesta possente ed il perenne fuoco. - Sconvolta intanto da diverso lutto è la città, e piú e piú, quantunque si apparti dietro gli alberi la casa del padre Anchise, si fan chiari i suoni e rinforza lo strepito de l'armi. Son riscosso dal sonno e salgo in cima in cima al tetto e quivi sto in ascolto come quando la fiamma tra le messi cade al furor de l'austro, o vien dal monte il rapido torrente e strugge i campi e i bei maggesi e l'opere de' buoi e porta a precipizio le foreste, ignaro trasalisce udendo il rombo dal ciglio d'una rupe alta il pastore. Ben manifesta allor la fede e aperte son le insidie de' Danäi. La grande casa già di Deífobo è caduta tra l'alte vampe, già il vicino brucia Ucalegonte: il mar sigeo rispecchia ampio gl'incendi. Levasi un gridare d'uomini e uno squillar di trombe. L'armi fuor di me prendo e ne l'armarmi chiaro non ho disegno; ma far gente a guerra e correre con gli altri a l'arce anelo: un'ira folle vince ogni consiglio e mi sovvien che in armi è un bel morire. Ma ecco Panto a' colpi achei sfuggito, Panto d'Otri figliuolo, sacerdote de la rocca e di Febo, esso le sacre cose via reca in mano e i vinti Dei e il piccolo nipote, ed a le nostre soglie correndo fuor di sé s'affretta. - O Panto, a che ne siam? qual rocca resta? - Appena chiesi, e mi rispose in pianto: - Venne l'ultimo giorno e la fatale ora de la Dardania. Noi Troiani, fummo; fu Ilio e l'alta gloria nostra. Tutto traspose il fiero Giove in Argo: regnan gli Achei ne la città che brucia. Dritto nel cuore de la cerchia e alto piove armati il cavallo, e attizza incendi oltracotato vincitor Sinone. Entrano da le porte spalancate quante mai venner da la gran Micene migliaia; altri l'angustie de le vie hanno occupate e oppongon l'armi; pronte a ferire, lampeggiano le punte. Prime le guardie de le porte a stento osan la pugna e far cieca difesa -. A tali detti de l'Otriade, al cenno de' Numi volo tra le fiamme e l'armi, ove la trista Erinni, ove mi chiama il fremito e il clamor che giunge al cielo. Rifeo mi s'accompagna e il guerrier sommo Èpito, apparsi tra la luna, ed Ípani e Dimante, e si stringono al mio fianco, e il giovine migdonide Corebo. Que' dí per sorte era venuto a Troia del folle amore di Cassandra acceso e genero aiutava Priamo e i Frigi; sventurato, che fu sordo a' comandi de la sposa ispirata. Come stretti li vidi osar battaglia, soggiungo: - O prodi, inutilmente invitti cuori, se brame risolute avete di seguitarmi a l'ardimento estremo, voi vedete la sorte de le cose: dai sacrari e da l'are usciron tutti gli Dei che questo impero avean sorretto; voi soccorrete una città che brucia: moriam, corriamo in mezzo a l'armi: ai vinti sola salvezza è non sperar salvezza -. Cosí crebbe l'ardore a' valorosi. Indi, come per cupa nebbia lupi predatori, cui ciechi la rabbiosa voglia del ventre spinse, e i lupicini aspettan soli con le gole asciutte, e s'acquattano dentro al noto grembo. Ahi nulla speri l'uom se ha contro i Numi! Ecco veniva coi capelli sciolti la vergine priàmide Cassandra dal sacrario del tempio di Minerva tratta, levando le pupille ardenti al cielo indarno; le pupille, poi che ceppi stringean le delicate palme. Non resse a quella vista furibondo in cuor Corebo e si gettò a morire tra 'l folto: il seguiam tutti, e densi in armi avanziam. Da la vetta allor del tempio su noi principia il dardeggiar de' nostri, e nasce miserevole una strage per l'aspetto de l'armi e per l'errore de' grai cimieri. I Danai allor, tra duolo e ira per la vergine ritolta, corrono al cozzo d'ogni parte, Aiace ferocissimo e l'uno e l'altro Atride e de' Dolopi il nerbo tuttoquanto: cosí talor di fronte scatenati s'urtano i venti insiem, Zefiro e Noto ed Euro lieto degli eoi cavalli, stridon le selve, col tridente infuria Nereo spumoso e move il mar dal fondo. Tutti ancor quelli che avevam per l'ombre fugati con l'astuzia ed inseguiti per tutta la città, tornano, e primi ravvisan le mentite armi e gli scudi e notan de le lingue il suon diverso. Già ci soverchia il numero, e per primo cade, per man di Penelèo, Corebo a l'altar de la Dea possente in guerra; cade anch'esso Rifeo, giusto fra i Teucri singolarmente e ad equità devoto (altro parve agli Dei); periscono Ípani e Dimante trafitti da' compagni; né te la tua pietà, Panto, sí grande né l'infula d'Apolline difese, che non cadessi. O voi ceneri d'Ilio, o ultima de' miei fiamma, vi chiamo in testimonio ch'io nel cader vostro arma né assalto non schivai de' Danai e che, s'era destin ch'io pur cadessi, mi meritai con l'opera cadere. Ci strappiamo di là, Ífito e Pèlia con me (de' quali Ífito già provetto d'anni, Pèlia anche offeso di ferita d'Ulisse), incontanente dal rumore al palazzo di Priamo chiamati. Quivi tal, mischia, qual se altra non fosse, niuno in tutta la città morisse, cosí sfrenato vediam Marte e i Danai accorrenti a la reggia e il limitare di testuggine stretto. A le pareti poggian le scale, e lí presso le porte salgon pe' gradi e con la manca a' dardi oppongono coprendosi gli scudi, i comignoli afferran con la destra. Dal canto loro i Dardani le torri e i pinnacoli svellono (con queste armi, vistisi a l'ultimo e su l'ora già de la morte, tentan la difesa), e le dorate travi, eccelsi fregi degli avi antichi, gettan giú: con nude le spade altri occupato hanno le soglie terrene e guardia fanno in densa schiera. Mi riarse desio di dar soccorso a la casa del re, giovar d'aiuto que' prodi e vigoria crescere a' vinti. V'era un adito ascoso, agevol passo tra le case di Priamo, una portella negletta dietro, per la qual solea, mentre il regno fioriva, l'infelice Andromaca venir senza compagni a' suoceri sovente e accompagnare il fanciullo Astianatte a l'avo suo. Riesco al sommo, là, donde gl'infausti Teucri scagliavano i lor colpi vani. Ad una torre che si ergeva a filo su l'estremo del tetto alteramente, da la quale si usò tutta vedere Troia e la flotta e il campo degli Achei, e di trofei, cadevano distrutti: giungono i Greci ove non giunge il fuoco. Forse anche il fato vuoi saper qual fosse di Priamo. Come vide egli la sorte de la presa città, le soglie infrante de la reggia e il nemico entro le stanze, l'armi da tempo disusate il vecchio a' tremoli dagli anni omeri adatta invan, la spada inutile si cinge, e move tra la densa oste a morire. Era in mezzo a la casa e sotto l'occhio nudo del ciel una grande ara e a lato un alloro antichissimo, su l'ara steso, i Penati ad abbracciar con l'ombra. Ecuba quivi e le figliuole accorse, quali colombe a vol pe 'l tempo nero, inutilmente degli altari intorno sedeano e strette a' simulacri santi. Ma come in giovenili armi lui vide - Oh! esclamò, qual mai pensier sí folle t'ha spinto, infelicissimo consorte, a cingerti queste armi? e dove corri? Non tale aiuto né difese tali chiede il momento; no, se anche presente or fosse Ettore mio. Deh! qui ne vieni: ci proteggerà tutti questo altare, e morirai con noi -. E a sé lo trasse e ne la sacra sedia il veglio pose. Ecco, al micidïal Pirro davanti, un de' figli di Priamo, Polite, tra l'armi, tra' nemici per i lunghi portici fugge e i vuoti atrii percorre ferito. Lui col mortal colpo insegue Pirro a furia, già già con man lo afferra, con l'asta il tocca. Come alfin davanti agli occhi e a' volti riuscí de' suoi, cadde e la vita con gran sangue effuse. Priamo allor, quantunque in braccio a morte, sé non contenne né la voce e l'ira: - Ma te, grida, per tanta infamia audace gli Dei, s'è in ciel pietà che di ciò curi, ripaghin degnamente e ti dian premio debito, che veder morire un figlio m'hai fatto e di morte hai contaminato la paterna presenza. Oh non già quello, di cui figliuolo ti mentisci, Achille verso il nemico Priamo fu tale: ma i diritti del supplice e la fede riverí, rese a seppellir la salma d'Ettore e rimandò me nel mio regno -. Ciò disse e imbelle senza colpo un dardo il veglio trasse, dal ronzante bronzo subito rintuzzato e penzolante in van da l'alto centro de lo scudo. Pirro a lui: - Ciò riferirai tu dunque e n'andrai nunzio al genitor Pelide: rammenta di narrargli i miei sinistri fatti e che Neottolemo traligna: or muori -. In questo dir proprio su l'are lo strascinò tremante e sdrucciolante nel molto sangue del figliuol, la manca ne la chioma gli avvolse, e con la destra levò lucente e gl'immerse nel fianco sino a l'elsa la spada. Ecco la fine di Priamo; quest'esito di fati si portò lui, vedendo Troia in fiamme, Pergamo in terra, re superbo un giorno d'Asia per tanti popoli e paesi. Giace sul lido un gran tronco e spiccato dal busto un capo e senza nome un corpo. Allora cinse me crudele orrore. Rabbrividii, l'imagine mi sorse del caro padre, quando il re coevo vidi spirare di brutal ferita; abbandonata imaginai Creusa, guasta la casa, a rischio il piccol Giulo. Mi volgo e miro quanti siano intorno: m'hanno lasciato per lassezza tutti o si gettâr sfiniti a terra o in fuoco. E omai solo uno io rimaneva, quando la Tindaride vedo entro le soglie starsi di Vesta e tacita occultarsi ne la sede segreta. Il grande incendio le porte Scee spietata innanzi a tutti e da le navi le compagne schiere fiera in armi pur chiama. Già l'alte rocche, volgiti, occupate ha la tritonia Pallade, fulgente d'un nimbo e de la Gòrgone crudele. Esso il Padre fervore e amiche forze a' Danai somministra, esso gli Dei anima contro la dardania gente. Scampa, scampa, figliuolo, e poni un fine al travaglio: sarò con te per tutto, ti addurrò salvo a le paterne soglie -. Disse, e in seno a la tenebra si ascose. Mi appaiono i terribili fantasmi ed i nemici a noi possenti numi degli Dei. Tutta conobbi allor solversi in brage Ilio e giacere la nettunia Troia: e come quando in vetta a' monti un orno annoso a gara abbattono i coloni co' tagli intorno di percosse scuri; quello sempre minaccia e sempre accenna con la chiomata tremolante cima, fin che da le ferite vinto a poco a poco geme anche una volta e trae per i gioghi schiantato una rovina. Discendo, e vo, duce l'iddio, spedito tra la fiamma e i nemici; mi fan luogo l'armi, e la vampa si ritrae. Le soglie come toccai de la paterna sede e la casa vetusta, il padre, a cui prima mi volsi per portarlo a' monti, nega di viver piú, caduta Troia, e l'esiglio soffrir. - Voi, dice, freschi di sangue e saldi del vigor nativo, voi pensate a esulare. Me se i Superi ancor volevan vivo, m'avrebber salva questa patria. Assai e troppo fu che una rovina vidi sopravvivendo a la città disfatta. Ditemi vale come a morto e andate. Saprò trovar con l'opera la morte: m'avrà pietà il nemico e le mie spoglie vorrà: piccola perdita il sepolcro. In odio a' Numi e inutile da tempo aspetto gli anni, poi che degli Dei il padre e re degli uomini col soffio mi rasentò del fulmine e col fuoco -. Questo a dir persisteva e non cedea. Noi a scioglierci in lagrime, e la moglie Creusa e Ascanio e la famiglia tutta, che ogni altra cosa con sé morta ei padre non volesse e incalzar l'urgente fato. Nega, e luogo e proposito non muta. Son risospinto a l'armi e disperato bramo la morte: e qual disegno omai o quale a me si concedea fortuna? - E tu pensasti ch'io potessi, o padre, partire abbandonandoti e consiglio uscí sí reo da le paterne labbra? Se di tanta città nulla gli Dei voglion che resti, e il tuo proposto è tale che te co' tuoi aggiunger brami a Troia che muor, la porta a cotal morte è schiusa. Or or sopravverrà dal molto sangue di Priamo Pirro che il figliuol davanti gli occhi del padre e il padre a l'are uccide. Per ciò mi salvi, o alma genitrice, a traverso armi e fiamme, perch'io veda il nemico nel mezzo de la casa ed Ascanio e mio padre e insiem Creusa l'un de l'altro nel sangue trucidati? L'armi, o prodi, qua l'armi; il giorno estremo i vinti vuole; a' Danai mi rendete; la pugna rinnovar lasciatemi: oggi, no, non morremo invendicati tutti -. Mi ricingo la spada, e mi adattavo, la sinistra passandovi, lo scudo, avvïato ad uscir. Ma su la soglia ecco Creusa ad abbracciarmi i piedi ferma e porgendo al padre il piccol Giulo: - Se a morir vai, con te prendi anche noi ad ogni rischio: ma se ancor, tu esperto, stretto il piccolo Giulo per la destra, e vien col padre a passi diseguali: dietro segue la moglie. Andiam per l'ombra: ed io, cui dianzi né avventati strali né impaurivan greci assalitori, ad ogni alito d'aura or trasalisco, balzo ad ogni rumor, ansio e pensoso per il compagno e per il peso insieme. Ed a le porte già mi avvicinava ed esser mi parea fuor d'ogni stretta, quando fitto appressarsi un calpestio parvemi, e il padre che guatava innanzi per l'ombre, grida: - Figlio, figlio, fuggi! vengono. Vedo splendere gli scudi e l'armi scintillar -. Non so qual dio poco amico la mente allor mi tolse trepidante confusa: mentre a corsa prendo fuor de le vie note a traverso, ahimè! Creusa, dal destin rapita, ristette? uscí di via? stanca si assise? è incerto; e piú non parve agli occhi nostri. Né prima a la smarrita riguardai e rivolsi il pensier, che fummo giunti al poggio e al tempio de l'abbandonata Cerere: quivi alfin tutti raccolti, ella ci mancò sola, ella deluse i compagni, il figliuolo ed il marito. Qual fuor di me non accusai degli uomini e degli Dei? qual piú reo strazio vidi ne la città distrutta? Ascanio e Anchise padre e i teucri Penati raccomando a' soci e in grembo de la valle celo. Io torno a la città, mi cingo l'armi fulgenti. Ho fermo ripassar per ogni vicenda, tutta ripercorrer Troia e di nuovo a' pericoli offerirmi. Da prima a' muri ed a l'oscure soglie de la porta, onde uscito era, ritorno, e l'orme che segnai seguo a l'indietro per la notte, e col guardo esploro. Intorno tutto mi serra il cuor, fino il silenzio. Poi a la casa mia, se mai, se mai là fosse andata, mi rivolgo. Invasa l'aveano i Danai e l'occupavan tutta Rapido il fuoco divorante al tetto dal vento è volto; sormontan le fiamme, infuria la fornace a l'aure. Inoltro, e la reggia di Priamo e la rocca ritrovo. Omai di Giuno entro l'asilo per i portici vuoti a guardia scelti Fenice e il crudo Ulisse su la preda vigilavano. Quivi da ogni parte la troiana dovizia si riversa a mucchi, da' sacrari arsi rapita, e le mense de' Numi ed i crateri massicci d'oro ed i predati drappi. Fanciulli e in lunga fila paurose donne a l'intorno. Anche mettere osai voci per l'ombra, di grida empir le vie: triste piú volte inutilmente richiamai Creusa. Mentr'io cercava senza fine a furia di casa in casa, il pallido fantasma e di lei stessa l'ombra agli occhi miei parve, in figura de la sua maggiore. Rabbrividii, ritti i capelli e in gola si fe' muta la voce. E allora quella a parlarmi cosí per mio conforto: - Che giova abbandonarsi a un dolor folle, dolce marito? Non senza il volere degli Dei questo avvien; di qui compagna portar Creusa non ti è dato, il vieta quegli che regna nel superno Olimpo. Lontani esigli tu, larga distesa di mar devi solcare, ed a la terra esperia giungerai, là dove il lidio Tebro scorre con placida corrente tra campi opimi d'uomini. T'aspetta ivi italico regno e regia sposa: il pianto lascia de la tua Creusa. Non vedrò de' Mirmidoni le case candido un toro. Era ivi presso un poggio, a sommo il poggio un folto di cornioli, ed ispido di spesse punte un mirto. M'accostai, e da terra un verde cespo sveller volendo per coprir di rami frondosi l'are, orribile un portento vedo e maraviglioso a dir: quel primo arbusto che strappai da le radici, gli scorron giú gocce di sangue bruno a macchiare il terren. Freddo ribrezzo mi scote e per timor gela ogni vena. Pur d'un secondo sterpo un lento vinco a sveller seguo e l'intime a cercare cagioni ascose, e del secondo ancora nero da la corteccia usciva sangue. Tutto turbato in cuor, le Ninfe agresti supplicava e Gradivo padre, sire de le getiche terre, a secondare miti il portento e allevïar l'augurio. Ma quando con piú sforzo al terzo pruno vengo e contro il terren punto i ginocchi, (debbo dire o tacer?) di sotto il poggio s'ode un piangente gemito e una voce viene agli orecchi: - Perché strazi, Enea, l'infelice? risparmia deh! un sepolto, risparmia di bruttar le pure mani. Estranio a te non mi fe' Troia, e questo sangue non vien da un legno. Ahi! fuggi, fuggi queste crudeli terre e il seno avaro. Perch'io son Polidoro: qui trafitto ferrea messe di dardi mi coperse e crebbe in punte acute -. Allor da incerta paura stretto il cuor, rabbrividii, ritti i capelli e la parola in gola. Quel Polidoro con tesoro grande nascostamente avea Priamo infelice fidato al Tracio re che il preservasse, quando omai disperato era de l'armi dardanie e assedïar vedea le mura. Colui, vinto che fu de' Teucri il nerbo e la fortuna volta, seguitando l'agamennonia vincitrice insegna, rompe ogni legge; Polidoro uccide, e vïolento sue ricchezze usurpa. A che non sforzi i petti umani, o fame esecrata de l'oro? In me cessato lo sgomento, agli scelti de la gente principi e prima al padre mio propongo i portenti de' Numi, e il loro avviso chiedo qual sia. Di tutti un solo: uscire da la rea terra, abbandonar l'impuro asilo e dare a' legni il vento. Dunque prepariamo l'esequie a Polidoro, e molta terra al tumulo s'ammonta: sorgono ai Mani l'are, luttuose di brune bende e di cupo cipresso, e intorno son le iliache donne sciolte giusta il rito i capelli. Per inferie tepido latte in ciotole spumose e calici porgiam di sangue sacro: l'anima ricovriamo nel sepolcro, e a gran voce il chiamiam l'ultima volta. Poi non appena il mare affida e in calma lo lascia il vento, e un lieve garrir d'austro chiama al largo, i miei traggon giú le navi e gremiscon la riva. Usciam dal porto; le terre e le città si fanno indietro. Sacra e devota in mezzo a la marina è un'isola carissima a la madre de le Nereidi e a Nettuno Egeo, che un tempo vaga per le prode intorno il Nume arciero piamente avvinse a Mícono alta e a Gíaro e la fece venerar salda e non curare il vento. Son tratto là; gli stanchi ella raccoglie placida tutti nel tranquillo porto. Scesi onoriamo la città d'Apollo. Re Ànio, re degli uomini ed insieme sacerdote di Febo, incoronato di bende e sacro alloro, incontro viene e riconosce, antico amico, Anchise: ospiti uniam le destre e accolti siamo. Il tempio, fatto di vetusto sasso, adorava io del Dio: - Timbreo, concedi terre agitati. Il nautico clamore levasi in varia gara, e la canzone de' nostri è navigare a Creta e agli avi. Sorto il vento ne agevola da poppa, e approdiam de' Cureti al suolo antico. Alacre a' muri de la desïata città mi accingo e Pergamo la chiamo, la gente esorto, che del nome gode, amare i focolari e alzar la rocca. Erano omai tutte le poppe in secco, a' connubi ed a' campi novi attesa la gioventú, leggi e dimore io dava; quando ad un tratto, l'aëre corrotto, una morbida a' membri e miseranda sopravvenne e a le piante e a' seminati pestilenza e mortifera stagione. Perdean le dolci vite, o i corpi smunti traëano: e Sirio ad infocar le terre sterili; inaridivan l'erbe, e pane non concedevan le malate spighe. A l'oracolo ancor di Ortigia e a Febo rimisurando il mar consiglia il padre ire in grazia e implorar, qual fine assegni a le miserie, onde cercare ingiunga aiuto a' mali, ove drizzare il corso. Era la notte, e il sonno per la terra gli animali tenea: le imagin sante degli Dei e i Penati frigi, ch'io da Troia mi portai fuor de l'incendio, parver nel sogno innanzi a me giacente starsi in gran luce chiari, ove la piena luna per gli spiragli penetrava, e cosí favellare a mio conforto: - Quel ch'è per dirti, se ad Ortigia vai, Apollo, qui ti presagisce, ed ecco spontaneo noi a le tue soglie invia. Noi che te, arsa la Dardania, e i tuoi segni seguimmo, e il gonfio mar passammo sotto di te per nave, innalzeremo noi i venturi tuoi nipoti al cielo, e darem regno a la città. Tu mura grandi a' grandi prepara, e il dïuturno non isfuggire affanno de l'esiglio. La stanza è da mutar: non a te questi lidi suase, né posarti in Creta il delio Apollo ti prescrisse. È un luogo, lo chiama Esperia il Greco, antica terra, possente in armi e in ubertà di suolo; gli Enotri l'abitarono; ora è fama che dal nome di un duce i discendenti nominato il paese abbiano Italia. Quella è sede per noi: Dardano quindi nacque e Iàsïo padre, il ceppo primo di nostra stirpe. Sorgi, e lieto questi detti a l'annoso genitor non dubbi riporta: Còrito e le terre ausonie trovi; i campi dittèi Giove ti vieta -. Preso a la visïone ed a la voce divina (né sopore era già quello, sí mi parea conoscere presenti i volti e le velate chiome e i Numi; freddo sudore mi scorrea le membra), di subito mi levo, al ciel supine tendo le palme con la prece, e spargo su' braceri l'intatta libagione. Lieto, compiuto il rito, avverto Anchise e la cosa per ordine gli svelo. Riconobbe i confusi rami e i due progenitori, e che ingannato egli era da nuovo error de' vecchi luoghi. E dice: - Figlio da' fati d'Ilio esercitato, sola mi predicea tali vicende Cassandra; or la rammento nunzïare tanto aspettarsi al nostro sangue, e spesso l'Esperia e nominar gl'itali regni. Ma chi creder poteva essere i Teucri d'Esperia a' lidi per andar? chi fede prestato avrebbe allora a vaticinio di Cassandra? Su via, cediamo a Febo, e fatti accorti ne volgiamo al meglio -. Dice, e al detto obbediam gioiosi tutti. Abbandoniamo quella sede ancora e, lasciativi pochi, apriam la vela insozza i cibi. Allor bandisco a' miei prendano l'armi e che bisogna guerra a l'iniqua genía. Fanno il comando, e nascose preparano tra l'erba e le spade e gli scudi. Or come dunque precipitose strepitaron quelle pe 'l curvo lido, dà Miseno il segno col bronzo cavo da la specola alta. Balzano a nuova pugna i miei, col ferro i sinistri ferir marini uccelli: ma non offesa a le lor penne, al dosso non risenton ferite, e in presta fuga lasciano sollevandosi la preda mezzomangiata e i luridi vestigi. Sola posò nel sommo de la rupe Celeno e infausta profetessa avventa queste voci dal petto: - Anche la guerra per ammenda de' bovi divorati, o Laömedontiadi, la guerra mover volete e l'innocenti Arpie cacciar dal patrio regno? Udite or dunque e figgetevi in cuor la mia parola: quello che a Febo il Padre onnipotente, che Febo Apollo a me predisse, ed io massima de le Furie a voi rivelo. Voi col vento a l'Italia veleggiate, a l'Italia e nel porto arriverete: non però murerete la fatale città, prima che squallida la fame e la micidïale offesa nostra vi faccia a morsi consumar le mense -. Disse, e a vol rifuggí dentro la selva. Gelido a' miei di subito spavento ristette il sangue; cadde il cuor: con l'armi non piú, ma voglion con preghiere e voti pace implorare, o le sian dive, o dire malaugurose alate. E il padre Anchise a tese palme da la riva invoca i Numi santi e indice il giusto rito: - Dèi, le minacce allontanate! Dèi, stornate tal miseria e preservate benigni i buoni! - Poi strappar la fune dal lido, scotere e snodar le gómene ingiunge. I Noti stendono le vele; fuggiam su le spumanti onde, per dove il corso dirigean vento e piloto. Già nel mezzo de' flutti la selvosa Zacinto appar, Dulichio e Same ed alta sopra i dirupi Nèrito; gli scogli, laerzio regno, d'Itaca schiviamo, maledicendo del crudele Ulisse la terra madre. I vertici nebbiosi scopronsi poi del monte di Leucàte e il paventato da' nocchieri Apollo. A lui ci volgiam stanchi e sottentriamo la piccola città: l'àncora cade da la prora, le poppe a riva stanno. Dunque alfin presa la insperata terra, ci rifacciamo a Giove mondi e l'are avvampiamo coi voti: l'azia sponda ferve festante degl'iliaci ludi. Trattano nudi le palestre patrie lubrici d'olio i miei compagni: è gioia tante argoliche aver città sfuggite e tra la schiera ostil trovato scampo. Intanto il sol per l'ampio anno si volge ed il gelido verno arruffa l'onde con gli aquiloni. Un bel concavo bronzo, usbergo già del grande Abante, appendo agli stipiti, e al dono il detto inscrivo: ENEA DAL GRECO VINCITOR QUEST'ARME. Quindi comando di lasciar la spiaggia e di seder su' banchi: a gara i miei battono il mare e tagliano le spume. Presto facciam le cime alte sparire de' Feaci, la costa de l'Epiro radiam, entriamo nel caonio porto ed a l'alta città siam di Butroto. Inopinata quivi udiam novella, come il priàmide Èleno su graie città vi regna e tien talamo e trono de l'eàcide Pirro, e novamente a patrio sposo Andromaca è congiunta. Stupii, e m'arse gran desio nel cuore che a te quando già Troia....? Qualche pensier de la perduta madre serba il fanciullo pur? sproni gli sono a l'antico valore e a cuor virile Enea suo padre ed Ettore suo zio? - Cosí diceva lagrimando e lunghi metteva in van sospiri, allor che viene da le mura l'eroe priàmide Eleno in mezzo a molti, e riconosce i suoi e lieto li conduce a le sue soglie di pianto accompagnando le parole. M'avanzo, ed una Troia piccoletta, una Pergamo che imita la grande ed un magro ruscel che ha nome Xanto ravviso, e la Scea porta rïabbraccio. Insiem del pari la città congiunta godono i Teucri: il re li riceveva ne' portici ampli; de la corte in mezzo spargean libando il vin su le vivande apposte in oro e in mano avean le coppe. Già il primo se n'andava e il dí secondo, l'aure chiaman le vele e il sen si gonfia tutto da l'austro; mi rivolgo al vate a chiedere e pregar: - Di Troia figlio, interprete de' Numi, che i voleri di Febo intendi e i tripodi e di Claro i lauri, gli astri, degli uccelli il canto e il presagir de la volante penna, dimmi deh! (ché ogni pio rito propizio mi promise il vïaggio, e di lor cenno tutti gli Dei mi volsero a l'Italia e il paese riposto a ricercare; sola un nuovo e a ridir tremendo intona l'arpia Celeno vaticinio e fiere ire m'annunzia e orribil fame); quali schivo prima pericoli? per quale via superar potrei prove sí dure? - Eleno allor, sacrificati avanti i giovenchi di rito, umile implora la grazia degli Dei, si scioglie al sacro capo le bende, a le tue soglie, Febo, per mano adduce me vinto a quel raggio divino che l'avvolge, e sacerdote cosí dischiude l'ispirato labbro: - O figlio de la Dea (ché manifesto navighi il mare per superni auspicii; cosí de' Numi il re sorteggia e volge le vicende fatali, e il corso è questo), poco di molto io ti dirò, per fare che meno inospitali affronti l'onde e posar possa ne l'ausonio porto: piú non lasciano ad Eleno le Parche saper, piú dire la saturnia Giuno. In prima, quell'Italia che già presso ti credi e t'apparecchi, o ignaro, in porti vicini entrar, lungo l'apparta e tiene di lunghe terre invalicabil varco. Torcere il remo nel trinacrio flutto e rader con le navi il lido ausonio ed il lago d'Averno e de l'eèa Circe l'isola tu prima dovrai che possa in certo suol mura fondare. I segni ti dirò, scrivili a mente. Quando pensoso a solitario fiume, ben grande sotto l'elci de la riva una scrofa giacersi troverai sgravatasi di trenta capi, bianca, per terra, bianchi a le sue poppe i nati, quivi la tua città, quivi il riposo. Né di un futuro mordere le mense tremare: i fati troveran la via, e sarà presso agl'invocanti Apollo. Ma queste terre, questa itala proda cui piú prossima batte il nostro mare, schivala: è tutto pien d'infesti Grai. Ivi e i naricii Locri han fabbricato e accampò suoi guerrier nel salentino paese il littio Idomenèo: del duce melibeo Filottéte ivi s'appoggia la piccola Petelia a la sua cerchia. Poi, tragittata oltre quel mar la flotta, come sul lido già posti gli altari i voti scioglierai, copriti il capo di vel purpureo, che nemico aspetto già non piú, volitanti per la grotta, prenderli ha cura e l'ordine rifare degli oracoli. Partono i delusi l'antro maledicendo e la Sibilla. Ivi sí non pregiar spesa d'indugio, benché i compagni premano, e la via voglia al largo le vele, ed a buon vento si possano gonfiar, che la veggente tu non ricerchi e istantemente preghi di responsi che dessa proferisca e indulgente la voce e il labbro sciolga. Ella d'Italia i popoli e le guerre ti svelerà venture e di che guisa ogni cimento tu sfugga o sopporti, e venerata ti aprirà secure le vie. Tanto saper da la mia bocca è conceduto a te. Su, vanne e grande innalza al cielo con le imprese Troia -. Dopo ch'ebbe cosí con labbro amico parlato il vate, doni d'oro gravi fa recare e di lamine d'avorio a le navi e vi addensa ne le chiglie argento molto e dodonèi lebèti, una lorica a triplice aurea maglia e un cono di bell'elmo e ben chiomato, armi di Neottolemo. Suoi doni anche riceve il genitor. Cavalli aggiunge, aggiunge aurighi: colma il remeggio, i miei pur d'armi veste. Porre a la vela intanto comandava Anchise, per non fare indugio al vento propizio. Dice a lui con grande onore l'interprete di Febo: - O fatto degno del connubio di Venere superbo, Anchise, cura degli Dei, due volte di Pergamo sottratto a la rovina, eccoti il suol d'Ausonia, a quel veleggia. E quello pure oltrepassar per l'acque t'è necessario: de l'Ausonia lungi è quella parte che ti schiude Apollo. Felice o tu per la pietà del figlio, vanne -, dice -: piú oltre a che trascorro e trattengo col dir l'austro che spira? - Andromaca non men, triste a l'addio, offre vaghi ricami a trama d'oro ed una frigia clamide ad Ascanio, belle offerte del pari; de' tessuti doni tutto l'adorna e cosí dice: - Prendi anche questi che ti sien ricordo da le mie mani, o giovinetto, e a lungo ti attestino d'Andromaca l'amore, donna d'Ettore. Gli ultimi presenti abbi de' tuoi, o sola che mi resti del mio Astianatte imagine! Cosí gli occhi egli avea, cosí le mani e il volto, ed or con te sarebbe adolescente -. A loro sul partir non senza pianto io diceva: - Viveteci felici, a cui già piena è la fortuna sua; incalzati siam noi di fato in fato. Voi vi posaste né a solcar marina vi rimane o a cercare ausonie rive sempre indietro fuggenti. Una sembianza de lo Xanto vedete ed una Troia fatta di vostra mano, con migliori destini, prego, e meno esposti a' Grai. Se il Tebro mai ed i vicini al Tebro campi entrerò, se mirerò le mura date a mia gente, le città sorelle ne l'avvenire e i popoli propinqui, a l'Epiro l'Esperia, a cui comune Dardano è padre e son comuni i casi, una farem le due Troie col cuore: sia de' nostri nepoti un tal pensiero -. Avanziamo sul mar lungo i vicini Cerauni, donde è il navigar piú breve verso l'Italia. Cade intanto il sole e s'ingombrano opachi i monti. In grembo ci gettiam de la desïata terra al mar, sortiti i remi, e ne l'asciutto ci disperdiamo per ristoro intorno: irriga il sonno gli spossati corpi. Né a mezzo il giro ancor tratta da l'Ore salía la Notte, levasi solerte