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Entre la relazione oltre il dualismo metafisico, Sintesi del corso di Filosofia

una breve ma esaustiva sintesi del libro "Entre la relazione oltre il dualismo metafisico"

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 26/07/2023

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taden27572 🇮🇹

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Scarica Entre la relazione oltre il dualismo metafisico e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia solo su Docsity! ENTRE: LA RELAZIONE OLTRE IL DUALISMO METAFISICO INTRODUZIONE I contributi contenuti in questo volume rappresentano il tentativo di ripensare la modernità al fine di aprire a una possibile modernità altra che segua direttrici alternative alla lettura consolidata che dalla filosofia di cartesio giunge all’idealismo. Dunque ciò che tiene insieme i contributi presenti in questo volume è l’idea che la stessa modernità possa proporre altri risvolti Un’occasione per ripensare la modernità è data dal volume di Gabellieri che porta il titolo di “Le phénomène et l’entre-deux. Pour une métaxologie” . La filosofia dell’Entre dunque, indicata anche da Gabellieri come metaxologia cioè filosofia degli intermediari o della mediazione, pone l’accento sul “tra” cioè su quella dimensione relazionale che definisce un luogo del pensare. La filosofia dell'entre è dunque il tentativo di porre al centro del pensare la "relazione", qualificando infine un luogo di un pensare non soltanto filosofico, ma aperto anche alle scienze umane, sociali e non soltanto. Pertanto se l'approccio specifico delle pagine che seguiranno sarà certamente prevalentemente filosofico, le questioni affrontate permetteranno un'apertura significativa anche in direzione di altri ambiti del pensare, come mostra il saggio di Conti che riconsidera la teoria Girardiana del capro espiatorio e della mimesis nella prospettiva di una sociologia relazionale, nella quale la società si configura essenzialmente come relazione in cui il legame tra Ego e Alter rende possibile una ri-concettualizzazione del tema dell'appropriazione, guardando al bene comune. Un momento significativo di riflessione da cui trae origine la prospettiva indicata e che intende ripresentare esiti e vie non troppo considerate della modernità, è rappresentato da quell'orientamento nel dibattito filosofico francese degli inizi del Novecento. Mi riferisco al dibattitto tra la riflessione tipicamente accademica rappresentata da Brunschvicg e quella, per così dire, dell'intellettuale impegnato di Alain. I due esprimono due grandi direttrici: Alain, un filosofo non accademico che ha fatto scuola a molti pensatori francesi e Brunschvicg, che segnerà gli orientamenti della filosofia francese della prima metà del Novecento. Su tali orientamenti che segnano direttrici alternative della filosofia francese contemporanea occorre porre attenzione: da una parte è presente una visione che legge Cartesio in una prospettiva orientata a un idealismo radicale, aprendosi per questa strada alla fenomenologia husserliana e heideggeriana, e dall'altra un orientamento non affatto idealistico seguito anche dai molti allievi di Alain ( Alain insegnò fino al 1933 ai ragazzi della Scuola Normale Superiore. Tra gli allievi di Alain abbiamo: Simone Weil, André Maurois, Sartre, Simone de Beauvoir, Pierre Bost, Raymond Aron ecc..) È indicativa a questo riguardo la distanza tra Weil e Brunschvicg, che non si limita solamente all'aspetto metodologico Infatti, il pensiero di Cartesio è per Brunschvicg una forma di idealismo radicale, individuando l'esistenza di un ordine di conoscenza radicalmente distante dal livello della percezione, mentre per Simone Weil, in questo pienamente allieva di Alain, lo stesso pensiero cartesiano è sia un idealismo che un realismo entrambi estremi infatti la Weil scriverà una tesi da titolo “Dissertazione su Scienza e percezione in Cartesio”. La formazione alainiana è certamente decisiva per la definizione del pensiero weiliano. Dunque quella dell’Entre è una linea di pensiero aperta, alternativa al pensiero dialettico che domina la modernità e che attraverso la Weil consente di ripensare il moderno. Permette una ontologia relazionale qualificata come filosofia della mediazione e del dono. Si tratta di una via che intende valorizzare l'interiorità quale luogo di relazioni: spazio di "accoglienza" dove comprendersi e trovare, in ciò che siamo profondamente, un senso di umanità che è un "bene" possibile e radicato nell'umano. CAPITOLO 1  Michel Henry “una incarnazione senza corpo” A partire dal 1961 l’indirizzo fenomenologico in Francia sia apre alla problematica religiosa. E in particolare nel capitolo ci si concentra sulla figura di Michel Henry. Prima di parlare della sua teoria dell’incarnazione è necessario però mettere in evidenza due punti che caratterizzano questa apertura dell’indirizzo fenomenologico alla problematica religiosa. 1) Il primo è dato da un passaggio lineare dalla fenomenologia alla teologia, che in taluni casi perviene ad una vera e propria identificazione, per cui il metodo fenomenologico introduce, al contenuto proprio della fede religiosa. Questa è certamente la prospettiva di Michel Henry. 2) Il secondo fattore di vicinanza risiede nell'assunzione della "epoche" husserliana compresa come sospensione della conoscenza "naturale" del mondo. La conoscenza sensibile retrocede a favore di una fenomenologia dell'inapparente. Il fenomeno diviene "invisibile" (Henry). In Michel Henry questa svalutazione del sensibile, conduce ad una critica radicale del mondo "visibile", materiale, tale da avvicinare la sua riflessione al modello dell'antica gnosi. Il mondo illustrato da Henry è un mondo "doppio", sdoppiato nella sua parte vera e in quella apparente. Il mondo vero è il non-mondo, fuori dello spazio e dal tempo, che vive nell'interiorità. Il dualismo metafisico tra mondo vero e mondo apparente si polarizza secondo la dualità di interiorità-esteriorità. La equivoca identificazione tra realtà vera ed esteriorità sorge, secondo Henry, da una duplice illusione. Sotto il primo aspetto essa consiste nel credere che la verità "sensibile” sia effettivamente nel mondo e si mostra a noi come qualità oggettiva dell’oggetto. La seconda forma d'illusione da cui procede la prima è di attribuire all'intenzionalità che getta fuori di sé, e che è l'apparire del mondo, la rivelazione originaria dell'impressione. I sensi creano l'illusione del mondo esterno. Henry ripete qui, alla lettera, il percorso dell'idealismo moderno. A questo mondo illusorio viene contrapposta la verità dell' "interno" il quale, diversamente dal modello hegeliano, non consiste nel Logos, nel regno del pensiero. L’interiorità per Henry è data dalla vita, dal vivere la cui percezione non è offerta da una autoriflessione ma dal pathos, da una emozione intensa che si esprime nella gioia e nel dolore. La vita, e qui Henry si ricollega direttamente a Schopenhauer, è la sorgente, il reale vero dal quale proviene ogni fenomeno, ogni determinazione singolare. A partire da queste affermazioni è possibile indicare tre caratteristiche del modello di Henry: 1) il suo carattere irrazionalistico in quanto non si va all’Assoluto, alla Vita, attraverso il pensiero poiché il pensare ha senso solo in riferimento al “fuori”, al mondo illusorio degli oggetti. Pensare è occultare la Verità, è partecipare al mondo apparente dell’esteriorità e dunque perdersi nel nulla. 2) la celebre espressione del Vangelo di Giovanni per cui “il Logos si è fatto carne” non può significare "corpo". L'incarnazione, nella versione "rovesciata" di Henry, è il farsi invisibile di Dio nel mondo. Questo avrebbe inteso Giovanni, secondo Henry, il quale è stato frainteso dai Padri della Chiesa. Al pari degli gnostici, per cui il corpo di Cristo era o apparente o radicalmente diverso da quello umano, anche per Henry il Gesù "giovanneo" non ha commercio con l'umana empiria, con il corpo di fango della Genesi. Rispetto allo gnosticismo classico quello henryano presenta, però, caratteristiche proprie. Si tratta di uno gnosticismo del pathos, governato dalla Vita non dalla conoscenza. Il ritorno dal mondo illusorio a quello vero è mediato dalla Vita contro il Logos del pensiero greco-occidentale. Henry riporta in auge il filone pessimistico della gnosi, antitetico rispetto a quello ottimistico dominato dal razionalismo hegeliano. Ciò significa che la via del ritorno alla Verità non è teorica ma pratica. L’etica permette all’uomo di ritornare nella Vita. Si tratta di una via etica la quale non ha come fine il prossimo né la misericordia ma l’oblio di sé. Inserito in questa cornice il cristianesimo diviene irriconoscibile, destinato a perdere i caratteri che lo qualificano. Il finito, inteso spinozianamente, diventa solo una manifestazione della Vita infinita. Non ci sono dualismi di essenze in quanto l’incarnazione unisce le due essenze (divina e umana). Infatti Henry afferma: che un'essenza dell'uomo diversa da quella del Cristo o di Dio appare impossibile in quanto l'uomo è concepito come Figlio e molto esplicitamente come Figlio di Dio. L'idea di una natura umana specifica, autonoma, è dal punto di vista cristiano un'assurdità. Dunque per Henry non c’è nessun dualismo tra umano e divino: la Vita è una. Come in ogni panteismo anche qui assistiamo alla classica dialettica per cui ora Dio, la Vita, è tutto e noi siamo espressioni transeunti dell'eterno; siamo dei come manifestazioni del divino in noi. Ciò significa che la nascita vera non è quella che accade nel "mondo", ma quella trascendentale, interiore, invisibile. Nascere, in senso "naturale", è venire al mondo, apparire nel regno perduto, illusorio, del non essere. Venire al mondo nella visione cupa del pessimismo henryano è morire. Ciò significa che Cristo non è mai nato in senso “naturale”. La cristologia trascendentale di Henry non ha alcun interesse per il Cristo storico. La verità del cristianesimo per Henry non risiede nel fatto che Cristo sia nato, vissuto, crocifisso, risorto! La “filosofia del cristianesimo” di Henry è una filosofia senza Cristo, senza il Gesù del Nuovo Testamento. Del Cristo dei Vangeli rimane solo il Prologo di Giovanni: “Il Verbo si fece carne”. Una carne che, non ha niente a che fare con il corpo. Al mondo doppio corrispondono, così, “due” Cristi, quello secondo la carne e quello secondo il corpo, invisibile il primo, visibile il secondo. La cosa singolare è che il primo Cristo non ha nulla in comune con il secondo, non vi è analogia ma solo contrapposizione. Henry tratta di un Figlio di Dio che non trova alcuna corrispondenza nel Nuovo Testamento; il Cristo trascendentale non è il Gesù dei Vangeli. Non è il Cristo che ha dovuto portare la croce e ha dovuto portare la carne nel senso più universalmente condiviso del peso del corpo. L’opposizione tra i due non consente di attribuire ad Henry una “filosofia cristiana”. La sua “filosofia del cristianesimo” rappresenta, in realtà, una versione aggiornata dello gnosticismo antico. Il Cristo gnostico “puro” non è in grado di perforare le tenebre del mondo. La sua luce risplende solo nell’interiorità. All’esterno sta il mondo cattivo, quello che nell’antica gnosi era opera di un Dio malvagio. Dunque al mondo oscuro si oppone un Cristo invisibile, immanente, impersonale. Un Non-Logos che è sacralizzazione della Vita. CAPITOLO 2 Il secondo capitolo contiene, come ammesso da chi ha scritto il capitolo cioè Eleonora Zaino, alcune note che si configurano come un elenco rapido di potenziali "soluzioni" spinoziste ad alcune delle aporie della fenomenologia rilevate da Emmanuel Gabellieri nel suo libro La riflessione condotta da Gabellieri prende avvio dall' esame dei limiti strutturali della fenomenologia contemporanea. I dualismi della metafisica tradizionale non trovano, nell'approccio fenomenologico, una ricomposizione soddisfacente. Pertanto, Gabellieri propone una serie di modelli speculativi alternativi. Uno di questi è il modello speculativo di Simone Weil nel quale è presente il concetto di metaxù, che individua nel fenomeno un luogo di mediazione tra immanenza e trascendenza, restituendo così alla filosofia il suo senso originario di intermediario tra umano e divino, nonché la sua originaria funzione pratica. La nozione di metaxù consente la reintroduzione nel discorso filosofico di problematiche di natura etica e religiosa, prima fra tutte quella della natura e del senso della libertà umana. La filosofia, nella prospettiva aperta da Gabellieri, deve tendere a recuperare un'unità tra ragione speculativa e ragion pratica. Ora questa prospettiva aperta da Gabellieri possiamo ritrovarla nel sistema spinoziano: che unisce ragione speculativa (quando parla della natura ontologica di quel modo finito e determinato della Sostanza che è l'uomo, espressione della Sostanza infinita) e ragion pratica in quanto l’uomo ha anche una missione etica . La filosofia di Spinoza inoltre supera ogni dualismo metafisico in quanto essa è una filosofia dell'assoluta immanenza che consente di preservare la natura della Sostanza come causa non trascendente ma immanente e al tempo stesso stabilisce una “differenza ontologica” tra Dio in quanto causato e Dio in quanto causante. L’originalità delle critiche che Gabellieri muove alla fenomenologia consente dunque di instaurare un dialogo tra fenomenologia e spinozismo. Accomunati non solo dalla matrice cartesiana, infatti Husserl e Spinoza condividono altresì un progetto etico: esso si concilia talvolta a fatica con la fenomenologia, come rilevato da Gabellieri tanto che l'etica fenomenologica viene da lui ricercata in autori alternativi (fra gli altri, figurano Bergson e Weil). Per quanto concerne Spinoza, tale progetto etico costituisce invece l'essenziale del suo impegno filosofico, infatti Spinoza nella sua riflessione filosofica concilia la libertà umana con un sistema di determinismo ontologico. Come sappiamo Spinoza troverà la soluzione facendo coincidere libertà e necessità. Ma da dove viene questa intuizione di rispondere tramite Spinoza ai problemi della fenomenologia? Un fenomenologo francese, Jean Toussaint Desanti, nella sua Introduzione alla fenomenologia, afferma di essere stato un tempo tranquillamente spinozista per cui in seguito, quando è stato "folgorato" dalla lettura di Husserl, gli è parso di dover apprendere una nuova riforma dell'intelletto. Il fenomenologo francese involontariamente ci suggerisce di invertire la prospettiva, di immaginare, a titolo di puro esperimento mentale, un filosofo che sia "tranquillamente fenomenologo” e che a un tratto legga Spinoza. Del resto, Bergson, un grande spinozista, sosteneva che ogni filosofo ha due filosofie, la sua, e quella di Spinoza, sottolineando la dimensione di universalità e il carattere radicalmente fondativo del pensiero spinoziano. Ogni filosofia è potenzialmente contenuta nello spinozismo, ne è uno sviluppo o un'espressione perché non c'è altra filosofia se non quella di Spinoza che abbia fatto del pensiero l'attributo (cioè l'espressione dell'essenza) di un Dio non trascendente, la Sostanza. La filosofia ne riceve dignità, una legittimazione ontologica. Ecco perché Bergson riteneva che non ci fosse filosofia senza quel fondamento essenziale che è il monismo spinoziano che stronca sul nascere ogni scetticismo. Torniamo all'esperimento mentale suggerito da Desanti, che disvela impensati punti di contatto tra spinozismo e fenomenologia. Le analisi epistemologiche e antropologiche che Spinoza conduce nella seconda e soprattutto nella terza parte dell' Etica assumono in più momenti una piega "fenomenologica” ante litteram. La conoscenza di primo genere o immaginazione infatti è per molti versi assimilabile all'atteggiamento naturale descritto da Husserl. Immaginare vuol dire per Spinoza conoscere il mondo cosi come si presenta ai nostri sensi, a partire dai quali costruiamo spontaneamente una metafisica fondata su illusioni come le cause finali, l'antropomorfismo, l'antropocentrismo, la separazione, in Dio, tra volontà e intelletto, ecc. Però mentre in fenomenologia la presa di coscienza dell'atteggiamento naturale conduce alla celebre sospensione della tesi dell'esistenza dell'oggetto conosciuto (epoche), in Spinoza non si rende necessaria alcuna messa tra parentesi, alcuna riattualizzazione del dubbio cartesiano, in virtù della assoluta positività e conoscibilità del reale, grazie alla perfetta identità, in Dio, tra pensiero ed essere e, nell'intelletto, tra uomo e Dio. Dunque contro l'errore dei sensi, è sufficiente un'inversione di prospettiva nello "sguardo" sulle cose: lo sguardo di cui parla Spinoza è però non il "puro guardare" dei fenomenologi, ma un guardare sub specie aeternitatis, ossia dal punto di vista di Dio, guardare le cose non sotto l'aspetto della durata, ma dell'eternità, che è la modalità con cui Dio esiste. Concretamente, occorre convertire l'ordine casuale e caotico delle affezioni del corpo in un "ordine per l'intelletto”: questo vuol dire comprendere e nella misura in cui comprende, la mente umana è eterna ed è parte attiva della mente infinita di Dio. Inoltre, mentre l'epochè fenomenologica costituisce uno sforzo prettamente intellettuale, il percorso spinoziano verso la conoscenza adeguata passa attraverso l’affetto, che è realtà psicofisica, cioè mentale e corporea al tempo stesso e che ha una valenza morale. Per questo etica e filosofia si uniscono. Esemplificativa in questo senso è la potenza dell’amore. Infatti passando dall’amore-passione per le cose transeunti e periture arriviamo, attraverso la comprensione (chiamata anche “potenza d’agire”), all’amor Dei intellectualis che è l’amore di tutto ciò che esiste in quanto espressione di Dio. L’amor Dei intellectualis è amore della necessità che dunque ci libera, sul piano morale, da ogni forma di tristezza. La libertà si concilia quindi con un sistema di assoluto determinismo, quale è quello di Spinoza, a patto però di essere disposti a rinunciare all’illusione della libertà come autodeterminazione e ad accettare che l’unica vera libertà possibile è la libera necessità. Nemmeno Dio può essere detto libero nel senso in cui lo intendono il volgo o i teologi. Dunque l’assetto metafisico di fondo presente nel Timeo distingue tra essere e divenire, inaugurando una differenza di valore ma pone anche un mediatore tra di essi chiamato Demiurgo, un artigiano che è la causa di ciò che è venuto all’essere . Temporalità ed eternità dunque stanno in un rapporto di interdipendenza. In Platone dunque si supera la frattura tra coscienza (temporale) e i suoi dati (cioè le essenze che sono in-temporali). La teoria della partecipazione mostra come ciò che noi percepiamo, cioè corpi e atti, è luogo di manifestazione dell’intellegibile. La partecipazione è il risultato di una originaria composizione tra i due principi, che compartecipano nel darsi delle cose e nella nostra modalità di rapportarci ad esse. Ed è nell'ars di un demiurgo che queste due dimensioni originariamente si coordinano. Stabiliti questi presupposti metafisici, Platone descrive il cosmo secondo un modello biologico, come un corpo vivente, nel quale l'Anima del mondo costituisce il principio immanente che garantisce la mediazione tra Essere, Identico e Diverso. Nella fonte platonica, dunque, ritroviamo una intermediazione tra modelli ed enti sensibili, ma anche tra conoscenza certa e opinione. Anche se il dialogo platonico, rispetto alla relazione tra sensibili e intelligibili, non offre chiarimenti decisivi, è tuttavia espressamente detto che ciò che la chora, il ricettacolo, riceve sono delle imitazioni o delle copie delle idee, dunque c’è un rapporto di imitazione (mimetico) tra forme ed enti. A questo punto però sorge una domanda cioè perché la storia della filosofia considera il pensiero di Platone come dualista? Ciò si deve ad Aristotele il quale critica il suo maestro in quanto le idee cioè il principio deve essere separato dall’ente che diviene altrimenti il principio non sarebbe realmente tale e dovremmo cercarne un altro in un regresso all’infinito Ma è proprio quando si perde la struttura di mediazione presente nella cosmologia platonica che emerge il dualismo come inconciliabile unione di essenza ed esistenza, di idea e sensibile. Per risalire alla metafisica platonica, basata sulla compartecipazione tra essere e divenire, bisogna risalire al Sofista. Infatti il fulcro della prospettiva ontologica presente in questo dialogo riguarda l’alterità che si compenetra con l’essere. Si tratta di una mutua partecipazione e non di una esclusione, in quanto la diversità come l’immutabilità non sono altro che generi dell’essere dunque sono entrambi contenuti nell’essere. La filosofia di Platone sarebbe dunque un pensiero dei legami, una filosofia dalla quale emerge una “teoria degli intermediari”, una metaxologia. Ad esempio nel Timeo abbiamo visto che l’intermediario tra essere e divenire è il Demiurgo. Come lo è anche l’anima la quale è nel corpo e dunque coglie il divenire ma l’anima si rivolge e coglie anche le idee cioè ciò che non muta. Dunque una delle basi della metaxiologia è la nozione di anima, l’anima è il centro ontologico della persona, e la capacità sintetica ed intermediaria dell’anima è dovuta proprio alla tradizione platonica. Nel dominio della psicologia platonica, Souilhé ha identificato quattro intermediari rilevanti: la doxa, il thymos, la dianoia e l'eros. I thymos (parte emozionale dell’anima) e l'eros (amore) sono particolarmente utili in questa disamina, poiché rivelano l'attività sintetica tra sensibile e intelligibile che ha luogo nell'anima. Il dualismo tra sensibile e intelligibile porta a uno sdoppiamento tra corpo e anima e, all'interno dell'anima, tra parte razionale e irrazionale. Questa divisione viene messa in discussione nella Repubblica, dove viene delineata una tripartizione: infatti viene introdotta una parte intermedia, il thymos, un metaxy che ha funzione di mediatore dei conflitti tra anima (che ha la funzione di governo) e corpo. L’altro metaxy per eccellenza è Eros il quale ha la capacità di istituire una mediazione tra l’esperienza sensibile e l’apparire degli intellegibili. L'amore comincia dall'esperienza immanente: la scala amoris nel discorso di Diotima inizia con l'innamoramento dei corpi ed è solo attraverso questa fase imprescindibile che l'eros può compiere la sua forza di mediatore. L’eros rappresenta la pista affettiva alla conoscenza degli intelligibili, integrando l'ascensione epistemica del nous spinge l’anima stessa verso la dimensione trascendente delle forme. Interessante è il celebre passo del Simposio nel quale Socrate osserva che “chiunque desideri, desidera ciò che non possiede, ciò che egli non è e di cui tuttavia sente la mancanza”. Dunque l’amore si radica nella mancanza, eros è tensione con qualcosa che manca, che non c’è. L’amore rivela questa mancanza e ciò spinge il soggetto verso la trascendenza delle forme cercata a partire dal sensibile. Il ruolo dell’amore ritorna in Gabellieri che ne fa un orientamento decisivo all’interno della conoscenza. L'amore sembra avere un ruolo metaxologico cruciale in seno al dualismo fenomenologico, poiché spinge il soggetto al di là dell'orizzonte della fenomenalità da se stesso istituita, pur rimanendo al suo interno. Dunque l’amore sembra il vettore principale di mediazione tra essenza ed esistenza. Grazie alla sua psicologia tripartita e alla posizione intermediaria assegnata all'anima, Platone ha istituito un vero ponte dentro al dualismo da lui stesso avviato. In questo modo, il filosofo di Atene ha mostrato una mediazione necessaria tra l'esperienza sensibile del mondo e la conoscenza degli intelligibili, mostrando dei livelli diversi di un unico reale, che nell'anima trova la sua sintesi. La metaxologia si rivela: nello statuto intermedio del demiurgo nella cosmologia, nell'anima e nell'amore per quanto riguarda antropologia ed epistemologia. Il reale concreto dunque è compartecipazione di livelli, commistione di essenza e di esistenza. In questo modo Platone istituisce un'eredità alternativa alla spaccatura tra coscienza pura e corporeità, tra cogito e mondo, la quale conduce alle aporie della fenomenologia. Questo “altro” Platone è dunque una pista possibile per la fenomenologia stessa, affinché si riallacci alla sua aspirazione metafisica, in un senso metaxologico e non, più vittima di dualismo. CAPITOLO 4 Per Simone Weil il linguaggio presenta un'ambiguità intrinseca infatti sebbene da un lato si tratti di un fenomeno umano - perciò suscettibile al bene e al male-, d'altro canto rappresenta anche una realtà che poggia le sue fondamenta nel trascendente. Il linguaggio viene sempre trasmesso da qualcun altro e imparato. Per questo, l’istitutore del linguaggio non può che essere Dio. Nelle Leçons de philosophie di Roanne (1933-1934), Weil parla del linguaggio come frutto di una convenzione sociale. Un decennio più tardi, negli scritti londinesi, afferma invece che il linguaggio getta le sue radici nell'eterno perché è la Sapienza eterna, colei che insegna all'uomo tutte le arti e le conoscenze, tra le quali anche la capacità di parlare e di scrivere. Tutte le tecniche umane sono così considerate come dei doni di Cristo (simile a prometeo che dona la tecnica all’uomo). Dunque il divino si mette in relazione e in comunicazione con l’uomo Per capire meglio questa trasmissione divina, è necessario partire dalla concezione cristiana del Dio uno e trino che, per Weil è fondamento dell'essere come relazione. Secondo la filosofa, infatti, la Trinità è rapporto di Dio con sé e, come tale, è soggetto puro che pensa se stesso, tuttavia non nel senso solipsistico dell’io penso cartesiano, ma aperto e rivolto ad altro. il senso della Trinita è che Dio è pensiero. Ogni pensiero ha un soggetto e un oggetto. Il Padre pensa la sua parola. Questo pensiero è amore. Questa parola è ordine. Quest'ordine è immagine di questo pensiero, che è amore. Più che puro soggetto, Dio è dunque pensiero. Sebbene sia chiaro il riferimento aristotelico, Weil sostiene che la definizione più precisa di Dio come pensiero è da rintracciare in due formule pitagoriche attribuite a Filolao, nelle quali si definiscono l'armonia e l'amicizia. La prima come "pensiero comune di pensanti separati", e la seconda come "uguaglianza fatta di armonia". L’armonia, inoltre, contiene l'idea di proporzione, cioè di unità di contrari, ma anche di uguaglianza tra l'uno e i molti. In questo senso, la Trinità è l'amicizia originaria nella quale "pensatori separati pensano insieme. Altra caratteristica essenziale nella Trinità è quella dell'Amore che si manifesta come doppia pulsazione: da un lato, è generazione-creazione dell'essere da parte del Padre; e dall'altro è risposta del Figlio come rinuncia ad essere. Questi due movimenti rispondono ad stesso atto che è Amore o Spirito: Dio vuole essere, non perché è lui, ma perché è il Bene. Il Padre fa essere il Figlio per amore, perché il Figlio è il Bene. Il Figlio non vuole essere per amore, perché solo il Padre è il Bene. Questo ritmo di doppia pulsazione di Dio in sé si verifica anche nel suo agire nel mondo e nella storia della salvezza. In riferimento all'atto creativo di Dio, Weil descrive il Padre come colui che crea attraverso la sua Parola unica, pronunciata eternamente nell'eterno silenzio. Da un lato, questo silenzio si manifesta, col ritiro volontario di Dio e la rinuncia al suo potere sul mondo. In questa maniera Dio crea svuotando se stesso per dare la possibilità d'esistenza a qualcosa che è essenzialmente diverso da lui. L'atto creativo di Dio non è dunque un'affermazione di sé, ma una abdicazione ad essere perché l'altro sia. Dall'altro lato, alla creazione del Padre come rinuncia ad essere tutto, corrisponde il movimento discendente del Figlio nell'Incarnazione. Il movimento discendente caratterizza l'agire divino nella sua triplice follia d'amore, cioè: Creazione, Incarnazione e Passione. Quest'ultima rappresenta il compimento dell'Incarnazione che raggiunge il suo culmine nel grido di abbandono del Figlio e nella non risposta da parte del Padre. Secondo Weil questo grido che si fonde col silenzio del Padre forma una stessa armonia che indica sia l'unione, sia la separazione di Dio in se stesso. Tale armonia è il Verbo, Parola di Dio che vibra in silenzio in tutta la creazione. Il mistero della Croce rappresenta anche la separazione e unione tra mondo e Dio. E la sventura umana viene vista dalla Weil come la grande occasione dell’uomo di condividere lo stesso destino del Cristo (modello antropologico per eccellenza) partecipando in modo attivo alla redenzione divina. L’uomo infatti essendo creatura pensante possiede il Logos. In questo modo, il Logos, Dio creatura, non solo abita in segreto nell'universo, ma anche in una porzione infinitesimale e silenziosa dell’anima umana. Quindi, è grazie al Logos presente nell'uomo che Dio può entrare in contatto col mondo, a condizione della decreazione umana, cioè del consentimento silenzioso dell'uomo all'amore divino. Questo perché nel tra si intensifica la relazione con l'altro, il quale si trova in tal modo preservato da ogni assimilazione e da ogni esclusione. Facendo lavorare gli scarti, dunque attivando il tra, si può dispiegare un'idea di alterità capace di scongiurare sia un universalismo identitario (la minaccia della reductio ad Unum della globalizzazione), sia un relativismo nichilista La caratteristica che è propria alla categoria di scarto è, secondo François Jullien, che esso non è descrittivo, ma produttivo; mette in tensione ciò che ha separato; non genera identità, ma fecondità. Pensare allora la relazione tra Oriente e Occidente non come un rapporto di differenze, ma come un reciproco scambio prodotto dalla relazione e qui entra in gioco il concetto di meticciato, come una tensione che produce un risultato comune, significa pensare un mondo nel quale l'idea di condivisione è più importante di quella di identificazione. Per ottenere questo reciproco scambio però è necessario non considerare più occidente e oriente come due spazi omogenei al loro interno dunque bisogna operare un lavoro di scomposizione che porti alla luce la pluralità interna a entrambi i termini della coppia: esistono, in realtà, più Occidenti ed esistono più Orienti. Dovremmo demitizzare il vecchio luogo comune dell'Oriente come spazio omogeneo (ciò che Edward Said invita a fare in Orientalismo), ma anche lo stereotipo dell'Occidente come realtà indistinta, così da ritrovare un'unità frammentata anche all'interno di una presupposta identità. Ovvero oltrepassare il mito dell'Altro come entità inafferrabile e intraducibile. Certamente, gli asian values non fanno che confermare certi pregiudizi presentandosi come il rovescio della medaglia dell'ideologia occidentale. Ma fermarsi alla questione dicotomica tra Oriente/Occidente significa non dare il giusto peso e valore alla pluralità che non esiste soltanto tra culture, ma anche all'interno di una stessa cultura. Aprire lo sguardo agli Orienti e agli Occidenti, significa aprire una finestra di dialogo su un paesaggio sia intra-culturale sia interculturale. Questo vuol dire anche rendersi disponibili alla costruzione di un universale comune. Pensare una traduzione comune implica certamente pensare un’ontologia che trova la sua unità nello “scarto” cioè nell’intensificazione del rapporto con l’altro. In questo mondo ogni uno è, in maniera singolare plurale, parte di un noi che non vuole inglobare in un Uno indistinto, ma che desidera celebrare la pluralità includendo in sé uno a uno, tutti quanti, mettendoli in contatto senza farli scontrare, attraverso il “tra” che permette di osservarsi da un punto di vista differente cioè dal punto di vista dell’altro. Siamo Noi, secondo Jean-Luc Nancy, a essere incaricati di creare un mondo, cioè di restituire alla nostra realtà una verità fondamentale: che il nostro mondo è una spaziatura, un intreccio di tanti mondi. Un mondo è la co-esistenza di tutte le esistenze. In questa prospettiva il fine del mondo coincide, secondo Jean- Luc Nancy, con l’apertura della relazione. Relazione che occorre pensare come primaria rispetto all'identità culturale e che diventa fulcro essenziale all'interno dell'ontologia dell'essere-con. Tutto ciò che esiste, dal momento che esiste, co-esiste. Questo «con» non significa aggiunta secondaria ma la continuità. Il contatto che esiste da un singolare all’altro si riassume nel termine “tra”. Entrare in contatto vuol dire creare un mondo dove pensare l’essere gli uni con gli altri. L'altro non è “l'altro da noi”, ma è “l'uno tra noi tutti”. Jean-Luc Nancy ci invita a cambiare prospettiva, a non considerare l'altro come un grande Altro del quale non sappiamo nulla se non che sarebbe, per pregiudizio, diverso da noi, ma di sentirlo come una piccola parte del mondo. Ogni uno è uno tra tanti, e non per questo un uno ha un'importanza minore rispetto ad ogni altro: sapersi parte di una pluralità eterogenea e vastissima non può e non deve minacciare la singolarità circoscritta. Ci sembra che, attraverso gli elementi dell'ontologia di Jean-Luc Nancy sopra tratteggiati, sia possibile riflettere ancora e con qualche strumento in più sulla questione della coppia Oriente/Occidente. Pensare la creazione del mondo come un momento comune a Noi tutti. ammettere che non esiste alcuna cultura primaria, nessuna cultura declinata al singolare che funga da base identitaria delle molteplici culture del mondo. Non può esistere una cultura pura, madre di tutte le altre, giacché esistono le culture meticce. La cultura è per essenza una mescolanza di culture, per questo possiamo affermare che esistono più Occidenti e Orienti. Tra i numerosi Orienti e Occidenti esiste una tensione feconda e generatrice di curiosità reciproca. Ora però la domanda da porci è: Come abitare insieme a questo tra ? Come costruire un lessico comune che riduca al minimo le incomprensioni e che promuova la reciproca narrazione delle singolarità? Tale questione rappresenta la sfida lanciata alla filosofia dalla categoria del ”tra” verso una direzione anti- identitaria. Il “tra” allude a una disposizione etica di apertura e di ascolto che rifiuta ogni assolutizzazione identitaria. Per questo, per mantenere vivo il dialogo culturale è necessario, a nostro avviso, abbandonare il concetto di differenza, perché l'essere che compone questo mondo non ammette identificazioni né, all'inverso, differenziazioni. Piuttosto che pensare per differenze, occorrerebbe pensare per scarti, cioè attraverso una messa in tensione che alimenta curiosità verso il mondo. Piuttosto che cristallizzarsi in descrizioni normative, bisognerebbe rompere lo schema di riferimento. Questa rottura invita al ripensamento dei nostri punti di vista consolidati e ritenuti universalmente validi. Leggendo Jean-Luc Nancy, ci rendiamo conto che la nostra globalizzazione, quella che stiamo vivendo, non è né un Male che sacrifica, né un Bene che riscatta, ma semplicemente un fatto che svela una verità essenziale ed eterna: che l'essere è sempre un essere-con. La filosofia deve ricominciare partendo dalla relazione da ciò che unisce senza vincolare, da ciò che crea distanza ma non differenza. CAPITOLO 6 l dono emerge soltanto nella parte conclusiva di Le phénomène et l'entre-deux, attribuendo a tale dimensione uno spazio che può apparire esiguo e di secondaria importanza rispetto all'economia generale del volume. In realtà, la questione sembra attraversare l'intera riflessione di Emmanuel Gabellieri, rendendo l'autore un'importante voce nel dibattito sull'argomento, al punto che proprio in merito a questo tema, è possibile misurare gli elementi di originalità della prospettiva di Gabellieri rispetto a quelle proposte da autori coevi. La teoria del dono proposta da Gabellieri si colloca pienamente all’interno del tentativo compiuto dalla metaxologia di ripensare la filosofia come “philia-sophia”, cioè amore per una saggezza che non possediamo, opera di una ragione anch'essa mediatrice, legata alla vita, all'azione e all'amore. In alcuni scritti precedenti, l'argomento assume la fisionomia del “dono di sé” , fenomeno complesso e stratificato al cui interno trovano spazio quelle attività quotidiane nelle quali l'uomo si dona all'uomo, come il lavoro, l'arte e la scienza. Però mentre la natura donativa di queste ultime (arte e scienza) è stata tematizzata una simile operazione non ha coinvolto il lavoro che, anzi, è stato estromesso da qualsiasi riflessione in questa direzione. Un'esclusione che Gabellieri mette profondamente in discussione, non solo collocando il lavoro accanto alla dimensione artistica e a quella scientifica, quali momenti del dono di sé quotidiano, ma giungendo a considerarlo l'esempio privilegiato di tale grado di donazione. Se da un lato la centralità riconosciuta al lavoro conferisce originalità alla prospettiva di Gabellieri, dall'altro, i termini con i quali viene presentato il dono di sé quotidiano sembrano potersi approssimare ad alcune riflessioni che altri autori hanno dedicato al tema dell'arte come dono. In questo contesto parlare d'arte non significa addentrarsi nei dibattiti che segnano il terreno dell'estetica, né ricorrere alle categorie che le sono proprie, quanto piuttosto concentrarsi sul valore performativo dell'arte e sulle possibilità offerte dalla pratica artistica compresa in senso ampio e, quindi, nelle sue numerose manifestazioni. Intendiamo con arte quell'attività di creazione irriducibile alla produzione e, tuttavia, inscindibilmente connessa alle opere create che si trovano immediatamente inserite in un contesto di relazioni sociali e transazioni economiche nel quale il valore di scambio è sempre provvisorio e parziale. In tale quadro è necessario tenere presente il forte impulso che Gabellieri ha tratto dal pensiero di Simone Weil. Il dono di sé lungi dall'essere “un fenomeno di conoscenza” è quella fenomenalità paradossale costituita da costante apertura e tensione. Il dono di sé si inserisce in un’ottica di reciprocità, nell’ottica di apertura relazionale caratterizzata dalla gratuità la quale è uno scambio asimmetrico. Il dono di sé si inserisce in quel dibattito i cui tratti sono stati sintetizzati da Gabellieri in numerose occasioni attraverso il ricorso all'opposizione tra il paradigma proposto in ambito sociologico, antropologico ed economico e quello avanzato dal versante filosofico e, precisamente, fenomenologico. Il paradigma sociologico, trova espressione nelle prospettive di autori come Alain Caillé, Jacques Godbout e Marcel Hénaff. I quali riprendono le tesi proposte in ambito antropologico da Marcel Mauss nell'ormai classico Saggio sul dono, dove il dono viene indicato come un “fatto sociale totale” che si esprime mediante la triplice obbligazione di «donare, ricevere, ricambiare» oggetti il cui valore è sempre riconducibile a una dimensione simbolica. Godbout parlando di dono considera quelle che lui chiama “invarianti del dono”, identificate con la reciprocità, la libertà, il debito, l'identità. Con la prima indica quella forza che incita colui che riceve a donare a sua volta (e non a restituire), a colui che ha donato e a un terzo. La libertà elimina qualsiasi garanzia di restituzione, rendendo lo scambio asimmetrico. In tal senso, donare è liberare chi riceve il dono dall'obbligazione di restituire e, pertanto, rischiare, esporsi all’incertezza. Il debito che si fonda su uno stato di debito originario poiché riceviamo la vita e non possiamo riceverla senza porci delle domande. Il debito non sarà dunque proprio a un tipo di società, ma a tutte le società umane. C’è poi bisogno di una l'identità che doni. Nella prospettiva di Godbout si assiste a una revisione dello schema maussiano di «donare-ricevere- scambiare», poiché prima della donazione si colloca quel debito originario che caratterizza l’umano e lo spinge a donare. Tuttavia però Godbout distingue tra “homo donator” e “homo oeconomicus” e ciò non consente di includere il lavoro all’interno della logica donativa. In quanto il lavoro, a differenza dell’arte e della scienza, è legato alle logiche di mercato. Arte e scienza, nonostante le innegabili differenze, entrambe sfuggono al rapporto produttore-consumatore gestito dal mercato e tipico della nostra società. Tuttavia, l'opposizione tra dono e mercato sostenuta Godbout non è però presente nell’arte. Infatti il mercato è condizione essenziale per l’esistenza e il riconoscimento di un’opera, la quale è costantemente esposta alla mercificazione. In realtà come sottolineato da Lewis Hyde: “un'opera d'arte non è una merce. Però le opere d'arte partecipano contemporaneamente di due "economie”: l'economia di mercato e l'economia del dono. Solo una di queste è essenziale: un'opera d'arte può esistere senza mercato, ma non c'è arte senza dono”. Godbout non fa riferimento alle considerazioni di Hyde e tuttavia sembra essere d’accordo con Hyde quando afferma che l'opera d'arte non è merce ordinaria, non è solo merce e per questo nella creazione artistica, e scientifica, si verifica una distanza rispetto alle logiche produttive moderne. Lasciamo da parte la scienza per concentrarci sulla creazione artistica e sulla dinamica di donazione che la contraddistingue, nella quale diviene massimamente evidente la riformulazione dello schema maussiano. Infatti nell'arte la logica del dono non è soltanto presente, ma dominante. Nell’arte si va oltre la logica commerciale in cui il cliente è sovrano, il creatore è sottomesso o piuttosto si sottomette. Mentre nell’arte la creazione non è un’esperienza individualista. Il creatore è sempre qualcuno che trasmette. L’artista è colui che possiede un dono (e che dunque ha un debito nei confronti di questo dono), e l'atto artistico trasmette questo dono al produttore, poi al cliente- amatore. La natura complessa dell'arte esposta da Goudbout fa emergere anche i paradossi presenti nell’arte. In quanto è vero che la creazione «non è un'esperienza individualista, bensì un'esperienza comunitaria», è altresì innegabile che si tratti di un'esperienza personale, poiché chiama in causa le identità di coloro che ne prendono parte. Godbout inoltre porta avanti una visione elitaria dell'arte, che gli consente di marcare la distanza tra dono e mercato, tra l'arte e la società moderna, che per l'autore è una società di produzione dove regna l'utilitarismo. L'opera d'arte però si sottrae alle logiche di mercato utilitariste per Godbout non è un prodotto. Non si colloca nel moderno sistema di produzione. L'artista riceve qualcosa che trasmette. Questa emozione che circola tra l’artista e il cliente fa del mondo artistico una comunità composta da individui che condividono il rispetto dell'opera. L’opera non ha un valore monetario. Il denaro è sempre insufficiente per quantificare l’opera. Infatti ogni artista si aspetta di ricevere non tanto dei soldi ma soprattutto riconoscenza e gratitudine. L'artista ha donato qualcosa di sé nella sua opera e si aspetta che il destinatario faccia lo stesso. L’autore dell’opera è un creatore che non è escluso da ciò che ha creato mentre i gesti ripetuti dall'operaio sulla catena di montaggio lo escludono dal prodotto; al contrario, i brani continuamente ripetuti del pianista gli permettono di penetrare nell'opera. Gli uni escludono, gli altri includono. Siccome il sistema di produzione distrugge il produttore, l'artista non può farne parte. Per questo Godbout afferma che: è essenziale che la maggioranza degli artisti viva miseramente o per niente della propria arte per non rientrare nelle logiche di mercato, è come se per Godbout l'artista lo scienziato non appartengono a questa società. Ma dipendessero dal sistema del dono. Nella società moderna, soltanto alcuni esseri ritenuti eccezionali hanno accesso a quel diritto di dare un senso al gesto di produrre. Perché devono restare l'eccezione? Semplicemente perché il sistema di produzione, essendo stato costruito sulla negazione del dono, sprofonderebbe. L'artista è contemporaneamente l'eroe e il martire del sistema di produzione moderno, colui che paga molto cara la sua resistenza alla modernità. Un ritratto dell’artista poetico e scarsamente concreto, che risulta contradditorio rispetto all'attuale scenario culturale e incapace di spiegare tutti quei fenomeni ormai consolidati che manifestano la sempre maggiore connessione tra dimensione artistica ed economica sino alla concretezza di esperienze particolari di profonda interazione tra il sistema produttivo e quello artistico. Dunque Godbout si distacca solo parzialmente da quello che è stato indicato come il dono dei sociologi; infatti anche se Godbout supera la dimensione cerimoniale del dono inteso come semplice schema “donare- ricevere-scambiare” Tuttavia, egli non include il lavoro e, anzi, mira a mostrare la profondità del fossato che divide il dono dal mercato, la creazione dalla produzione. Un punto nel quale si misura lo scarto rispetto alla posizione di Gabellieri non permettendo alcuna lettura alternativa della dimensione lavorativa e dello scambio economico. In realtà dono e interesse riescono a interagire inoltre se il dono si inserisce nel mercato riesce a modificare il corso del paradigma economico. La dicotomia tra dono e mercato, è presente anche nella riflessione condotta da Lewis Hyde nelle pagine di Il dono. L’autore trae stimolo da alcuni studi del settore antropologico. In particolare, dedica grande attenzione alle formulazioni di Marcel Mauss. Hyde considera il nesso tra fenomeno di donazione e pratica artistica integrando l'aspetto sociale ed esteriore con quello individuale e interiore. Hyde, a differenza di Godbout, propone uno sguardo da dentro della pratica artistica, a partire da una conoscenza diretta dell'esperienza di creazione. Hyde tiene presente non solamente quei doni che caratterizzano la vita interiore dell'opera, come il talento, l'intuizione e l'ispirazione, ma considera anche alla vita esteriore cioè quando l'opera d'arte è ormai uscita dalle mani del suo autore. La creazione artistica viene ricevuta come si riceve un dono. Il dono che un’artista ci fa tramite la sua opera può risvegliare il nostro perché l’opera d’arte si rivolge a una parte di noi stessi che è essa stessa un dono e non una acquisizione. Hyde, definisce il dono collocando la gratuità imprevedibile e incontrollabile del dono all'interno di un contesto relazionale e comunitario. La circolazione del dono però non deve essere ridotta a una reciprocità simmetrica (lo schema di Mauss) ma deve essere una reciprocità positiva dove i doni restano tali e non se ne ricava un profitto. Vi è una circolazione dei doni in una prossimità con il “terzo incluso” tematizzato da Gabellieri. Pertanto la reciprocità è una sorta di scambio di doni, ma ne costituisce la forma più semplice. Il dono si muove seguendo una forma circolare, e due persone non bastano per formare un circuito, questo è il motivo per cui la maggior parte delle storie di doni hanno come minimo tre partecipanti Il terzo di cui parla Hyde non ha un valore semplicemente quantitativo, di allargamento rispetto al rapporto duale di donatore e ricevente, ma acquista un significato profondo che consente di uscire dalla logica di dono e contro-dono in direzione di una crescita e trasformazione. Questo significa che accanto a quelli che l'autore definisce doni di margine, atti a segnare un passaggio da un luogo o da uno stato all'altro, vi sono i doni che costituiscono un agente effettivo di cambiamento. Si tratta del dono trasformativo, al cui interno si colloca la dimensione artistica e, più in generale, tutte quelle tipologie di donazione che, utilizzando la nozione scelta da Gabellieri e Godbout, costituiscono un dono di sé. Anche qui, è in gioco l'inversione del comune rapporto di donazione-ricezione-scambio, infatti l'esperienza è quella di ricevere un dono che trasforma e diviene generativo di donazione. Cioè colui che riceve il dono restituisce al donatore solo la gratitudine di poter donare a sua volta. In questo dinamismo si inserisce l'esperienza artistica. Infatti l'artista dona la propria opera e il dono offerto dall'artista costituisce un agente di trasformazione che stimola la gratitudine, il riconoscimento e la donazione. Ora la dimensione del dono presente nell’arte si oppone alla dimensione razionale, il logos, la cui funzione analitica e riflessiva investe l'ambito economico e, il lavoro, collocando il dono a margine della società. Il dono, con la sua natura sintetica, coincide con il valore d'uso, il cui apprezzamento non ha prezzo, contrapponendosi allo scambio di merci che stabilisce il valore di mercato. Come per Godbout e diversamente da Gabellieri, il lavoro si inserisce in quella sfera segnata dalle transazioni di mercato, distinguendosi nettamente dall'arte che, appartiene tanto all'economia di dono quanto a quella di mercato ma per la quale solamente la prima risulta essenziale. Tuttavia, il fatto che Godbout ammetta il rapporto che l'artista intrattiene con le due economie cioè quella di mercato e quella del dono sembrano lasciare una maggiore apertura in direzione dell'articolazione tra i due piani, rispetto alle tesi di Godbout. Sull'arte come dono molte cose sono state dette così non stupisce il nesso tra arte e dono. Lo stesso non si può dire per il lavoro, naturalmente ricondotto entro la sfera dell’interesse e dell’utile. Il dono di sé di cui parla Gabellieri deve fungere da stimolo per un ripensamento che investa la donazione e tutte quelle esperienze di creazione nelle quali «l'uomo si dona all'uomo». Il tentativo di aprire un dialogo con quelle riflessioni che si sono fatte carico della natura donativa dell'arte vuole essere uno stimolo a concentrare lo sguardo sulla prossimità di posizioni eterogenee, anziché soffermarsi sulla soglia delle loro divergenze, al fine di trovare possibili aperture in direzione di obiettivi comuni.