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F. Montanari, F. Montana, Storia della letteratura greca, Sintesi del corso di Letteratura Greca

Riassunto del manuale di letteratura greca

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 08/03/2021

Babina______
Babina______ 🇮🇹

4.6

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Scarica F. Montanari, F. Montana, Storia della letteratura greca e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Greca solo su Docsity! Età arcaica L’epica 1.Omero e l’«èpos» eroico 1.1 Cominciando dalle origini del mondo L’epica greca arcaica raccontava i miti degli dèi e degli eroi, cioè la “storia sacra” della cultura e del popolo ellenico. Questa storia cominciava dalle origini del cosmo delineando una cosmogonia e una teogonia, che fornivano le basi per una concezione del mondo e per una idea della divinità (cosmologia e teologia). A partire dal Chàos primordiale e dal formarsi di cielo e terra, la grande storia sacra comprendeva tutte le storie fino alla fine dell’età degli eroi, ossia fino all’estinguersi delle generazioni di coloro che discendevano da un antenato divino e uno umano, come Achille, Odisseo, Eracle, Giasone, Edipo, Agamennone. Dunque la materia dell’epica arcaica era l’intreccio delle saghe che furono per secoli argomento di canto, oggetto di racconto e di rappresentazione poetica. Gli aedi narravano storie che loro stessi e il loro pubblico conoscevano più o meno bene per antica tradizione. Per farlo, utilizzavano una tecnica compositiva costituita da una dizione poetica altamente formalizzata e imparata generazione dopo generazione. Le radici di questa lunga tradizione affondano nell’età micenea e attraversano i secoli del Medioevo ellenico: è questa la culla in cui sono nati i due grandi poemi, l’Iliade e l’Odissea. Senza dubbio erano esistiti poesia e canti prima dei poemi omerici, ma la storia della letteratura greca comincia di fatto con l’Iliade e l’Odissea. Una sintesi della “questione omerica” si può fare impostando due ordini di problemi: 1) come sono fatti i poemi, cosa contengono e come funziona la loro poesia 2) come e quando i poemi hanno assunto una forma simile a quella pervenuta, come si sono conservati e trasmessi fino a noi 1.2 «Iliade» e «Odissea»: i poemi e la poesia La materia dell’Iliade e l’Odissea è costituita dal racconto mitico che ruotava intorno alla guerra di Troia. Il cuore della vicenda stava nel fatto che Paride, figlio di Priamo (re di Troia), rapì Elena, moglie di Menelao (re di Sparta), fuggì con lei e tornò a Troia (o Ilio), città situata sulla costa nord-occidentale dell’Asia Minore. Menelao e suo fratello Agamennone raccolsero una coalizione di signori della Grecia, fecero una spedizione e assediarono la città per riavere Elena e le ricchezze sottratte da Paride. Grazie allo stratagemma del cavallo di legno escogitato da Odisseo, i Greci conquistarono Troia e fecero ritorno nelle loro patrie con varie vicissitudini, tra cui quelle di Odisseo narrate nell’Odissea. Sulla selezione del materiale narrativo abbiamo un giudizio di Aristotele, il quale afferma che l’eccellenza di Omero sta nella scelta di non rappresentare tutta la guerra, perché il racconto sarebbe stato troppo lungo e complesso, ma piuttosto di selezionare gli avvenimenti e scegliere il taglio dell’azione in modo che fosse unitaria e compiuta. I contenuti dei due poemi hanno sono di portata assoluta  vede l’uomo di fronte ai grandi temi della vita, della morte e del destino individuale, il divino, gli dèi, la religione, la guerra, l’amicizia e l’amore; mondi remoti, duelli, viaggi, mostri di terra e di mare, eroi, divinità e donne diventati figure-simbolo del nostro immaginario collettivo. L’Iliade (circa 16.OOO versi) non racconta tutto lo svolgimento della guerra di Troia: il poema si incentra su un episodio accaduto alla fine del nono anno di guerra, con un’azione della durata di circa cinquanta giorni. Nel proemio ci viene detto il tema che costituisce il filo conduttore della vicenda: l’ira di Achille, causata dall’arroganza del comandante Agamennone. Achille è l’eroe che ha scelto un’esistenza breve e illustre invece di una vita lunga e oscura: questo è il suo destino, una scelta che la madre Teti conosce e favorisce con il suo aiuto. Nonostante il rancore lo trattenga temporaneamente fuori dalla guerra, suo ambito naturale, Achille non può andarsene e abbandonare il campo  dopo i diversi rinvii egli lascia da parte l’ira per compiere il suo destino di gloria e quello del tragico fato di Troia. L’esito fatale dell’episodio, entro i confini del poema, è l’uccisione da parte di Achille del più grande eroe troiano, Ettore figlio di Priamo e fratello di Paride. L’Iliade è sì il poema di Achille, ma anche un poema policentrico, nel quale sono presenti numerosi coprotagonisti. Espedienti come riprese, preparazioni, ritardi, legami a distanza permettono di tenere insieme le diverse sezioni narrative. Soprattutto a partire dall’XI libro c’è una stretta connessione tra gli avvenimenti: il piano di Zeus, enunciato all’inizio, porta al ferimento dei maggiori capi achei e Achille chiama Patroclo per mandarlo a prendere notizie; Patroclo entra in battaglia e uccide Sarpedone, Ettore uccide Patroclo per vendicare Sarpedone, e allora Achille rientra in battaglia per vendicare Patroclo, uccidendo Ettore. I richiami al piano iniziale ricordano che questa è la volontà di Zeus che, spinto da Teti, madre di Achille, voleva far prevalere Ettore e i Troiani fino a quando l’eroico figlio non fosse tornato sul campo. L’Odissea (circa 12.OOO versi) è il poema del ritorno a casa di Odisseo, l’ultimo degli eroi di Troia a tornare in patria dopo la distruzione della città. In questo caso Odisseo è il protagonista, benché non manchino personaggi di grande rilievo. La guerra è finita da dieci anni, gli altri reduci sono tornati alle loro case o periti nel ritorno: solo Odisseo, che manca da Itaca ormai da venti anni, è ancora trattenuto lontano e costretto ad affrontare un’interminabile serie di vicissitudini a causa dell’odio di Poseidone. L’inizio è in medias res  il figlio Telemaco decide di andare in cerca di notizie. All’apertura, dopo otto anni trascorsi nell’isola di Ogigia presso la ninfa Calipso, Odisseo ottiene di partire per tornare in patria, ma naufraga e giunge all’isola dei Feaci, dove, ospite nella reggia del re Alcinoo, racconta le avventure cui è andato incontro da quando ha lasciato Troia. Nei Apòlogoi (Racconti) dei canti IX-XII, Odisseo stesso narra quanto gli è accaduto dopo la partenza: solo a questo punto il pubblico viene a conoscenza delle avventure dell’eroe. È un vero e proprio flashback, che spezza la linearità del tempo narrativo e mostra una capacità di strutturare la narrazione evoluta rispetto al più semplice sviluppo dell’Iliade  l’Odissea è stata vista come testo/forma archetipica del romanzo. Il filo narrativo della Telemachìa, dedicato al viaggio di Telemaco alla ricerca di notizie del padre, è stato lasciato in sospeso nel IV libro: viene ripreso nella seconda metà del poema, quando, dopo la partenza di Odisseo dall’isola dei Feaci, l’azione porta a riunire i temi narrativi fino all’esito finale. Tornato a Itaca anche Telemaco e riunitosi a Odisseo (libro XVI), si compiono infine la vendetta e la riconquista. Nell’opera sono presenti soluzioni stilistiche proprie della tradizione orale, che riguarda le forme dell’espressione e le forme del contenuto.  forme dell’espressione, l’aspetto più rilevante dello stile epico è quello della “formula” e del relativo “sistema formulare”, oggetto di studio della critica oralistica. La formula è un’espressione regolarmente impiegata nelle stesse condizioni metriche per esprimere una certa idea (esanime + epiteto di un personaggio). Nella poesia omerica il sistema formulare è caratterizzato dai principi di economia e di esaustività: per esprimere una certa idea in una data condizione metrica esiste una sola formula (economia); esiste una formula per ogni condizione metrica e per ogni idea essenziale necessaria per la composizione (esaustività). Nella fase di composizione e trasmissione orale, grazie al sistema formulare, gli aedi potevano ricordare con maggior facilità canti tradizionali. o La lingua e il metro dei poemi omerici Nella dizione epica bisogna considerare due elementi inseparabili: la lingua e il metro. Una delle caratteristiche più evidenti dell’epica omerica è la presenza di un apparato divino, fatto di numerose divinità che sono presenti in frequenti scene sull’Olimpo o sulla terra. Vengono rappresentati personaggi ed episodi appartenenti a un mondo sovraterreno, che assiste allo svolgersi della vita umana e vi interviene attivamente. Il mondo omerico risulta così popolato di entità divine e di eroi e le azioni di questi ultimi si intrecciano con la volontà delle prime. Nei poemi si dispiega la religione olimpica: entrano in campo quasi tutti gli dèi maggiori del pantheon ellenico  agli dèi più importanti si affiancano molte divinità minori e una serie di esseri mostruosi e fantastici. Dalla volontà divina dipendono in buona parte le sorti umane: così, lo sviluppo dell’Iliade è retto dal piano voluto da Zeus dietro richiesta di Teti; e l’Odissea inizia con un’assemblea degli dèi, nella quale, in seguito all’intervento di Atena, si decide che Odisseo deve tornare a casa, malgrado l’ostilità di Posidone. La società divina è delineata sulla falsariga di quella umana e si basa su reciproci rapporti di forza. Il capo supremo è Zeus, signore degli dèi e degli uomini, che si è impadronito del potere dopo lunghe e terribili lotte. Zeus è figlio di Crono e di Rea; egli è il dio del cielo, mentre il fratello Posidone ha avuto la signoria sul mare e l’altro fratello Ade quella sugli inferi. Le altre divinità formano una sorta di consiglio. È importante notare l’antropomorfismo che caratterizza l’immagine omerica degli dèi. Nel V sec. a.C., lo storico Erodoto scrisse che i Greci impararono da Omero e da Esiodo a conoscere le loro divinità, perché questi poeti crearono le genealogie degli dèi e diedero loro nomi e appellativi, divisero le prerogative e descrissero il loro aspetto  in una cultura la cui religione non possedeva testi sacri e che invece riconosceva ai poeti il ruolo di teologi e maestri dell’educazione. Un aspetto sorprendente è la presenza nell’epica omerica di una vena comica che investe anche la rappresentazione degli dèi. Un caso celebre è nel banchetto alla fine del I libro dell’Iliade, dove fra Zeus ed Era nasce un litigioso battibecco coniugale e l’atmosfera tesa è riportata a sorridente serenità dal ridicolo zoppicare di Efesto improvvisatosi coppiere. Non si parla di mancanza di rispetto per la religione né tanto meno di una volontà blasfema: è piuttosto un tratto che rientra nella rappresentazione antropomorfica degli dei. Le caratteristiche distintive degli dèi rispetto agli uomini-eroi sono l’immortalità e i poteri sovrannaturali, la loro maestosità, la loro capacità di mutare il corso degli eventi e condizionarne l’esito. L’interazione fra uomini e dèi è essenziale nella visione del mondo offerta dai poemi: esseri divini sono ovunque in azione, interagiscono nelle vicende terrene e instaurano con i mortali rapporti di favore o avversione, determinando il destino dell’individuo e il corso degli eventi. Però la concezione di un destino voluto e imposto dagli dèi coesiste con l’idea di un Fato che sta al di sopra persino di Zeus e lo può condizionare. Gli dèi omerici, compreso Zeus, non sono onnipotenti né onniscienti. Caratteristico del rapporto uomini- dèi in Omero è il fatto che azioni appartenenti alla sfera intellettuale e morale, come pure accadimenti attribuibili a impulsi umani o al caso, siano riportati all’intervento diretto e concreto degli dèi. Una modifica nella condizione psicologica e nello stato d’animo di un personaggio è di solito descritta e spiegata come intervento divino che “infonde” o “mette in cuore” qualcosa a qualcuno. Questo non significa però assenza di caratterizzazione dei personaggi  le figure dell’epica omerica hanno una loro precisa fisionomia. Il fatto che alla motivazione umana dell’agire si accompagni spesso una motivazione divina, significa che un’azione è insieme scelta dell’uomo e realizzazione della volontà di un dio: questo aspetto ci conduce al problema etico della responsabilità. Un caso emblematico è offerto da Agamennone che, riconciliandosi con Achille afferma di non essere lui il colpevole della contesa scoppiata fra loro e ne addossa la responsabilità a Zeus, alla Moira, all’Erinni e alla funesta Ate. Questa duplicità e compresenza di motivazioni limita il peso di responsabilità degli uomini per le conseguenze del loro agire, anche se non si può certo dire che manchi l’idea della libertà individuale nella decisione: nel I libro dell’Odissea Zeus stesso afferma l’esistenza di una responsabilità degli uomini nelle decisioni e nelle colpe, lamentando che essi poi accusino gli dèi delle loro disgrazie. Sul piano etico e sociale, il problema per gli eroi è il rischio di perdere la considerazione pubblica, essenziale per il riconoscimento del loro valore e del loro onore. Nella società omerica sono stati individuati i tratti di quella che gli antropologi chiamano “civiltà di vergogna”: «Il bene supremo dell’uomo omerico sta nel possesso della timè, la pubblica stima […] La più potente forza morale nota all’uomo omerico non è il timor di Dio, è il rispetto dell’opinione pubblica, aidòs». Un elemento che si deduce dal confronto fra i poemi è che, pur restando fedeli a un’etica aristocratica, essi rivelano due diverse visioni e rappresentazioni del mondo. L’Iliade ci mostra una società in guerra: le battaglie fanno da cornice all’agire dell’eroe che si conquista la gloria affrontando il nemico. La dimensione etica dei personaggi è l’eroismo guerriero che si spinge fino alla morte gloriosa. Nell’Odissea la guerra è un ricordo mentre il tema del racconto è il ritorno in patria per recuperare i legami e gli affetti familiari; il tema degli amori riveste un ruolo importante nella narrazione. L’avventura del ritorno innalza sempre di più la figura dell’eroe che soffre affanni e tenacemente li supera con la forza e l’astuzia. Avventura nella quale gioca un ruolo importante il tema degli amori, il prevalere dell’amore per la sposa nelle tappe di un viaggio pieno dei più diversi incontri. Dunque vediamo che all’ideale della forza guerriera e della vittoria in battaglia, proprio degli eroi iliadici si contrappone, nell’Odissea, un’immagine eroica caratterizzata piuttosto dall’intelligenza dello stratagemma e della parola incarnata da Odisseo nell’affrontare ogni genere di prova. Anche per quanto riguarda la giustizia, il quadro della società omerica non è univoco né coerente. Non ci sono leggi scritte, ma le relazioni interpersonali sono rette da un insieme di norme, tradizionalmente sancite dalla comunità e il cui rispetto è sentito come garantito dagli dèi. Tuttavia, l’etica dell’onore e del pubblico riconoscimento comporta il fatto che la vendetta personale giochi un ruolo di primo piano nella riparazione di un torto subito e nella punizione di una colpa. Anche in questa sfera troviamo un’oscillazione fra la giustizia come ritorsione individuale e il riferimento a un’entità superiore, che emerge nelle occasioni in cui un personaggio rivolge una preghiera agli dèi. 1.4. Genesi, conservazione e trasmissione Le domande della questione omerica: come e quando l’Iliade e l’Odissea hanno assunto una forma simile a quella pervenuta, chi ne è stato responsabile, come si sono conservate e trasmesse fino a noi? La persona di Omero appare avvolta nella nebbia. Gli antichi credevano alla sua storicità, ma di fatto non sapevano nulla di fondato. In redazioni piuttosto tarde, ci è giunta una tradizione di biografie fittizie e prive di fondamento documentario. Varie sono le supposizioni: - il caso della patria, ruolo rivendicato da numerose città al fine di nobilitarsi, fra le quali spiccano Chio e Smirne; - le estrapolazioni basate sull’etimologia del nome Omero, interpretato come «ostaggio», «cieco» o altro. - la cronologia è costantemente riproposta: una minoranza pensa che il poeta sia stato testimone oculare della guerra di Troia, ma di solito si ritiene che sia vissuto più tardi. Dato che non abbiamo nulla per costruire un’identità storica e biografica di un aedo che corrisponda al nome di Omero, si può pensare - che “Omero” fosse in origine un nome fittizio, utilizzato dai Greci per i monumenti più importanti della loro cultura, - oppure che fosse davvero un aedo particolarmente famoso e dotato, magari proprio quello che mise mano almeno a uno dei poemi o addirittura a entrambi. Resta comunque il problema dell’esistenza o meno di un autore, chiunque fosse e comunque si chiamasse. Molti studiosi propendono per l’ipotesi che la fissazione dell’Iliade e dell’Odissea sia dovuta a un “autore” e per lo più si pensa che sia stato diverso per ciascun poema. La “questione omerica”, è in sostanza la storia dei tentativi di rispondere alla domanda di fondo su come sono nati i poemi, come si sono fissati, conservati e trasmessi. Da quando l’Iliade e l’Odissea furono fissate per mezzo della scrittura, iniziò la storia della loro trasmissione in esemplari scritti e copiati uno dall’altro. Possiamo prendere questo momento come punto chiave e distinguere la storia dei poemi in prima e dopo l’evento: ma come collocarlo? si possono individuare due orientamenti: 1. la fissazione scritta coincise con il momento di formazione dei poemi (VIII-VII sec. a.C.), forse per dettatura da parte di un aedo a uno scriba; 2. la fissazione scritta si realizzò più tardi (VI secolo?), dopo una fase di trasmissione orale di opere ormai più o meno stabilizzate. Le prime fasi della trasmissione dell’opera dovettero realizzarsi all’interno delle corporazioni professionali dei cantori detti rapsodi, depositarie del patrimonio epico che veniva recitato nelle feste e negli agoni: la consorteria degli Omèridi di Chio, che vantava una discendenza dallo stesso Omero, può aver giocato un ruolo particolare in questa fase. Secondo notizie antiche, la redazione si data al VI sec. a.C. ad Atene per volontà di Pisistrato e di suo figlio Ipparco, affinché i poemi fossero recitati alla festa delle Panatenee. Ma, per gli studiosi più strettamente “oralisti”, questa sarebbe stata la prima fissazione scritta dei poemi, in precedenza esistiti solo in forma orale. Tuttavia la fissazione scritta non comportò la fine di alterazioni del testo dei poemi, soprattutto a causa della loro straordinaria diffusione in innumerevoli copie: un certo grado di instabilità si riscontra non solo in età classica, ma anche in età ellenistica. Nel III-II sec. a.C. il testo dei poemi non era ancora definitivamente stabilito quanto al numero dei versi, benché si tratti di oscillazioni piccole  la fissazione definitiva del numero dei versi si dovette all’influsso dei filologi alessandrini e si trasmise praticamente inalterato nei manoscritti di età medievale che conservano l’Iliade e l’Odissea. I due poemi ci sono pervenuti divisi ciascuno in 24 libri o canti, divisione non originaria, ma anch’essa dovuta ai filologi di età ellenistica. L’inizio della questione omerica moderna viene fatto coincidere con i Prolegomena ad Homerum, pubblicati a Halle nel 1795 dal filologo tedesco FRIEDRICH AUGUST WOLF (1759-18Z4): si tratta di una convenzione legata alla storia della filologia classica. L’opera di Wolf è il primo tentativo di scrivere una storia della formazione dei poemi omerici attraverso una storia del testo, che egli traccia dalla nascita dei poemi fino al II sec. a.C. Wolf sostiene che i poemi non possono essere stati composti da un solo autore e che Omero non è mai esistito come persona storica: canti separati, dovuti a diversi aedi che non possedevano la scrittura, sarebbero stati composti e tramandati oralmente, finché furono riuniti e fissati nel VI secolo con la redazione di Pisistrato. La novità del suo saggio stava nell’uso del materiale che Jean Baptiste Caspar d’Ansse de Villoison aveva pubblicato (Venezia 1788) dai manoscritti dell’Iliade detti Veneto A e Veneto B: si trattava di scoli (note marginali) ricchi di informazioni sulla storia del testo omerico in età ellenistica e imperiale e sull’opera dei filologi alessandrini. Wolf aprì la strada alla storia della critica analitica dell’Ottocento e dei decenni iniziali del Novecento, dominata dalla grande filologia classica tedesca. Si sviluppò un’analisi filologico-testuale, il cui scopo, era di andare alla ricerca di una ricostruzione dei vari stadi che avrebbero portato alla configurazione finale. La ricerca si articolò in una grande varietà di ipotesi ricostruttive: - teoria dei canti separati, che riteneva l’Iliade e l’Odissea fossero nate da diversi singoli canti uniti insieme da un redattore - teoria della compilazione, secondo cui i poemi sarebbero nati dall’unione di alcune preesistenti epiche più brevi - teoria del nucleo, secondo cui i poemi sarebbero derivati da un nucleo originario espanso con aggiunte successive - teoria delle interpolazioni, secondo cui nell’autentico poema originario sarebbero stati introdotti gruppi di versi non autentici. Negli anni Trenta del Novecento nacque la corrente denominata Neoanalisi, secondo cui i poemi omerici sono frutto della creazione unitaria di un autore. Inoltre questa corrente indaga i precedenti dei poemi come “fonti”, cioè come veri e propri poemi già compiuti e fissati, che il poeta dell’Iliade e quello dell’Odissea conoscono, utilizzano, rimodellano e da cui traggono spunti, materiali e ispirazioni. Sempre negli anni Trenta si colloca la nascita della teoria orale di Milman Parry. Oltre ai poemi di contenuto mitologico-narrativo, abbiamo testimonianze su una produzione poetica di contenuto catalogico, didascalico o locale. 2. Esiodo e l’«èpos» didascalico Esiodo è il primo autore della letteratura greca che pronunci il proprio nome e parli di se stesso in prima persona. Nessun aedo dell’epica era mai uscito dall’anonimato  l’affermarsi dell’individualità del poeta porta alla rivendicazione del suo ruolo nella società. Esiodo visse fra la seconda metà dell’VIII secolo e la prima metà del VII. Nelle Opere racconta che il padre da Cuma, colonia eolica dell’Asia Minore, si trasferì in Beozia e morendo lasciò ai figli un’eredità, che fu causa di una contesa giudiziaria fra Esiodo e suo fratello Perse. Il contesto economico esiodeo è quello delle attività agricole e dello smercio dei prodotti. Il contesto sociale è dominato da un’aristocrazia fondiaria, ceto cui appartengono “i re mangiatori di doni” che compaiono nelle Opere in funzione di giudici. In questo poema Esiodo ci informa anche della sua esperienza di navigazione  si recò a Calcide nell’isola di Eubea, per partecipare a dei giochi funebri: con un inno vinse la gara poetica ed ebbe in premio un tripode. Di Esiodo si sono conservati per intero due poemi di sicura attribuzione: la Teogonia e Le opere e i giorni.  La Teogonia si apre con un lungo proemio costituito da un inno alle Muse, nel corso del quale si racconta l’episodio in cui Esiodo incontrò le dee sul monte Elicona. Esiodo, consegnando loro il ramo d’alloro, istituirono con lui un rapporto privilegiato e gli conferirono un’investitura a poeta, strettamente legata al compito di dire la verità. Ha quindi inizio il racconto della cosmogonia, seguito dall’esposizione delle generazioni divine sino alla definitiva affermazione degli dèi dell’Olimpo: Urano si unisce a Gea generando i Titani  Urano viene poi sconfitto dal figlio Crono. Quest’ultimo genera con Rea i discendenti dei Titani, fra cui Zeus, il quale detronizza Crono e afferma il definitivo ordine divino, quello degli dèi Olimpi. Il poema narra poi il mito di Prometeo, il Titano che ha fatto dono del fuoco agli uomini: Zeus punisce Prometeo (cui un’aquila divorerà il fegato fino a quando Eracle non la ucciderà) e gli uomini (fra i quali il dio invia la donna portatrice di mali, Pandora). L’opera si conclude con l’enumerazione degli eroi nati da unioni fra una dea e un uomo mortale. Gli ultimi due versi della Teogonia sono una nuova invocazione alle Muse e annunciano il tema delle discendenze delle donne mortali unitesi a un dio: un frammento di papiro ha confermato che questo era l’inizio del Catalogo delle donne, un’opera la cui attribuzione a Esiodo è ancora discussa.  Le opere e i giorni si aprono con un proemio contenente l’invocazione alle Muse. Poi Esiodo si rivolge al fratello Perse, destinatario dell’opera, per affermare che gli dirà cose vere: annuncia così il suo carattere di veridicità, che il poeta rivendica come propria prerogativa. La prima parte (Le opere) si articola in una lunga sezione mitica che getta le basi teologiche e concettuali della tesi principale: la necessità materiale e morale del lavoro per gli uomini. Nella prima sezione si snodano il concetto di cattiva Eris («Contesa») che genera litigi, il mito di Prometeo e Pandora e il mito delle età secondo il quale alle stirpi dell’oro fecero seguito quelle dell’argento, del bronzo, degli eroi e del ferro. La seconda sezione si sviluppa attorno alla riflessione sulla giustizia e sul lavoro come fondamenti del vivere, e si conclude con il complesso di consigli riservati a Perse. L’ultima parte del poema (I giorni) è una breve sezione che molti studiosi hanno ritenuto non autentica: contiene l’elenco dei giorni fausti e infausti per attendere a varie operazioni o attività della umile e vita quotidiana. L’analisi e la comprensione della struttura complessiva dei due poemi hanno posto diverse difficoltà, soprattutto in rapporto al filo conduttore e all’unitarietà. Un numero impressionante di figure divine e semidivine popola i versi della Teogonia, con l’ambizione di raccontare la storia dell’universo. La tematica appartiene alla tradizione della poesia epica: ma in Esiodo abbiamo un grande sforzo di descrivere in modo unitario il mondo degli dèi e il mondo umano attuale, che costituisce forse la più evidente novità rispetto alla rappresentazione omerica: uno sforzo teologico e cosmologico di cui abbiamo qui il primo esempio nella storia del pensiero greco. Poggia su queste basi il ruolo supremo di Zeus garante della giustizia nelle Opere, dove il centro d’interesse è diventato l’uomo e il suo vivere nel mondo. Dai fondamenti teologico- cosmogonici siamo passati sui terreni dell’antropologia e dell’etica: non perseguire i beni attraverso l’inganno e la violenza ma procurarsi il necessario per vivere con l’onesto lavoro. Nonostante l’immagine tradizionale di Esiodo poeta dei contadini, che dà insegnamenti sul lavoro dei campi, è difficile pensare che le Opere potessero servire davvero come manuale pratico a chi lavorava la terra. La valenza didascalica del poema è piuttosto quella etica, volta a dare un fondamento morale alla necessità e virtù del lavoro. Aspetti innovativi della concezione poetica di Esiodo L’investitura ricevuta dalle Muse nella Teogonia rientra nella tradizione dell’origine divina della poesia, ma il rapporto diventa personale e individuale. Egli afferma qui la propria posizione privilegiata  parla di lui in particolare, non tutti i poeti indistintamente. Nel proemio della Teogonia, in due occasioni Esiodo fa riferimento alla poesia come diletto, oblio dei mali e consolazione degli affanni, riprendendo i fondamenti essenziali della poetica omerica. Ma c’è un elemento in più nel programma poetico esiodeo: l’esigenza che la poesia sia veritiera. Se la Teogonia rientra nella tradizione dei contenuti cosmogonico-teogonici e delle storie divine, le Opere battono strade del tutto diverse. Per le opere esiodee il confronto più diretto resta quello con il precedente dell’epica eroica. Dal punto di vista dei contenuti, essi rimandano ai canti epici, con le sue vicende mitiche, gli dèi e gli eroi. Il pantheon esiodeo non è diverso da quello omerico per quanto riguarda le figure degli dèi, ma diversa risulta l’accentuazione dell’aspetto etico in rapporto con l’idea di giustizia. Oltre a questo, gli studi hanno messo in rilievo connessioni con culture del Vicino Oriente  le ricerche confermano che il contesto delle varie culture del Mediterraneo orientale gioca un ruolo importante come retroterra del quale si è nutrita la cultura greca. Per quanto riguarda i mezzi espressivi, la base della dizione esiodea è costituita in larga parte dalla lingua e dal sistema formulare dell’epica omerica; anche il metro è lo stesso. Questa constatazione ha posto il problema di una possibile origine orale delle opere di Esiodo. Bisogna però valutare le differenze fra la dizione omerica e quella esiodea, come la diversità dei temi poetici affrontati e il modo di trattare anche temi tradizionali. Tutto questo induce a pensare che Esiodo dipenda da un filone di poesia orale greco- continentale, distinta e autonoma rispetto all’epica ionica dalla cui tradizione proviene Omero. D’altra parte, gli elementi non omerici presenti nell’opera esiodea potrebbero essere visti come innovazioni del patrimonio comune della dizione formulare. Tali innovazioni dunque potrebbero essere i risultati di uno sviluppo di questa lingua poetica; oppure potrebbero essere viste come sforzi di adattamento di un mezzo nato in funzione di certi contenuti e piegato a esprimere contenuti e pensieri nuovi. Un’altra visione, più probabile, è che tali innovazioni potrebbero essere viste come un insieme di entrambi gli elementi nelle mani di un poeta che trova una propria strada su un già antico terreno tradizionale di canti esametrici. Dall’antichità ci è pervenuto un corpus o insieme di opere attribuite a Esiodo, la cui autenticità è in dubbio o esclusa dai moderni. Come esiodeo ci è stato tramandato anche un poemetto dal titolo Scudo o Scudo di Eracle, che racconta l’episodio nel quale Eracle uccise il gigante Cicno, figlio di Ares e violento uccisore di viaggiatori. I primi versi narrano della mortale Alcmena che, unitasi al dio Zeus, diventa madre di Eracle. Senza un nesso narrativo, a questo inizio è bruscamente giustapposto il racconto della lotta di Eracle contro Cicno, entro il quale si trova un’ampia descrizione dello scudo di Eracle, chiaramente ispirato alla descrizione dello scudo di Achille nel XVIII libro dell’Iliade. L’autenticità dello Scudo era oggetto di discussione già nell’antichità. La prima parte rientra nel problema del Catalogo delle donne: potrebbe essere stata estratta da esso oppure potrebbe essere stata composta per esservi inserita. La seconda parte è comunemente ritenuta non esiodea e datata tra la fine del VII secolo e l’inizio del VI. La fortuna della produzione esiodea è paragonabile a quella dei poemi omerici: come questi divennero presto modello della poesia mitico-narrativa, così le opere di Esiodo diventarono un modello per le composizioni di contenuto mitologico-cosmologico, di struttura catalogica e di intento didascalico. Questo spiega perché fin dall’età arcaica passarono sotto il nome di Esiodo testi che di Esiodo non sono. Omero ed Esiodo furono accomunati come i più antichi maestri e il rapporto di confronto-competizione dei testi esiodei e di quelli omerici è testimoniato di frequente. Emblematico di questo rapporto è l’Agone di Omero ed Esiodo, in cui si immagina che i due poeti si incontrino in una gara poetica e che Esiodo consegua la vittoria. L’operetta è stata scritta nel II sec. d.C. o più tardi. Fa probabilmente riferimento all’episodio dei giochi di Amfidamante, cui Esiodo allude nelle Opere: in questa sede però il poeta non accenna alla presenza di Omero. D’altra parte, alcuni versi attribuiti a Esiodo alludono a una circostanza in cui egli stesso e Omero si sarebbero incontrati e avrebbero cantato a Delo. Poesia didascalica Nel contesto della civiltà letteraria greca arcaica e classica, parlare di poesia didascalica richiede qualche precisazione. Innanzitutto, una categoria autonoma fu operante solo in età ellenistica: in precedenza, per la lingua, il metro, lo stile e i contenuti, un poeta come Esiodo rientrava assolutamente nell’alveo dell’epica. L’altro fatto è che tutta la poesia aveva lo scopo di insegnare e ogni poeta era inteso come maestro ed educatore: in questo senso “didascalica” era la poesia nel suo complesso. Nel V sec. a.C., con i Sofisti, “professionisti” del sapere retorico, si assiste al tentativo di sostituire l’insegnamento filosofico a quello tradizionale dei poeti. La riflessione sull’uso pedagogico della poesia prosegue, nella prima metà del IV sec. a.C., con il filosofo Platone, che nega decisamente ai poeti il ruolo predominante avuto fino ad allora per quanto riguarda la trasmissione di conoscenze e la funzione di educare. 3. La lirica 1. Occasioni e generi, luoghi e contesti Sotto la denominazione di “lirica” si comprende tradizionalmente tutta la poesia che non è né epica né drammatica, una quantità di forme diverse che gli antichi distinguevano sulla base delle occasioni e del contesto in cui erano eseguite, delle modalità di esecuzione e del metro in cui erano scritte. L’espressione greca lyrikè (pòiesis) significa «poesia eseguita con l’accompagnamento della lỳra» e fu usata a partire dall’età ellenistica: la sua fortuna successiva fino a noi è dovuta alla sua assunzione nel latino. I testi ci sono giunti per lo più in frammenti e inoltre ne conosciamo esclusivamente la componente testuale, mentre sono per noi perduti gli altri aspetti della performance come la componente ritmico- musicale, la modulazione della voce nel canto, la coreografia. Come l’epica, infatti, anche le opere della lirica erano destinate a una fruizione “aurale”, cioè attraverso l’ascolto. Questo carattere performativo è in relazione con il contesto sociale della pòlis, al cui interno si vanno definendo le differenze fra componenti civiche: - i ricchi proprietari terrieri dell’aristocrazia tradizionale - l’emergente ceto mercantile Nella società omerica la poesia epica era un elemento di svago esclusivo del ceto aristocratico, assumendo perciò contenuti rispondenti alle attese dei destinatari. In età arcaica invece, il più articolato quadro sociale e politico portò allo svilupparsi di una poesia multiforme, che rispondeva a istanze sociali e ideologiche diversificate. Assunsero perciò un ruolo determinante le eterìe («compagnie»), gruppi di aristocratici che si formavano in base all’appartenenza sociale e al credo politico e che trovavano nel simposio – la bevuta serale che seguiva il banchetto in una casa privata – il loro momento istituzionale di aggregazione, basato sui valori condivisi e sull’autoidentificazione collettiva del gruppo. Ipponatte Ipponate visse nel VI secolo e fu membro di una famiglia aristocratica di Efeso, che dovette però abbandonare la città per contrasti con i tiranni locali. Anche per la biografia di Ipponatte sono state ricavate informazioni dai frammenti poetici. Giambi ingiuriosi parlano dell’inimicizia verso gli scultori Bupalo e Atenide, che avevano realizzato un ritratto caricaturale del poeta: secondo la tradizione antica, gli attacchi di Ipponatte avrebbero persino indotto i due al suicidio. Dai frammenti pervenuti si evince la preferenza per temi tratti dalla quotidianità e dalla vita privata. Accanto ai versi giambici, rimangono epodi, tetrametri trocaici e poesia esametrica. Il tratto stilistico che più contraddistingue questa poesia è il carattere “mimetico”, che consiste nel mettere in caricatura situazioni e ruoli diversi. Di pari passo va la lingua ipponattea, che prende come base lo ionico d’Asia e lo arricchisce con prestiti lessicali dalle parlate non greche dell’Asia Minore, con forme gergali, hàpax e neologismi. Il tema dell’èros ricorre in numerosi passi, più volte espresso con metafore scurrili e un linguaggio di registro basso. Altri versi sono incentrati sul tema della povertà a cui il poeta è costretto e di cui si lamenta con gli dèi  anche per questo si ha avuto a lungo un’immagine di Ipponatte come poeta “straccione” o “scostumato”. In realtà la sua grande capacità caricaturale utilizza la finzione letteraria per fare il verso ai comportamenti umani. Si tratta di una scelta poetica compatibile con il codice della poesia giambica, di cui sono proprie l’invettiva e l’aggressività demistificante. Gli antichi, interessati a individuare l’inventore di ogni forma o genere letterario, attribuivano al poeta di Efeso l’invenzione della parodia, cioè il rovesciamento comico di modelli letterari seri. 3. L’elegia Nata presumibilmente in Ionia nell’VIII sec. a.C., l’elegia era diffusa nella penisola ellenica già nel secolo successivo. Il termine èlegos, di origine orientale, sembra significare «strumento a fiato». Almeno dal V secolo, èlegos è il canto di lamento accompagnato dall’aulòs (lo strumento greco a fiato per eccellenza): tuttavia l’elegia arcaica a noi nota mostra solo raramente un simile carattere lamentoso, e accoglie anzi contenuti di tipo molto diverso. Il metro è il distico elegiaco (un esametro seguito da un pentametro): si tratta di una struttura estremamente flessibile e discorsiva, adattabile a una grande varietà di contenuti e di toni. L’elegia assume i mezzi espressivi della dizione epica costituita sulla base dialettale ionica. Il rapporto dei poeti elegiaci con la tradizione epica ed epico-didascalica è forte anche sul piano tematico; tuttavia, come nella poesia giambico-trocaica, troviamo i riflessi di un mondo in trasformazione sociale e di un maggiore pluralismo di mentalità e punti di vista. Alcune delle più antiche elegie note sono di contenuto militare e costituiscono esortazioni al valore in vista della battaglia, secondo il tradizionale codice etico aristocratico (elegia parenètica, cioè «esortativa»). Sono attestati contenuti politici, come l’invito a comportamenti virtuosi e l’esposizione di “manifesti” etici e politici. Alcuni poeti scelsero la forma elegiaca per svolgere temi civili e filosofici o legati alla condizione dell’uomo; altri svilupparono argomenti etico-didascalici, gnomici e amorosi. La parenesi militare nell’ambito della produzione elegiaca è rappresentata per noi dai frammenti dei poeti Callino e Tirteo. Tirteo Forse originario di Sparta, è ricordato per avere spronato gli Spartani con le sue elegie nella seconda guerra messènica (metà del VII secolo). Fra suoi versi superstiti si devono ricordare quelli appartenenti all’elegia intitolata Buon governo (Eunomìa), nella quale si ripercorreva la storia di Sparta dalle origini mitiche al presente. Restano lunghi brani dalla raccolta intitolata Esortazioni, incentrati sulla virtù guerriera. L’etica aristocratica dell’eroe omerico (combattimento corpo a corpo con il nemico) è superata: le parole di Tirteo presuppongono l’ordinamento militare oplitico, cioè la falange di cittadini armati e schierati a difesa della pòlis. La lingua di Callino e di Tirteo è lo ionico della dizione omerica, con qualche elemento caratterizzante: - nei versi di Callino si riconoscono forme proprie del dialetto locale di Efeso - nei frammenti di Tirteo - - si osservano forme doriche dovute alla situazione e al contesto in cui Tirteo operava: il simposio aristocratico spartano Solone Nell’elegia politica di Solone si possono riconoscere elementi di affinità con la poesia parenetica. Egli fu un uomo politico, nato intorno al 640 a.C. da famiglia nobile ma in condizioni economiche non più floride, affrontò dei viaggi forse allo scopo di ricostituire il patrimonio con il commercio. Le sue doti politiche e poetiche si mostrarono occasione della lunga contesa fra Megara e Atene per il possesso dell’isola di Salamina: per aggirare la legge ateniese che vietava a chiunque di rinfocolare il conflitto, Solone, fingendosi pazzo, si recò nell’agorà e declamò un’elegia di esortazione a riprendere la lotta per l’isola. Durante il suo arcontato fu designato come arbitro super partes nel conflitto sociale che vedeva la città spaccata fra grandi proprietari terrieri e contadini non abbienti. Egli promulgò riforme istituzionali, economiche e sociali allo scopo di risolvere il conflitto; all’indomani delle riforme lasciò Atene e ne restò lontano per un decennio, per sottrarsi a recriminazioni e tentativi di corruzione. È significativo che una figura di tale rilievo politico affidasse a componimenti poetici la comunicazione del proprio sentire ideale. Della sua produzione elegiaca rimangono molti versi che testimoniano l’intento di indirizzare la mentalità e i comportamenti dei concittadini.  Nell’elegia Buon governo Solone nega che la cattiva situazione politica della città provenga dagli dèi, attribuendola invece all’egoismo sociale degli uomini.  Nell’elegia Alle Muse lo sguardo si allarga a una riflessione sulla giustizia a livello etico e teologico. Il componimento si apre con la preghiera alle Muse perché procurino al poeta la gioia dagli dèi e la buona fama dagli uomini; prosegue poi con l’enunciazione del tema: la ricchezza è una buona cosa, tranne che quando si basa sull’ingiustizia e sulla violenza.  In altri frammenti elegiaci il tema politico è mirato alla spiegazione dei motivi che avevano ispirato l’attuazione delle riforme, riconducibili al fine dell’equità sociale: un atteggiamento di autogiustificazione e di spiegazione delle proprie ragioni che contraddistingue anche la produzione giambico-trocaica superstite di Solone, nella quale il poeta rivendica il fatto che le riforme hanno evitato la guerra civile contro i nobili e l’instaurazione di una tirannide. Una poesia così rivolta all’attualità sociale e politica coniuga, nei contenuti e nell’espressione, le caratteristiche del codice tradizionale del genere (il dialetto ionico di impronta omerica, il lessico esiodeo) con le esigenze dettate da istanze concrete. Mimnermo Il tema della guerra, connaturato all’elegia parenetica, ricorre in chiave diversa in alcuni frammenti poetici di Mimnermo, nativo di Colofone o di Smirne, città ioniche prossime alla costa dell’Asia Minore, vissuto nella seconda metà del VII secolo.  Smirneide è una raccolta che comprendeva elegie su episodi della guerra combattuta dagli abitanti di Smirne contro i Lidi  la scelta tematica è innovativa perché riguardava eventi storici verificatisi mezzo secolo prima. Nei versi conservati riusciamo a intravvedere gli elementi di un’elegia di tipo narrativo, con stretti rapporti formali e di contenuto con l’epica  la differenza rispetto all’epica, è che gli eventi rievocati non stanno nel passato lontano e assoluto, ma sono memorie vicine nel tempo. L’elegia di Mimnermo esibisce una tonalità che oggi definiremmo esistenziale e sentimentale o intimista.  Alcuni celebri frammenti riflettono sulla condizione umana, restituendoci una concezione pessimistica secondo la quale gli uomini godono di una breve stagione di felicità e di piacere, la giovinezza, trascorsa la quale rimangono i mali e i dolori della vecchiaia che prelude alla morte. Teognide di Megara La poesia elegiaca di Teognide ci porta in una dimensione esistenziale e privata dell’individuo, in particolare per quanto riguarda l’esperienza dell’èros e del piacere. Teognide visse nel VI secolo in area dorica, da cui la presenza nei componimenti di dorismi inseriti nel tessuto linguistico ionico richiesto dal genere. Sotto il suo nome ci sono pervenuti per tradizione diretta, attraverso i codici medievali, due libri di lunghezza molto diseguale:  il primo, oltre 1200 versi, contiene componimenti di argomento politico e morale, incentrati sulla denuncia della degenerazione dei costumi e il rimpianto per i valori tradizionali. La causa di questo degrado è individuata nell’ascesa sociale di individui non nobili, che propongono un modello di vita antitetico a quello aristocratico. Il pretesto letterario per l’esposizione dell’etica tradizionale e per l’affermazione della sua superiorità è l’intento pedagogico nei confronti del giovane Cirno. Questa concezione pedagogica della poesia è una delle caratteristiche della lirica simposiale  il secondo, circa 160 versi, è nato da una tarda selezione delle poesie incentrate su temi omoerotici. Molti componimenti sono rivolti a un giovane invocato come «ragazzo», che spesso non ricambia le offerte d’amore del poeta e per questo viene biasimato. L’omosessualità costituiva un aspetto tipico del codice culturale e comportamentale soprattutto degli ambienti aristocratici e normalmente era legata a funzioni pedagogiche. Si tratta di elegie piuttosto brevi, in larga parte sicuramente di altri autori, cosicché si è posta una “questione teognidea”: distinguere cosa è di Teognide e cosa non lo è. Per comprendere la formazione del corpus, è importante osservarne due tratti significativi: o la ripetizione di versi o distici in punti diversi della raccolta o la tendenza al raggruppamento di componimenti sullo stesso tema. Sono indizi dell’uso simposiale delle “catene”, cioè la pratica per cui i commensali, a turno, intonavano un distico collegato al precedente. Una caratteristica delle elegie teognidee è il procedere per affermazioni e massime di valore generale, con una ricerca retorica e stilistica di sintesi espressiva, finalizzata a un effetto di autorevolezza del contenuto e di citabilità mnemonica. 4. La melica La melica arcaica era poesia per musica  era cioè destinata cioè al canto (mèlos) eseguito all’unisono con una melodia musicale prodotta con strumenti a corda o a fiato. Si distingue - la melica monodica, la cui esecuzione era affidata a un solista. Le monodie venivano eseguite nell’ambiente delle eterie (associazioni) aristocratiche, riunite per lo più nell’occasione offerta dal simposio, o dal tiaso= altro gruppo sociale di matrice religiosa. La lingua della lirica monodica rispecchia generalmente la provenienza degli autori e dei loro destinatari - la melica corale, la cui esecuzione vocale e coreografica richiedeva un coro. In questo caso la varietà metrica rispecchia il ritmo non soltanto della linea melodica e della componente testuale, ma anche della danza. La melica corale si rivolgeva di solito a grandi gruppi eterogenei se non addirittura a tutta la popolazione  feste religiose, agoni poetico-musicali e sportivi, cerimonie panelleniche. La base linguistica comune della melica corale è il dialetto dorico: probabilmente perché le più antiche manifestazioni letterarie di questo genere provengono da un ambiente dorico, e precisamente quello di Sparta. Alcmane di Sardi Alcmane di Sardi svolse la sua attività a Sparta (seconda metà del VII sec). Egli è uno dei più antichi poeti corali in Lidia  dunque un poeta non greco di nascita che esportò i modi della lirica microasiatica in Laconia, acquisendo una piena familiarità con il dialetto dorico locale. Sappiamo che praticò la poesia «ritrattazione» o Palinodìa, nella quale correggeva il proprio giudizio su Elena, aderendo alla versione che scagionava la donna. La ricca produzione di Stesicoro fa pensare che fosse assai forte la richiesta di opere poetiche ispirate alla tematica epica e che la forma citarodica godesse di un considerevole gradimento. Può dunque destare stupore il fatto che, a quanto pare, il genere non abbia avuto seguito. La circostanza storica decisiva per il precoce tramonto di questa forma poetica è da ricercare nel sorgere e nello svilupparsi della stagione della tragedia attica. Ibico Reggio, in Magna Grecia, intorno al 580 a.C. da famiglia aristocratica  fu poeta itinerante in diverse città della Sicilia e poi si trasferì nell’isola ionica di Samo, ospite di Policrate I, padre dell’omonimo tiranno. Con questo rapporto di committenza  Ibico assunse gli aspetti tipici del poeta di corte. I frammenti conservati sono in dialetto dorico, nei quali prevale la melica di argomento omoerotico, tipicamente monodica e simposiale.  “ode a Policrate” è il più lungo frammento conservato ed ha caratteristiche formali e di contenuto che lo avvicinano alla melica epico-narrativa di tipo stesicoreo. Il poeta rievoca la distruzione di Troia ma poi dà spazio a una preterizione, negando di essere all’altezza di una materia così nobile, degna esclusivamente del canto delle Muse, e procede a una sorta di catalogo degli eroi giunti dalla Grecia a Troia. I versi superstiti si chiudono con l’elogio di Policrate, manifestando la finalità encomiastica del componimento. Anacreonte di Teo Il poeta si contraddistingue per la fisionomia del poeta di corte (circa 570-485 a.C.). Fu alla corte di Policrate II, nell’isola di Samo, dove soggiornò e svolse la sua attività poetica fino alla morte del tiranno, nel 522. Si trasferì allora ad Atene, presso il tiranno Ipparco, figlio e successore di Pisistrato, riscuotendo l’apprezzamento e la stima degli Ateniesi. Rimase nella città fino alla morte di Ipparco, nel 514, o fino alla cacciata del fratello Ippia nel 510. Di breve durata fu la sua permanenza in Tessaglia, presso la casata reale degli Alèvadi. Anacreonte visse dunque a stretto contatto con individui potenti. Della sua ricca produzione, che comprendeva anche poesie giambiche ed elegiache, rimangono alcuni frammenti di melica monodica simposiale in dialetto ionico.  I temi simposiali e (omo)erotici sono frequentemente intrecciati, come nel frammento dell’Inno a Dioniso dio del vino, invocato a collaborare alla seduzione del giovane Cleobulo.  Le Anacreontiche è una raccolta di componimenti ispirati ai metri e ai temi della sua poesia  in questa raccolta è testimoniata la fortuna di Anacreonte come poeta del simposio, dell’amore e del piacere di vivere. Accanto all’èros incontriamo temi e motivi poetici ampiamente tradizionali e rispondenti alla convenzione simposiale: la vecchiaia e la morte contrapposte alle gioie della giovinezza. 5. La melica corale fra l’età arcaica e l’età classica Tra la fine del VI e la metà del V secolo la lirica tradizionale vive la sua ultima grande stagione. L’inizio dell’età classica vede la lirica rimanere ancorata a forme e occasioni sempre più desuete. Questa è infatti l’epoca nella quale il patrimonio tematico, espressivo, metrico della lirica venne assunto nel genere teatrale, essenzialmente nelle parti corali dei drammi. In quest’epoca di transizione: - la melica monodica tende a cristallizzare forme e motivi tradizionali sul modello di Anacreonte - la melica corale conosce esiti di grande originalità poetica, toccando i suoi vertici con personalità come Pindaro e Bacchilide. Una peculiarità di questa produzione è la grande varietà metrica, segno di una corrispondente ricchezza melodica e coreografica. Si realizzò una convergenza d’interessi dei committenti e dei poeti: l’autorevolezza del poeta conferiva lustro al celebrato, il prestigio di quest’ultimo dava autorevolezza al nome del poeta, innalzando la quotazione delle sue opere. La poesia fu una professione d’alto rango, finalizzata a prestazioni d’opera dietro lauto compenso. Simonide Simonide è il primo esponente di spicco di questa tendenza alla professionalizzazione della poesia (556-468 a.C. ca). Nato nell’isola di Ceo, Simonide si trasferì ad Atene alla corte del tiranno Ipparco e, alla morte di costui (514) o alla caduta della tirannide (510), si recò in Tessaglia presso la nobile famiglia degli Scòpadi. All’epoca delle guerre persiane soggiornò di nuovo ad Atene per poi lasciare la Grecia alla volta della Sicilia: trascorse il resto della sua vita a Siracusa, alla corte del tiranno Ierone. Nella poesia di Simonide convivono la lingua dell’epica e forme doriche.  Era ritenuto inventore dell’epinìcio, il canto corale in onore di un vincitore di gare atletiche: ma dei suoi epinici è rimasto ben poco.  In antichità i suoi canti funebri o thrènoi avevano una fama particolare.  Altri componimenti perduti erano dedicati a eventi bellici panellenici come le battaglie di Maratona, del capo Artemisio e di Salamina.  Un papiro ha restituito una sessantina di versi di un’elegia per la battaglia di Platea, che nel 479 diede ai Greci la vittoria definitiva sui Persiani.  Un altro capitolo importante della poesia simonidea è quello dei canti simpodiali (soli), fra i quali emergono gli encomi, per elogiare il committente nel simposio aristocratico, ma anche per esprimere riflessioni di natura etica. Simonide pare distaccarsi dall’etica aristocratica tradizionale, sostituendo ai valori arcaici (l’eroismo guerriero, l’ascendenza divina, il successo economico e sociale) una concezione più attuale, basata sul ruolo e la responsabilità del potente nella società degli uomini comuni.  “lamento di Danae” è un lungo frammento di cui ignoriamo il genere di appartenenza. Secondo la leggenda, avvisato da un oracolo che gli prediceva la morte per mano del nipote, il re di Argo Acrisio fece rinchiudere in una cassa e gettare in mare la figlia Danae e il suo piccolo figlio Perseo, nato dall’unione della ragazza con Zeus. I versi conservati rappresentano la giovane rinchiusa nella cassa mentre esprime la sua angoscia e invoca aiuto da Zeus. Simonide associa l’elemento scenografico al pathos del lamento lirico della madre, a contrasto con la calma ignara del bambino immerso nel sonno. Nella parte finale del frammento, il pianto di Danae si trasforma in una tenera ninna nanna. Pindaro Pindaro è una delle personalità poetiche più grandi e rinomate dell’antichità. Nacque a Cinocefale, in Beozia (522 o 518 a.C.). È probabile che la sua formazione poetica e musicale abbia avuto luogo ad Atene. Si guadagnò grande fama soprattutto per i suoi epinici, i canti in lode di vincitori nelle competizioni sportive panelleniche. Fra i committenti si distinsero i tiranni siciliani Ierone di Siracusa e Terone di Agrigento, alle cui corti il poeta fu presente dal 476 al 474 a.C., in competizione professionale con Simonide e con Bacchi lide. Concluse la sua carriera e la sua esistenza ad Argo nel 438 a.C. Tra le composizioni di Pindaro si annoveravano canti monodici simpodiali (soli) e soprattutto varie forme della lirica corale destinate a occasioni diverse. A parte molti frammenti, possediamo integri soltanto epinici, tramandati da manoscritti bizantini: 14 Olimpiche, 12 Pitiche, 11 Nemee e 9 Istmiche, in dialetto dorico. Pindaro dunque opera per prestigiose committenze di aristocratici, desiderosi di affermare o consolidare la propria rinomanza  il poeta si ritrova dunque a sostenere gli ideali arcaici tipici di questo ambiente sociale e a coltivare il gusto propenso alle forme tradizionali della lirica corale. La sua adesione a questa mentalità traspare anche dall’assenza nei suoi versi di motivi d’attualità politica. Il discorso degli epinici si sviluppa sui piani del divino, dell’eroico e dell’umano. Il mondo degli dèi e degli eroi è anche il teatro di episodi ed eventi esemplari, proposti ai destinatari della poesia come modello dell’esperienza umana. Il mondo eroico è dunque il mondo degli uomini migliori  soltanto così si può essere degno del canto poetico. Questa concezione aristocratica della vita e della poesia trova espressione esemplare nell’eccellenza agonale dei committenti della poesia pindarica. Gli elementi compositivi fondamentali degli epinici pindarici sono: - la rievocazione dell’occasione sportiva con la lode del vincitore; - il racconto di un episodio mitico connesso con la circostanza sportiva celebrata; - la gnome di tipo sapienziale, che costituisce l’elemento di sintesi tra le due parti precedenti, fornendo anche la chiave interpretativa dell’ode. La lode del vincitore non si limita allo scopo puramente encomiastico, ma si apre a considerazioni di natura esistenziale, teologica e conoscitiva. La trattazione del mito è svolta con la consapevolezza della propria facoltà di operare interventi rispetto alla tradizione consolidata e scelte narrative personali. Anche l’uso della gnome è molto personale: massime e affermazioni di portata generale costellano gli epinici pindarici. Il fattore che tiene uniti tutti questi elementi è l’intento elogiativo nei confronti del committente. Quasi tutte le odi erano destinate all’elogio di un vincitore in una gara sportiva. L’occasione tipica dell’esecuzione era dunque la cerimonia celebrativa, le cui sedi abituali dovevano essere le aree aperte circostanti i santuari: talvolta la celebrazione avveniva nel luogo stesso in cui si erano tenuti gli agoni sportivi, più di frequente i festeggiamenti e l’esecuzione corale si svolgevano nella patria del vincitore. Una delle caratteristiche stilistiche della poesia pindarica è la ricercatezza e la difficoltà dei concetti e delle formulazioni  per questo ci si chiede in che misura lo spettatore fosse in grado di afferrare il complicato discorso poetico. È stato perciò ipotizzato che gli epinici avessero una duplice destinazione. Oltre al momento pubblico dell’esecuzione corale, forse era prevista un’altra esecuzione in forma diversa dinanzi a un pubblico ristretto riunito attorno al committente: un’esecuzione priva degli aspetti coreografici e connotata dalla maggior discrezione dell’accompagnamento musicale, addirittura di tipo monodico. In un contesto di questo tipo, la componente verbale dell’ode poteva riscuotere un’attenzione ben superiore. Pindaro fa propria la concezione dell’origine divina e della veridicità della poesia, da cui discende l’idea della sovrana autorità del poeta sul mito. Dopo che all’immagine tradizionalmente autorevole e sapiente del poeta si è sommata quella di un professionista, Pindaro può affermare di rivolgersi in primo luogo alla cerchia esclusiva di chi detiene per natura la virtù della comprensione della parola poetica  solo coloro che appartengono al livello più elevato, saggi per natura, potranno cogliere a pieno il senso vero e profondo della poesia. Bacchilide Bacchilide, forse coetaneo di Pindaro, era nipote per via materna di Simonide e nacque nell’isola di Ce. L’apice della sua attività professionale è segnato dalle committenze del tiranno di Siracusa Ierone, presso il quale soggiornò in compagnia di Simonide, incrociando la propria carriera con quella di Pindaro ed entrando in competizione poetica con lui. Fu autore di canti monodici destinati al simposio, di contenuto amoroso o encomiastico, dei quali restano frammenti. Praticò anche svariate forme della lirica corale e di tutto questo possiamo leggere ampie porzioni di quattordici epinici e sei ditirambi, in un dialetto dorico che ammette elementi ionici di derivazione epica. Gli epinici sono dedicati a vincitori nelle gare dei Giochi Olimpici (4), Pitici (2), Istmici (3) e Nemei (3) e di competizioni minori (2). La struttura è paragonabile a quella degli epinici pindarici: la narrazione mitica è collegata alla situazione attuale, che costituisce l’occasione del canto, attraverso una gnome. Ciò che distingue gli epinici di Bacchi lide da quelli di Pindaro è lo stile meno difficile. Il mito viene narrato con maggior continuità, distensione e completezza, con meno salti e allusioni; d’altro lato l’occasione atletica e i particolari della festa in onore del vincitore compaiono in modo più concreto e immediato: il poeta dedica loro maggiori attenzioni. La poesia lirica vive un’ultima, grande stagione fin dopo la metà del V secolo, negli stessi decenni in cui svolgevano la loro attività teatrale Eschilo (che morì nel 455), Sofocle (che esordì nel 468) ed Euripide (che esordì nel 455). Tuttavia, fra i grandi lirici corali e i grandi tragici c’è una differenza culturale, ideale e tematica, che lega questi poeti a epoche differenti. Fra le nuove espressioni letterarie e intellettuali favorite dal clima sociale e culturale della pòlis democratica, la poesia drammatica, incarnata nella tragedia, nel dramma satiresco e nella commedia, si afferma nel V secolo in Attica. La produzione teatrale fu enorme, ma la tradizione ci ha sottratto moltissimo, permettendoci di leggere poche opere intere soltanto dei tragediografi Eschilo, Sofocle ed Euripide e del commediografo Aristofane. Eschilo esordì a teatro fra il 499 e il 496, dunque poco dopo le riforme di Clistene: le sue opere conservano tratti arcaici, ma egli già risente della nuova atmosfera culturale di Atene. Poi, con la tragedia di Sofocle ed Euripide e con la commedia di Aristofane, il teatro attico appare legato alla situazione socio-politica e alla vita intellettuale dell’età della democrazia ateniese più avanzata, arrivando a testimoniare la crisi in Atene di fronte agli sviluppi della guerra del Peloponneso, alla tragica conclusione del conflitto e al venir meno dell’egemonia. Il teatro ha come oggetto e destinatario la comunità della pòlis e per questo affronta temi che tutti conoscono, che a tutti interessano e sui quali tutti hanno titolo ad avere un’opinione. La tragedia riprendeva i contenuti mitico-eroici dell’epica per esprimere la riflessione sui temi attuali e le esigenze problematiche dell’uomo in generale; la commedia ereditava l’atteggiamento caustico e satirico della poesia giambico-trocaica. 3. Lo spazio e il tempo, l’uomo e il mondo Anche la prosa ebbe il suo fulcro principale in Atene e si affermò in quattro generi principali: - la storiografia - la filosofia - la prosa scientifica - l’oratoria Nel campo storiografico i “padri” del genere, Erodoto e Tucidide, ampliano lo sguardo alle vicende dell’intera Grecia e dei popoli che con essa interagiscono; ma le loro opere testimoniano, rispettivamente, un’idea geo-etnografica ed edonistica della narrazione storica e, all’opposto, una visione che privilegia l’analisi degli eventi politici e militari in senso tecnico e professionale. Il primo realizza un’opera che riunisce in sé molti dei filoni in cui si articolava l’indagine storica in età arcaica, il secondo è l’iniziatore della storiografia politica. Una varietà di forme e orientamenti intermedi fra questi due estremi caratterizza la storiografia del IV secolo, a cominciare dall’opera di Senofonte. 2. La «pòlis» allo specchio: il teatro 1. La drammaturgia attica L’area di maggior sviluppo del dramma fu l’Attica del V secolo. Differenze tra epica/ lirica e teatro: - le performances epiche e liriche finivano per comportare in genere qualche tipo di selezione di appartenenza familiare, sociale, politica - le rappresentazioni drammatiche furono istituite ad Atene durante le principali feste in onore di Dioniso come occasione d’intrattenimento rivolta indistintamente all’intera collettività della pòlis. Dunque, il pubblico teatrale si identificava con l’intera comunità civica, per questo motivo era necessario uno spazio architettonico idoneo  nasce così l’edificio teatrale a forma di emiciclo, diviso in orchestra, scene e cavea. Questo edificio trovò collocazione all’aperto in luogo pubblico, sulle pendici meridionali dell’acropoli. Un’altra peculiarità del dramma attico consiste nel fatto che si avvaleva di una molteplicità di mezzi espressivi: - compresenza di parola poetica, musica e danza; - l’esecuzione a solo e quella corale; - la mimica e la gestualità corporea; - gli effetti sonori (strumentali e vocali) e quelli visivi offerti dai costumi e dalla scenografia. Inoltre, non era insolito che i drammaturghi facessero ricorso a macchinari per vivacizzare la scena: un dispositivo, la mechane, consentiva di calare dall’alto e lasciare sospeso a mezz’aria un attore, nelle vesti di una divinità risolutrice del dramma (deus ex machina); e, forse già nel V secolo, era in uso l’ekkỳklema, una piattaforma mobile che permetteva di portare in scena personaggi nascosti nello spazio retroscenico. Di tutto questo insieme di mezzi ed espedienti drammatici è giunto fino a noi solo il “libretto”. La drammaturgia attica sviluppò particolarmente tre generi teatrali: la tragedia, il dramma satiresco e la commedia.  LA TRAGEDIA: conobbe la sua stagione più fiorente nel V secolo, quando furono attivi Eschilo, Sofocle ed Euripide, gli unici autori di cui si sono conservate opere intere. Il soggetto dello spettacolo tragico in genere era ricavato dalla tradizione mitologica. La creatività del drammaturgo si esercitava dunque nella rivisitazione del soggetto attraverso personali scelte tematiche e di caratterizzazione dei personaggi. La tragedia era per il pubblico l’occasione per interiorizzare una vicenda impressionante: la condizione di sofferenza dell’eroe protagonista, che poteva sfociare in un finale funesto, orientava lo spettatore a sentimenti di pàthos, innescando quel meccanismo di immedesimazione emotiva che Aristotele definisce catarsi, la «purificazione» dell’animo dai sentimenti di compassione e di paura. Le tragedie conservate mostrano un alto grado di formalizzazione strutturale. 1. Lo spettacolo si apre di consueto con un pròlogo, nel quale uno o più personaggi fanno ingresso sul proscenio, cioè nello spazio antistante la skenè (scena), e introducono l’intreccio, fornendo elementi sull’antefatto e sulla situazione presente. 2. Segue la pàrodo («entrata»), la danza d’ingresso del coro nell’orchestra accompagnata dal canto lirico. 3. L’azione scenica si snoda poi in una successione di episodi e stàsimi (da tre a cinque). Gli episodi comprendono i dialoghi e i monologhi, normalmente in trimetri giambici, recitati dagli attori solisti; agli attori era affidata anche l’esecuzione di canti lirici monodici o di duetti e terzetti e del kommòs, un canto luttuoso in cui si alternano gli assolo e gli interventi corali. Gli stàsimi, «(esecuzioni) sul posto» (cioè entro il perimetro dell’orchestra), sono danze accompagnate da canti in metro lirico eseguite dal coro. 4. Il dramma si conclude con l’èsodo («uscita»), l’episodio finale dell’azione, al termine del quale il coro lascia l’orchestra e gli attori abbandonano la scena.  DRAMMA SATIRESCO, è il genere teatrale che ci è meno noto: la tradizione medievale ha conservato Il ciclope di Euripide, per il resto abbiamo soltanto frammenti. Era caratterizzato dalla parodia di soggetti mitologici e ripeteva le caratteristiche strutturali della tragedia. Un aspetto peculiare era la presenza di un coro di Satiri (esseri dalle fattezze in parte umane, in parte equine o caprine), guidati da Sileno, che assumevano atteggiamenti spacconi e irriverenti, smascherandosi vili e paurosi alla prova dei fatti: al ruolo grottesco dei Satiri era affidata la componente comica della rappresentazione. Durante il V secolo e la prima metà del IV, veniva rappresentato al termine di una successione di tre tragedie, in unione con le quali formava una tetralogia: l’ironia stemperava la tensione emotiva suscitata negli spettatori dalle rappresentazioni tragiche.  LA COMMEDIA fu un tipo di spettacolo molto longevo. La produzione di opere si protrasse fino all’età ellenistica inoltrata. Si è soliti distinguere tre fasi: - una Commedia Antica (archàia), dalle origini ai decenni iniziali del IV secolo, che comprende la produzione di Aristofane; - una di Mezzo fino all’esordio di Menandro nel 321 a.C.; - una Nuova fino alla metà del III sec. a.C. L’obiettivo del commediografo è suscitare il riso degli spettatori  anche il riso scatenato dal comico ha una valenza catartica, agendo come mezzo di liberazione di tensioni interne e stabilizzatore dell’animo umano. Il genere godette di una grande libertà nella scelta dei soggetti (dal mito all’attualità sociale e politica di Atene) e delle soluzioni drammaturgiche. Da quanto rimane integro della Commedia Antica (11 commedie di Aristofane) si ricava una struttura meno formalizzata di quella tragica. Generalizzando, si può osservare la tendenza a una bipartizione dello spettacolo: - dopo il prologo e il parodo, spesso il nucleo della prima parte è l’agone, il confronto verbale fra il protagonista e uno o più personaggi. Verso la metà del dramma si trovava la paràbasi o «sfilata» del coro dinanzi al pubblico: il corifèo («capocoro»), assistito dal canto dei coreuti, si rivolgeva al pubblico simulando di sospendere la finzione scenica e di farsi portavoce dell’autore su questioni che gli stavano a cuore. - La seconda parte della commedia proponeva spesso una vivace successione di scene comiche e brevi canti corali. Il dramma si chiudeva in genere con l’uscita di scena di tutti gli interpreti in festoso corteo (kòmos). - Le origini delle forme drammatiche Tra le ricostruzioni dell’origine della tragedia sembra plausibile quella che riconosce la fusione di tre elementi fondamentali: - due componenti rituali, o una di tipo dionisiaco  canti corali in dialetto dorico, legati al culto di Dioniso. A un certo punto la centralità tematica di Dioniso sarebbe stata scalzata da soggetti tratti dai culti degli eroi locali. o una di tipo satiresco  danze mimiche eseguite da Satiri (dèmoni rustici della fecondità). - Una componente recitata  monologhi e dialoghi in dialetto attico e trimetri giambici, senza musica Poco per volta, le parti recitate e cantate (episodi) dagli attori divennero la sede centrale dell’intreccio, acquistando un ruolo preponderante su quelle liriche e danzate (stasimi). Tracciare un’ipotesi di evoluzione per la commedia greca è più arduo; è indubbia la sua connessione con forme di ritualità collettiva: le falloforìe e i cortei itifàllici, nelle quali i partecipanti, esibendo un fallo posticcio, con il capo coperto di corone di foglie e fiori, intonavano canti e rivolgevano battute licenziose a coloro in cui si imbattevano, celebrando in tal modo la fecondità della natura. Un’origine diversa è da supporre per le parti dialogate, forse accostabili a brevi scenette di contenuto narrativo, mimate o rappresentate da attori non professionisti, testimoniate in ambiente dorico: qui fiorirono forme teatrali caratterizzate da parodia, linguaggio osceno, licenziosità grossolana, quali la farsa megarese (da Megara) e la farsa fliàcica (Magna Grecia). Sono inoltre ben documentabili gli influssi della commedia dorica siciliana del V secolo: il suo massimo rappresentante fu Epicarmo (ca 530-435 a.C.), attivo a Siracusa, che conferì dignità letteraria a forme di espressività comica popolare mettendo in scena episodi e personaggi delle saghe mitiche oppure tratti dalla vita quotidiana. Eschilo si recò presso Ierone, tiranno di Siracusa, e fu in Sicilia in almeno due occasioni. Durante uno di questi soggiorni morì a Gela, verso il 456/5. Di una novantina di drammi che Eschilo compose, restano intere 7 tragedie e molti frammenti  i drammi conservati rispecchiano la produzione matura. - I Persiani (472) è il più antico ed è l’unica tragedia di argomento storico che ci è pervenuta. Qui Eschilo affrontava il tema della sconfitta persiana per mano dei Greci nella battaglia navale di Salamina del 480 a.C.  Alla corte di Susa, i vecchi dignitari e la regina Atossa, madre del re Serse e moglie del defunto re Dario, attendono notizie sulla spedizione contro la Grecia. Un messaggero informa della disfatta e descrive la battaglia, fino alla distruzione della flotta persiana: allora il coro e Atossa si lasciano andare a manifestazioni di lutto; appare anche il fantasma di Dario, che attribuisce la sconfitta alla hỳbris («empietà») del figlio Serse, colpevole di aver sfidato l’ordine naturale aggirando l’Ellesponto attraverso un ponte di barche per permettere il passaggio all’armata. Nel finale Serse arriva sulla scena sconvolto. Il dramma è segnato dalla staticità, di fatti l’azione è ridotta al minimo per dare spazio al dialogo, alla narrazione e all’espressione del lutto; tutto ruota attorno all’annuncio della sconfitta. Un tratto arcaico è la scelta di non fare emergere una figura protagonista: la regina Atossa è il punto di riferimento di tutti i personaggi, ma sulla scena si realizza una sorta di “dramma corale”. - I sette contro Tebe (467) era il terzo dramma di una tetralogia legata dedicata alla saga tebana, di cui facevano parte anche le tragedie Laio ed Edipo e il dramma satiresco La sfinge. Il soggetto è la guerra fratricida fra Eteocle e Polinice, con cui si realizza la maledizione scagliata da Edipo contro i figli, colpevoli di avergli negato asilo a Tebe. La scena è entro le mura della città, assediata da Polinice e da altri sei condottieri. Un esploratore descrive a Eteocle l’armatura, le insegne e l’atteggiamento dei sette comandanti nemici, a ognuno dei quali Eteocle contrappone un difensore: a Polinice farà fronte lui stesso. Inizia così la battaglia, al termine della quale un messaggero annuncia che l’assedio è terminato e la città è salva, ma che i due fratelli si sono uccisi a vicenda. Anche qui l’azione ha uno spazio limitato, a vantaggio dell’esposizione di fatti attraverso il dialogo dei personaggi e lunghe descrizioni affidate a messaggeri. - Le supplici (post 467) apriva una trilogia dedicata alle vicende delle figlie di Danao, con cui Eschilo riportò la vittoria davanti a Sofocle. Nelle Supplici viene rappresentato l’arrivo delle cinquanta figlie di Danao (che compongono il coro) ad Argo, per supplicare Pelasgo, re della città, di concedere loro protezione dai cinquanta figli del re Egitto, che intendono prenderle con la forza. Pelasgo accetta di accogliere le Danaidi e respinge un messo di Egitto giunto a riprenderle. Le altre due tragedie della trilogia sviluppavano il seguito della vicenda: negli Egizi Pelasgo era sconfitto e ucciso dai cinquanta figli di Egitto, che costringevano alle nozze le Danaidi, e nelle Danaidi i figli di Egitto cadevano uccisi durante la prima notte di nozze per mano delle rispettive spose. - Il Prometeo incatenato mette in scena la punizione inflitta da Zeus al Titano, colpevole di avere sottratto il fuoco agli dèi per farne dono al genere umano. Il protagonista, legato a una rupe, non desiste nello sfidare Zeus profetizzandone la rovina. Prometeo trae nuovo motivo di sfida dall’arrivo di Io, la donna amata da Zeus e da questi trasformata in giovenca per sottrarla alla gelosia di Era: il Titano le annuncia che un figlio di Zeus lo spodesterà dall’Olimpo e si rifiuta di rivelare altri particolari. Un terremoto, la folgore e il tuono annunciano che la punizione divina si abbatte su Prometeo. Sulla tragedia gravano dubbi di autenticità, basati su ragioni formali e di contenuto, fra le quali la rappresentazione tirannica di Zeus  negli altri drammi di Eschilo il dio è garante indiscusso della giustizia e dell’ordine. Tuttavia, la perdita delle altre due tragedie che completavano la trilogia legata impedisce di valutare come evolvesse il conflitto fra Zeus e il Titano. - L’Orestèa (458) è l’unica trilogia legata pervenuta integra dall’antichità ed è incentrata sulle vicende di Agamennone, ucciso al ritorno dalla guerra di Troia dalla moglie Clitemnestra e dal suo amante Egisto, e infine vendicato dal figlio Oreste. - La prima tragedia, Agamennone, è ambientata ad Argo e si apre con l’annuncio della fine della guerra, seguito dall’arrivo del re. Agamennone entra nella casa, mentre sulla scena la profetessa troiana Cassandra predice la morte imminente del sovrano. Dall’interno della reggia provengono le grida di Agamennone: Clitemnestra ed Egisto tornano in scena, ad annunciarne la morte. - Le Coèfore è la tragedia della vendetta. Oreste, tornato di nascosto ad Argo con l’amico Pilade, rende omaggio alla tomba paterna posandone sopra una ciocca dei suoi capelli come offerta votiva. I due giovani si nascondono al sopraggiungere di un corteo di donne, fra cui Elettra, la quale trova la ciocca lasciata dal fratello, che esce allo scoperto e si fa riconoscere. Introdottosi con l’inganno nella reggia insieme a Pilade, Oreste uccide prima Egisto, poi la madre. Nel finale le Erinni (i dèmoni che perseguitano l’impuro macchiatosi di un delitto), sotto l’aspetto di cagne rabbiose, incalzano Oreste, costringendolo a una fuga incessante. - L’inizio delle Eumènidi mette in scena Oreste nel tempio di Apollo a Delfi, dove si è rifugiato per sfuggire la persecuzione delle Erinni, che qui compongono il coro. Incoraggiato da Apollo a sottoporsi al giudizio della dea Atena, Oreste lascia Delfi alla volta di Atene. Qui le Erinni lo circondano presso la statua della dea: interviene Atena, che persuade le Erinni a sottoporre il caso di Oreste al giudizio di un tribunale (trasposizione dell’antichissimo tribunale ateniese dell’Areopago): Apollo sostiene la difesa del giovane, le Erinni sostengono l’accusa. Alla fine, il voto dei giudici si divide in parti uguali, ma il parere di Atena è favorevole a Oreste e ne determina l’assoluzione. Al centro della trilogia è il problema della giustizia e della responsabilità individuale. Agamennone è soggetto a un destino tragico a causa delle colpe del padre Atreo e per le sue personali responsabilità nella guerra di Troia. Clitemnestra ed Egisto sono segnati dalla colpa di avere tradito e ucciso il re nella sua stessa casa. Oreste preferisce farsi matricida piuttosto che lasciare invendicata la morte del padre. Punti fondamentali della tematica drammaturgica di Eschilo Il rapporto fra gli uomini e la divinità costituisce il nucleo centrale della sua riflessione nelle tragedie pervenute. Domina la figura di Zeus e del divino, rappresentato come dispensatore di beni, ma anche di giuste punizioni a coloro che peccano di hỳbris, la superbia. Eschilio supera la concezione arcaica che individuava la causa del dolore nell’azione capricciosa degli dèi, affermando l’idea che il male è la punizione per una colpa commessa, un atto di giustizia divina. La concezione dell’individuo conserva in alcuni drammi un’impronta arcaica. Permane l’antica idea del ghènos come entità al cui interno si realizza un destino che lega tutti i componenti da una generazione all’altra, in una forma di responsabilità condivisa e collettiva  per questo le conseguenze delle azioni empie ricadono anche sui discendenti. Tuttavia, in alcuni drammi emerge una visione nuova, che riconosce nelle istituzioni cittadine la via per il superamento dell’arcaica logica del ghènos e per circoscrivere la responsabilità dei singoli. L’importanza della tematica etica e delle situazioni rappresentate ha dei riscontri piano stilistico, che si presenta elevato e grandioso, risonante di arcaicità e ricco di immagini: metafore, neologismi e formule che conferiscono al dettato una patina di sacralità. 3. Sofocle Sofocle visse l’ascesa, l’apice e il declino di Atene nell’arco del V secolo. Nacque infatti nel 497/6 a.C., nel demo attico di Colono. Ricevuta l’educazione che spettava ai figli delle famiglie nobili, fu avviato alla carriera di attore, alla quale dovette rinunciare a causa della voce troppo debole. Il suo esordio agli agoni teatrali nel 468 fu segnato da un clamoroso successo, perché sconfisse Eschilo, più anziano e famoso. Egli fu amico di personaggi politici e uomini di cultura come Pericle ed Erodoto. La tradizione gli attribuisce alcune importanti innovazioni drammaturgiche:  l’aumento del numero dei coreuti da 12 a 15, con la possibilità di usufruire di due semicori;  l’introduzione del terzo attore;  l’impiego di fondali scenici dipinti (scenografia). Morì nel 406, non molto tempo dopo Euripide. Oltre ai frammenti, restano sette tragedie intere che possiamo raggruppare in base al soggetto mitico.  Le tragedie Aiace e Filottete sono incentrate su episodi del ciclo mitico troiano e sono accomunate dal fatto di ruotare attorno alla vicenda sfortunata di un eroe solitario.  Aiace (456/446) mette in scena la tragica fine dell’eroe, accecato dalla delusione perché gli sono state negate le armi di Achille a vantaggio di Odisseo. Atena ha voluto punire la tracotante fiducia dell’eroe nella propria forza rendendolo folle  egli è convinto di aver essersi vendicato con una strage di Achei, ma in realtà ha sfogato la sua ira sugli animali del campo greco. Dopo l’episodio la dea gli restituisce la lucidità e Aiace, sopraffatto dalla vergogna, si suicida. Nella seconda parte del dramma, Tecmessa e Teucro (rispettivamente compagna e fratellastro di Aiace), vorrebbero dar sepoltura al corpo del loro caro, ma devono scontrarsi con il divieto di Agamennone e Menelao: sarà proprio l’intercessione di Odisseo a ottenere che lo sfortunato eroe sia finalmente sepolto.  In Filottete (409) è rappresentata la missione di Odisseo e di Neottolemo nell’isola di Lemno, per cercare di condurre a Troia Filottete, offeso e ferito, dal cui arco dipende l’esito della guerra. Dopo dieci anni di vita solitaria nell’isola, dove è stato lasciato dai compagni a causa della piaga infetta che ha a un piede, Filottete è pieno di risentimento nei confronti soprattutto di Odisseo: non vuole andare a Troia in aiuto di coloro che l’hanno abbandonato, ma Neottolemo lo inganna dicendogli di avere lasciato la guerra e di voler tornare in patria con lui. Filottete crede alle parole dell’amico e, alla sua richiesta, gli consegna l’arco: a questo punto però Neottolemo non se la sente di sostenere oltre l’inganno e rivela a Filottete il vero scopo della loro missione, suscitando la reazione indignata dell’eroe. Malgrado l’opposizione di Odisseo, Neottolemo restituisce a Filottete il suo arco. A questo punto, soltanto l’intervento di Eracle, che promette a Filottete la guarigione della ferita e la gloria militare se si recherà a Troia, lo persuaderà a desistere dal suo ostinato rifiuto. I due drammi hanno in comune la centralità solitaria dell’eroe colpito da un destino avverso. Questa solitudine eroica e piena di pàthos trova espressione in modo figurato nella menomazione mentale, per Aiace, e nella malattia fisica e nella relegazione su un’isola per Filottete. In Aiace l’isolamento è accentuato dall’atteggiamento ostile di Atena, che infierisce sulla vittima umiliandolo davanti al suo principale avversario, Odisseo. Vediamo quindi un rapporto tra ruoli diversi e sproporzionati, in cui l’uomo è esposto nella sua fragilità alla potenza degli dèi, ma anche capace di un sentimento di compassione per i suoi simili. Vediamo uno dei temi più cari a Sofocle: la problematicità della volontà divina, quando essa si manifesta nei mali e nelle pene che si abbattono come una condanna sugli uomini. In Filottete il contrasto è tutto umano: ma anche qui i sentimenti umanitari producono in Neottolemo un’evoluzione psicologica e la decisione di non tradire la dignità e l’aspirazione alla giustizia di Filottete.  Alle vicende del ciclo tebano sono ispirati tre drammi: Edipo re, Edipo a Colono e Antigone. Nonostante abbiano in comune l’ambito mitico, le tre opere veicolano significati e linee tematiche distinti. In Edipo re (4Z9/4Z5) un responso dell’oracolo di Delfi impone di purificare Tebe, decimata da una grave pestilenza, cacciandone l’assassino del re Laio, il predecessore di Edipo ucciso in circostanze oscure. Edipo chiede aiuto all’indovino Tiresia, perché dia indicazioni sull’omicida, ma il veggente si rifiuta di parlare e questo provoca la reazione risentita del re. Non potendo tollerare le calunnie che gli sono rivolte, Tiresia rivela che l’assassino di Laio è lo stesso Edipo, ma questi lo scaccia pensando a un complotto. Inizia una vera e propria inchiesta, nel corso della quale Edipo acquisisce per gradi la consapevolezza della verità: egli in realtà non è figlio dei sovrani di Corinto; l’uomo che un giorno uccise in un alterco sulla via per Delfi era proprio suo padre Laio; e dunque la regina Giocasta, ora sua sposa e madre dei suoi figli, è sua madre. La regina, che ha assistito all’acquisizione dell’indizio decisivo, abbandona la scena per uccidersi. Edipo si acceca con le proprie mani. Il dramma è giocato sul motivo dell’ambigua apparenza delle cose. Per una tragica ironia del destino, proprio il sapiente Edipo si scopre ignorante, il carnefice vittima di sé stesso. All’ambiguità conoscitiva cui l’uomo è condannato corrisponde una altrettanto drammatica ambiguità dell’agire etico. Edipo va incontro con coraggio alle conseguenze degli atti di cui si è reso colpevole: tuttavia, dopo che egli si è punito con le proprie mani, nel suo lamento emerge l’ambigua natura della responsabilità Le problematiche di questo quadro sociale e culturale erano varie: nel teatro euripideo sono espresse nel linguaggio offerto dalla vicenda mitica e dalle norme codificate del genere tragico, ma senza escludere l’introduzione di alcune novità drammaturgiche significative. 1. Acquista una nuova rilevanza l’intreccio drammatico  le trame vanno complicandosi e si avvalgono spesso di un maggior numero di personaggi. 2. Il prologo tende a perdere l’antica funzione di avvio dell’azione drammatica, per divenire il momento di presentazione dell’antefatto, in forma più narrativa che mimetica, da parte di una delle figure coinvolte. 3. Il coro attenua il tradizionale ruolo di interlocutore dei personaggi gli sono affidati piuttosto interventi di commento lirico alla vicenda rappresentata. 4. Nei finali diviene più frequente il ricorso all’intervento del deus ex machina, che si presenta a risolvere in modo miracoloso i complicati sviluppi dell’intreccio 5. Per le scelte liriche e musicali: le parti corali dei drammi erano influenzate della moda estetica in voga verso la fine del V secolo, quella del ditirambo attico, caratterizzato dalla prevalenza della musica sulle parole e dal virtuosismo espressivo della composizione e dell’esecuzione. Le fonti attribuiscono a Euripide 92 drammi. Grazie alla tradizione manoscritta medievale, molte sono le opere giunte fino a noi: 17 tragedie e un dramma satiresco. Di molte altre tragedie abbiamo una gran quantità di frammenti.  Cinque tragedie si ispirano a episodi e personaggi del ciclo troiano. Argomento di Ifigenia in Aulide (406) è il sacrificio della figlia di Agamennone, richiesto da Artemide perché gli Achei possano salpare con venti favorevoli alla volta di Troia. Agamennone ha mandato a chiamare la ragazza con il falso pretesto di darla in sposa ad Achille, ma ha un ripensamento e invia un altro messaggero con il contrordine. Menelao blocca questo secondo invio e Ifigenia giunge accompagnata dalla madre Clitemnestra. Tuttavia, anche Menelao si pente della decisione, mentre Agamennone è ora determinato a sacrificare la figlia. L’incontro casuale fra Clitemnestra e Achille, che nulla sanno dell’inganno, illumina la donna sul rischio che la figlia sta correndo. Nonostante Achille prenda le difese di Ifigenia, la giovane accetta di sacrificarsi per il bene della flotta greca. L’ultima parte della tragedia è interpolata: un messo racconta che, al momento del sacrificio, Artemide ha sostituito Ifigenia con una cerva e ha portato in salvo la ragazza. L’aspetto più rilevante è lo sviluppo psicologico dei personaggi, il cui comportamento cambia a seconda delle esperienze e sotto l’influenza della parola. Non solo Agamennone e Menelao mutano in modo alterno la loro posizione, ma anche Ifigenia conosce un’evoluzione: prima aderisce con entusiasmo alla prospettiva di sposare Achille; poi, appreso il suo destino, con un discorso intriso di pàthos scongiura il padre di non privarla anzitempo della vita; infine accetta il sacrificio. Nelle Troiane (415 a.C.) gli eroi greci si spartiscono il bottino e le prigioniere: Cassandra andrà schiava ad Agamennone e prevede l’uccisione di quest’ultimo per mano della moglie Clitemnestra. Menelao pretende da Elena la giustificazione del suo tradimento: la donna cerca di discolparsi, ma Ecuba ne dimostra la colpevolezza e Menelao ne decreta la morte una volta ritornati ad Argo. La tragedia si chiude con il pianto di Ecuba sul cadavere del nipote Astianatte e con l’incendio di Troia.  Tre tragedie euripidee conservate sono dedicate a episodi del ciclo tebano. Le Baccanti (406) affronta il tema della diffusione del culto di Dioniso. Nel prologo, il dio spiega di voler punire Agave (sorella di sua madre Semele) e il figlio Penteo, re di Tebe, che si rifiutano di credere alla sua natura divina. Penteo vorrebbe stroncare sul nascere i riti delle baccanti sul monte Citerone. Uno straniero viene catturato ed accusato di avere introdotto il nuovo culto: egli è in realtà Dioniso stesso in sembianze umane, che, una volta incarcerato, fa crollare l’edificio. Affascinato dal dio, Penteo si lascia persuadere a recarsi sul Citerone travestito da donna, a spiare le baccanti. Gli sviluppi dell’azione sono affidati al racconto di un messaggero: arrampicatosi su un albero per osservare il rito bacchico, il re è stato scoperto e le donne, incitate da Agave, lo hanno squartato. Cadmo (nonno di Penteo) riporta alla lucidità la figlia, rivelandole che la testa che porta infilzata nel tirso come un trofeo non è di un leone, ma del figlio. Il dramma è giocato sull’opposizione fra apparenza e realtà  il culto dionisiaco è usato per rappresentare la crisi della ragione: l’invasamento bacchico è espressione dello stravolgimento che può colpire la consapevolezza dell’individuo.  Le tre tragedie della saga degli Atridi concernono la vendetta messa in atto da Oreste ed Elettra e le conseguenze che ne derivano. Elettra (413? o fra 421 e 417) ripropone l’argomento dell’omonima tragedia di Sofocle e delle Coefore di Eschilo: è l’unico caso in cui possiamo confrontare tre tragedie di autori diversi sullo stesso episodio mitico. Dopo l’uccisione di Agamennone, Egisto ha dato Elettra in sposa a un contadino che vive nei dintorni di Argo, perché resti lontana dalla reggia. Intanto Oreste fa ritorno ad Argo insieme a Pilade e si presenta alla casa del contadino senza farsi riconoscere. Il vecchio maestro di Agamennone rivela a Elettra di aver trovato presso la tomba del re chiari indizi del ritorno del giovane, ma la donna è incredula. Il riconoscimento avviene quando il maestro ottiene la prova dell’identità di Oreste grazie a un’antica cicatrice. Oreste ed Elettra attuano il loro piano e uccidono Egisto e Clitemnestra, cadendo poi in uno stato di angoscia. Dopodiché appaiono Castore e Polluce preannunciando che Elettra andrà in sposa a Pilade e Oreste vagherà esule fino ad Atene inseguito dalle Erinni. La tragedia si chiude con le Erinni che si slanciano all’inseguimento del matricida. Rispetto ai drammi di Eschilo e di Sofocle, qui l’episodio del matricidio è costruito con maggiore complessità d’intreccio e con una più sfumata caratterizzazione dei personaggi. Diminuisce la distanza fra i due ruoli femminili: Elettra non ha lo spessore decisivo del personaggio di Sofocle, mentre Clitemnestra è dipinta nella contraddittorietà del suo stato d’animo. Anche la vendetta di Oreste si colloca in una luce più sfumata, con l’accentuazione degli aspetti problematici di una giustizia che, per volere divino, si compie ricorrendo a un delitto inaudito. Il soggetto di Oreste (408) è il problema della responsabilità del figlio di Agamennone. Il matricida attende di essere giudicato dall’assemblea argiva e conta sull’aiuto dello zio Menelao, giunto ad Argo con Elena: ma Tindareo, padre di Clitemnestra e di Elena, persuade Menelao a lasciare al loro destino i due matricidi, che vengono condannati a morte. Pilade è deciso a morire con loro, non prima però che i tre si siano vendicati di Menelao, uccidendo Elena e catturando la figlia Ermione. Un servo riferisce che Oreste e Pilade non hanno potuto uccidere Elena, perché la donna è scomparsa in modo misterioso  Oreste minaccia allora di uccidere Ermione e di dar fuoco alla reggia. Ma appare Apollo, deus ex machina, che rivela l’assunzione di Elena fra gli dèi e indica l’Areopago di Atene come il tribunale a cui Oreste dovrà sottoporsi: dopo essere stato assolto sposerà Ermione e Pilade sposerà Elettra. In questo dramma si riconoscono i segni di una profonda trasformazione culturale in atto: nella struttura complessa dell’intreccio, nella frequenza dei colpi di scena e delle trovate spettacolari, nella concezione pessimistica della vita. Un altro aspetto importante è la libertà con cui Euripide rimodella la vicenda mitica a seconda delle proprie esigenze tematiche e drammaturgiche: l’attentato di Oreste e Pilade ai danni di Elena e il rapimento di Ermione sono episodi nuovi.  La saga di Eracle è trattata da tre drammi conservati di Euripide. Alcesti (438) si caratterizza per la presenza di elementi comici e di un finale particolarmente lieto: fu infatti rappresentata di seguito a una trilogia tragica, quindi al posto del dramma satiresco. Apollo ha persuaso le Moire a rinviare la morte di Admeto, re di Fere in Tessaglia, a patto che qualcun altro accetti di morire al suo posto. Nessuno però se la sente di morire anzitempo, fuorché sua moglie Alcesti. Prima delle cerimonie funebri giunge a Fere Eracle, al quale Admeto, non rivela che la regina è morta. Dopo la descrizione del banchetto offerto all’eroe, questi entra in scena ubriaco e ostentando modi arroganti. Tuttavia, quando viene a conoscenza della verità, egli si propone di ricambiare la generosità di Admeto riportando in vita Alcesti. L’eroe si presenta ad Admeto con una donna velata, esortandolo a farla sua sposa: il re non vorrebbe accettare per fedeltà alla moglie defunta, ma quando cede per l’insistenza di Eracle e la donna si scopre il volto, riconosce Alcesti e i due si ricongiungono felicemente. Alcesti è una tragedia insolita  tra gli elementi comici colpisce la caratterizzazione grottesca di Eracle, rappresentato ubriaco e arrogante. Altra peculiarità è il finale lieto. Alcesti è la vera protagonista del dramma: l’eroina decide salvare la vita al marito per amore.  Medea (431) mette in scena un episodio del ciclo mitico di Giasone e degli Argonauti. Giasone ha stabilito nuove nozze con la figlia di Creonte, re di Corinto, e ha perciò ripudiato Medea. Creonte ha decretato che costei se ne vada in esilio perché non nuoccia ai nuovi sposi con le sue arti magiche, ma la donna ottiene di rimanere nella città ancora per un giorno. Nel dialogo con Giasone, Medea manifesta tutte le sue ragioni e il suo risentimento. Dopo che il re di Atene Egeo, di passaggio a Corinto, le ha promesso asilo, Medea compie il suo piano di vendetta: col pretesto di una rappacificazione, fa portare in dono alla principessa dai suoi figli un peplo e un diadema imbevuti di un potente veleno. Una volta appreso che la sua vendetta ha avuto effetto, per odio verso Giasone uccide i propri figli. Giasone arriva in scena per fare giustizia, ma qui apprende che anche i suoi figli sono morti: Medea è già sul carro del Sole che la porterà in salvo ad Atene e che sottrae a Giasone anche i corpi senza vita dei bambini. La tetralogia di cui Medea faceva parte si classificò all’ultimo posto nell’agone  all’insuccesso dovettero contribuire l’intreccio, carico di tensione violenta, e la rappresentazione disinibita degli impulsi di eros e di thanatos (amore e morte), così come il carattere contraddittorio della protagonista: protesa per buona parte del dramma in un eroico sforzo di riscatto dalla posizione di inferiorità e debolezza, ma nella parte finale disumana artefice dell’infanticidio. Medea è una donna atipica, che non teme di contrapporsi al ruolo tradizionale di moglie e di madre remissiva, oltre ad essere ripudiata, barbara e maga. In Medea troviamo riuniti gli strumenti più sofisticati della ragione e l’espressione più aspra degli impulsi irrazionali.  Il ciclope di Euripide è l’unico dramma satiresco pervenuto integro dall’antichità. L’opera trae spunto dal nòstos di Odisseo, che, reduce dalla guerra di Troia, arriva alla grotta del Ciclope Polifemo. Sileno e i Satiri, che compongono il coro, sono prigionieri di Polifemo e suoi servitori. Stessa sorte tocca a Odisseo, cui il Ciclope divora due compagni: l’eroe decide allora di passare all’azione, accecando il mostro dopo averlo ubriacato. I Satiri sono terrorizzati all’idea di partecipare all’impresa, per cui Odisseo ricorre all’aiuto dei suoi compagni. Dopo la realizzazione del piano, il Ciclope riconosce nell’accaduto il compimento di un oracolo e scaglia maledizioni sui fuggiaschi. Euripide mette in scena il conflitto fra la razionalità intelligente e astuta, rappresentata da Odisseo, e l’irrazionalità dei Satiri o quella ottusa e selvaggia del Ciclope. Nel finale l’eroe razionale trionfa, ma non deve sfuggire la portata simbolica dell’arma che gli assicura il successo: il vino, dono e prerogativa di Dioniso, dio dell’identità alienata. Euripide è stato particolarmente aperto all’innovazione del genere tragico  le principali novità le troviamo sul piano dell’intreccio e della spettacolarizzazione scenico-musicale. Certi accorgimenti, come l’adozione di prologhi “separati” rispetto all’azione o il frequente ricorso al deus ex machina, sono coerenti con la tendenza del drammaturgo a stabilire con gli spettatori una comunicazione poetica consapevole della convenzionalità della rappresentazione. Dal punto di vista tematico, le aperture di Euripide si esprimono sotto vari aspetti. Uno dei motivi ricorrenti è la considerazione delle categorie di cittadini escluse e marginalizzate della società ateniese: il cittadino di umile condizione, la donna, lo straniero, il servo etc. sono figure che acquistano un ruolo nuovo e spesso centrale nei drammi di Euripide. I personaggi e le situazioni, pur sempre tratti dal patrimonio leggendario tradizionale, tendono a perdere la connotazione sacrale caratteristica del genere tragico, a favore di una rappresentazione più diretta e “umana” dei problemi della vita reale. È un’aderenza all’umano che trova riscontro nella rappresentazione caratteriale e psicologica dei personaggi anche attraverso il loro linguaggio, con l’abbandono dello stile elevato a favore della lingua corrente. L’approccio drammaturgico più aderente alla realtà investe anche il mondo eroico e quello divino. Gli eroi del mito assumono connotati meno ideali e più umani, gli dèi sono meno divini e distanti, perdono spessore sacrale e si presentano come entità misteriose, che agiscono sul mondo in modo incontrastato ma sono soggette alla critica e al giudizio degli uomini. Il contadino Trigeo non ne può più della guerra, per questo vola su un enorme scarabeo verso la dimora di Zeus. Pòlemos («Guerra») ha catturato e murato in una grotta Irene («Pace»). Con l’aiuto dei contadini che compongono il coro, Trigeo riesce a liberare Irene, la riconduce sulla terra in compagnia di Opora («Raccolto») e Teoria («Festa») e annuncia le sue nozze con Opora, inizio di una nuova epoca di pace. Il dramma si chiude con il corteo nuziale di Trigeo e Opora. La commedia anticipa i successivi sviluppi della drammaturgia aristofanea: o smussamento degli ostacoli che si oppongono al protagonista o contesto surreale o coro scarsamente caratterizzato e dal ruolo subordinato. Il mutamento di toni è forse da mettere in relazione con la situazione del momento, in cui diveniva concreta la prospettiva della pace. I primi passi ravvisabili nella Pace di un distacco dall’agone della polemica politica si concretizzano nella produzione successiva e sfociano in rappresentazioni di marca utopista. Questa svolta pare da collegare al clima di logoramento e di pessimismo provocato in Atene dal prolungarsi della guerra.  La commedia Uccelli andò in scena alle Dionisie del 414 e incarna il nuovo atteggiamento drammaturgico di Aristofane. Due Ateniesi, Pisetero ed Euelpide, delusi della conflittuale vita cittadina, progettano di trasferirsi. Chiedono consiglio all’Upupa e decidono di fondare una città ideale, governata dagli uccelli. Inizia dunque l’edificazione di Nefelococcùgia. Giunge la dea Iride, messaggera di Zeus, inviata a chiedere sacrifici per gli dèi, ma viene allontanata bruscamente. Altri Ateniesi di pessima reputazione si presentano, desiderosi di essere ammessi nella nuova città, ma Pisetero li scaccia. Infine, arrivano Posidone ed Eracle, insieme al dio barbaro Triballo, a trattare la pace fra gli dèi e la nuova città: in cambio della pace, Zeus restituirà agli uccelli il potere sul mondo e concederà Basilia («Regina») in sposa a Pisetero. La commedia si chiude con le nozze di Basilia e Pisetero. Il tema de Gli Uccelli resta comunque quello politico, nonostante la scelta dello scenario surreale e della fantasia utopica.  La commedia Lisistrata (411 a.C.) tratta anch’essa il tema politico nel senso generale. La protagonista ha convocato ad Atene le donne delle città greche impegnate nella guerra del Peloponneso ed espone loro un piano per porre fine al conflitto: si asterranno da rapporti sessuali con i loro mariti, fintantoché essi non si decideranno a stipulare la pace. Le donne occupano l’acropoli e fronteggiano un ufficiale intervenuto per scacciarle e i tentativi degli uomini di indebolire la loro compattezza. Si presentano a Lisistrata ambasciatori maschi di entrambe le città (Atene e Sparta), stremati dal desiderio sessuale e dal bisogno, ormai disposti a trattare la resa. Le condizioni poste da Lisistrata sono accettate e si festeggia la pace con il tripudio di un kòmos. Sullo sfondo del tema erotico, i significati politici traspaiono (il desiderio della pace con Sparta).  Le donne alle Tesmofòrie sono incentrate sulla satira di Euripide. Euripide è preoccupato perché le donne di Atene, infuriate per il modo in cui vengono rappresentate nelle sue tragedie, tramano una vendetta contro di lui. Chiede allora al tragediografo Agatone, campione di effeminatezza, di travestirsi da donna e introdursi come spia fra le donne riunite per la festa di Demetra Tesmòfora. Agatone però rifiuta e al suo posto si offre un Parente di Euripide. Recatosi nell’assemblea femminile travestito da donna, il Parente tenta di scagionare Euripide dalle accuse che gli vengono mosse, ma viene smascherato. Seguono scene che alludono parodicamente a drammi euripidei: il Parente tenta di sfuggire alla cattura rapendo una neonata, che però si rivela essere un otre di vino. Il Parente viene affidato alla sorveglianza di un arciere scita, che sarà facile per Euripide distrarre proponendogli la compagnia di una ballerina, cosicché infine, d’accordo con le donne cui ha promesso di non parlare mai più male di loro nelle future tragedie, libera il Parente.  Con le Rane veniamo trasportati agli anni cruciali della rovina finale di Atene. Il dramma ruota comicamente attorno al tema del teatro tragico, mettendo di nuovo in scena Euripide, morto l’anno precedente, a contrasto con la veneranda figura di Eschilo, scomparso mezzo secolo prima. Deluso dalla mancanza di veri poeti tragici e infatuato del teatro euripideo, Dioniso si reca nell’Ade travestito da Eracle in compagnia dello schiavo Xantia, per riportare sulla terra il suo poeta preferito. Attraversato il fiume infernale (popolato dalle Rane) sulla barca di Caronte, dopo varie peripezie i due incontrano Eschilo ed Euripide che litigano per occupare il trono di miglior poeta tragico. Interviene Plutone, il dio dell’Ade, che indice un agone fra i due poeti e designa Dioniso come giudice. La gara si svolge sul terreno dell’arte tragica. Dioniso tuttavia non riesce a scegliere quale dei due poeti meriti la vittoria e affida la decisione a un’ultima sfida: qual è il consiglio migliore per i cittadini di Atene, nel difficile frangente attuale. Alla fine, Dioniso sceglie Eschilo, il cui consiglio è che gli Ateniesi smettano di riporre la loro fiducia in uomini politici disonesti. Sarà dunque Eschilo, e non Euripide, a ritornare sulla terra con Dioniso. Il tema portante consiste nell’idea che la poesia influenzi in modo significativo la mentalità, i comportamenti sociali e le scelte politiche  il teatro euripideo rappresenta l’eco del modello culturale di marca sofistica, corresponsabile della degenerazione morale e politica di Atene e della sua imminente rovina. Un secondo tema della commedia risiede negli spunti di critica letteraria contenuti nella sezione agonale che contrappone Eschilo ed Euripide: nel gioco delle reciproche accuse sulle rispettive scelte di linguaggio e di stile, i due personaggi mettono in evidenza l’uno i tratti distintivi della poesia dell’altro: al registro altisonante e solenne di Eschilo, volto in ridicolo per la sua distanza straniante dalla lingua attuale e quotidiana, si contrappone la “modernità” euripidea, còlta nella sua riscrittura demistificata della lingua poetica. Dopo la sconfitta militare Atene vide drasticamente ridimensionato il proprio ruolo nello scacchiere delle potenze greche. Della poetica aristofanea di questo periodo non possiamo dire molto, essendosi conservati due soli drammi  Nelle Donne all’assemblea (ca 392 a.C.) il poeta inventa una congiura delle donne contro il potere maschile, allo scopo di istituire un nuovo regime. La protagonista Prassagora, convinta che le donne saprebbero risolvere la difficile situazione della città, escogita un piano secondo cui lei e le sue compagne dovrebbero recarsi all’assemblea travestite da uomini per assumerne il controllo. Blepiro, marito di Prassagora, al suo risveglio non ha trovato i suoi vestiti ed è uscito di casa con indosso gli abiti della moglie; stessa sorte è toccata al suo vicino di casa. Le donne hanno preso il potere. Prassagora espone il proprio programma politico: la proprietà comune dei beni, la condivisione delle donne e dei figli e pasti comunitari. Seguono alcuni comici tentativi di realizzare il programma. Nel finale, Blepiro si accinge a un festoso banchetto. La commedia prosegue la linea della fantasia utopica, proposta come comica “soluzione” ai mali che affliggono la società ateniese.  Il Pluto, forse del 388, è la più recente delle commedie conservate. Affronta un tema di carattere morale: la polemica contro la ricchezza (in greco plùtos, personificato), ritenuta causa dei mali della società. Nel prologo, Carione spiega che il suo padrone Cremilo, deluso dalla corruzione dei tempi, si è recato a Delfi per consultare l’oracolo e che Apollo gli ha risposto di seguire la persona nella quale si sarebbe imbattuto per prima uscendo dal tempio. Cremilo incontra il cieco Pluto, che, se riacquisterà la vista, potrà dare agio e benessere agli uomini onesti. Il progetto di Cremilo incontra l’ostilità di Penìa («Povertà»), che tenta di convincerlo della funzione educativa della povertà contro le degenerazioni causate dall’eccessiva ricchezza. Penia non persuade Cremilo e Asclepio fa recuperare la vista a Pluto: questi può elargire ricchezze a Cremilo e agli altri uomini onesti. L’iniziativa, però, non procura soltanto vantaggi: una vecchia inveisce contro Pluto, perché il suo giovane amante, divenuto ricco, l’ha piantata; Zeus è infuriato per l’indifferenza religiosa che ha colpito gli uomini avveduti, improvvisamente arricchiti. Il finale è un corteo festoso che accompagna Pluto alla sua antica sede nel Partenone. All’assenza di riferimenti all’attualità politica si accompagna il disincanto rispetto al tema della giustizia sociale ed economica. L’opera esibisce alcune caratteristiche drammaturgiche proprie della commedia “di Mezzo”, poi ereditate e accentuate dalla commedia “Nuova” nella prima età ellenistica: l’assenza della parabasi, il ridimensionamento del ruolo del coro (limitato a interventi marginali), il rilievo assegnato alla figura del servo, autentica spalla del protagonista. Evoluzione delle linee tematiche dominanti del teatro aristofaneo conservato. 1. La prima fase che riusciamo a circoscrivere (427-421 a.C.) è segnata dalla satira politica e sociale: il bersaglio favorito sono gli esponenti della classe dirigente, tacciati di populismo e di oltranzismo bellico contrario ai reali interessi della città (Acarnesi, Cavalieri, Vespe, Pace). In queste commedie svolge una funzione importante la parabasi, sfruttata per rivolgere al pubblico espliciti giudizi su fatti e personalità. Inoltre, importante è anche l’aggressività che trova espressione in un linguaggio spesso crudo e osceno. 2. Una seconda fase (420-404 a.C.) è contraddistinta dall’affievolirsi della polemica nei confronti del mondo politico, mentre sembrano riguadagnare terreno le componenti tradizionali del teatro comico: elementi farseschi, la parodia del mito, spunti di teatro d’evasione e d’intrattenimento, fughe nell’immaginario utopico e surreale. Alla logorante realtà della pòlis in perenne conflitto il poeta reagisce con il vagheggiamento di una città ideale, con la satira del teatro tragico contemporaneo e il motivo del viaggio nell’aldilà e con l’adozione della sfera femminile a contraltare e rovesciamento dell’inconcludenza della cultura maschile dominante. 3. Gli ultimi due drammi in ordine cronologico fanno supporre una terza fase (circa 403-385 a.C.), nella quale da un lato prosegue una poetica di evasione – il mondo femminile come ribaltamento comico della realtà maschile nelle Donne all’assemblea –, dall’altro avvertiamo una sensibilità nuova per i temi sociali ed esistenziali dai sottili risvolti psicologici Peculiarità di lingua e di stile delle commedie aristofanee Il genere comico deve la sua riuscita alla scelta della parola, al ritmo testuale, allo stile, alla versatilità dei registri espressivi. La comicità di Aristofane è piena di inventiva e di situazioni esilaranti: questo si traduce da un lato nella creatività linguistica (neologismi), dall’altro nell’adozione della lingua viva di Atene, infarcita di espressioni correnti e gergali, doppi sensi popolareschi, forme idiomatiche e modi di dire. Il tratto stilistico più rilevante è l’uso fantasioso della metafora, prediletta per il suo diffuso uso popolare, accanto a espedienti retorici riconducibili all’espressività vivace della lingua comune. Parodia e satira si avvalgono dell’accostamento di registri stilistici diversi, dai più volgari, tratti dal gergo della strada e del mercato, ai più elevati e letterari, come l’altisonante dizione omerica o le raffinatezze della poesia tragica. 3. La letteratura filosofica e scientifica 1. La letteratura filosofica fino a Socrate Lo sviluppo del pensiero filosofico greco antico interessa lo storico della letteratura da due punti di vista: 1. perché in ogni civiltà la riflessione filosofica è una componente fondamentale della cultura e della mentalità, perciò intrecciata con le diverse espressioni della creatività artistica; 2. perché nel mondo greco la comunicazione filosofica si è manifestata con una ricca produzione di testi, che si sono basati talvolta su forme e generi preesistenti e talvolta di soluzioni letterarie originali. Questa storia ebbe origine tra la fine del VII secolo e l’inizio del VI nelle colonie greche d’Asia Minore. L’esigenza di una spiegazione razionale della natura fiorì a Mileto grazie a personalità come Talete, Anassimandro e Anassimene, dediti a indagare il principio fisico che è alla base della realtà naturale: gli antichi assegnavano ad Anassimandro l’iniziativa di avere affidato per primo il proprio pensiero a uno scritto in prosa. La Ionia detenne il primato della speculazione filosofica fin verso la metà del VI secolo  fu una stagione di emigrazione intellettuale, che contribuì all’esportazione della speculazione filosofica soprattutto verso la l’arte narrativa di Platone I dialoghi rappresentano un dipinto della società ateniese e delle figure che la popolano, a cominciare da quella di Socrate, ritratte con poche ma sicure pennellate fisiognomiche e psicologiche, descrivendo luoghi, circostanze e dinamiche relazionali sullo sfondo di situazioni familiari e quotidiane. Un contributo decisivo a questa mìmesis viene dalle scelte linguistiche e stilistiche di Platone: l’attico colto in uso ad Atene viene articolato in livelli linguistici che variano in funzione dei personaggi e delle situazioni. Colpisce il racconto di miti inventati, particolarmente numerosi nei dialoghi della maturità: il mito dell’ermafrodito sull’origine di Eros nel Simposio, i grandi miti sulla vita ultraterrena nel Fedone, nel Gorgia e nella Repubblica, il mito del carro alato nel Fedro. I miti esprimono un contenuto di verità in forma metaforica. 3. Aristotele Mentre la riflessione platonica comportava una svalutazione della realtà sensibile a favore della dimensione ideale, Aristotele dà nuovamente peso alla concreta realtà dell’individuo e restituisce valore alla percezione sensoriale come mezzo d’indagine sulla natura. Aristotele riveste un ruolo importante per le sue riflessioni in materia di teoria letteraria, che segnarono il nuovo “incontro” tra filosofia e poesia dopo che la critica platonica sembrava avere tracciato tra le due un solco incolmabile; e poi per avere dato un impulso decisivo alla formazione di una cultura erudita, rivolta alla classificazione e allo studio delle opere e alla raccolta storico-documentaria, biografica e aneddotica sugli autori. La biografia di Aristotele si muove fra la Macedonia e Atene, nell’epoca dell’avvicinamento politico e militare della monarchia macedone alle pòleis. Nacque nel 384 a.C. a Stagira, nella penisola Calcidica. Nel 367 andò ad Atene ed entrò nella scuola di Platone, che frequentò fino alla morte del maestro nel 347. Per sfuggire al clima antimacedone di Atene, si trasferì ad Asso, in Troade, dove, sotto la protezione del locale tiranno, con altri seguaci di Platone fondò una scuola filosofica. Aristotele si trasferì poi a Mitilene, nell’isola di Lesbo, finché nel 343 il re Filippo lo chiamò alla corte di Pella come tutore del figlio Alessandro. Nel 335, poco tempo dopo l’assassinio di Filippo e l’ascesa di Alessandro al trono, tornò ad Atene e vi fondò la propria scuola, il “Licèo” (perché situata presso il santuario di Apollo Liceo) o “Peripato” (in quanto il maestro usava insegnare passeggiando sotto un portico, in greco perìpatos). Quando Alessandro morì, nel 323, e violente reazioni antimacedoni si produssero anche in Attica, il filosofo si ritirò a Calcide nell’isola Eubea e morì l’anno dopo. Della vastissima produzione aristotelica si sono conservati una cinquantina di scritti e un alto numero di frammenti. Aristotele scrisse due tipi di opere.  Gli scritti essotèrici («esterni»), rivolti a un pubblico esterno al Peripato e caratterizzati dall’elaborazione stilistica e letteraria  Gli scritti esotèrici («interni») o “acroamàtici” («destinati all’ascolto»), che erano un insieme di materiali utilizzati come base per la ricerca e per l’insegnamento, non destinati alla pubblicazione: hanno un grado di rifinitura formale, strutturale e stilistica molto vario e per questo pongono spesso problemi e difficoltà d’interpretazione. La quasi totalità degli scritti conservati è di tipo esoterico: dobbiamo la loro conservazione alla vicenda della biblioteca privata del filosofo, che attraverso canali privati pervenne a Roma, dove, fra il 40 e il 20 a.C., gli scritti esoterici furono rivisti e per la prima volta pubblicati da Andronico di Rodi. Non si sono conservati invece gli scritti essoterici, fatta eccezione per la Costituzione degli Ateniesi e per una piccola parte del Protrèttico. In quest’ultima Aristotele sosteneva la superiorità dell’insegnamento filosofico praticato nell’Accademia, con riferimento alla scuola rivale fondata da Isocrate. Il rapporto con Platone fu un problema fondamentale nella vita intellettuale di Aristotele, in una dialettica continua fra devozione e rispetto da una parte, distacco e critica dall’altra:  il trattato Sulle idee e il dialogo Sulla filosofia dovevano essere dedicati a un esame del pensiero platonico, in cui criticava la separazione fra le idee e la realtà materiale.  A temi etico-politici erano dedicate diverse opere, fra cui la raccolta delle Costituzioni (Politèiai), concernente l’assetto istituzionale di diverse pòleis greche e comprendente la Costituzione degli Ateniesi.  Molte opere perdute vertevano sulla letteratura e la storia letteraria. Aristotele si interessò di storia della tecnica retorica basandosi sui manuali precedenti, che radunò in una Raccolta di tèchnai.  Conosciamo infine i titoli di opere che raccoglievano dati e informazioni relativi ad ambiti diversi delle scienze naturali. La raccolta degli scritti esoterici si articola in cinque parti: la logica, le scienze della natura o “fisica”, la filosofia prima o “metafisica”, la filosofia morale e politica, gli scritti di retorica e poetica. Per Aristotele la ricerca filosofica comprende tre grandi branche: 1. la filosofia teoretica ha come fine la conoscenza (logica, fisica, metafisica), 2. la filosofia pratica si occupa dell’agire dell’uomo (etica, politica), 3. lo studio delle attività poietiche riguarda i prodotti dell’attività umana (retorica, poetica). La Metafisica («libri posti dopo quelli sulla fisica»), in 14 libri, raccoglie scritti sulle cause e i principi primi e sull’essere. Per Aristotele questa sfera di riflessioni deve essere successiva allo studio della natura, anche se viene idealmente prima di tutto, perché riguarda gli aspetti più generali della filosofia ed è la “filosofia prima”. Aristotele sviluppa l’idea di una causa motrice che è all’origine di ogni movimento, il «primo motore immobile» trascendente ed eterno identificato con il Dio supremo. Nelle opere dedicate alla filosofia pratica, il fine generale dell’uomo viene identificato con la felicità, raggiungibile mediante le virtù etiche, cioè proprie del carattere, e dianoetiche, cioè proprie della ragione. La filosofia viene considerata mezzo supremo per conseguire la piena felicità  la vita teoretica è ritenuta essa stessa felicità per l’uomo. La dimensione collettiva dell’agire umano è l’oggetto della Politica, raccolta di 8 libri sulle diverse forme di vita associata, dalla famiglia al villaggio alla città, il cui fattore originario è la natura stessa dell’uomo, definito animale politico. Vengono analizzate le forme di costituzione e delle loro rispettive degenerazioni  monarchia  tirannide  aristocrazia  oligarchia  politèia  democrazia Si riflette poi sulla forma di Stato migliore e più stabile, identificata in una «costituzione intermedia» fra l’oligarchia e la democrazia, fondata sul consenso del ceto medio. Le attività produttive (poietiche) tipicamente umane, legate alla facoltà della parola, sono la retorica e la poetica, che danno il titolo a due fra le più importanti opere aristoteliche. La Retorica, in 3 libri, segna il distacco dalle posizioni platoniche, di pesante condanna di questa attività: per Aristotele la retorica ha la dignità di una techne. I primi due libri dell’opera hanno per oggetto generale i mezzi di persuasione, cioè gli aspetti logico- contenutistici e dialettici del discorso pubblico; il terzo libro riguarda la forma del discorso. La Poetica, forse originariamente in 2 libri, costituisce una riflessione teorica sulla poesia. L’opera si apre con la definizione dell’arte poetica come imitazione e prosegue indicando categorie per la classificazione dei generi poetici. L’analisi dei generi poetici e della loro storia conduce Aristotele all’idea che la poesia abbia compiuto un cammino evolutivo che l’ha condotta a raggiungere la realizzazione della sua forma. Questo è accaduto nei prodotti del teatro ateniese del V secolo, in particolare nella tragedia  è alla tragedia classica che sono dedicate le maggiori attenzioni. Delle parti costitutive della tragedia, la principale viene considerata il racconto, che è mìmesis di azioni compiute da uomini. In questa parte dell’opera il tono descrittivo si intreccia con quella normativo, cosicché il discorso finisce per delineare le caratteristiche ideali della migliore tragedia. Viene posta in risalto poi anche la capacità della poesia tragica di produrre effetti sul piano psicologico- emotivo: suscitando pietà e terrore, essa induce lo spettatore alla catarsi («purificazione») da simili passioni negative. Gli ultimi capitoli sono dedicati al linguaggio poetico e al confronto tra il genere epico e il genere tragico. Aristotele si differenzia da Platone, che aveva condannato la poesia in quanto imitazione delle cose sensibili (ci allontana della vera realtà (le idee) e perciò non ha alcun valore di conoscenza. Anche per Aristotele l’arte poetica è imitazione della natura, ma, poiché quest’ultima è realtà a tutti gli effetti, il valore della poesia consiste proprio nel fatto che l’imitazione produce conoscenza. Aristotele presuppone che la poesia sia una tèchne e rientri dunque fra le attività governate dalla razionalità e sottoposte a regole identificabili. 4. Il racconto razionale dell’uomo: la storiografia 1. La storiografia classica La storiografia greca nacque nelle colonie d’Asia Minore  i Greci vennero a contatto con forme di narrazione storica del Vicino Oriente. La diffusione del pensiero razionalistico nell’area ionica fece nascere l’esigenza di fondare una ricerca sul passato che stabilisse una chiara distinzione tra il vero e il falso, fra la dimensione mitica e il tempo storico. Un altro aspetto peculiare della storiografia greca è il carattere non riservato delle opere, destinate e accessibili a un pubblico vasto, interessato al racconto dei fatti e delle imprese degli uomini. I primi storici originari dell’area ionica furono definiti da Tucidide logògrafi, «scrittori di racconti», perché il loro intento era intrattenere il pubblico con racconti non esenti da contenuti mitici e favolosi, piuttosto che perseguire la verità storica. In questa produzione si possono distinguere alcuni generi. - Le genealogie avevano per oggetto la storia delle famiglie aristocratiche, allo scopo di provare il rapporto con una divinità - Le fondazioni di città ricostruivano le tradizioni sulla fondazione di singole pòleis. - La storiografia di tipo annalistico si interessa dell’insieme delle vicende delle città coloniali - opere di tipo geografico ed etnografico esprimevano l’interesse per i popoli stranieri: il primo tipo è rappresentato dalla periegesi o pèriplo, descrizione di itinerari di viaggio; il secondo da opere su popolazioni non greche, basate su informazioni acquisite con la colonizzazione, i viaggi di esplorazione e la frequentazione di rotte commerciali. 2. Erodoto, “padre della storia” Erodoto è il primo storico la cui opera si sia conservata per intero. Se i logografi con i loro scritti avevano consolidato l’interesse per i popoli e le città, per le loro vicende e le loro usanze, la novità dell’opera erodotea stava nell’avere cercato di dare continuità narrativa a una pluralità di storie. Erodoto nacque fra il 490 e il 480 a.C. ad Alicarnasso, città dell’Asia Minore, antica colonia dorica che però gravitava verso la più dinamica area ionica. La famiglia, di origine aristocratica, era coinvolta nelle vicende politiche della città e partecipò alla ribellione contro il tiranno Ligdami, che costò a Erodoto l’esilio a Samo. Egli compì viaggi nel Vicino Oriente e verso il 445 era ad Atene, dove tenne pubbliche letture della sua opera storica. Ad Atene pare abbiano stretto legami con il tragediografo Sofocle e conobbe certamente Pericle  quando egli guidò la fondazione di una colonia panellenica a Turii, in Magna Grecia, Erodoto partecipò all’impresa e divenne cittadino della nuova colonia. Qui morì verso il 425. L’opera di Erodoto, le Storie, è scritta secondo tradizione del genere in dialetto ionico e in età ellenistica fu suddivisa in 9 libri. Ha una struttura per nuclei narrativi (lògoi), incentrati sulle diverse civiltà con cui i Il racconto è segnato dalla rigorosa scansione cronologica basata sugli anni di guerra, a partire dall’inizio del conflitto nel 431. Cesure interne, contrassegnate da una formula di chiusura o «sigillo» (sphraghìs), indicano che in origine a ciascuno dei ventuno anni di guerra corrispondeva un rotolo di papiro. La scelta del criterio annalistico costituisce un aspetto del metodo storiografico tucidideo fondamentale per collocare un evento con precisione e ovviare al problema posto dall’incoerenza dei diversi sistemi cronologici antichi. L’opera si apre con un proemio, in cui l’autore dichiara il proprio nome e l’argomento. Segue un rapido quadro retrospettivo dello sviluppo del mondo greco a partire dai primi insediamenti nella penisola fino alle guerre persiane. 1. Il I libro prosegue con l’analisi delle cause più immediate del conflitto oggetto dell’opera. 2. Il II libro concerne i primi tre anni di guerra (431-429), segnati da scontri in Beozia e nell’Attica, e comprende il discorso funebre (epitàfio) di Pericle dinanzi all’assemblea ateniese per commemorare i caduti del primo anno di conflitto, la descrizione dell’epidemia scoppiata nella città nell’estate del 429 e l’ultimo discorso di Pericle prima di morire. 3. Nel III libro (428-426) spicca il racconto della rivolta dell’isola di Mitilene contro Atene e della dura reazione del demagogo Cleone. Altri eventi rilevanti sono la conquista spartana di Platea, città della Beozia alleata di Atene, e la prima spedizione ateniese in Sicilia per frenare le mire espansionistiche di Siracusa. 4. Il IV libro (425-422) muove tra il successo di Atene sulle coste del Peloponneso, e la caduta di Anfipoli nelle mani delle truppe spartane guidate da Brasida. Atene chiede e ottiene una tregua. 5. Il V libro si apre con la ripresa delle ostilità (422-415). Nella battaglia campale ad Anfipoli muoiono Cleone e Brasida, i due principali fautori, sui fronti opposti, della prosecuzione della guerra: acquistano forza i sostenitori della pace, che viene firmata dallo stratego Nicia (421 a.C.). 6. Nel VI libro Tucidide illustra le circostanze in cui prese avvio la seconda spedizione ateniese in Sicilia contro Siracusa (415-413), con la mutilazione delle erme (cippi raffiguranti il dio Ermes disseminati in luoghi pubblici della città). La seconda parte del libro verte sulle operazioni militari in Sicilia. 7. Il VII libro prosegue il racconto delle operazioni militari in Sicilia che si conclude con la drammatica sconfitta ateniese e la messa a morte degli strateghi Nicia e Demostene. 8. L’VIII libro (412-411) descrive le conseguenze militari e politiche della disfatta per Atene. Il racconto si interrompe nel bel mezzo dell’ultima fase della guerra (che terminò nel 404) e senza una vera conclusione. Che l’intenzione di Tucidide fosse quella di proseguire la narrazione fino al termine del conflitto, è mostrato da indizi interni all’opera, come un passo del cosiddetto “secondo proemio”. L’impressione di incompiutezza viene anche da alcune caratteristiche dei libri V e VIII, dove mancano del tutto i discorsi diretti degli uomini politici e i documenti sono riportati nella loro forma originale e non, come d’abitudine, fusi e amalgamati nell’esposizione. L’individuazione di questo genere di punti deboli nel testo ha dato origine a una “questione tucididea”: si sono contrapposte una critica di tipo analitico, volta a spiegare gli elementi di incompiutezza e di disomogeneità come effetto della giustapposizione di parti nate separatamente, e una prospettiva unitaria, convinta della concezione unica e organica dell’opera fin dall’inizio. Fra i contributi dell’opera tucididea alla fisionomia del genere storiografico si distingue l’elaborazione di una metodologia d’indagine basata su presupposti in un certo senso “scientifici”. Anzitutto i contenuti: Tucidide sa di fondare una storiografia nuova rispetto a quella erodotea, rinunciando a molti aspetti di piacevole intrattenimento ereditati dalla logografia tradizionale a vantaggio di una più severa ricerca centrata sui fatti politico-militari e su una stretta aderenza al vero. Benché Erodoto non sia mai nominato, nei capitoli metodologici del I libro affiora la polemica nei confronti della storiografia geo-etnografica, di cui viene criticato principalmente il carattere edonistico. La polemica è centrata su una diversa idea della ricerca ma anche del profondo mutamento in corso nelle forme di pubblicazione e di fruizione delle opere letterarie, per la crescente diffusione dei testi scritti: la pubblica lettura dinanzi a una platea di ascoltatori “dilettanti” cedeva il passo alla lettura personale dei professionisti della politica. L’altro terreno del genere storiografico, nel quale Tucidide volta pagina rispetto al passato, è il metodo di accertamento dei fatti. L’archaiologhìa, cioè la ricostruzione del passato remoto, aveva messo lo storico di fronte al problema di accertare la verità di eventi così lontani e alla necessità di procedere in base a indizi. Nei capitoli metodologici dell’opera egli afferma di essersi basato sulla propria personale osservazione dei fatti e sul racconto di testimoni oculari. Tuttavia, diversamente da Erodoto, Tucidide opera una selezione tra le informazioni contraddittorie di cui viene in possesso e sceglie di esporre soltanto la versione che, a suo giudizio, è risultata vera o verosimile  L’obiettivo di fondo è l’aderenza al vero. È un criterio che può apparire superiore, ma nasconde un’insidia, perché l’opinione dello storico può avere determinato la perdita di tradizioni significative per la ricostruzione dei fatti. In assenza di testimonianze dirette, per Tucidide si deve mirare a una ricostruzione verosimile dell’accaduto: i fatti si originano da una ragione vera e più profonda che è da tenere distinta dalle cause dichiarate dai contendenti e dal pretesto che conduce a un evento. Benché gli antichi apprezzassero in Tucidide la tendenza all’obiettività, nell’opera si avvertono le inclinazioni personali dello storico, a partire dal punto di vista fortemente centrato su Atene. Sul piano delle convinzioni politiche, è evidente l’avversione nei confronti del demagogo Cleone, mentre di Pericle si apprezzano le doti di statista lungimirante e traspare la preferenza per una forma di governo moderata incarnata dall’oligarchia dei Cinquemila. Nella metodologia tucididea si sono notate analogie con la concezione che emerge da alcuni trattati medici del Corpus Hippocraticum, secondo cui l’osservazione del passato è in grado di fornire le basi per la previsione di eventi futuri. In Tucidide, in effetti, si trovano riferimenti alla costanza della natura umana, che reagisce in modo analogo di fronte a situazioni analoghe. Tuttavia, Tucidide non ignora la funzione assunta dal «fattore irrazionale», non prevedibile dal lògos umano. Un altro ambito culturale che deve avere esercitato una certa influenza sul pensiero tucidideo è quello retorico. Specialmente ad Atene, l’educazione retorica andava assumendo un ruolo decisivo nella vita civile ed era impossibile scindere l’impegno politico dalla necessità di saper elaborare un’orazione capace di orientare le decisioni di un’assemblea. I discorsi che Tucidide mette in bocca ai personaggi nella sua opera possono darci un’idea di questa oratoria, anche se non sono una “registrazione”: essi sono un elemento della retorica del genere storiografico stesso. Per la loro ricostruzione, Tucidide dichiara di essersi basato su due principi: - far pronunciare ai personaggi ciò che inevitabilmente essi devono aver detto; - attenersi nel modo più fedele possibile al contenuto complessivo e all’intenzione generale di quanto effettivamente detto. Parlare di oratoria politica nei decenni finali del V secolo ad Atene significa fare i conti con la Sofistica. A questo movimento intellettuale riconducono alcuni aspetti dell’opera di Tucidide, come l’utilizzo di discorsi antitetici, nei quali si esaminano le opposte ragioni su un determinato argomento, e la stessa concezione pragmatica della ricerca storica. A ciò si accosta anche l’atteggiamento scettico di Tucidide nei confronti del divino: ponendosi agli antipodi rispetto a Erodoto, egli opta per un punto di vista laico ed elimina completamente l’idea di un’influenza degli dèi nella storia. La prosa di Tucidide, in un attico un poco arcaizzante e aperto a influssi ionici, era considerata dagli antichi un esempio di stile austero: - sintassi non facile; - concisione che rasenta talvolta l’oscurità e lessico difficile - composizione severa; - largo impiego di figure retoriche; Dunque, una forma stilistica che sembra evitare intenzionalmente la facilità e la scorrevolezza, obbligando a soffermare l’attenzione su fatti e concetti. 4. Senofonte L’insieme della produzione di Senofonte comprende scritti socratici, storiografici, biografici e opuscoli di contenuto tecnico: una varietà che testimonia una personalità eclettica, dagli interessi molteplici e dalla mentalità aperta. Senofonte nacque poco dopo il 430 a.C. ad Atene, da un’agiata famiglia del ceto equestre, e in gioventù prese parte a operazioni militari di cavalleria. Frequentò Socrate, provando per lui una profonda ammirazione. Le sue simpatie oligarchiche traspaiono dal fatto che, al termine della guerra del Peloponneso, fece parte della cavalleria dei Trenta Tiranni imposti da Sparta e, con la restaurazione della democrazia, lasciò Atene e si arruolò nell’esercito mercenario del persiano Ciro il Giovane. Senofonte rimase in Asia Minore, partecipando a diverse campagne militari di Sparta contro la Persia e stringendo un rapporto di amicizia con il re spartano Agesilao. Condannato all’esilio da Atene, fece ritorno in Grecia e si stabilì a Sparta, partecipando alla battaglia di Coronea (394) al fianco degli Spartani contro l’esercito ateniese. In fine, in un villaggio presso Olimpia, Senofonte visse ritirato per un ventennio, dedicandosi alla composizione della maggior parte dei suoi scritti. Quando nel 371 Sparta fu sconfitta da Tebe e perse l’egemonia sul Peloponneso, Senofonte dovette rifugiarsi a Corinto. La morte è da porre intorno al 355. Senofonte vive dunque la fase incerta che segue alla disfatta ateniese nella guerra del Peloponneso. Le avventure militari mercenarie rivelano che non si sente troppo legato con la sua pòlis  sembra emergere in lui un certo individualismo. Allo stesso tempo, da certe opere e dal rapporto personale con Agesilao trapela la sua preferenza politica per un modello di Stato governato da una monarca illuminato, di evidente matrice pre-ellenistica. La posizione più rilevante tra le opere di Senofonte spetta alle grandi monografie storiche: le Ellèniche e l’Anàbasi di Ciro.  Con le Elleniche, in 7 libri, l’autore si inserisce nel filone storiografico rivolto agli eventi contemporanei e si pone in continuità con l’opera tucididea, occupandosi degli avvenimenti compresi fra il 411 e il 362 a.C.  Il I libro e parte del II concernono la fase finale della guerra del Peloponneso; il resto del II libro dà conto del regime dei Trenta Tiranni inflitto da Sparta ad Atene fino al ristabilimento della democrazia nel 403.  Il III libro si apre lasciando nel racconto un vuoto di alcuni anni (403-399) e occupandosi degli anni iniziali dell’egemonia spartana, che costituiscono l’argomento anche del IV libro e dell’inizio del V e comprendono le guerre combattute da Sparta contro la Persia e la guerra di Corinto.  Il resto dell’opera (V-VII) concerne gli ultimi anni dell’egemonia spartana fino alla battaglia di Leuttra (371) e l’egemonia tebana. L’analisi delle caratteristiche metodologiche dell’opera rivela la sua inferiorità rispetto alla rigorosa monografia di Tucidide  di fatti nell’analisi delle cause degli avvenimenti torna a fare la sua comparsa l’elemento divino e manca un’indagine sistematica delle fonti. Un certo spazio è riservato alle esperienze personali dell’autore, particolarmente preziose ed efficaci nella descrizione di eventi bellici.  L’Anabasi di Ciro, anch’essa in 7 libri, è dedicata all’esperienza dell’esercito mercenario dei Diecimila. Il titolo Anabasi, «Viaggio verso l’interno», è adeguato solo ai primi capitoli dell’opera (I 1- 6), che contengono la narrazione della marcia dell’esercito di Ciro fino alla battaglia di Cunassa: per il resto, il racconto concerne la battaglia stessa, la situazione venutasi a creare successivamente alla morte di Ciro e la ritirata delle truppe greche fino al Mar Nero. Senofonte pubblicò l’opera sotto pseudonimo: un 2. Lisia La fama di Lisia è legata alle orazioni giudiziarie che egli scrisse per conto di terzi. L’attività dei logògrafi, “scrittori di discorsi” a pagamento, era importantissima ad Atene  non tutti erano in grado di produrre un’arringa convincente da garantire il buon esito del processo, da qui la necessità di ricorrere ai logografi, che fungevano anche da consulenti giudiziari  il diritto attico, infatti, prevedeva che fossero gli stessi imputati, e non un avvocato, a presentare il discorso di difesa o di accusa in tribunale. L’udienza si apriva con la lettura dell’atto di accusa e la risposta della difesa. I discorsi, se non fossero stati improvvisati, sarebbero fatti scrivere da un logografo e poi imparati a memoria; avevano una durata di circa mezz’ora, misurata con la clessidra. L’abilità del logografo consisteva nel racchiudere in un discorso relativamente breve tutti gli elementi a vantaggio dell’assistito, rispecchiandone in modo naturale e credibile il temperamento, per coinvolgere i giudici nell’accaduto e portarli a condividere una certa visione dei fatti. L’onda emotiva era uno dei fattori su cui giocava il logografo. Lisia nacque ad Atene verso il 450 a.C., ma non era cittadino ateniese: il padre Cefalo si era da poco trasferito da Siracusa aprendo una redditizia fabbrica di scudi e dunque lui e la sua famiglia erano stranieri immigrati. Nel 430 Lisia si recò a Turii, in Magna Grecia, dove perfezionò la sua arte retorica, forse con il retore Tisia; ritornò ad Atene nel 415, dove ebbe fama di “sofista”. La sua famiglia fu perseguitata dai Trenta Tiranni, dunque Lisia fuggì a Megara; dopo la caduta dei Trenta cercò di ottenere la cittadinanza ateniese e di recuperare il patrimonio perduto, ma invano. Visse allora ad Atene da isòtele (cioè forestiero assimilato ai cittadini per gli obblighi tributari) e fronteggiò difficili condizioni economiche mettendo a frutto la sua abilità oratoria come logografo, scrittore di discorsi giudiziari per terzi dietro compenso. Morì dopo il 380. I discorsi giudiziari Alcuni discorsi giudiziari di Lisia sono famosi sia come testimonianze della vita sociale e della cronaca nera del tempo, sia per l’arte narrativa e argomentativa che Lisia vi ha profuso. L’Apologia per l’uccisione di Eratostene fu scritta per il contadino Eufileto, citato in giudizio per avere ucciso Eratostene di Oe colto in flagranza di adulterio con sua moglie. Tutta la difesa è tesa da un lato a dimostrare la bonarietà, la fiducia e la totale mancanza di sospetti di Eufileto, che aveva considerato sua moglie «la migliore di tutte le donne»; dall’altro a ritrarre Eratostene come un cinico astuto e spregiudicato. Le orazioni politiche Uno spazio a sé nella produzione giudiziaria di Lisia deve essere riservato alle orazioni di carattere politico, cui fanno da sfondo gli anni del regime autoritario e sanguinario dei Trenta Tiranni e il successivo periodo di restaurazione della democrazia. Il discorso Contro Eratostene, uno dei Trenta Tiranni, fu pronunciato da Lisia in persona per ottenere la condanna del responsabile della morte del fratello Polemarco. La ricostruzione dei fatti è condotta con uno stile sobrio, veloce, che scandisce le nefandezze dei Trenta, in uno scenario di autentica cronaca nera. Le angherie, le sopraffazioni, l’avidità degli oligarchi sono presentate in un crescendo, che ha come oggetto la drammatica persecuzione contro i meteci di Atene. L’epidittico Al genere epidittico appartiene l’Epitafio per i caduti in difesa di Corinto, in cui l’oratore, celebrando gli Ateniesi morti sul campo durante la guerra di Corinto (394-386), esalta Atene e la sua storia. Tuttavia, la critica è incerta se attribuirla a lui o a un imitatore, perché lo stile presenta un esagerato accumulo di figure retoriche e un periodare meno fluido rispetto all’uso lisiano. Un discorso epidittico è anche l’Olimpico, pronunciato durante un raduno panellenico a Olimpia  Lisia vi incitava i Greci a scalzare dal potere il tiranno di Siracusa Dionisio I. Il genere deliberativo Conosciamo un solo discorso lisiano di genere deliberativo, Sulla necessità di non abbattere la costituzione dei padri ad Atene, forse composto all’indomani della restaurazione democratica. Scritto per un importante politico ateniese, esalta i valori della costituzione democratica di Atene, contro chi intendeva ridurre il numero dei cittadini di pieno diritto. Lo stile lisiano Gli antichi sono concordi nell’individuare nella semplicità e nella chiarezza i punti di forza dello stile lisiano, sempre essenziale, vivace, dominato dalle simmetrie. Per l’economia dei mezzi espressivi, siamo agli antipodi rispetto allo stile figurato gorgiano e alla dura ipotassi di Tucidide. 3. Isocrate Uno dei protagonisti tra la fine del V e la prima metà del IV secolo fu l’oratore Isocrate, nato prima di Platone e morto, a quanto pare, l’anno della battaglia di Cheronea (circa 436-338 a.C.). Ricevette un’eccellente educazione  era stato discepolo di Gorgia e di Socrate; poi, perduto il patrimonio nel corso della guerra del Peloponneso, pare che si fosse dedicato all’attività di logografo. Egli considerò sé stesso “filosofo”, rifiutando di identificarsi con il rhètor, cioè con colui che prende la parola di fronte al popolo riunito in assemblea per ottenere il consenso alla propria opinione. Più che con l’oratoria, Isocrate si identificava con un progetto educativo svolto all’interno di una scuola, aperta ad Atene intorno al 390, che ambiva a sostituirsi alle scuole dei filosofi e a quelle tradizionali di retorica nella formazione dell’uomo- cittadino. Isocrate aspirava a comunicare valori stabili e duraturi, a ottenere una formazione del cittadino al più alto livello. Le opere Tolti alcuni discorsi di genere giudiziario, la maggior parte delle orazioni conservate sono di tipo epidittico e politico.  Tra le orazioni epidittiche, la più antica è quella Contro i sofisti, datata intorno al 390, cioè all’epoca in cui Isocrate inaugurò la sua scuola. È un testo molto importante per la nostra conoscenza del metodo d’insegnamento del maestro. L’oratore polemizza contro tutte le altre scuole, soprattutto contro due tipi di “sofisti”: quanti insegnano a far prevalere una tesi indipendentemente dalla sua validità; e quanti concepiscono l’oratoria in modo teorico e schematico, senza tenere conto del carattere naturale degli allievi e dell’esperienza pratica. L’insegnamento isocrateo infatti prevede una continua lettura e riflessione insieme al maestro, che guida gli allievi alla comprensione dei testi, propone dei modelli da imitare, insegna a costruire argomentazioni persuasive, arriva a una formazione culturale che rende capaci di produrre un lògos perfetto nella forma e valido nei contenuti.  Nell’ambito dell’oratoria epidittica furono anche altri due discorsi composti alla maniera delle esercitazioni sofistiche e presentati come esempi nella scuola. L’Encomio di Elena forse polemizza contro l’opera di Gorgia sullo stesso tema, sostenendo che si tratta di una difesa dell’eroina e non di un encomio. L’altra orazione è il Busiride, che ha forma epistolare e finge di rivolgere consigli al retore Policrate, autore di un Encomio di Busiride. Busiride era un re egiziano che sacrificava gli ospiti e fu ucciso da Eracle: se l’esercitazione sofistica di Policrate rovesciava l’immagine negativa del personaggio facendone un elogio, Isocrate mette in risalto punti deboli e difetti dell’encomio, con il duplice effetto di insegnare come fare un elogio e di mostrare come fare a pezzi l’argomentazione di un avversario.  Tra le orazioni politiche, le più significative sono il Panegìrico, scritto nell’arco di circa quindici anni e reso pubblico nel 380, in occasione delle Olimpiadi. L’oratore riprende motivi di esaltazione ateniese presenti nei discorsi Olimpici di Gorgia e Lisia: il suo intento è di assumerli a modello ed emularli, per dimostrare la propria superiorità. Gran parte del discorso è dedicata all’esaltazione di Atene, artefice principale della civilizzazione della Grecia. Poiché, per queste ragioni, è inaccettabile che Atene e la Grecia si ritrovino in uno stato di subordinazione nei confronti di potenze straniere, occorre muovere guerra all’impero persiano. L’Areopagìtico, è l’unico discorso isocrateo su temi di politica interna ateniese. Isocrate propone che all’Areopago, l’antico tribunale di Atene, vengano restituite tutte le sue funzioni, ridimensionate un secolo prima. Dopo avere accusato di corruzione la democrazia ateniese del suo tempo, l’oratore indica genericamente il rimedio nel ristabilimento dell’antica costituzione di Solone e di Clistene. L’orazione Sulla pace fa riferimento alle vicende della guerra sociale, che vide numerosi alleati di Atene ribellarsi al tentativo della città di imporre una nuova egemonia. Fingendo di rivolgersi all’ekklesìa ateniese, Isocrate esprime la necessità di ristabilire la pace con gli alleati. Il cuore dell’orazione è l’attacco all’imperialismo della città, considerato ingiusto, inutile e causa della decadenza economica e morale interna. La redazione definitiva del Filippo, dedicato al re di Macedonia, è del 346, dopo la pace di Filocrate fra Atene e i Macedoni. Isocrate si rivolge a Filippo come possibile guida di una confederazione di Stati greci volta a ristabilire in Grecia la concordia, auspicando che il re si ponga a capo di una spedizione militare contro i Persiani. Il Panatenàico è di estrema complessità argomentativa  è un discorso di esaltazione di Atene che l’oratore finge di pronunciare alla festa cittadina delle Panatenee, composto negli ultimi anni di vita, alla vigilia di Cheronea, quando ormai l’egemonia macedone si era di fatto imposta sulla Grecia. L’orazione non presenta evidenti richiami alla realtà storica contemporanea, ma si connota per un forte carattere scolastico. Il messaggio centrale, l’encomio di Atene, lascia spazio a molti spunti autobiografici e alla difesa del proprio metodo educativo: una sorta di apologia.  Il corpus isocrateo comprende anche nove lettere, che costituiscono il più importante epistolario del IV secolo insieme a quello di Platone. Le lettere sono indirizzate a personaggi politici; la più antica, anteriore al 367, è indirizzata a Dionisio di Siracusa; in due, rivolte a Filippo di Macedonia, il tema è l’esortazione a una politica di amicizia con Atene e tutti i Greci contro la Persia; Il progetto educativo isocrateo Esso si fonda su presupposti nuovi: la realizzazione di un percorso formativo in grado di fornire all’individuo un sapere globale. Isocrate non intendeva istruire i suoi discepoli solo nella tèchne dell’eloquenza e in nessuna disciplina in particolare, ma fornire un insegnamento umanistico, tale cioè da abbracciare tutte le discipline umane. Questo programma era rivolto ai giovani aristocratici di tutta la Grecia ed era impartito dietro alti compensi; durava tre o quattro anni e doveva creare i presupposti pratici e teorici per il conseguimento del successo personale, da parte tanto dell’uomo politico quanto del privato cittadino. In ambito retorico, Isocrate esaltò da un lato la perfezione formale del discorso svincolato da finalità di tipo pratico, dall’altro sancì la superiorità della scrittura sull’oralità. Egli compose le sue orazioni direttamente per una pubblicazione scritta e una circolazione libraria, perché fossero lette e meditate, perché la loro efficacia e influenza durassero nel tempo e non fossero confinate all’occasione del momento. Per questa tendenza, il ruolo culturale e didattico di Isocrate si inserisce pienamente nella cultura del IV secolo, momento di incontro tra l’oratoria di stampo gorgiano, tesa a privilegiare l’oralità, e una nuova civiltà fondata sulla diffusione libraria e sulla lettura personale e meditata. Alla pòlis del passato, che vedeva la partecipazione diretta del cittadino alla vita pubblica, va sostituendosi la città del IV secolo, orientata alla perdita della propria autonomia. È alla Grecia intera, e non più solo alla singola pòlis, che Isocrate si rivolge, come fautore di una nuova visione panellenica della politica e della cultura. Con Isocrate, dunque, acquistano un ruolo primario gli aspetti formali del discorso: si parla perciò di prosa d’arte, che ambisce a competere sul piano estetico con la poesia e intende differenziarsene. Nel suo insegnamento, Isocrate comprendeva anche precise indicazioni sulla lingua e lo stile: scegliere bene un lessico vicino a quello usuale e solo moderatamente ornato; cercare un ritmo piacevole per l’orecchio, ma scansando i metri poetici ecc. 4. Demostene Demostene era uno scrittore molto attento alla forma e alla cura dello stile: era il modello indiscusso dell’oratoria deliberativa pronunciato davanti all’assemblea. Il convinto entusiasmo per Atene, la sua storia e le sue istituzioni democratiche, si coniuga con la difesa dell’autonomia di tutte le pòleis greche contro le ingerenze straniere. A differenza di Isocrate, Demostene è un uomo immerso nella vita politica attuale e Con la morte di Alessandro Magno nel 323 a.C. si apre nella storia culturale greca l’età ellenistica, che convenzionalmente si fa arrivare fino alla conquista romana del regno ellenistico d’Egitto (30 a.C.). La civiltà delle pòleis lascia il posto a quella dei regni ellenistici, formatisi all’inizio del III secolo dalla divisione dell’impero di Alessandro e sottomessi uno dopo l’altro da Roma entro la fine del I secolo. È un’epoca nella quale, in seguito alle conquiste di Alessandro, la cultura greca si diffonde enormemente e in profondità nei territori orientali, fondendosi con le culture locali dei vari paesi. Il periodo più antico o “alto Ellenismo”, comprendente i decenni finali del IV e l’intero III secolo, è caratterizzato dalla formazione e dal consolidamento di regni ad opera dei generali di Alessandro (i diàdochi) e dei loro discendenti. Con l’inizio del III secolo si configurano tre grandi domini: - l’Egitto sotto la dinastia dei Tolomèi; - il regno di Siria, comprendente il Medio Oriente e parte dell’Asia Minore, sotto i Selèucidi; - il regno di Macedonia, comprendente anche la Grecia, sotto gli Antigònidi. - a Pergamo in Asia Minore, dove si affermerà la dinastia degli Attalidi. Dopo la morte di Alessandro e durante le lotte dei diadochi per la spartizione dell’impero, alcune città greche si illusero di poter mantenere o riconquistare la libertà: ma le ribellioni al domino macedone sfociarono in dure repressioni. Un altro cambiamento di enorme portata storica derivò dall’apertura di nuovi orizzonti geografici e di nuove relazioni culturali e intellettuali, determinata dalle imprese di Alessandro in Oriente. La civiltà greca si trovò a confronto diretto con altre culture, con le quali convivere e fondersi. Evoluzioni di pari portata, nel frattempo, interessavano il Mediterraneo centrale  con la prima guerra punica (264-241) e con la conquista della Sicilia, il raggio d’influenza di Roma fece un decisivo salto di qualità; il superamento della crisi della seconda guerra punica o “annibalica” (218-202) la lasciò potenza incontrastata dell’area. Verso la fine del III secolo l’occasione di affacciarsi sulle vicende della Grecia venne offerta dall’alleanza di Annibale con il re di Macedonia Filippo V (215). Per un decennio, fino al 205, Roma tenne aperto il fronte militare adriatico (prima Guerra Macedonica), proponendosi come paladina della libertà della Grecia contro il dominio macedone e così garantendosi il favore e il consenso delle pòleis. Gli eventi subirono una svolta decisiva alla conclusione della terza Guerra Macedonica, quando il successore di Filippo V, Perseo, fu sconfitto dai Romani nella battaglia di Pidna (168): la Macedonia fu divisa in quattro repubbliche e nelle città greche prevalsero i partiti filoromani. Non passò molto tempo perché le intenzioni egemoniche dei Romani divenissero evidenti  quando la Lega Achea, capeggiata da Corinto, tentò una reazione militare al dominio romano Corinto fu conquistata e distrutta: era il 146, lo stesso anno della distruzione di Cartagine nella terza guerra punica. Allora la penisola greca divenne terreno di saccheggio e di rapina per i comandanti e gli eserciti romani. Poco più di un secolo dopo, tutto il mondo ellenistico fu riunificato dentro l’immenso dominio romano. 2. La civiltà letteraria ellenistica L’ampliarsi a dismisura dell’area di diffusione della lingua e della cultura greca si espresse in fenomeni di integrazione con altre culture in diverse zone dell’Oriente. In un certo senso si può parlare di una nuova colonizzazione, che si realizzò inizialmente con l’impresa di Alessandro e dei suoi eserciti: le civiltà del Vicino e del Medio Oriente assimilarono i caratteri tipici della civiltà greca, senza però annullare le differenze culturali, ma mescolandosi producendo nuove sintesi. Un potente fattore di unificazione fu la lingua greca, nella forma chiamata koinè diàlektos. La rottura del perimetro ristretto della pòlis determinò l’emergere di nuovi centri di cultura  spicca Alessandria, fondata da Alessandro nel 332 e diventata (con i Tolomei) centro di primaria importanza in vari settori. Ma Alessandria non fu l’unica: Cartagine, Pergamo, che fu per un certo tempo la rivale di Alessandria; poi Antiochia e altre ancora; finché compare sulla scena politica e militare Roma, che rapidamente diventa il principale polo di attrazione anche nel campo della cultura. Ogni dinastia, ogni sovrano investivano risorse ingenti per celebrare sé stessi, la propria città e il proprio regno con iniziative urbanistiche, edilizie, artistiche e culturali di ogni genere. Quello che fecero i Tolomei ad Alessandria e gli Attalidi a Pergamo sono esempi ben noti, ma il fenomeno era assai diffuso nelle corti ellenistiche e da questa magnificenza le scienze, le arti e le lettere ricevettero un forte impulso e ricavarono grandi benefici. Due aspetti della mentalità ellenistica sono da porre in relazione con l’ampliamento degli orizzonti culturali. 1. È naturale che nella letteratura e nel pensiero sia andata diffondendosi una visione cosmopolita. 2. D’altra parte, però, riscontriamo una spiccata tendenza all’individualismo: l’artista avverte se stesso come un singolo, che parla come tale e non per conto di una comunità e che si rivolge a gruppi di individui, non a una collettività. Gli intellettuali dell’età ellenistica hanno la chiara consapevolezza di avere alle spalle una grandiosa tradizione di arte e di pensiero. La coscienza di questa imponente eredità è all’origine di due fenomeni collegati: lo sforzo di conservare, interpretare e capire i testi consacrati dalla tradizione; e un atteggiamento di confronto competitivo con i modelli del passato. La cosiddetta “poesia dotta”, che caratterizza l’età ellenistica e in modo particolare quella di area alessandrina, è una sintesi di questi due aspetti. La letteratura di età ellenistica Uno degli effetti più tipici dell’erudizione dei poeti è la trasformazione e contaminazione dei generi letterari le categorie letterarie vengono ridisegnate anche profondamente e diventano strutture aperte agli esperimenti e alle innovazioni. È un processo che va di pari passo con l’affermazione della civiltà del libro: nel corso dell’età ellenistica la comunicazione letteraria fu affidata prevalentemente alla lettura individuale e, per gran parte delle opere conservate, riguardava un pubblico ristretto e selezionato. Si differenziò così una cultura “alta” da una cultura popolare. - Poesia e prosa conobbero stagioni molto floride; - tramontata la grande tragedia classica, è il teatro comico a prodursi in nuovi sviluppi, dei quali possiamo farci un’idea dai resti delle opere di Menandro. - La maggior parte della poesia conservata appartiene al III secolo e alla prima parte del II e fu scritta in Alessandria  abbiamo ben poco, invece, della poesia scritta dopo la metà del II secolo. - Il periodo vede il grande fiorire dell’elegia e dell’epigramma. È questa la stagione del grandioso sviluppo delle scienze e delle tecniche, che trovano il loro fulcro soprattutto nel clima di fervore culturale che anima Alessandria: astronomia, matematica, meccanica e medicina sono le discipline che raggiungono i maggiori risultati e che esprimono anche una loro “letteratura” in prosa. A questa produzione di tipo tecnico possiamo affiancare un altro fenomeno nuovo  il progredire della filologia alessandrina, con i suoi decisivi effetti sulla conservazione della civiltà letteraria anteriore e sulla formazione di originali orientamenti poetici. 2. Il teatro oltre la «pòlis» 1. Eredità e nuovi sviluppi Il teatro, nel corso dell’età ellenistica fu interessato da profonde trasformazioni. Di pari passo con l’affievolirsi dell’autonomia delle pòleis, mutarono le dinamiche di committenza, allestimento ed esecuzione degli spettacoli, che ricevettero un particolare sostegno da sovrani e tiranni interessati a dare lustro al proprio nome. Con la diffusione su larga scala degli edifici e delle rappresentazioni nel mondo greco ed ellenizzato, la scelta di temi e soggetti drammatici cessava di modellarsi sule esigenze di una specifica comunità, per attingere argomenti e problematiche di carattere universale. Tuttavia, a una condizione più cosmopolita corrisponde, per contro, un maggiore individualismo  il singolo parla per sé stesso e non per una comunità. Si capisce che mutamenti di questa portata non potevano non incidere sui generi drammatici, un tempo intimamente intrecciati alla vita quotidiana della pòlis. Tra la fine del IV e il III secolo fiorì una tragedia dal carattere marcatamente encomiastico: attraverso la rappresentazione di episodi mitici o di avvenimenti storici del passato, spesso l’autore indirizzava un elogio al suo mecenate, esaltandone le doti e le imprese. Dal punto di vista drammaturgico, gli autori accentuarono le tendenze già visibili negli sviluppi del IV secolo: - prevalenza degli elementi emotivi e patetici su quelli narrativi - riduzione delle parti corali a vantaggio delle esecuzioni solistiche con accompagnamento musicale - ricerca di effetti spettacolari a livello di scenografia e di soluzioni registiche. Degli autori ellenistici ci sono pervenuti parecchi nomi e titoli di tragedie ma una scarso numero di frammenti. Accanto alla produzione di opere originali, si consolidò la prassi di mettere in scena repliche delle opere dei grandi drammaturghi del V secolo, tra i quali la preferenza andava a Euripide. Nei nuovi allestimenti non mancavano interventi di modifica del testo o soluzioni sceniche e di regia indirizzati a puri scopi di spettacolarizzazione. Il messaggio dell’autore veniva offuscato a favore dell’esecuzione degli attori, sulle cui abilità virtuosistiche si appuntava l’attenzione del pubblico e da cui dipendeva il successo della rappresentazione. La commedia risentì delle mutate condizioni politiche e culturali ancor più del teatro tragico. Le trasformazioni tematiche e drammaturgiche della commedia affondano le radici già nell’ultima produzione superstite di Aristofane e nella Commedia di Mezzo, ma ora le portano a maturazione, privilegiando trame ispirate alla vita quotidiana e familiare, con l’introduzione di figure tratte dalle classi sociali medio-basse e la tendenza a fissare questi personaggi in tipi umani più o meno stereotipati e convenzionali. L’eroe comico è ridimensionato e identifica infatti con personaggi della vita comune, rappresentati nella dimensione privata della famiglia e dei legami individuali. La commedia ellenistica, o Commedia Nuova, ci è nota soprattutto dall’opera di Menandro  possediamo solo frammenti delle opere di altri commediografi. Nel panorama del teatro buffo si deve ricordare il fliace, un genere spettacolare di natura parodica che si sviluppò in Italia meridionale tra la Commedia di Mezzo e la Commedia Nuova e il cui “inventore” era riconosciuto dagli antichi in Rintone, un autore che visse per lo a Taranto. Fliace era il nome di una divinità o demone grottesco associato al culto di Dioniso e preposto alla fecondità. Il carattere parodico di questo genere di rappresentazione è evocato dal termine ilarotragedia («tragedia divertente»), con cui era designata la forma letteraria del fliace perfezionata da Rintone: si trattava infatti di messe in scena scherzose di soggetti mitologici consueti della tragedia attica. 2. Menandro La parabola esistenziale di Menandro si colloca nei decenni della transizione dall’età della pòlis autonoma all’avvento dell’egemonia macedone con Filippo e Alessandro e infine all’instaurarsi delle monarchie assolute. Nato verso il 342 ad Atene da famiglia nobile, durante il governo oligarchico di Demetrio Falereo, Menandro strinse con lui rapporti di amicizia. Morì verso il 290. Menandro fu autore di oltre cento commedie. La sua opera godette di grande fortuna press i Romani e fino alle soglie del Medioevo, ma non resse alla selezione di età bizantina e cadde nell’oblio. Fra i titoli noti, alcuni sono ispirati a un carattere scenico, al mondo dei mestieri, a personaggi o ad oggetti attorno ai quali doveva ruotare l’intreccio; altri titoli esprimono rapporti di parentela o la provenienza geografica di un personaggio. Una serie di ritrovamenti papiracei nel corso del XX secolo hanno riportato alla luce ampie parti di diverse commedie e numerosi frammenti di altre. La letteratura perde il collegamento con la concreta occasione in vista della quale era concepita  si sviluppa l’esigenza di una poesia dotta, cioè che scaturisca dalla conoscenza profonda sia della letteratura passata, sia di un’erudizione ampia e variegata. Spesso il poeta diviene redattore ed editore delle proprie raccolte poetiche, filologo di se stesso. Assumono un ruolo centrale la cura formale del testo e la ricerca dell’originalità, intesa come rifiuto della ripetizione dei modelli e capacità di trarre dalla tradizione forme ed esiti letterari nuovi e inediti. Si ha dunque una certa vena sperimentale dei poeti, che si esprime soprattutto nella mescolanza di forme e registri stilistici diversi, per la quale si è coniata la definizione di “contaminazione dei generi”. La perdita del rapporto della poesia con la musica e dello stretto legame fra la composizione poetica e la concreta occasione di canto comportò l’abbandono del sistema ritmico e metrico caratteristico della melica. Molte sequenze metriche furono mantenute come strutture stichiche  i poeti cioè usarono in serie, sequenze che un tempo erano parti di strutture ritmiche concepite in funzione dell’esecuzione melodica e dell’accompagnamento musicale. L’elegia Nel campo della poesia recitativa dell’epoca precedente, ebbero grande diffusione i generi dell’elegia e dell’epigramma, entrambi in distici elegiaci. L’elegia predilige la forma narrativa ed è incentrata sul racconto di un episodio, generalmente tratto dal mito, e sulla delineazione del contesto, della situazione, degli stati d’animo. Si privilegiano le vicende d’amore ricche di pàthos e si dà spazio all’esperienza sentimentale individuale. Un altro aspetto tipico dell’elegia ellenistica è l’interesse eziologico, cioè l’esposizione della «causa» o dell’origine di fenomeni e tradizioni culturali e religiosi, o anche di nomi e di oggetti, spesso individuata in episodi mitici. Il gusto per l’àition divenne presso gli autori ellenistici uno strumento “scientifico” dello studio antiquario per spiegare le cause di fenomeni e tradizioni ancora osservabili nel presente. Una delle più antiche figure di questa simbiosi di erudizione e nuova poesia era Filita di Cos (circa 34O-285), che fu precettore ad Alessandria del futuro Tolomeo II Filadelfo e a Cos fondò un cenacolo che propugnava l’ideale di una poesia colta, raffinata ed esclusiva. Le sue elegie rivestirono un ruolo fondamentale per gli sviluppi della poesia elegiaca latina d’amore. L’epigramma Al pari dell’elegia, l’epigramma poteva vantare origini letterarie arcaiche. Come dice il nome, era in origine un testo scolpito o inciso, un’epigrafe apposta su un oggetto allo scopo di onorare o commemorare qualcuno. L’origine epigrafica del genere spiega la caratteristica brevità degli epigrammi, spesso limitati a uno o due versi; alla brevità corrisponde la concisione efficace dello stile. Il metro più diffuso durante l’età arcaica era l’esametro dattilico  a partire già dal VI secolo il metro usuale dell’epigramma è il distico elegiaco. Durante l’età classica il genere fu portato a un alto livello di raffinatezza e conseguì statuto di genere letterario a tutti gli effetti. In età ellenistica il genere godette di una rinnovata e feconda vitalità, guadagnandosi uno spazio autonomo perché rispondeva alla concezione poetica che prediligeva la poesia breve ed elegante. Diversamente dall’elegia, l’epigramma consentiva di esprimere pensieri e sentimenti soggettivi con toni più immediati e personali. Si è soliti distinguere alcuni filoni o “scuole” epigrammatiche, sulla base di scelte di stile e di contenuto operate dai diversi autori. - Sotto l’etichetta di scuola peloponnesiaca si raggruppano autori di ambiente e lingua dorici che privilegiavano le rappresentazioni paesaggistiche e i quadri naturali e amavano uno stile pieno di immagini e dalla ricca aggettivazione. - La scuola ionico-alessandrina presenta autori attivi nei principali centri ellenistici di area ionica o ad Alessandria: portavoce di una cultura raffinata, scrivono una poesia cittadina che privilegia il tema erotico e quello simposiale, esprimendo gli stati d’animo e l’èros nei loro risvolti fisici e senza sentimentalismi, celebrando il piacere concreto della vita spensierata e ignorando i toni pensosi e pessimistici. Lo stile è normalmente sobrio e persegue una raffinata semplicità. Appartengono a questo filone: Callimaco, Alessandro Etolo, Posidippo di Pella e altri. - La scuola fenicia si sviluppò tra il II e il I sec. a.C. Questa era così denominata dalla provenienza dei suoi più noti esponenti: Antipatro di Sidone, Meleagro di Gadara e Filodemo di Gadara. Questi autori accentuarono la rielaborazione letteraria dei motivi sepolcrali, erotici e votivi, visibile soprattutto nel gusto per la variazione insistita su un medesimo tema La poesia giambica Trova continuità nell’opera di Callimaco e di poeti come Fenice di Colofone. L’epica, l’epillo e l’idillio L’esametro dattilico conferma la propria longevità continuando a essere impiegato nell’epica e nella sua versione “minore”, l’epìllio, oltre che in certe interpretazioni dell’inno religioso. Il verso fu assunto nel nuovo genere dell’idìllio, di contenuto e ambientazione pastorali o bucolici. Un filone di particolare successo fu quello della poesia didascalica, che prese un orientamento scientifico sotto l’impulso delle indagini effettuate all’interno del Peripato e del Museo alessandrino. 2. Callimaco: nuova poetica e filologia Callimaco nacque negli ultimi anni del IV sec. a.C. a Cirene, antica colonia greca sulla costa libica dell’Africa, e si trasferì ad Alessandria spinto dalle necessità economiche, per esercitarvi l’attività di maestro elementare. Entrò in contatto con la corte di Tolomeo II Filadelfo e, ricevuto un incarico all’interno del Museo, vi restò anche nella prima parte di regno del successore, Tolomeo III Evergete. La data della morte deve essere posta intorno al 240. Callimaco scrisse in versi e in prosa. Tra le opere poetiche si sono conservate, intere o in frammenti: - Gli Inni: I 6 Inni sono dedicati a divinità e feste religiose. L’ordine in cui sono tramandati sembra rispondere a una logica precisa e coerente, risalente alla disposizione editoriale voluta dall’autore. I primi quattro, in esametri, ruotano attorno alle divinità di Zeus e Apollo e hanno caratteristiche tradizionali, essendo composti in dialetto epico-ionico. Gli ultimi due inni si differenziano dai precedenti per la scelta del dialetto dorico, per la struttura alla maniera dell’elegia narrativa contemporanea, e soprattutto per il carattere mimetico, cioè l’imitazione della reale e vivida atmosfera dell’occasione rituale. Gli Inni callimachei non hanno più l’antica funzione di accompagnare la marcia processionale dei devoti nelle occasioni religiose, sono sganciati dall’effettivo momento rituale: nascono come testi letterari destinati alla lettura di un pubblico colto. - la raccolta di elegie intitolata Àitia («Cause»). Le elegie furono composte nel corso degli anni e poi ordinate in 4 libri dall’autore stesso, come si evince dal Prologo e dall’Epilogo. Il titolo allude al carattere comune di tutti questi componimenti: mostrare l’origine di feste religiose, miti, culti, istituzioni, città, nomi, secondo un gusto erudito e poetico che ben si inquadra nel contesto colta e raffinata attività del Museo di Alessandria. L’interesse eziologico costituiva un aspetto della ricerca antiquaria dei filologi alessandrini, volta a spiegare le cause della formazione di tradizioni e fenomeni culturali. All’inizio della raccolta, Callimaco immagina di incontrare in sogno le Muse, dèe della poesia, e di dialogare con loro. Questa cornice costituisce, per i primi due libri, la macrostruttura nella quale si inserisce la serie delle elegie, concepite come risposte delle Muse agli interrogativi del poeta. I libri III e IV furono concepiti e ordinati da Callimaco come una coppia relativamente distinta dalla prima, definita da aspetti strutturali e tematici propri. Il legame principale è stabilito dal nesso fra l’elegia di apertura del III libro e quella conclusiva del IV, rivolte entrambe alla regina Berenice. - i Giambi: nell’edizione originale gli Àitia erano seguiti dai Giambi, componimenti ispirati all’arcaico stile vivace e aggressivo delle poesie di Archiloco e Ipponatte. In realtà, Callimaco trae ispirazione dal genere arcaico per innovare le caratteristiche metriche, formali e di contenuto, adottando una varietà di metri e di argomenti ignota ai giambografi dell’età arcaica. La poetica della varietà si esprime a livello metrico, linguistico e contenutistico. Particolarmente rilevanti sono i giambi 1 e 13 per le dichiarazioni di poetica che contengono. Nel primo Callimaco immagina che il poeta Ipponatte prenda la parola in prima persona e dichiari di giungere dall’Oltretomba «portando un giambo che abbandona i toni aspri e aggressivi della giambografia tradizionale. Ipponatte prosegue invitando i dotti del Museo alessandrino a deporre i motivi di litigio e ad abbracciare la modestia e la concordia reciproca. Nel Giambo 13 Callimaco rispondeva a coloro che gli rimproveravano la «varietà» dei suoi componimenti che l’arte poetica è una tèchne, apprendendo la quale il poeta è in grado di praticare forme diverse, alla maniera dell’artigiano - l’epillio Ecale narrava un episodio della saga dell’eroe attico Teseo. Questi, giunto di sera da Atene nella piana di Maratona, per affrontare il terribile toro che infesta la zona, ha trovato riparo da un temporale nell’umile casa di una vecchia di nome Ecale. Il giorno dopo, all’alba, Teseo va in cerca del toro e, trovatolo, riesce a domarlo. L’eroe fa ritorno alla casa della vecchia per ricompensarla della sua ospitalità, ma trova che essa è morta improvvisamente: decide allora di renderle omaggio con l’istituzione di un nuovo demo attico cui assegna il nome di Ecale e con la fondazione del santuario di Zeus Ecaleio. Callimaco attua un chiaro mutamento del punto di vista: l’eroe passa in qualche modo in secondo piano e la protagonista diviene Ecale. L’Ecale, in un certo senso, rappresenta l’epica secondo il gusto di Callimaco, priva cioè dei connotati eroici dell’èpos tradizionale, fra i quali l’altisonanza e l’ampiezza del racconto. - gli Epigrammi callimachei sono tramandati nell’Antologia Palatina e da altre fonti. Trattano temi usuali del genere e, in qualche caso, questioni di poetica. Gli Inni e gli Epigrammi sono le sole opere giunte da manoscritti medievali, in raccolte di poesia innografica ed epigrammatica: nessun’altra opera callimachea ha superato l’argine dell’età bizantina  dobbiamo ciò che abbiamo alla tradizione indiretta e a cospicui rinvenimenti su papiro e su pergamena. Le raccolte degli Inni e degli Àitia mostrano nella struttura di essere frutto della volontà editoriale di Callimaco: per la prima volta l’autore è anche editore dei suoi testi, determinando la precisa fisionomia delle proprie opere attraverso una studiata disposizione all’interno della raccolta poetica complessiva. Callimaco componeva i suoi testi poetici nel tempo, con il verificarsi delle occasioni di canto e seguendo l’ispirazione: in un secondo momento egli raccoglieva, ordinava e disponeva in libri i componimenti secondo un criterio formale o tematico. Stile e caratteristiche di Callimaco Uno dei capisaldi della poetica callimachea è l’avversione per la poesia lunga e la preferenza per la poesia breve, strutturalmente e stilisticamente «leggera». Non solo poesia breve e dai toni lievi: anche poesia colta, prodotto della sottile e profonda competenza filologica e letteraria dell’autore, che lo rende sovrano nel campo. Callimaco rivendica la libertà di praticare forme diverse di poesia, di trattare a suo piacimento modi e contenuti tradizionali e di contaminarli in una varietà originale e innovativa. Un requisito della poesia breve e colta prediletta da Callimaco è la sua aristocratica esclusività. Egli prende le distanze dalla poesia che per incontrare il facile gusto della massa fa ricorso al repertorio epico e fa appello ai gusti di facile presa. La lingua poetica di Callimaco corre fondamentalmente nel solco della tradizione omerica, ma con copiosi e visibili elementi innovativi: nell’impasto linguistico tradizionale inserisce forme della koinè e, nei giambi, elementi dialettali. 3. Apollonio Rodio e l’epica ellenistica Nel VI e nel V secolo, l’affermarsi prima della lirica e poi del teatro spinsero l’epica in secondo piano, così da determinare per il genere una perdita di vigore e di produttiva. L’età ellenistica sembra avere riservato al genere epico due sviluppi separati e distinti. Quando Callimaco esprimeva avversione per la poesia lunga, intendeva riferirsi all’epica di impronta omerica che poeti suoi morte di Dafni, il bellissimo pastore allevato dalle Ninfe dei boschi, con i toni del lamento funebre e descrivendo pastori, animali e dèi che accorrono al cospetto del moribondo. I viandanti è il titolo dell’idillio V, pure in esametri, ritenuto uno dei più rappresentativi della produzione teocritea perché mette in scena, nella forma del dialogo drammatico diretto, un agone bucolico, cioè la competizione verbale fra pastori in vista di un premio. La struttura a battute alterne, a (“botta e risposta”) sembra rispecchiare il reale andamento di questo genere di competizioni agresti dal tono aggressivo, in cui la vittoria spettava a quello fra i due contendenti che meglio avesse ricambiato gli attacchi dell’avversario. Nelle Talìsie, l’idillio VII, la critica ha riconosciuto una velata dichiarazione di poetica che è anche una sorta di auto consacrazione del poeta a inventore del genere bucolico. Teocrito mette in scena se stesso sotto le spoglie del pastore Simichida, che racconta un episodio verificatosi durante un suo viaggio a Cos in occasione delle feste Talisie in onore di Demetra. Imbattutosi con due amici nel capraio Licida, ritenuto da tutti un grande poeta, dopo uno scambio di battute Simichida propone una gara bucolica. I due si esibiscono a turno nel canto pastorale e alla fine Licida rende omaggio al valore poetico di Simichida. L’idillio si chiude con la descrizione di una natura lussureggiante, dove trionfano profumi e colori. Gli idilli bucolici teocritei mostrano alcune peculiarità formali  l’insieme metrico-linguistico reca l’impronta di una lingua artificiale. Il metro prevalente è l’esametro, usato con modalità inedite per la sequenza epica, come apostrofi colloquiali, forme popolari e dialogo amebaico. Il forte colorito dorico della lingua si innesta su un fondo sostanzialmente ionico-omerico. La preferenza per la poesia breve, dal contenuto circoscritto e dalla forma raffinatamente elaborata, è un elemento che accomuna il poeta ad altre figure contemporanee, primo fra tutti Callimaco. Tuttavia l’apporto più originale di Teocrito viene dalla scelta dell’ambito pastorale, con la creazione di un linguaggio d’immagini e di stile che avrà molta fortuna a Roma. La peculiarità della scelta teocritea consiste nell’avere individuato un mondo sociale umile come spazio idealizzato di espressione di una sensibilità poetica raffinata ed elitaria. L’idealizzazione non esclude il realismo  la rappresentazione della sfera agreste avviene con un notevole sforzo di aderenza alla realtà. Tuttavia questa rappresentazione appare lontanissima da un vero realismo, inteso nel senso moderno di rispecchiamento della realtà concreta. Il mondo bucolico è completamente trasfigurato, per cui i tratti e i contenuti presi dal vero ambiente della natura e del lavoro campestre servono a costruire un mondo poetico del tutto fittizio e rivisitato letterariamente. 4. La storiografia Anche la produzione storiografica del III e del II secolo è in gran parte è andata perduta. Il fulcro dell’interesse storiografico si identificò con le vicende di Alessandro Magno e dei regni risultati dallo smembramento del suo impero  all’origine di questo filone storiografico stanno l’enorme importanza delle imprese compiute dal sovrano macedone e la sua personalità eccezionale. A partire dai resoconti di viaggio degli uomini che lo avevano accompagnato, si sviluppò una letteratura che univa all’intento storiografico aspetti della biografia, dell’encomio e del racconto d’avventura, con un gusto narrativo e descrittivo che dava a questi testi una decisa connotazione letteraria, a scapito della ricostruzione storica. Fra le caratteristiche della storiografia incentrata su Alessandro emerge l’ottica encomiastica, il cui iniziatore era ritenuto Callistene di Olinto, storico ufficiale della spedizione del sovrano in Oriente: i comportamenti del re non consoni all’etica tradizionale venivano minimizzati esaltandone la natura sovrumana. La storiografia di Onesicrito di Astipalea pare essersi caratterizzata per l’abbondanza degli elementi palesemente fantastici. La tradizione posteriore Alessandro include opere di carattere non storiografico e il Romanzo di Alessandro, punto di arrivo della tendenza a romanzare la figura e le vicende del re macedone. In quest’opera, il cui autore è indicato come “pseudo-Callistene” perché è stata erroneamente attribuita allo storico, il gusto per l’avventura e per i dettagli fantasiosi ha definitivamente sopraffatto l’intento storiografico. Fra gli storici dei diadochi va ricordato anzitutto Ieronimo di Cardia sull’Ellesponto (36O-265), autore di un’opera intitolata Gli avvenimenti dopo Alessandro o Storia dei diadochi: era la prima storia greca che si occupava di Roma, raccontando le origini della città. Polibio Uno dei principali storici della letteratura greca antica, è Polibio. Egli nacque in Arcadia verso il 205 a.C. e, dopo un’accurata istruzione, intraprese la carriera politica e militare. Nel 168, quando la vittoria romana a Pidna pose fine all’egemonia macedone in Grecia, nelle pòleis prevalse il partito filoromano: Polibio e altri esponenti della Lega Achea, che avevano tenuto un atteggiamento tiepido verso i conquistatori, furono inclusi nel numero di mille ostaggi che avrebbero seguito il vincitore, il console Lucio Emilio Paolo, nel suo trionfo a Roma. Qui Polibio godette dell’amicizia di Scipione Emiliano ed entrò nella cerchia politica e culturale degli Scipioni, che in quegli anni promuoveva una tendenza culturale filoellenica. Le competenze di Polibio rafforzarono i rapporti con il suo protettore, che lo elesse a proprio consigliere militare e lo portò con sé in varie missioni. Verso il 150 Polibio recuperò la condizione di uomo libero e nel 146 fu presente alla distruzione di Cartagine e a quella di Corinto. Polibio cercò di offrire un ultimo servizio alla patria greca rendendo più miti i vincitori romani e cercando di convincere i Greci ad accettare la superiorità militare di Roma. Gli fu affidata l’attuazione del nuovo ordine stabilito da Roma in Grecia: nell’espletamento di questa funzione si guadagnò la riconoscenza di molte città. Morì fra il 123 e il 118.  Le Storie sono la sua opera principale, in 40 libri, di cui restano i primi cinque più estratti o brevi stralci degli altri libri. La composizione delle Storie dovette protrarsi per un ventennio e la loro pubblicazione avvenne quando l’autore era già morto. L’importanza dell’opera risiede nel fatto che per la prima volta un autore greco adottava come punto di vista e filo conduttore non le vicende interne della Grecia, bensì l’affermazione della potenza militare e politica di Roma. L’attenzione si sofferma essenzialmente sulle azioni politiche e militari  Polibio partiva dal 264, anno d’inizio dello scontro di Roma con Cartagine, e arrivava fino al 144, due anni dopo la distruzione di Cartagine e Corinto. L’autore definisce i libri I-II una «preparazione»  vi sono esposti i principi metodologici e l’annuncio della materia dell’opera, seguiti da una sommaria ricostruzione degli anni 264-220. L’argomento dei libri III-V sono i fatti accaduti in Italia e in Grecia fino alla battaglia di Canne (216), in cui Roma subì una delle più drammatiche sconfitte della sua storia ad opera di Annibale. Il VI libro prendeva in esame l’assetto istituzionale di Roma, con una descrizione analitica degli ordinamenti statali. Nel resto dell’opera (libri VII-XL) la narrazione procedeva con criterio annalistico sugli avvenimenti occidentali e orientali. Per gli avvenimenti passati, di cui non è stato testimone, Polibio ha usato le ricostruzioni di autori precedenti, mentre dei fatti contemporanei gli è capitato di essere testimone in prima persona o ha potuto acquisire informazioni di prima mano. In più occasioni Polibio esprime nella sua opera una personale teoria della storia. Nell’excursus sulla costituzione romana e sulle forme di governo (libro VI) sono riconoscibili due teorie di ascendenza greca: - quella del mutamento progressivo delle forme costituzionali, secondo cui un tipo degenera nell’altro; - la teoria della costituzione mista, che garantisce l’equilibrio fra i diversi poteri attraverso una bilanciata combinazione di elementi monarchici, aristocratici e democratici. Polibio riconosceva nella costituzione di Roma la realizzazione della forma mista e a questo fattore attribuiva il successo e la longevità del potere romano. Il contributo originale di Polibio consiste probabilmente nell’idea del ritorno ciclico delle medesime forme di costituzione (anakỳklosis) ,conseguenza del passaggio successivo dall’una all’altra. Neppure la costituzione di Roma, nonostante la sua eccellenza, potrà eludere questa ciclica trasformazione: l’analisi polibiana contiene la previsione dell’ineluttabile decadenza della costituzione romana. Numerosi sono i passi che affrontano in modo esplicito la discussione sul metodo storiografico. Il fine della storiografia è indicato nella verità  tuttavia lo sforzo dello storico di essere oggettivo e imparziale trova ostacolo nella sua passione politica, che si traduce talvolta in patriottismo, quando concede troppo spazio alle vicende della Grecia, e talvolta nella tendenza filoromana, dovuta agli stretti rapporti personali con gli Scipioni e all’ammirazione per Roma. La volontà di veridicità si traduce nella ricerca delle cause dei fatti storici, che Polibio distingue in tre tipi: - il pretesto - la causa vera - l’«inizio» o atto scatenante. L’idea che il fine dello storico debba essere la verità deriva una concezione utilitaristica del suo lavoro  la comprensione della storia è utile al presente dell’uomo. Lo scopo utilitaristico comporta che l’attenzione dello storico sia rivolta essenzialmente alle vicende politico-militari, alle azioni dei popoli, delle città e delle dinastie regali e che la sua indagine si avvalga dello studio delle fonti e della diretta esperienza dei dati geografici, politici e militari. Si riafferma così anche l’idea che oggetto dello storico debba essere un unico grande avvenimento contemporaneo, tale da permettere una conoscenza diretta e affidabile dei fattori decisivi della storia. Dinanzi a questo impianto metodologico molto razionale, può sorprendere che nella narrazione polibiana ampio spazio sia concesso all’incidenza della tỳche, il «caso», vista ora come una sorta di provvidenziale reggitrice del mondo, ora come un’entità “invidiosa” della prosperità umana. A questa visione quasi religiosa del caso fa da contraltare l’idea che la religione ufficiale sia un’invenzione del potere per meglio governare le masse. Stile  La sua lingua è la koinè ellenistica delle cancellerie, attica nella grammatica, meno attica nel lessico e nella sintassi. Anche della storiografia del I sec. a.C. si è conservato poco. Il retore e filosofo Posidonio di Apamea in Siria (circa 135-51) resse una famosa scuola di retorica a Rodi e fu autore di - Storie dopo Polibio, che coprivano il periodo 144-86 - Storie su Pompeo, forse fino al 59: sembra che vi coniugasse interessi geografici ed etnografici al rigore del metodo storiografico. Caratteristica della sua visione della storia è l’idea che l’umanità sia avviata a una progressiva decadenza, evidente nel mondo orientale, al quale contrapponeva la semplicità, la giustizia e la religiosità dei Romani. Età imperiale 1. La civiltà greco-romana 1. La Grecia provincia dell’impero Nella definizione di età imperiale o età romana della letteratura greca si comprendono i primi sei secoli dopo la nascita di Cristo, durante i quali il mondo ellenizzato è parte integrante dell’impero romano. Si distingue: - una prima età imperiale, dall’epoca augustea fino al III secolo - un’età “tardoantica”, comprendente i secoli IV-VI, che prende avvio con il regno di Costantino (306- 337) e il cui tratto distintivo è la fusione di elementi romani, greci e cristiani. La letteratura del VI secolo (età giustinianea) può essere vista come fase terminale della civiltà letteraria antica o come prima manifestazione della letteratura bizantina. La data d’inizio dell’età imperiale è tradizionalmente il 30 a.C., l’anno della conquista romana dell’Egitto dopo la battaglia di Azio (31 a.C.)  le navi di Ottaviano sconfissero la flotta guidata da Antonio e Cleopatra, che ripararono in Egitto e si diedero spontaneamente la morte. Ottaviano cumulò sulla sua persona una serie di cariche e funzioni di potere militare, civile e religioso, assumendo nel 27 a.C. il titolo di Augustus, che sanciva di fatto il ritorno di Roma, dopo quasi cinque secoli, dalla repubblica alla monarchia assoluta. (II-III secolo) attestano che con questa denominazione gli autori esprimevano la volontà di richiamarsi alla Sofistica classica. Classicismo e atticismo erano i due pilastri ideali cui si ispiravano questi retori e intellettuali, esponenti dell’alta cultura delle provincie orientali ellenizzate dell’impero. Il loro prestigio culturale e il loro successo politico andavano spesso di pari passo: gli uomini di cultura che si richiamavano alle antiche tradizioni elleniche erano ben integrati nella vita politico-sociale dell’attualità greco-romana. Un ruolo importante rivestivano le Tèchnai, i manuali legati all’insegnamento dei maestri di retorica, di cui restano sunti ed estratti, come ad esempio i Progymnàsmata (Esercizi preparatori) di Elio Teone (fine I secolo). Abbiamo opere intere soltanto di Ermogene di Tarso (II-III secolo), la cui Tèchne era ritenuta dagli antichi un punto di riferimento: con lui la dottrina retorica arriva a una totale astrazione normativa, svincolata dall’esemplificazione concreta offerta dai testi. Nella tradizione abbiamo notizie confuse a proposito di quattro Filostrati, che non è sempre facile distinguere l’uno dall’altro. Il più importante e conosciuto è il secondo, Flavio Filostrato (II-III secolo), detto anche il Maggiore, autore delle Vite dei sofisti. La sofistica tarda Dopo il III secolo, che segna una fase di decadenza, il IV vede una nuova rinascita della retorica fondata sulla ripresa degli autori attici di età classica. Il fulcro degli studi retorici si spostò da Roma a Costantinopoli, la nuova capitale. La retorica non fu il terreno di uno scontro intollerante, ma lo scenario in cui la cultura classica confluì in quella cristiana. Questo fenomeno viene denominato sofistica tarda. I più grandi esponenti sono: - Imerio di Prusa in Bitinia (IV secolo) fu maestro di eloquenza a Costantinopoli e ad Atene, dove ebbe come discepoli i Padri cristiani. Restano, incompleti, 24 discorsi, il cui tratto peculiare è lo sforzo di emulare in prosa artifici, assonanze e musicalità di poeti lirici arcaici. - Temistio (circa 317-388), originario della Paflagonia, aprì una scuola a Costantinopoli. Abbiamo 34 orazioni, in cui il retore auspica uno Stato governato dalla filosofia e regolato dalla filantropia  suggerì a Teodosio una politica di pace nei confronti dei barbari e verso il Cristianesimo ebbe una posizione moderata, ispirata alla coesistenza pacifica di culti diversi. - Libanio (circa 314-393) aprì scuole a Costantinopoli, a Nicomedia di Bitinia e ad Antiochia. Godette dell’amicizia dell’imperatore Giuliano, con cui condivideva la difesa dei valori del paganesimo contro la diffusione della religione cristiana. Libanio fu ammirato presso i contemporanei e i retori successivi per il suo atticismo, la ricchezza del lessico, la vasta conoscenza dei classici. - L’imperatore Giuliano (331-363), protagonista durante il suo breve regno di una restaurazione pagana che gli costò il soprannome di Apòstata, fu autore di orazioni e scritti polemici e satirici dai quali emerge la consapevolezza del declino dell’impero e della necessità di sovrani illuminati dal sapere filosofico. - Sinesio di Cirene (circa 370-413), neoplatonico divenuto vescovo cristiano, è un rappresentante del sincretismo religioso e culturale che caratterizzò i secoli della decadenza dell’impero. 2. La storiografia Un tema centrale nella storiografia greca della seconda parte dell’età ellenistica, a partire da Polibio, era stato quello dell’espansione del dominio di Roma e del suo consolidarsi come potenza egemone nell’area mediterranea. Le problematiche politiche ed etiche connesse a Roma e al suo dominio erano le tematiche principali della storiografia in lingua greca. Accanto a questo, nell’ultimo secolo dell’età ellenistica avevano trovato espressione anche temi come la decadenza morale e la corruzione della classe politica, la cupidigia di potere e di ricchezze, lo sfruttamento delle province con malgoverno e vessazioni. A queste tendenze sfavorevoli a Roma reagì l’opera storica di Dionigi di Alicarnasso (ca 60- post 7 a.C.), retore e storico attivo a Roma al tempo di Augusto. Nella Storia di Roma arcaica, in 20 libri, trattava dalle origini all’inizio della prima guerra punica completando all’indietro la narrazione di Polibio. Nell’ottica di Dionigi, la tesi dell’originaria grecità dei Romani permette di ritenere la storia di Roma come parte integrante di quella dei Greci e di vedere nell’impero una nuova unità culturale incentrata sui valori della grecità classica. L’idea dell’accettazione del dominio romano caratterizza la storiografia di Giuseppe Flavio di Gerusalemme (I sec), uomo politico ebreo. Egli, dalla sua esperienza, ricavò la convinzione che ormai il prevalere di Roma fosse ineluttabile (fu ufficiale nell’insurrezione ebraica contro Roma, conclusa con la distruzione del tempio nel 70 e la diaspora del popolo d’Israele). Abbiamo due importanti opere storiche, la Guerra giudaica e le Antichità giudaiche, storia degli Ebrei fino all’età di Nerone. La visione positiva e universalistica dell’impero fu alla base della storiografia greca del II e III secolo. È una produzione molto importante perché copre la lacuna della storiografia latina, che dopo Tacito non produce opere di rilievo fino al IV sec. Vari storici greci di questo periodo provengono dalle province orientali di cultura greca, hanno quasi sempre un’esperienza politica personale e quindi una conoscenza concreta dei problemi attuali dell’impero. Il modello storiografico prevalente è dunque nella linea pragmatica tucidideo-polibiana, ma ciò non implica necessariamente la narrazione di fatti contemporanei. Tra IV e VI secolo la storiografia darà frutti cospicui in un genere di scritti iniziato da Eusebio di Cesarea (circa 263/265-339/349) e definito storia ecclesiastica. 3. La letteratura filosofica e scientifica Dell’età imperiale molto si è conservato. L’Accademia e il Peripato continuano la loro vita, mentre il cinismo, lo scetticismo, lo stoicismo e l’epicureismo conoscono un grande sviluppo. La riproposizione del pensiero antico è concepita come continuazione o riscoperta del suo contenuto autentico  mancanza di originalità filosofica è bilanciata da una sua presenza più capillare: la vita intellettuale risulta permeata di filosofia in molti aspetti, soprattutto nell’ambito della retorica e in quello delle scienze. Bisogna sottolineare due tendenze. 1. Da un lato prevale il lato esortativo o consolidatorio ( si sviluppa il genere delle consolationes); 2. dall’altro la letteratura filosofica si accresce di prodotti di “secondo grado”, come le raccolte dossografiche (=di «opinioni» e detti di filosofi) e i grossi commentari alle opere dei maestri. Lo stoicismo Ad Arriano di Nicomedia dobbiamo molta della conoscenza del pensiero stoico dell’epoca  ci ha conservato la trascrizione delle lezioni di Epitteto di Ierapoli in Frigia (I secolo), uno schiavo liberato che insegnò a Roma e in Epiro: 4 libri di Diàtribe, che riflettono la prassi della conversazione filosofica orale, e il Manuale, che ebbe grande fortuna anche in ambito cristiano. Marco Aurelio Antonino, l’“imperatore filosofo”, seguace dello stoicismo, si distingue per la ricerca del dialogo interiore in un periodo in cui la filosofia tendeva piuttosto all’apertura verso l’esterno. L’epicureismo Diogene di Enoanda in Licia ci trasmette preziose informazioni sull’epicureismo, grazie all’iscrizione che nel II secolo egli fece incidere nella propria città, contenente estratti della dottrina epicurea, citazioni di passi scelti e lettere. Lo scetticismo Lo scetticismo tardo ebbe il suo maggiore rappresentante in Sesto Empirico (II secolo), il cui soprannome indica un legame con la scuola medica empirica. Il cinismo Il cinismo sviluppò da un lato un orientamento cinico- stoico di personalità colte e dall’altro la predicazione fra le masse dei cosiddetti “Cinici popolari”, girovaghi che diffondevano forme di propaganda politica e di contestazione sociale fra i ceti popolari. Ermetismo, neoplatonismo, Oracoli sibillini e Oracoli caldaici Alcuni movimenti di pensiero nel corso dell’età imperiale assumono una caratteristica tendenza filosofico- religiosa con esiti mistici. L’ermetismo è una dottrina di origine egizia e di orientamento misterico, rispecchiato nel Corpus Hermeticum, raccolta di testi filosofico-religiosi attribuiti a Ermete Trismegisto e redatti forse tra il II e il III secolo. Il neoplatonismo, fondato da Ammonio Sacca, che aveva lasciato il Cristianesimo per la filosofia platonica, almeno dal III secolo divenne la più florida corrente di pensiero della tarda antichità. In questo contesto si devono ricordare anche gli Oracoli sibillini in versi, una raccolta anonima di profezie delle Sibille, sacerdotesse di Apollo, messa insieme probabilmente nel V secolo, e gli Oracoli caldaici, composti in esametri al tempo di Marco Aurelio su temi di astrologia, teologia e filosofia e ispirati a motivi neoplatonici e neopitagorici. Le discipline scientifiche Le discipline scientifiche ebbero in età imperiale un importante sviluppo, a cui corrisponde un’ampia letteratura. La tradizione della geografia greca, considerata disciplina scientifica e filosofica e spesso in connessione con la storiografia, culminò nei 17 libri della Geografia di Strabone (circa 63 a.C.-30 d.C.), rimasti quasi per intero. L’antico genere letterario della periegesi trovò continuazione nel II secolo con la Periegesi di Dionigi Periegeta, composta in versi nello stile del poema didascalico, ma soprattutto, con la Periegesi della Grecia in 10 libri di Pausania, che offre una grande quantità di notizie antiquarie. L’astronomia si illustra nel II secolo dell’attività di Claudio Tolomeo, i cui scritti interessano anche la matematica, la geometria, la geografia, l’armonia, l’ottica e altro ancora. Nel campo della medicina il culmine si raggiunge con l’opera di Claudio Galeno di Pergamo (II secolo), dopo Ippocrate il più importante e noto medico dell’antichità, la cui vastissima produzione ha una rilevanza significativa anche per la storia della filosofia e della filologia. 4. Plutarco Plutarco si fa carico della consapevolezza e della responsabilità che caratterizzano la sua generazione: - la consapevolezza di essere destinataria dell’immenso lascito della passata civiltà greca - la responsabilità di esserne sua interprete e continuatrice. Plutarco si inserisce nell’implicita integrazione e competizione fra le due “nazioni”, giocata sui due diversi piani: - del dominio politico, da un lato - del primato di civiltà artistica, letteraria e di pensiero dall’altro. Se la supremazia politica di Roma è un dato di fatto, è il patrimonio greco a ispirare l’età presente. Altro motivo per cui possiamo dire che Plutarco è pienamente uomo del suo tempo è il fatto che egli ricorre alle forme di pensiero e di organizzazione dei saperi che si vanno affermando nei primi secoli dell’impero, come l’eclettismo in ambito filosofico e un senso di continuità e di debito nei confronti delle età passate. Plutarco nacque a Cheronea, in Beozia, attorno al 45 d.C. La sua istruzione retorica e filosofica si sviluppò nell’Accademia di Atene. A Cheronea ricoprì incarichi pubblici e condusse a termine missioni diplomatiche che lo portarono in Grecia, in Egitto, probabilmente in Asia Minore; soggiornò più volte a Roma e nell’Italia settentrionale. A Roma si conquistò la stima di personaggi eminenti dell’entourage imperiale e acquisì la cittadinanza romana. Il corpus delle opere plutarchee comprende oltre un centinaio di scritti e si articola in due grandi categorie: 1. la raccolta di biografie intitolata Vite parallele 2. Gli opuscoli, che prendono il nome collettivo latino di Moralia (Ethikà). La vasta cultura di Plutarco spazia dalla retorica alla critica letteraria, dalle scienze naturali all’erudizione storica e antiquaria. Egli si mostra erede della concezione aristotelica del sapere, un’idea enciclopedica che non poneva limiti fra i diversi ambiti della conoscenza.  Le Vite parallele comprendono 50 biografie articolate in 22 coppie e quattro biografie singole. L’arco cronologico delle Vite spaziava fra il passato mitico-storico (Teseo e Romolo) e la storia contemporanea. Molte coppie biografiche sono seguite da un confronto ravvicinato dei due personaggi (sỳnkrisis). La coppia Teseo-Romolo è una delle poche concernenti personaggi della tradizione mitica. La ricostruzione biografica si configura come bilancio delle diverse opinioni e tradizioni intorno ai due personaggi, sui quali gravavano secoli di ricostruzioni storico-erudite e di elaborazioni poetico-