Scarica “FILOSOFIA DELLA CURA” di LUIGINA MORTARI e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia dell'infanzia e pratiche narrative solo su Docsity! LUIGINA MORTARI “FILOSOFIA DELLA CURA” L’Autrice fa ricorso a stralci di interviste nel contesto di argomentazioni filosofiche, utilizzando le parole di vari protagonisti di pratiche di cura (personale infermieristico, genitori, insegnanti) come testimonianze esemplari capaci di mostrare gli aspetti ed il valore di una buona cura, combinando così registro filosofico ed approccio empirico. In Filosofia della cura convivono due tradizioni di pensiero che nella letteratura filosofica sulla cura rimangono tendenzialmente separate, risentendo ancora della nota frattura tra filosofia continentale e filosofia anglo-americana. La cornice filosofica generale è data dalla filosofia di Martin Heidegger, di cui è ripreso il peculiare linguaggio nel corso dell’intero volume, e con cui vengono fatti dialogare vari temi delle filosofie di Edith Stein, Simone Weil e María Zambrano. Sul versante anglo-americano, invece, Mortari fa riferimento ai contributi delle autrici principali della Care Ethics, filone sviluppatosi negli anni Ottanta del secolo scorso a partire dai lavori pionieristici di Carol Gilligan e Nel Noddings. Assieme a questi due ambiti di riferimento, lungo tutto il testo è presente sottotraccia la figura di Iris Murdoch, che sembra orientare la prospettiva complessiva dell’Autrice verso un’etica della cura che insiste sull’esercizio di una continua attenzione amorevole verso le particolarità concrete con le quali siamo in relazione. Il capitolo primo (Ragioni ontologiche della cura), tratteggia un’antropologia che, avvalendosi del linguaggio heideggeriano, evidenzia le condizioni inaggirabili della vita umana che fanno della cura ciò di cui ciascuno non può fare a meno, “il primo e fondamentale esistenziale” (p. 66). Secondo Mortari “l’esserci” è da sempre immerso in una trama di interdipendenze che lo rendono essenzialmente non-sovrano sulla propria vita e dunque strutturalmente vulnerabile, esposto ad inquietudine ed angoscia. La cura dunque “nella sua essenza risponde a una necessità ontologica, la quale include una necessità vitale, quella di continuare a essere, una necessità etica, quella di esserci con senso, e una necessità terapeutica per riparare l’esserci” (p. 35). Ma la relazionalità che ci rende fragili non è solo motivo di debolezza e bisogno, ma “struttura matriarcale dell’essere” (p. 36), cosicché la cura dell’altro non è una delle opzioni progettuali a disposizione tra le molte, ma la risposta autentica alla struttura di fondo del mondo umano. In L’essenza di una buona cura (capitolo secondo), l’Autrice illustra come la sua indagine filosofica sull’essenza generale della cura faccia seguito a precedenti ricerche empiriche in contesti specifici: la cura amicale e materna, la cura educativa, la cura nelle professioni sanitarie. Per Mortari “l’essenza della cura consiste nell’essere una pratica, che accade in una relazione, si attua secondo durate temporali variabili, è mossa dall’interessamento per l’altro, è orientata a promuovere il suo ben-esserci, e per questo si occupa di qualcosa di essenziale per l’altro” (p. 80). Particolare attenzione è riservata alla cura educativa – specificamente orientata a rendere l’altro capace di un’autonoma cura di sé – che mette bene in luce il punto di discriminazione tra una cura autentica, che abilita l’altro all’esercizio della libertà, ed una cura che solleva l’altro dalla responsabilità della cura di sé. “La cura nella sua essenza è etica poiché è informata dalla ricerca di ciò che è bene, ossia di ciò che rende possibile dare forma a una vita buona” (p. 116), è la tesi sviluppata nel terzo capitolo (Il nocciolo etico della cura), in cui l’Autrice sviluppa una descrizione fenomenologica delle quattro “posture etiche” che qualificano la cura: (a) responsabilità, declinata come capacità di rispondere alle richieste etiche attive in una situazione data, attivata da empatia e compassione e continuamente raffinata riflessivamente; (b) generosità, attitudine che colloca i gesti di cura fuori da una logica di scambio ma piuttosto entro una logica di gratuità; (c) rispetto, frutto della consapevolezza che la cura avviene in una relazione asimmetrica, che richiede la ricerca di una presenza discreta ma non rinunciataria, (d) coraggio, concepito come capacità di affrontare i conflitti che possono derivare dalla risposta concreta che si dà ad una istanza etica cui si presta attenzione. Mortari conclude il capitolo compiendo un rapido raccordo con l’etica aristotelica, sostenendo che “le posture d’essere [che qualificano la cura] sono riconducibili a quelle che vengono definite virtù” (p. 168). Le quattro “posture d’essere” virtuose che caratterizzano la buona cura vengono ulteriormente declinate nel quarto ed ultimo capitolo (Il farsi concreto dell’essenza della cura) in una serie di attitudini (prestare attenzione, ascoltare, esserci con la parola, comprendere, sentire con l’altro) che da un lato sono raccordate da una generale passione per il bene, dall’altra si attivano sempre da e per un contesto particolare, per cui “chi ha cura cercando di fare ciò che fa bene per l’altro non ha nessuna teoria generale da imporre, non ha nessuna visione universale del bene […] quello che conta è stare in ascolto dell’altro e in ascolto di sé cercando in quella precisa situazione di fare il meglio che è consentito dalle possibilità e dai vincoli del reale” (p. 218). Rispetto alla varietà dei punti approfonditi, rimangono forse poco problematizzati due aspetti pur toccati dall’Autrice: da un lato, il riferimento alla centralità del femminile per l’etica della cura lascia in sospeso il confronto con le prospettive sviluppate da filosofie della cura segnatamente femministe (cap. I); dall’altro lato, viene accolta la connessione della Care Ethics con la Virtue Ethics, due correnti di filosofia morale che sicuramente hanno notevoli aspetti di convergenza, ma la cui compatibilità a livello teorico è dibattuta (cap. III). Cap.1 RAGIONI ONTOLOGICHE DI CURA 1. Perché si parla di primarietà della cura? Perché è essenziale e irrinunciabile. Senza la cura la vita non fiorisce. “Ogni persona vorrebbe essere oggetto di cura e il mondo sarebbe migliore se tutti noi ci curassimo di più degli altri” (Noddings). C’è necessità di bene e di difendersi dalla sofferenza. La cura risponde a questa necessità. L’essere umano, in quanto esistente, si deve occupare di sé, degli altri, delle cose. Si può parlare di “fabbrica dell’essere” in termini di cura in quanto se abbiamo cura di certe relazioni il nostro essere prenderà forma in queste relazioni, se abbiamo cura di certe idee il nostro pensiero si modellerà su di esse, tralasciandone altre, se abbiamo cura ed esperienza di certe cose, esse struttureranno la nostra essenza. La cura è imposta dalla qualità del nostro esserci. Per tutto l’arco della vita si ha bisogno di cura: da situazioni di estrema dipendenza (neonato, malato) a situazioni di autonomia in cui senza l’aiuto di persone premurose non si che si vorrebbe è depotenziare l’energia vitale, quella che ci mantiene in contatto con il reale del nostro essere. La sostanza della vita è il tempo. Il tempo del vivere è un fluire nel tempo, un sentirsi accadere di attimo in attimo, di riuscire a consistere. Nella sofferenza il tempo cambia di qualità: si fa muto, opprime l’anima togliendole ciò che le è proprio: il respirare la vita. Lo scorrere veloce del tempo, che quasi angoscia i momenti buoni della vita in quanto si avverte il dileguarsi della vita e fa svanire le tante possibilità di divenire del proprio poter essere, è ciò a cui si aspira nei momenti di malattia: con il conseguente consumarsi del tempo si vuole velocemente diventare altro, passare ad un’altra sostanzialità, più leggera e meno vulnerabile da non sentire dolore. Quando si sta bene la mente prende le distanze da ogni immagine negativa. Quando si fa esperienza del dolore, si vorrebbe una forma di sovranità maggiore sul proprio esserci, ma non per sentire intensamente l’energia vitale, ma per indebolire la propria sensibilità per non sentire più il dolore e la sofferenza che erode la forza vitale. In questo senso l’inconsistenza del sentire sensibile e una certa debolezza mentale diventano quasi una cosa positiva. In questo senso la vita ascetica dell’essere meno, del vivere nell’essenziale è un’azione etica che prepara ai momenti difficili dell’esistere. È in questa ottica che Platone parla dell’anima come fosse intrappolata nel corpo, che appunto perché in questa condizione e nella fase di conoscenza, è destinata ad errare perché si basa su una conoscenza sensoriale e contingente che nulla rivela riguardo all’essenza. L’anima che si libera dal peso della vita materiale può accedere alleggerita ad un’altra realtà, dove nulla provoca turbamento, anche quando il corpo si ammala e fa male. Quando il dolore colpisce il corpo, la sofferenza penetra nell’anima; può succedere quindi che la vita interiore faccia appassire la forza vitale che è nutrimento indispensabile per rispondere positivamente alla tensione, alla trascendenza. È come se il corpo consumasse ogni energia spirituale. E allora si vorrebbe sentire l’anima mettere le ali, dice Platone, per volare altrove, per non sentire il peso della vita materiale ed accedere ad un’altra vita. La realtà però è quella che noi siamo anima e corpo. Edith Stein invita a pensare all’esserci come un tutt’uno composto da un corpo che vive di un respiro spirituale, come materia spirituale, e di un’anima incarnata, come sostanza corporea. Con questa concezione non può cambiare il nostro modo di stare in relazione con l’altro: aver cura di un neonato significa occuparsi di un corpo che sente in modo spirituale il tocco di chi ha cura di lui; toccare il corpo di un malato è tutt’uno con il toccare l’anima, perché come il dolore del corpo penetra nell’anima, così la forza dell’anima tracima nel corpo. Un intervento sull’altro non è solo sulla carne del corpo, va nel profondo della carne dell’anima. Platone afferma che per una buona cura non basta il farmaco, ma servono anche buoni discorsi. Il malato è un corpo, ma anche una persona. La persona sente nell’anima la qualità della vita corporea, perché il nostro corpo ha una sostanza spirituale. Questa vita spirituale, diffusa nella struttura materiale, si nutre dell’energia del corpo e condivide la sua qualità di vita. C’è un dolore che nasce dal corpo e uno che nasce dall’anima, ma difficilmente rimangono disgiunti. Il dolore dell’anima si manifesta nel corpo. Il dolore del corpo può tracimare nell’anima lentamente o inondandola a tal punto che l’anima non si avverte più e sente solo dolore. Con la malattia si percepisce la vita in tutta la sua fragilità. La progettualità, qualità essenziale dell’esistenza, che deve fare i conti con l’incertezza del divenire, durante la malattia diviene qualcosa di doloroso perché nella sofferenza proprio il senso della progettualità viene meno. Una buona cura, che nutre l’anima di fiducia, permette di non essere travolti dal dolore. La capacità dell’aver cura dell’altro è esserci quando l’altro avverte tutta la fatica del mestiere di vivere, è non lasciare che la solitudine spenga l’energia vitale. Non c’è esistenza senza cura di sé, ma la cura di sé ha necessità del nutrimento che viene dal ricevere cura da altri. La cura come terapia che si fa carico della persona nella sua interezza di mente e corpo è cura intera dell’essere, non solo del corpo che si è inceppato. La cura nella sua essenza risponde ad una necessità ontologica che include - una necessità vitale: cura per continuare a vivere; - una necessità etica: cura per nutrire l’esserci con senso, la tensione alla trascendenza; - una necessità terapeutica: cura come terapia per riparare l’esserci. 3. cosa si intende per consistenza relazionale dell’esserci? In quanto mancanti d’essere e destinati a cercare il nostro essere possibili, non possiamo non avere cura della nostra esistenza. Ciò però non basta perché siamo esseri relazionali e in quanto tali bisognosi degli altri. La relazione con l’altro è la condizione primaria dell’esserci. In quanto esseri mancanti d’essere, sentiamo intimamente il bisogno di stare in relazione con altri, che come noi, ha un ontologico bisogno dell’altro. Il neonato costruisce il suo essere in relazione alla madre che si prende cura di lui (Winnicott). Questa relazionalità tensionale dell’umano spiega il fenomeno dell’attaccamento alla madre, un bisogno vitale (Bowlby). La ricerca di relazioni significative accompagna il divenire di ciascuno. “Esserci” significa esserci con altri. Anche se soli i nostri pensieri sono frutto di pensieri costruiti con gli altri, le emozioni sono interconnesse agli altri. Le relazioni strutturano lo sfondo vitale dell’essere. Ciò che esiste, qualsiasi cosa sia, dal momento che esiste, coesiste. È il “con” che fa l’essere, non qualcosa che si aggiunge all’essere. Le relazioni sono così sostanziali che quando finiscono portano via una parte di noi. Il progettare l’esistere come un co-esistere è la risposta necessitata dalla struttura intimamente relazionale dell’esserci, non è una delle tante possibili decisioni di andare oltre se stessi per incontrare l’altro. Heidegger pone come primaria qualità dell’esistere l’essere-con-altri, la relazionalità al cuore dell’esserci, Levinas afferma che l’esistente è da subito e sempre solo. Queste due visioni ontologiche sono complementari: si nasce soli con il compito di occuparsi da soli dell’esserci, ma si nasce mancanti d’essere e quindi si necessita della relazione con l’altro. Infatti le prime esperienze relazionali sono fondamentali per la costruzione della propria identità. La solitudine è percepita tale proprio perché abbiamo in noi la tensione alla socialità, dall’altra parte la relazionalità è colta nella sua essenzialità perché abbiamo esperienza ontologica dell’essere soli con noi stessi. La visione relazionale o a-relazionale rientra in molti paradigmi di pensiero, da quello politico a quello etico. Il limite del pensiero politico è quello di concepire l’essere umano come individuo indipendente che può bastare a se stesso. Le teorie dell’uguaglianza si fondano sul concetto che l’individuo, preso nella sua singolarità, possiede certi diritti. Ci si dimentica però che ogni persona non è mai completamente autonoma, in quanto dipendente da altri. Eva Kittay critica la visione a- relazionale in quanto “ciascuno è figlio di una madre”, cioè tutti veniamo da una relazione e perciò siamo esseri relazionali: l’uguaglianza viene di conseguenza invocata non per qualcosa che ci riguarda come individui, ma sulla base di una proprietà che si condivide con altri. Nel venire al mondo siamo esseri dipendenti in quanto bisognosi di cure. La condizione di dipendenza è inevitabile nella vita. La politica dovrebbe mettere al centro della sua visione non solo la visione relazionale dell’essere, ma anche la cura come bisogno primario; allora la teoria dell’uguaglianza centrata sul soddisfacimento dei propri diritti si trasformerebbe nella teoria dell’uguaglianza della responsabilità di cura per gli altri. Ciò porterebbe a ripensare il concetto di uguaglianza perché la relazione di cura è una relazione tra ineguali: tra colui che cura che ha il potere di fare qualcosa e colui che riceve cura che si trova in una situazione di dipendenza. Non esistiamo mai da soli anche se, considerando l’esperienza umana, ci si trova soli a dare forma alla propria vita, a prendere decisioni cruciali. In questa singolarità c’è il valore dell’eccezione, dell’unicità, ma anche il dramma della solitudine. L’esistere fa i conti con la solitudine che, pur coesistendo con altri, ci fa dare senso al nostro essere nel momento in cui riusciamo a dare voce alla nostra singolarità ed originalità. L’evidenza della mia solitudine è opera della mia coscienza, che rende evidente il mio essere singolare. Heidegger afferma che ciascuno cerca la verità dell’esistenza e che la verità è frutto dell’incontro con l’altro, del dialogo, di un cammino che si fa insieme. La nostra struttura ontologica è essenzialmente relazionale, nel senso che il nostro esser-ci diviene attraverso le relazioni con gli altri. L’unicità del nostro essere è possibile proprio a partire dal divenire insieme agli altri, attraverso gli scambi d’essere. La forza vitale che ci permette di dare forma originale al nostro esserci viene dalla comunità di cui siamo parte. Avere una visione autoreferenziale, egoista e solitaria, è assolutamente fallimentare. È proprio quando si patisce la solitudine ontologica che si scopre l’ineludibile essenzialità della relazione con l’altro, quella che aiuta a riprendere respiro, che si rivela vitale. L’essenza dell’essere è co- essenza, allora il riconoscere di non poter fare a meno di una carezza che ti comunica la vicinanza dell’altro, di uno sguardo che ti accoglie, della parola che addolcisce i tuoi vissuti, non è sentimentaleria, ma cosa umanamente vitale. Se vivere è con-vivere, ossia sapere e sentire che la nostra vita, seppure nel suo sentiero personale, è intrecciata con quella degli altri, la condivisione con altri è essenziale. È necessaria un’etica della condivisione. A guidare il nostro esserci dovrebbe essere un desiderio di convivenza premurosa e responsabile. Concludendo: la cura è fenomeno sostanziale dell’esserci e l’esserci è intimamente relazionale. Poiché essere con-altri è intima essenza dell’umano, allora l’aver cura dell’esserci è tutt’uno con l’aver cura del con-esser-ci e dunque con l’aver cura degli altri. La cura è premura per l’altro, come sollecitudine a favorire il ben-essere dell’altro, è condizione indispensabile per una vita buona. L’agire con cura è un valore primario sia per chi cura che per chi riceve cura. La cura è un valore per chi la riceve poiché senza cura non - Siamo enti mancanti - Non finiti nella forma del nostro esserci - Chiamati a divenire il nostro poter essere - Siamo fragili e vulnerabili - Il nostro divenire è intrecciato con quello di altri - Se la cura è ciò che conserva, ripara e protegge l’esserci Quindi se ne deduce che: SI PUò AFFERMARE CHE TUTTI NOI ABBIAMO NECESSITà DI CURA. LA CURA è IL PRIMO E FONDAMENTALE ESISTENZIALE Del pensiero bisogna avere cura poiché è il lavoro essenziale dell’esserci. Il riferimento di tutto questo discorso è la filosofia fenomenologica e fondamentale è il riferimento al pensiero greco antico, dove il concetto di cura e la riflessione sull’esserci hanno preso forma. Si fa riferimento ad una ricerca fenomenologica empirica che si occupa di comprendere un fenomeno attraverso dei testimoni privilegiati di una buona pratica di cura (madri, insegnanti, terapeuti, infermieri). È un cercare di pensare alla realtà in modo fedele e non solo un’analisi di vocaboli critici, come fa la filosofia. CAP.2 L’ESSENZA DI UNA BUONA CURA 1. qual’ è il metodo utilizzato nella ricerca riguardo alla cura? Cercare l’essenza generale. Per giungere ad una teoria rigorosa della cura risulta adeguato il metodo fenomenologico, che va ad indagare cosa sia la cura nella sua essenza. Cogliere l’essenza della cura significa individuare le proprietà essenziali che la costituiscono, senza le quali non potrebbe esserci cura. Molti sono i modi concreti della cura, ma solo una è l’essenza della cura. L’essenza è la forma universale necessaria perché si possa parlare di cura. Solo definendo l’essenza universale della cura è possibile individuare tra tutti i fenomeni di cui abbiamo esperienza quelli che possono essere considerati di cura. L’essenza del concreto. Ognuno di noi ha esperienza della cura in base a come la agisce o la riceve, non della cura nella sua essenza generale. È necessario considerare gli eventi singolari se si vuole avere conoscenza della realtà. Basarsi sui dati significa fare un’analisi fenomenologica del concreto. Ogni fenomeno manifesta qualità specifiche che concorrono a definire la sua essenza particolare. Si può quindi parlare di essenza del concreto, che è contingente e situata, poiché è costituita da quelle qualità concretamente essenziali che qualificano un preciso specifico evento di esperienza (di cura). L’essenza generale è oggetto esperibile dal pensiero, le essenze particolari sono incarnate nelle esperienze reali che viviamo. La filosofia fenomenologica è interessata all’essenza generale, una filosofia dell’esperienza interessata al mondo quotidiano, dove la cura accade in una molteplicità di fenomeni differenti, ha necessità di concettualizzare un’idea di essenza capace di dire anche le qualità cangianti e mutevoli dell’esperienza. Le essenze del concreto danno corpo all’essenza generale. È necessario individuare classi di fenomeni e di questi cercare l’essenza. Si possono definire regioni fenomeniche della cura. La cura si attualizza in modi differenti a seconda della regione di contesto in cui accade: nell’educazione, nella vita familiare, nell’ambito sanitario, nelle relazioni tra pari,… Una regione fenomenica comprende tutti quegli atti di cura che condividono un insieme di qualità che vanno indagate: cura materna, cura educativa, cura sanitaria, cura amicale,.. Una ricerca interessata alla verità dell’esperienza dovrebbe occuparsi dell’essenza (eidos) generale della cura, dei tipi di cura educativa, materna, ecc e dell’essenza dei singoli concreti atti di cura. Non si può pensare all’essenza della cura senza riferirsi all’esperienza; è a partire dall’esperienza concreta che il pensiero giunge all’idea dell’essenza della cura, analogamente non si può analizzare un fenomeno singolo di cura se la mente non possiede almeno a livello germinale una conoscenza essenziale generale della cura. L’essenza della cura si può ricavare attraverso un’analisi comparativa, prendendo in considerazione varie esperienze di cura fino a trovare quelle qualità che i casi condividono. 2. cosa si intende per essenza generale\formale della cura? Il metodo fenomenologico è quello più adatto per cercare una definizione di cura; è una base solida per ogni possibile ulteriore ricerca sia teoretica che empirica. Individuare l’essenza è la condizione per parlare con precisione delle cose con cui si è in rapporto con il quotidiano e per la costruzione di una filosofia della cura. Ci sono azioni di cura all’interno di relazioni che si dilatano del tempo, altre che si concludono nello spazio breve di un incontro, altre che rispondono ad una emergenza. Una definizione generale della cura, che scaturisce dall’analisi eidetica, deve individuare le caratteristiche che valgono per ogni azione di cura e che quindi un fenomeno deve possedere interamente per essere definito come cura. La cura, essendo qualcosa che riguarda l’esperienza umana, ma quale forma di esperienza? Intima o relazionale, noetica, affettiva o pratica? Dove accade? Con quale durata? Da cosa è attivato? Qual è il suo oggetto? Verso dove si muove? L’essenza della cura consiste nell’essere una pratica, che accade in una relazione con altri, si attua secondo durate temporali variabili, è mossa dall’interessamento per l’altro, è orientata a promuovere il suo ben-esserci e per questo si occupa di qualcosa di essenziale per l’altro. Se è vero che gli esseri umani sono ciò che fanno e che un fare essenziale è la pratica della cura, allora si può dire che il modo di fare cura rivela il modo d’essere. Si è di fronte ad un fenomeno di cura solo quando troviamo una persona che agisce con i gesti e/o con le parole. Cura per essere tale deve tradursi in un’azione percepibile da chi la riceve, non è solo un’intenzione o un desiderio. Noddings distingue un natural caring (azione spontanea quando si percepisce nell’altro il bisogno di cura) da un etical caring (è un imperativo “agisco perché necessario”; è un agire mosso dal senso del dovere). L’autrice ritiene che questa distinzione sia una forzatura perché si ipotizza qualcosa al di fuori della cultura e perché si assegna una dimensione a-etica alla cura naturale. L’aver cura ha luogo in una relazione che può essere informale, materna, parentale, amicale,.., oppure formalizzata in contesti educativi, terapeutici, assistenziali. La relazione di cura è generalmente asimmetrica in quanto l’uno si trova nella situazione di responsabilità della situazione dell’altro. Per questo motivo la cura ha una problematicità etica. Si può distinguere un caring for (cura in presenza) o caring about (cura a distanza anche con le parole). Per Noddings esse sono qualitativamente differenti. Ma sarebbe sbagliato ritenere possibile un caring for senza le azioni del caring about finalizzate a lavorare per un mondo in cui è possibile agire bene. Secondo Noddings ogni persona dovrebbe impegnarsi su entrambi i fronti: aver cura di coloro che direttamente ci interpellano e indirettamente cercare di realizzare quelle condizioni di contesto nelle quali la cura può fiorire. Il caring about è quello che si riscontra anche nella vita politica: dovrebbe costituire l’orizzonte primo che informa la filosofia della vita politica. Noddings sostiene che per essere capaci di attuare un caring about con persone a distanza, bisogna avere vissuto il caring for. Fa dipendere la capacità di aver cura per l’altro a distanza dall’aver dato cura in presenza, che dipende a sua volta dall’essere stato oggetto di cura. Altra distinzione è prendersi cura (cura per il mondo come contesto dell’abitare) e avere cura (azione di cura rivolta a persone). L’azione di cura può richiedere un tempo lungo (es. lo svezzamento) o un tempo breve (spiegare la terapia ad un paziente e rassicurarlo). Avendo la cura necessità di tempo si parla anche di cura come accompagnamento. A mettere in moto un’azione di cura è l’interesse per l’altro, che vuol dire preoccupazione per la condizione dell’altro: è il cogliere una condizione di necessità. La preoccupazione per l’altro si esprime con intensità diversa: si va da una semplice disponibilità a rispondere alle richieste dell’altro, al prendersi a cuore che si esprime con diversi gradi di intensità che vanno dalla sollecitudine e premura alla devozione. La devozione è la forma intensiva dell’agire con cura, pensare l’altro come ente di valore. La devozione o dedizione è un atteggiamento di attenzione intensiva che ci fa essere presenti agli appelli dell’altro; è propria di colui che interpreta “la vita come risposta” a ciò che nell’altro sente necessario. La dedizione è quel di più che va fuori dall’ordinario dell’aver cura (es. il medico che si rende reperibile di fronte a pazienti in crisi). La devozione quindi non deve essere considerata come una qualità essenziale della cura, ma come una possibile forma intensiva del prendersi a cuore l’altro. Cura significa desiderare il bene di qualcuno e questo desiderio spinge ad un movimento verso l’altro, senza però perdere l’equilibrio. La nostra presenza non deve essere sentita come eccessiva. Bisogna trovare la giusta misura della propria posizione rispetto all’altro. Da qui l’importanza di essere critici e riflessivi rispetto al modo di stare nella relazione con altri e sugli effetti prodotti dalle nostre azioni. Si ha cura quando ci si occupa di qualcosa di essenziale (x conservare e proteggere la vita, x aprire l’esistenza all’ulteriore, x riparare ferite) per l’altro e che da solo non è in grado di procurarsi, in caso contrario si parla di servizio. Aver cura dell’altro è attenzione ricettiva e responsiva ai bisogni dell’altro. Ma quali sono i bisogni basici degni di cura e quali azioni si devono mettere in campo perché si possa rispondere a tali bisogni senza però espropriare della sua soggettualità l’altro, anche in situazioni di intensa dipendenza? Non ci sono infatti solo bisogni biologici, ma anche relazionali, cognitivi, affettivi, spirituali, estetici, politici. C’è un modo di con gradualità diversa in base alla condizione di bisognosità dell’altro. Responsabilità diretta con persone che hanno livelli di autonomia scarsi (neonati, malati, disabili,..). Responsabilità indiretta quando chi ha cura mette l’altro nelle condizioni di potersi assumere la responsabilità di sé (in campo educativo sostituirsi a colui che apprende significa non facilitare il fiorire dell’essere dell’altro senza orientarlo all’assunzione di responsabilità del proprio apprendimento). È richiesta una responsabilità sostenibile perché l’energia vitale di ciascuno è limitata: non si può chiedere ad un essere finito, fragile e vulnerabile una responsabilità infinita. Una buona cura risponde al bisogno dell’altro secondo una misura necessaria. Chiedere troppo a se stessi è rischioso perché una fatica eccessiva può indurire il cuore e la durezza non consente il crearsi di una buona relazione con l’altro. Quando si assume su di sé la responsabilità dell’aver cura per l’altro è normale sentire il bisogno di fermarsi e prendere tempo, di raccogliere i propri pensieri e di ritrovare l’energia vitale dell’esserci, fino anche a negare la propria presenza se si sente di non avere l’energia necessaria per aver cura dell’altro: non si può non badare a se stessi, perché non c’è cura per l’altro se non c’è cura per sé. Essere etici significa obbedire alla realtà quindi l’agire etico deve scorgere la qualità del reale. Proprio perché la cura pensa a quel vedere nel modo giusto, vedere con cura la realtà costituisce una pratica essenziale della cura. Alla radice del senso di responsabilità sta la consapevolezza della fragilità e della vulnerabilità dell’altro (qualcosa che innanzi tutto sento dentro di me), sta nel saper avvertire la debolezza ontologica. Sapendo che siamo tutti fragili e vulnerabili si può avvertire la tensione ad agire per l’altro, a fare per l’altro quello che vorremmo fosse fatto per noi. La cura in campo educativo varia a seconda che io consideri un bambino mancante di capacità o come colui che ha in sé, in forma germinale, alcune capacità che devono fiorire. La disposizione alla responsabilità si genera quando nell’altro si coglie una condizione di bisognosità e quando ci sentiamo nelle condizioni di poter fare qualcosa. La relazione di cura è asimmetrica e la responsabilità si genera dal sentire questa asimmetria di potere rispetto all’esserci dell’altro. Non bisogna però pensare la responsabilità solo ad una situazione di difficoltà dell’altro: la cura non è solo un riparare le ferite, ma è anche un far fiorire le possibilità dell’essere, un arrischiare l’ulteriore. La disposizione alla responsabilità si genera grazie alla passione per il bene, un preciso orientamento della vita della mente, che consente all’altro di attualizzare la propria essenza. Ma non sempre quando vediamo la necessità dell’altro ci attiviamo; ad essere decisivo è il sentirsi toccati dall’altro. Non è il sapere in sé che ci fa attivare, ma il sapere sensibile che sente la qualità del vissuto dell’altro. La sensibilità è esposizione all’altro e solo l’essere esposti ci mette in contatto con il suo sentire. Essere sensibili significa entrare in contatto, sentire la qualità del sentire dell’altro, capire la direzione dei suoi pensieri, le sue tensioni e i suoi desideri. Sentire la qualità del sentire dell’altro può prendere la forma dell’empatia o della compassione. La compassione (dal latino cum patior - soffro con - e dal greco συμπἀθεια , sym patheia - "simpatia", provare emozioni con..) è un sentimento per il quale un individuo percepisce emozionalmente la sofferenza altrui desiderando di alleviarla L’empatia è la capacità di comprendere appieno lo stato d'animo altrui, sia che si tratti di gioia, che di dolore. Il significato etimologico del termine è "sentire dentro"[1], ad esempio "mettersi nei panni dell'altro", ed è una capacità che fa parte dell'esperienza umana ed animale. La vulnerabilità dell’altro stimola il sentimento emotivo, mobilita il nostro lato emotivo, fornisce un fondamento affettivo e una motivazione all’agire responsabile. L’amore (non “eros” greco tipico delle relazioni particolari di intimità, ma “agape”, protezione cura, benevolenza) è un elemento costitutivo della cura dell’altro, una spinta motivazionale verso l’imperativo etico, verso il dovere della responsabilità. Il sentire che risveglia in me il senso di responsabilità per l’altro, non è un sentire che appartiene all’ordine del cuore concepito come altro dall’ordine della ragione, ma è un sentimento generato da una ragione sensibile, emozionata, ossia da un ragionamento del cuore che pensa profondamente la qualità del reale e dunque la situazione dell’altro. La compassione emerge se alla base c’è l’idea di giustizia, che mi consente di vedere la realtà in un certo modo e valutare se è buona o ingiusta, e vedendo ingiustizia sento compassione. Alla radice del senso di responsabilità c’è un pensare con il cuore: c’è un certo vedere che attiva la capacità di co-sentire la condizione e il vissuto dell’altro. C’è una ragione non cartesiana, fredda, sistematica, ma una ragione sensibile, che non teme di sentire perché sa di non poter pensare correttamente senza sentire la qualità delle cose. Obbedire alla realtà Secondo Levinas la responsabilità salterebbe ogni passaggio di mediazione della ragione, perché l’altro quando entra nel mio spazio vitale mi obbliga, per il semplice fatto di esserci, ad essere responsabile, e questa obbligazione sarebbe la conseguenza di un imperativo che viene prima del pensare, non di una mia decisione razionalmente condotta. Sono chiamato alla responsabilità semplicemente perché l’altro c’è. È come un dovere a cui ciascuno si troverebbe obbligato senza averlo deciso. Questa prospettiva colloca la responsabilità al di fuori della nostra coscienza. Di fronte alla chiamata dell’altro la scelta non si pone; è la realtà dell’altro che si impone al mio volere. Questa chiamata obbligata ala responsabilità non dovrebbe essere intesa come una lesione della libertà in quanto la chiamata a rispondere all’altro chiama al modo autentico di esserci, che è quello della relazione con l’altro, una relazione impegnata eticamente nella ricerca di quanto fa bene al tempo del vivere. L’autrice fatica ad accettare la concettualizzazione di Levinas perché togliendo alla coscienza un ruolo nel comportamento etico significa radicalizzare la percezione della nostra mancanza di sovranità sull’esistenza. Significa che il comportamento etico sia guidato sempre dalla razionalità. La scelta morale e l’agire etico invece, secondo l’autrice, le filosofe Maria Zambrano e Iris Murdoch non sono sempre guidati da intenzioni cristalline, capaci di mettere in moto un ragionamento chiaro e rigorosamente costruito. Ci sarebbe altro a guidare la scelta morale. Ci sono forze che agiscono fuori dal controllo della ragione. Alla domanda dell’autrice a educatori, infermieri,.. del perché del loro agire le risposte erano: “si fa perché si deve”, “ho fatto quello che si doveva fare”. Queste risposte legittimano la posizione di Levinas: in queste persone agisce quella forma di responsabilità per l’altro che viene prima di ogni ragionamento, di ogni decisione che può avvenire nel nostro intimo. Come se la responsabilità sia un atto di obbedienza alla realtà che accade prima di qualsiasi ragionamento, una passività più passiva di ogni passività. Ma è possibile anche l’interpretazione di M. Zambrano: riconosce la condizione di soggetti passivi di fronte ad una realtà che accade, ma ciò non significa non considerare che ci sia un soggetto pensante che decide sulla base di attente valutazioni. (Anche la passività, perché sia tale, implica che ci sia un soggetto che ha deciso per questa posizione esperienziale.) Il pensiero c’è e si tratta di un pensiero semplice, nel senso che è essenziale, perché sa dove sta l’essenza delle cose. A parole dicono semplicemente che “si fa perché si deve”, ma queste persone vedono il bisogno dell’altro, si preoccupano per il suo ben-essere,…hanno un’attenzione già eticamente orientata a cercare nella realtà le cose per le quali ne va del senso dell’esserci. Un pensiero che si tiene là dove ne va del senso dell’esserci non è guidato da arditi costrutti filosofici, ma dalla passione per il bene per l’altro (signora anziana che dopo aver accudito la sua famiglia di notte va a dormire da una signora malata e sola: “è da sola e anche lei ha bisogno di stare un po' bene”; e non ci vuole tanto, basta un po' di tempo x lei..). Nella semplicità di questo pensare c’è una forza etica che non viene prima della coscienza, ma piuttosto è la voce di una coscienza che sa ciò che è irrinunciabile e da lì orienta l’esserci. Nella cura ci confrontiamo con un pensiero essenziale, nel senso di un pensiero semplice che è tale perché si tiene all’essenza delle cose. (nel pensiero autentico di cura sembra di rintracciare il pensiero evangelico: povertà di spirito=pensare che si tiene all’essenziale, al senso delle cose e purezza di cuore= di chi si fa guidare da ciò che fa star bene.) Solo così si può prestare attenzione alla realtà nel modo giusto. “vedere ciò che è necessario e obbedire al reale” (Murdoch). Nelle relazioni di cura la scelta non si pone perché è già stata decisa prima: farsi orientare dalla ricerca di bene. A imporsi sulla mente non è il volto dell’altro, ma il bisogno di bene che si sente nel suo sguardo. Questa è la qualità di una ragione sensibile e vitale, che sa vedere e sentire la realtà se sento nell’altro il bisogno di cura e penso la cura come qualcosa di essenziale, non avrò altra scelta che rispondere al bisogno di cura. Sentire e sapere l’essenziale mi obbliga a rispondere alla chiamata a esserci x l’altro. È obbedire al reale nella sua essenziale necessità. Non rinuncio alla mia libertà perché accetto di stare alla necessità e lo accetto perché ne so il valore, perché so che è in gioco l’essenziale del bene. In tutto questo non c’è un modo di esserci estraneo alla ragione. L’assenso implica un atto cognitivo consapevole. L’eticità richiede quell’azione recettiva e passiva del vedere la qualità della condizione umana e della realtà e dell’accogliere quello che la realtà mi dice di sé, ma poi si attualizza nel rispondere attivamente alla realtà con gesti concreti, parole e gesti di cura che realizzano il principio aristotelico dell’agire bene. In certi casi gli atti cognitivi sono governati da un sistema di idee acquisite dalla cultura in cui si vive e che tacitamente agiscono sulla coscienza, da cui dipendono atti liberi e consapevoli. Analizzando i vissuti esperienziali dei testimoni di buona pratica di cura si nota pensare che la comprensione dell’altro è in-finita, mai completabile. Pensare l’altro a partire dall’idea di infinito significa prendere atto del limite di ogni nostra conoscenza. L’autentica relazione di cura tiene l’altro nella posizione dell’in-finito perché sa che nessun dispositivo cognitivo, nessuna teoria ben formulata può contenere l’alterità dell’altro. Alla radice della capacità di aver rispetto c’è l’idea dell’altro come ente di valore e quindi inviolabile. Sentire il valore dell’altro situa la relazione dentro la dimensione del sacro. L’altro è sacro nella sua vita materiale e spirituale. La dimensione del sacro è nella vita: nel bambino che mi chiede di ascoltare una sua preoccupazione, nel malato che mi guarda perché io capisca la sua sofferenza, …. La cura è partecipazione del sacro che c’è nell’altro. L’altro in quanto vivente che pensa e sente, è sacro nel suo essere e come tale va trattato. Pensare all’altro come unico e sacro obbliga a controllare la tendenza ad usare la conoscenza come potere. Il pensare che sa avere rispetto, mette l’altro in una posizione di riguardo, di reverenza per la sua realtà, di trascendenza. È un pensare che si colloca fuori dal consueto e ordinario, quello cioè che esercita attenzione sulle cose, e che diventa un pensare capace di ricevere l’altro, di arrendersi al suo essere. Concludendo, nel disegnare l’essenza etica della cura è risultato evidente che le posture d’essere che la qualificano sono riconducibili alle virtù. Il pensare che informa il lavoro di cura richiede l’esercizio delle virtù cognitive: rispetto per le qualità dell’altro, evitamento di ragionamenti sull’altro che si tramutino in possesso o violenza dell’altro. Avere coraggio. Sembra strano parlare di cura in questo mondo e in questo tempo dove sembra che l’individualismo imperversi. Ci si preoccupa del proprio spazio vitale, come se la condizione di libertà dipendesse da una mancanza di vincoli. Siamo fondamentalmente narcisisti, poco disponibili alla responsabilità per gli altri e alla solidarietà. Prevale più che l’attenzione per l’altro l’amore per sé, il contrario dell’etica. La tensione alla centratura su di sé comporta una svalutazione di tutti quei modi di essere che sono attenti alla relazione con l’altro, perché impoverirebbero il progetto di autorealizzazione di sé. C’è una vocazione al soddisfacimento dei propri desideri e pretese che rende ciechi ai desideri e alle esigenze dell’altro. Nel nostro tempo si rileva una diffusa incapacità di sentire il legame emotivo con l’altro e di coltivare la relazione etiche che è la condizione per costruire mondi partecipati e condivisi. Si è di fronte ad indifferenza e incuranza per l’altro. Questa attenzione al negativo del nostro mondo però porta le coscienze a non vedere il buono che c’è nel reale. È necessario andare a cercare testimonianza della “buona cura” perché esiste! Basta cercare nell’ambito sanitario: è vero che ci sono denunce riguardo a incuria, trascuratezza, ma c’è anche altro: atti di cura che sanno lenire le ferite, restituendo al malato il senso del suo valore come persona. A volte l’azione di cura assume una valenza politica perché si esprime come denuncia di ciò che non va e che provoca sofferenza inutile al malato. Questi sono atti di cura che richiedono coraggio. Ad esempio infermieri che contestano decisioni sui malati o su cure prese dai loro superiori. Ci vuole coraggio per esporsi e dire la propria! In queste situazioni si parla di parresia, che è una presa di parola pubblica, mossa dall’esigenza di denunciare ciò che non va e riportare lo sguardo sulla verità delle cose a partire da una situazione di asimmetria di potere; essa comporta un rischio elevato per il parlante in quanto potrebbe essere anche rimosso dal suo lavoro perché va a scontrarsi con superiori. Il gesto della parresia è un gesto di cura perché nasce dall’attenzione alla situazione dell’altro ed è mosso dall’intenzione di innescare un processo di trasformazione delle cose. Si è capaci d parresia perché il proprio esserci ha optato per una postura responsabile nei confronti dell’altro e coraggiosa verso chi ha il potere di decidere la qualità della vita. Si agisce con coraggio perché si sente che non c’è altra opzione compatibile con il bisogno di cura dell’altro. Alla radice di questo modo di essere c’è la capacità di sentire intimamente la condizione dell’altro, il lasciarsi toccare dalla sua sofferenza, e invece di allontanare l’esperienza di dolore dell’altro perché troppo forte, fare di questo sentire la spinta ad agire con cura. La pratica di cura richiede spesso coraggio: il coraggio di opporsi al pensare dominante, di dichiarare il proprio dissenso a chi si trova in posizione di potere. È la parresia, cioè la capacità di dire la verità, anche mettendo a rischio la propria posizione. Responsabilità, generosità, rispetto, coraggio sono nominati nella nostra cultura come virtù e si adattano a dare senso alle esperienze di cura. CAP.4 IL FARSI CONCRETO DELL’ESSENZA DELLA CURA L’orientamento a cercare ciò che fa bene si attualizza in alcune posture dell’essere: l’assunzione di responsabilità verso l’essere dell’altro, che è orientata dalla premura per l’altro, il sentire reverenza per l’altro, il nutrire la disposizione a condividere l’essenziale e il coraggio nell’intraprendere iniziative. Ma quali sono i modi d’essere che rivelano l’essenza della pratica di cura, che attestano responsabilità, rispetto, condivisione generosa con l’altro e coraggio? Le due categorie che ordinano i modi di essere della cura sono la ricettività (fare posto dentro la propria mente all’altro) e la responsività (mettere in atto azioni concrete a favore dell’altro). Esse sono disposizioni essenziali della coscienza di chi agisce con cura. PRESTARE ATTENZIONE La ricettività dell’aver cura si esprime essenzialmente nell’attenzione. Per agire bene nella relazione di cura è necessario conoscere ciò che accade e prestare concentrazione sull’esterno consente di acquisire conoscenza della realtà. Perciò l’attenzione è un gesto cognitivo primario. Aver attenzione per l’altro vuol dire tenerlo in considerazione. Proprio per questa tensione verso l’altro, l’attenzione è un gesto etico: tenere nello sguardo l’altro è la prima forma di cura. Quando si sente di non essere nello sguardo dell’altro e nella sua attenzione, ciò minaccia l’identità personale. L’attenzione è pura disponibilità a ricevere quanto dell’altro viene allo sguardo. Il viso parla di dolore, sofferenza, paure, desideri, speranze,… L’attenzione deve essere sensibile e partecipata; è attenzione della mente e del cuore. Prestare attenzione è una postura morale. L’attenzione accompagna ogni momento dell’aver cura: da quando faccio posto all’esserci dell’altro a quando metto in atto azioni a favore dell’altro, perché mentre si agisce bisogna capire quali possano essere gli effetti stessi del mio agire e come l’altro reagisce. Monitorare è fondamentale per il processo di comprensione a ciò che accade e per questo è necessaria un’intensa attenzione. L’attenzione si concretizza nella disposizione a cogliere la realtà nei suoi dettagli per coglierne la reale complessità. Attenzione intesa come distrazione da sé e concentrazione sul reale, come spostamento di interesse da sé all’altro. L’attenzione che ha cura è quella riconosce il valore dell’altro, che sa e che accetta che la necessità prima è la necessità di bene. L’attenzione è una tensione, uno sforzo, è una cosa faticosa perché la piena attenzione all’altro richiede di distrarsi dal sé. Quando ci si trova di fronte alla sofferenza, al volto negativo quindi della realtà, la difficoltà di prestare attenzione aumenta esponenzialmente. È difficile mantenere l’attenzione, senza alterare in qualche modo la realtà per renderla sopportabile. Tenere lo sguardo attento al dolore richiede resistenza al cuore e lealtà alla mente. Per mantenere l’attenzione bisogna tenere la mente nella realtà, ma, per non smarrirsi tra la complessità del reale, la mente ha bisogno anche di tenere lo sguardo sul principio d’ordine dell’essere, cioè sull’idea di bene. L’attenzione quindi deve stare tra il piano dell’immanenza, delle cose che accadono nel concreto e il piano della trascendenza, delle idee. La duplice fatica sta nel prestare attenzione al mondo così come è e al mondo immaginato a partire dalla nostra intima tensione al bene: ciò costituisce la condizione necessaria “per avere cura degli altri e custodirli”. ASCOLTARE Il prestare attenzione si attualizza non solo con lo sguardo ma anche con le parole., dette o taciute. Il silenzio lascia posto alla parola dell’altro. Senza ascolto non c’è comprensione. Ascoltare dal greco significa odo, percepisco, imparo e obbedisco. Ascoltando l’altro si impara quindi il tempo dato all’ascolto è un tempo carico di senso anche per sé, perché l’ascolto dell’altro provoca la postura della presenza riflessiva sui propri vissuti. Obbedire nel senso del tener conto di ciò che l’altro dice. Ascoltare l’altro vuol dire comunicare la nostra considerazione. Proprio perché noi siamo linguaggio e con le parole sveliamo il nostro essere e svelandoci ci apriamo all’altro, l’ascoltare è un modo essenziale d’essere per il costituirsi di una relazione di cura. Il parlare è sempre parlare di qualcosa, di quello che accade nel mondo, di ciò che accade a noi. Il non sentirsi ascoltati fa esperire la negazione del proprio valore. L’ascoltare che cura va inteso come disposizione a cogliere il senso che l’altro mi comunica. L’ascoltare autentico è l’essere tesi a comprendere e ad accogliere il senso possibile di questo dire: ascoltare è far risuonare dentro di sé il dire dell’altro. Solo quando la postura della mente è aperta e riflessiva, l’ascolto diventa uno spazio aprente che genera spazi di incontro. Ascoltare è la capacità di sospendere i propri dinamismi cognitivi in modo da sintonizzarsi con il dire dell’altro. Nell’ascoltare c’è passività ricettiva e tensione. La passività è necessaria per far posto al dire altrui nella nostra mente e la tensionalità per accedere a quel senso dell’altro che per essere colto chiede lo sforzo della comprensione. ESSERCI CON LA PAROLA Dopo aver ascoltato in silenzio è importante il gesto della parola, il dire all’altro parole di comunione. È nelle parole che si fa presente l’essenza dell’esperienza. È attraverso il dialogo che si costruisce uno spazio di senso condiviso. La parola che è dono è la parola che cura. La parola può essere farmaco, ma anche veleno. Sorvegliare l’uso delle parole è un imperativo etico della pratica di cura. La parola che cura deve essere semplice, sincera, franca, senza retorica, leggera, discreta, che sta nell’ordine della verità. La parola che sta al perché impoverirebbe la relazione. È attraverso il sentire che i pensieri ci avvertono della qualità del reale, ci consentono di capire la qualità dei fenomeni di cui facciamo esperienza. Un giusto modo di stare nella relazione di cura presume una competenza affettiva nel comprendere il proprio funzionamento affettivo. La comprensione di comprendere ciò che sentiamo è essenziale per situarci come soggetti relazionali utilizzando al meglio le risorse dell’essere. È indispensabile un pensiero riflessivo non solo post-azione ma anche durante l’azione stessa, perché la riflessione quasi contemporanea al vissuto è la sola possibilità di salvare la relazione di cura dalle distorsioni che possono accadere. Se è vero che il sentire è ciò attraverso tutte le cose pensano, allora il senso dell’esperienza è sempre affettivamente connotato. Che la qualità emozionale di una relazione svolga una funzione essenziale è evidente fin dalla nascita. Le prime relazioni di cui si fa esperienza sono fondamentali nel senso che la qualità intima della nostra postura esistentiva viene da lì. Il neonato fa esperienza di una positiva accoglienza con una mamma felice che trasmette gioia e che ha il pensiero sempre rivolto a lui. Il neonato fa esperienza del piacere dell’esserci. Sentirsi accolti acquieta l’anima e l’anima quieta può trovare radici nel mondo. Quando dall’altro non ci viene il piacere dato dalla nostra presenza, si fa esperienza di insicurezza che rende l’anima contratta e che fa fatica a mettere radici. Da qui scaturisce l’angoscia di non riuscire a dare forma al proprio esserci. Quando non c’è un fondamento sicuro che nutre l’anima di forza vitale, l’agire diventa faticoso soprattutto se si tratta di prendere iniziativa. Ciò perché iniziare qualcosa di nuovo evoca nell’anima il primo inizio, quello della nascita biologica. Difficile risulta affrontare qualcosa di nuovo che evoca un’angoscia primaria. Winnicot sostiene l’importanza della relazione con la madre come condizione necessaria per un sano sviluppo psichico. Sentire una mamma felice che si prende cura di noi aiuta ad aprirsi positivamente alla vita. Le esperienze primarie come iniziare ad andare a scuola hanno un ruolo fondamentale. Chi ci accoglie fuori dallo spazio rassicurante in modo positivo resta nel cuore. La severità e la fermezza sono modi di cura se nutriti da delicatezza e fiducia nell’altro. Senza fiducia non si riuscirebbe nemmeno ad esistere. È la fiducia che fa aprire all’altro. È solo avendo fiducia nel possibile che si può mettere al mondo il proprio esserci. C’è un’intima relazione tra il dare fiducia e il saper accettare l’altro. Chi ha cura riesce a comunicare fiducia solo se sa accettare l’altro nel suo proprio esserci, restituendogli il senso del suo valore e generando a sua volta la capacità di accettarsi. Solo quando si è capaci di accettarsi per quello che si è diventa possibile farsi orientare in modo positivo dalla tensionalità all’ulteriore. Al contrario ogni esperienza psicopatologica è contrassegnata dall’inaridirsi della capacità di accettare la realtà. Saper accettare non significa rassegnarsi, non significa rinunciare ad altro ,ma realisticamente sapere che si deve partire da quello che si è. Il sapere accettare la realtà per quello che è e da lì partire. Il docente mostra di accettare lo studente nelle sue qualità quando inventa modi dell’azione educativa a partire dalle qualità originali dell’altro; il medico accetta i limiti del paziente e lo accompagna con comprensione nel processo terapeutico. Significa tracciare la mappa del possibile a partire dal punto preciso in cui si è. Il movimento del divenire il proprio essere possibile si nutre di un equilibrio tra tensione e distensione, e dunque tra ricerca di altro e accettazione del reale. ESSERCI IN UNA DISTANTE PROSSIMITà Secondo Noddings una delle qualità essenziali di una buona cura è l’impegno a predisporre le condizioni affinché l’altro non arrivi a danneggiare se stesso; in questo senso la cura svolge una funzione di prevenzione. Secondo posizioni liberaliste nessuno avrebbe il diritto di intervenire sule decisioni che la persona prende su di sé. Queste posizioni opposte segnalano il problema di chi ha cura che deve capire quando e in che misura intervenire sulle decisioni che l’altro prende per sé. Bisogna trovare il modo di stare in contatto, di essere presente attivamente e il farsi da parte per lasciare all’altro la possibilità di divenire nel suo progetto d’esserci a partire da sé. Bisogna tenersi ai margini dello spazio vitale altrui per esserci con discrezione. Fare in modo che l’altro ci senta disponibili, raggiungibili e presenti al momento opportuno. La responsività non significa sostituirsi all’altro, ma con il rendersi disponibili a mettere in atto tutti quei dispositivi cognitivi, emotivi, pratici che mettono l’altro nella condizione di occuparsi di sé. Il sostituirsi all’altro accade che venga interpretato come espressione di un’intensa dedizione, ma in realtà si tratta di una espropriazione ontologica perché può tradursi in una perdita di possibilità di sviluppo del proprio modo di essere fino alla situazione di trovarsi dipendenti e dominati. Una buona interpretazione della pratica di cura è quella che aiuta gli altri a divenire consapevoli e liberi per la propria cura. CON DELICATEZZA E CON FERMEZZA Chi riceve cura entra in una relazione di dipendenza dove il suo stato di vulnerabilità si accentua, chi cura a sua volta diventa vulnerabile perché sottoposto alle richieste che la condizione di dipendenza dell’altro impone. Proprio perché chi chiede cura è vulnerabile, trattare con l’altro richiede tatto e delicatezza nel trattare il corpo dell’altro e nell’entrare in contatto con la sua dimensione spirituale. Toccare l’altro rispettandone la sua trascendenza. Avvicinarlo senza dominarlo. Agire con delicatezza significa prendere tempo per trovare la parola giusta per curare. Parole in eccesso invadono lo spazio tra me e l’altro, ma troppo poche parole non consentono alla relazione di prendere forma. Non è solo questione di quantità di parole ma anche di qualità: parole imprecise e incuranti non agevolano l’incontro con l’altro, parole troppo ricercate ostacolano il dialogo, parole troppo cariche di emozioni possono disorientare l’altro, parole aride finiscono per creare solo distanze. Il nostro dire, perché sia esperienza di cura, deve farsi guidare dalla ricerca della verità dell’esperienza. Delicatezza nel senso di tenerezza, simile ma non si può confondere con la gentilezza. Un cuore tenero sa fare posto all’altro, la durezza di cuore crea distanza, diffidenza e induce sentimenti negativi. Anche chi riceve cura può assumere comportamenti che abusano della disponibilità di chi ha cura (“erosione della sostanza” di chi cura). In questi casi chi ha cura ha il dovere di tenerezza ma anche di fermezza che può significare interrompere il lavoro di cura perché ritenuto troppo dispendioso per sé e quindi insostenibile o cercare soluzioni di cura diverse. Avere fermezza significa riuscire a fare l’analisi della situazione, richiede un lavoro su di sé che liberi la propria mente da inutili sensi di colpa e che tenga la mente sempre alla ricerca della giusta misura del proprio agire con cura. Fermezza significa saper dire di no con il rischio di incrinare la relazione, perché si è consapevole che è un no scaturito da un ragionare amorevole. Chi ha cura deve avere il coraggio di stare nelle relazioni difficili dove ad esempio chi riceve cura rifiuta il nostro modo di stare in relazione,… deve fare esercizio della virtù della pazienza. Il rischio di lasciarsi dominare da chi riceve cura è maggiore nei casi in cui si viene a creare un legame affettivo tra le persone. È importante che chi cura sappia lavorare su di sé affinché l’investimento emotivo non condizioni negativamente le reazioni al comportamento e alle richieste di chi riceve cura. Le virtù sono modi di esserci che si mettono in atto non solo verso gli altri, ma anche verso se stessi. Chi ha cura è bene che coltivi la virtù del rispetto di sé. Si può parlare di cura solo quando l’altro manifesta bisogni che non può soddisfare da sé, in caso contrario ciò che ci viene richiesto non è cura ma servizio. LA FATICA DELLA CURA Il lavoro di cura è faticoso perché richiede energie cognitive, emotive, fisiche e a volte anche organizzative, in un contesto di incertezza. Per sostenere la fatica del lavoro di cura è necessaria una forma di riconoscimento. C’è riconoscimento quando l’altro mostra di accettare positivamente il nostro agire, con le parole o con i gesti, con un sorriso, con una stretta di mano. Lo stesso neonato sa esprimere riconoscimento quando con i gestri mostra mostra il piacere di ricevere le nostre cura. Nelle relazioni amicali oltre al riconoscimento si verifica anche la reciprocità, cioè chi cura diventa a sua volta destinatario di azione di cura e viceversa chi riceve cura diventa caregiver. Ma può accadere che il riconoscimento non arrivi quando ce lo si aspetta o che l’altro non sia nella condizione di reciprocità. Persistere in una condizione di cura senza riconoscimento è difficile e richiede a chi ha cura un forte lavoro su d sé per tenere viva e attiva l’energia necessaria. Gli effetti delle azioni umane, anche orientate da una buona intenzione, sono imprevedibili come lo sono gli effetti sull’altro. Proprio per la qualità imprevedibile dell’agire è importante sapere che, se non si raggiunge l’esito atteso, si può essere perdonati. Il sapere di poter essere compresi e perdonati basta a trovare la forza di agire in quel mare incerto che è la relazione con l’altro. Nelle relazioni di cura in quanto asimmetriche chi cha cura spesso deve prendersi la responsabilità per qualcuno che non è autonomo. Questa assunzione totale di responsabilità fa sentire soli a dover decidere per l’altro. La responsabilità per l’altro comporta spesso la piena responsabilità del proprio agire e quindi anche la capacità di sopportare l’esito delle proprie azioni. Perciò è indispensabile che l’autoanalisi critica del proprio agire, del proprio pensare e del proprio sentire. Bisogna ricordarsi della non sovranità anche rispetto alle azioni perché non dipendono solo dal soggetto, ma anche dalle variabili contestuali. Mantenersi nella responsabilità della cura è dunque difficile perché non si controlla l’azione, perché non si può essere sempre perdonati, perché può accadere di non trovare riconoscimento. Ma allora se è così difficile perché la realtà vive di relazioni di cura? Non può essere altro che la passione per il bene, il cercare per la vita le cose di valore che la rendono degna di essere vissuta. Cercare il bene, non avendone un’idea chiara in quanto non alla nostra portata, è definibile quasi un azzardo. Ma essere azzardati fa parte