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Filosofia della cura. Luigina Mortari, Sintesi del corso di Psicologia Morale

Riassunto completo del testo paragrafo per paragrafo.

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Filosofia della cura. Luigina Mortari e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Morale solo su Docsity! FILOSOFIA DELLA CURA - Luigina Mortari - 1. RAGIONI ONTOLOGICHE DELLA CURA 1. PRIMARIETA’ DELLA CURA (p.11) • Ciò che è da pensare Per la vita, la cura è cosa essenziale e irrinunciabile, poiché senza cura la vita non può fiorire. La sapienza dell’essenzialità ontologica della cura ha radici antiche: per esempio nel Fedro di Platone Zeus “dispone per bene ogni cosa e se ne prende cura”. Secondo Heidegger ciò che illumina nella sua essenza quell’ente che è l’essere umano, è la cura; in quanto essa è “struttura d’essere dell’esserci” dire che noi diventiamo quello di cui abbiamo cura e che i modi della cura danno forma al nostro essere significa che se abbiamo cura di certe relazioni il nostro essere sarà costruito dalle cose che prenderanno forma in queste relazioni, in ciò che fa bene e in ciò che è sbagliato. Della cura si può pertanto parlare nei termini di una fabbrica dell’essere. La cura può essere definita il lavoro del vivere e dell’esistere, perché quel mancare d’essere che rende necessaria la cura mai trova una soluzione, perciò il lavoro di cura accompagna la vita intera. La cura è ontologicamente essenziale: protegge la vita e coltiva le possibilità di esistere. È necessario disegnare una fenomenologia delle qualità essenziali della condizione umana per poi portare all’evidenza che la cura sta in una relazione di necessità con tali qualità. Una definizione semplice ed essenziale di cura: aver cura è prendersi a cuore, preoccuparsi, avere premura, dedicarsi a qualcosa. • Esserci mancanti d’essere Noi siamo esseri mancanti, in continuo stato di bisogno; non siamo esseri finiti, interi, autonomi e autosufficienti nel nostro essere. A indicare lo stato ontologico del mancare è il trovarsi a desiderare sempre una realtà piena della vita che mai ci appartiene. L’ente che noi siamo non possiede il suo essere, ma lo riceve in dono da altrove. Noi siamo esseri dipendenti, dipendenti dal dove da cui veniamo e dal mondo con cui ci troviamo a misurare il nostro essere. La debolezza della condizione umana sta proprio nel non possedere il proprio essere, ma di avere bisogno del tempo per poter arrivare a essere. La possibilità di non essere più, che pone termine all’esserci, è una costante che accompagna tutto il tempo dell’essere nel mondo. La morte incombe e quando verrà noi non saremo più; invece, il venir meno delle cose buone - che accade quando di esse veniamo privati – nientifica il nostro essere ma senza liberarci dall’essere, costringendo a sopportare il niente in cui veniamo trascinati. Si nasce non solo mancanti d’essere, ma anche inchiodati al compito di divenire il proprio poter essere. La mancanza di essere non è leggerezza, ma un peso da assumere, che si fa evidente nella preoccupazione di trovarsi a dover dare una forma al proprio divenire. Si nasce obbligati a divenire il proprio esserci. 2. LE DIREZIONALITÀ DELLA CURA (p. 18) • La cura che conserva la forza vitale La cura della vita si manifesta innanzitutto nella forma del procurare cose che alimentano e conservano il ciclo vitale, e nel greco antico troviamo il termine merimna. Il termine merimna ricorre frequentemente nei Vangeli e indica la preoccupazione di far fronte al compito di vivere. La cura delle cose è la nostra cura della vita. Nella parabola degli uccelli, Gesù invita a non affannarsi eccessivamente per la vita e a guardare gli uccelli del cielo, poiché un eccesso di preoccupazioni per le cose e l’attaccamento alle ricchezze, soffocano la direzione di senso dell’esperienza; e per invitare a non curarsi eccessivamente delle cose del mondo usa il verbo merimnao. • La cura che fa fiorire l’essere Proprio perché l’essere umano viene al mondo mancante di una forma dell’esserci, il suo compito è quello di cercare la migliore forma possibile del proprio esserci. La cura “si realizza come prendersi cura delle possibilità” (Heidegger, 1976, p.217). l’essenza dell’esserci è in questa mancanza di forma dell’essere che chiama, obbligando, a un lavoro di continua trascendenza; assumere l’obbligo della trascendenza significa prendersi a cuore il tempo della vita. Il nostro essere è un poter divenire continuo, che nel suo trascendersi viene a prendere qualche forma, ma sempre provvisoria, sempre da superare. La cura in quanto cura dell’esserci è tensione a realizzare il possibile nelle sue forme migliori, quelle in cui sentiamo compiersi il senso buono dell’esistere. La cura di sé si declina non solo come il procurare quanto necessario al vivere per garantire la propria durata e conservazione, ma anche come costruire uno spazio vitale in cui potere dare completa realizzazione alle proprie possibilità esistentive. Avere cura della vita è anche assumersi l’impegno di rendere attuale il possibile in modo da realizzare una vita che faccia fiorire il meglio dell’umano e come tale sia degna di essere vissuta. L’educazione è una pratica di cura con cui chi-ha-cura promuove nell’altro la capacità di aver cura di sé e poiché il sé coincide con l’anima (Alcibiade Primo, 130 e) aver cura di sé significa aver cura dell’anima (ibidem. 132 c). posta l’anima come cosa di maggior valore, nei dialoghi dove enuncia il senso dell’educare Socrate parla di cura e precisamente di cura come dell’anima (ibiem), e per nominare questo tipo di cura usa il termine epimeleia. Epimeleia sta a indicare quell’aver cura che coltiva l’essere per farlo • Essere soli insieme all’altro/la solitudine dell’essere-con Nel venire al mondo subito diventiamo esseri dipendenti da altri e come tali bisognosi di cure. Proprio perché il trovarsi in una condizione di dipendenza dall’altro costituisce un tratto inevitabile della vita umana, il lavoro di cura viene inteso come un “dependency work”. Se la teoria politica mettesse al centro la centralità della cura come bisogno primario, allora la teoria dell’uguaglianza centrata sul principio del soddisfacimento dei diritti si trasformerebbe nella teoria dell’uguaglianza nella responsabilità della cura per altri. Ma assumere la cura come fondativa della filosofia della politica significa anche ripensare la primari età del concetto di uguaglianza, perché la relazione di cura è una relazione fra ineguali, fra la persona che-ha-cura che ha il potere di fare qualcosa e colui che-riceve-cura che si trova in una situazione di dipendenza. La realtà mi evidenzia continuamente il fatto che “io sono solo”, nel senso che il mio esistere costituisce un elemento assolutamente intransitivo (ibidem). Ogni singolarità è un accesso originario al mondo, quello che ci fa sentire unici pur essendo fra altri. In questa singolarità c’è non solo il valore dell’eccezione, dell’unico, ma anche tutto il dramma della solitudine. Solo in certi momenti privilegiati dell’essere, come quando si esperisce un’intensa intesa amorosa con l’altro, la solitudine della relazione con il proprio esistere non si fa percepire. Invece, nell’esperienza ordinaria possiamo “scambiarci tutto reciprocamente, fuorchè l’esistere” (ibidem), che non riguarda nessun altro se non il suo esistente; in questo senso l’esistente è “monade e solitudine” (ibidem p.25). nei momenti difficili, quelli dove l’anima di fronte all’accadere drammatico degli eventi della vita è presa dal dolore e dall’angoscia, si sente in tutta la sua forza ontologica il bisogno dell’altro, anche se il peso del vivere rimane qualcosa di assolutamente personale. • La bisognosità dell’altro La bisognosità dell’altro si manifesta nel neonato nel fenomeno dell’attaccamento alla figura materna, e poi ricompare sotto diverse forme nel corso della vita. L’essenza dell’essere è “co-esistenza singolarmente plurale” (Nancy, 1996, p.7) e ciò significa che l’unicità del nostro essere è possibile proprio a partire dal divenire insieme agli altri. Il riconoscere di non poter fare a meno di una carezza che ti comunica la vicinanza dell’altro, di uno sguardo che ti accoglie, della parola che addolcisce i tuoi vissuti, non è mera sentimentale ria, ma cosa umanamente vitale. Quando un essere umano cominciala sua esistenza di fatto inizia a coesistere; quando viene al mondo viene accolto, prima che in uno spazio e in un tempo, dallo sguardo di chi ha cura della sua vita. E di gesti e parole che attestano che siamo tenuti dentro una relazione di cura ciascuno ha una viva e ineludibile necessità per tutto il tempo della vita. Se vivere è con-vivere, allora trovare nella vita il ritmo della condivisione con altri è essenziale. Ordinando i fili del discorso si può dire che se la cura si qualifica come fenomeno ontologico sostanziale dell’esserci e se l’esserci è intimamente relazionale, poiché l’essere-con-altri è l’intima essenza dell’umano, allora l’aver cura dell’esserci è tutt’uno con l’aver cura del con-esser-ci e dunque con l’aver cura degli altri. Esserci è aver cura e in questa cura ci sono io-con-altri. La cura come premura per l’altro, come sollecitudine a favorire il ben-essere dell’altro, è condizione indispensabile per una vita buona. Se dunque condividiamo il presupposto secondo il quale la cura è qualcosa di ontologicamente essenziale, allora l’agire con cura è un valore primario, ed è tale non solo per chi riceve cura ma anche per chi la agisce poiché assumersi la responsabilità della cura significa situarsi laddove ne va dell’irrinunciabile per la vita. Per questo la relazione di cura porta valore sia a chi riceve sia a chi esercita la cura (Kittay, 1999, p.25). 4. LA CONDIZIONATEZZA DELL’ESSERCI (p. 47) • Vulnerabilità Proprio perché siamo esseri intimamente relazionali, siamo dipendenti da altri; in questo dipendere-da-altro-da-sé sta la vulnerabilità propria dell’essere umano. La nostra materia ontologica è porosa: assorbe la realtà intorno e si modella in relazione all’altro. La porosità dell’essere rende possibile la relazione ma allo stesso tempo è vulnerabilità poiché siamo sottoposti a azioni di esseri viventi che possono essere anche minacciose. Il minaccioso da cui cerchiamo riparo stringendoci all’altro può venire proprio da coloro che ci sono vicini (Rilke, 1992, p. 21). Siamo vulnerabili sia nella vita corporea sia in quella spirituale. Ciò che più dà senso alla vita sono i beni relazionali, come l’amicizia, l’amore e con essi tutte le azioni connesse alle virtù che creano buone relazioni: gentilezza, cortesia, solidarietà, compassione. L’amicizia e l’amore trascendono la nostra volontà, sono qualcosa di imprevisto e gratuito che si sottrae a ogni logica. L’amicizia non ci cerca, si fa, si mette in atto. Anche l’amore: non è qualcosa che si progetta, ma è qualcosa che si fa, si vive. E in questo poter coltivare un’amicizia e nutrire un amore dipendiamo fortemente dall’altro. Affermare che l’eccellenza va cercata nelle relazioni con gli altri contrasta con l’idea presente nella nostra cultura secondo la quale va cercata nella produzione di cose capaci di resistere all’usura del tempo. I beni di relazione, quelli del più alto valore, non sono solo trascendenti la nostra volontà, ma anche massimamente delicati: sono vulnerabili perché esposti agli urti della realtà, agli eventi del mondo che possono indebolire o distruggere i legami relazionali. Nel vivere le relazioni il nostro divenire s’intreccia intimamente con quello di altri e quando l’atro se ne va anche una parte di noi viene meno. Solo il bene dà valore alla vita e il suo venir meno, il venir meno delle cose buone degne d’amore, lascia mancanti dell’essenziale, lascia senza. Senza il senso vero dell’esserci. Il difficile della condizione umana è di dover investire laddove si situa il rischio della massima vulnerabilità. Ma una vita completamente autosufficiente è impossibile e non è propriamente umana, proprio a ragione del fatto che noi siamo esseri relazionali. • Fragilità Il nostro esserci non si pone da sé, ma viene da un altrove e accade come un prorogarsi di momento in momento in virtù di una decisionalità a noi estranea. È questo nostro ricevere l’essere attimo dopo attimo a renderci fragili. Nel lavoro del vivere manchiamo di un fondamento, poiché manchiamo del potere principiante da cui l’esserci dipende; dipendiamo sempre da altro. Non abbiamo potere sulle condizioni da cui dipende la sicura realizzazione del compito esistenziale del divenire il proprio esserci, perché la condizione umana è quella di una continua commistione fra quello che dipende da noi e quello che viene dal mondo. Poiché nel fondamento del nostro essere siamo senza sovranità, la nostra qualità ontologica è la fragilità. La condizione di fragilità dipende anche dalla sostanza temporale dell’esserci. Il lavoro faticoso di dare forma al proprio essere possibile è quanto di più fragile possa esserci; è un continuo fabbricare modi di esserci, da superare in continuazione. Per quanta dedizione si metta a coltivare questa “tecnica del vivere” niente di quanto acquisito ha la minima garanzia di permanenza. Sapere che il nostro esserci è limitato al presente e che passato e futuro non ci appartengono ci consegna alla consapevolezza della fragilità del nostro essere, alla sua istantaneità, e ci suggerisce essere fuori misura dell’umano sobbarcarci l’intera durata del tempo. La fragilità ontologica sta in questo rimanere enigmatiche la nostra origine e la nostra fine, nell’impossibilità di riempire di senso ogni attimo del proprio tempo, di chiamare all’essere tutto ciò che si vorrebbe e disfare tutto ciò che non si vorrebbe. L’esperienza, anche breve, del bene che ti può venire da un gesto di cura rimane nell’anima a nutrire di quella fiducia del possibile che sola aiuta a trovare l’energia necessaria a sostenere il lavoro d’esistere. • Debolezza ontologica Fragilità e vulnerabilità danno debolezza ontologica. La debolezza ontologica è conseguente al fatto che siamo esseri condizionati, poiché non solo ogni cosa con cui entriamo in contatto, ma anche ogni cosa che noi stessi costruiamo con il lavoro, l’opera e l’azione diventano inevitabilmente qualcosa che condiziona la nostra esistenza (Arendt, 1958, p.8). L’inquietudine è una tonalità affettiva propria della vita, svolge infatti la funzione essenziale di mettere in tensione l’esserci, lo rende aperto alla chiamata dell’ulteriore; in questo senso è il sentimento chiave dell’esistenza. Poiché sappiamo di non riuscire mai nell’attualizzazione piena del nostro poter essere, è facile lasciarsi prendere dall’angoscia. Il sentirsi muove e orienta il proprio divenire. Per questo è necessario aver cura, affinchè le tonalità negative, dilagando nell’anima, non divengano ostacolo al lavoro di dare la forma migliore al proprio esistere. Il meditare radicalmente la nostra debolezza genera un altro sentimento: il dolore ontologico. È un pensiero che si forma gradualmente nel tempo quando la mente si ferma a meditare sull’esserci e radicalmente prende consapevolezza di tutta la nostra debolezza ontologica. Accettare la qualità della condizione umana significa sapere quello che si è non per dismettere ogni desiderio di ulteriorità, ma per progettare l’esserci entro i limiti di quello che si è. Attenersi a quello che si è costituisce la condizione necessaria per individuare quella fessura di possibilità che ci fa trovare la via del nostro attualizzarsi. distanza ci può essere cura. Joan Tronto definisce “prestare cura” (“care-giving”) il coinvolgimento diretto nella relazione di cura e “prendersi cura di” (“taking care of”) l’organizzare condizioni per l’agire con cura. Per Noddings la cura in presenza e quella a distanza sono qualitativamente differenti: basilare resta l’agire nella forma del “caring for” (la cura in presenza), poiché il “caring about” (costruire contesti che facilitano la cura) è sempre vuoto se non culmina in relazioni di cura. Tuttavia non è possibile il “caring for” senza le azioni del “caring about”. Il meglio è impegnarsi su entrambi i versanti. Si può ipotizzare che la filosofia della cura possa costituire il paradigma anche della più ampia vita politica. Occorre però istituire la differenza tra cura come pratica e cura come paradigma di azione: la prima puà avere luogo solo nel vivo delle relazioni vissute, mentre la seconda può costituire l’orizzonte primo che informa la filosofia della vita politica. Va poi considerata anche la tesi di chi ritiene si possa parlare di cura anche riguardo ad azioni che una persona mette in atto nei confronti del mondo non umano: animali, piante e ambiente costruito. Heidegger stabilisce la distinzione tra “prendersi cura” e “aver cura”: il prendersi cura ha per oggetto le cose alla mano di cui ci occupiamo nella maniera dell’utilizzabile, l’aver cura è azione diretta agli atri esseri con i quali condividiamo l’esperienza del vivere. • La durata temporale L’azione di cura può richiedere un tempo lungo, come la messa in atto di buone esperienze educative, ma può richiedere anche un tempo relativamente breve e si danno anche gesti che possono avere la durata di un istante come quando l’intenzione di cura si manifesta in uno sguardo, in una carezza. • La matrice generativa A mettere in moto un’azione di cura è l’interesse per l’altro, avere preoccupazione per la sua condizione. Si sente l’urgenza di aver cura quando si percepisce l’altro necessitante di qualcosa che da sé non può procurarsi. La preoccupazione per l’altro si esprime con intensità diversa: si va dalla semplice disponibilità, al prendersi a cuore, che si manifesta con diversi gradi di intensità, che vanno dalla sollecitudine e premura alla devozione. La devozione è un atteggiamento di attenzione intensiva che fa essere con continuità ricettivamente concentrati sull’altro in modo da rispondere con prontezza ai suoi appelli e avviene dopo il pensare l’altro come ente di valore. La dedizione è quel “di più” che può caratterizzare quelle situazioni in cui chi-ha-cura offre una disponibilità fuori dall’ordinario e perciò non è fra le qualità essenziali del lavoro di cura. Una relazione di cura implica una tensione che ci fa inclinare verso l’altro, e maggiore è la tensione alla cura maggiore è l’inclinazione. L’inclinazione non deve mai diventare quello sporgersi sull’altro che fa sentire all’altro la nostra presenza come eccessiva. • L’oggetto dell’azione Si ha cura quando ci si occupa di qualcosa di essenziale per l’altro e che l’altro da solo non è in grado di procurarsi, in caso contrario si tratta di servizio. Si tratta non solo di soddisfare i bisogni dove l’altro non è in grado di agire autonomamente ma allo stesso tempo di metterlo nelle condizioni di apprendere a soddisfarli in modo autonomo. Uno dei problemi che è chiamato ad affrontare chi-ha-cura consiste nell’individuare quali sono i bisogni degni di cura, i bisogni basici. Una volta stabilito che si tratta di un bisogno irrinunciabile, si rende necessario valutare se e quanto è possibile coinvolgere chi-riceve-cura nell’azione di cura mettendo l’altro nelle condizioni di provvedere da sé. Solo quando si verificano queste condizioni si può parlare di cura per l’altro e non di semplice cura dell’altro. Ciò che costituisce una questione delicata da affrontare sono i bisogni decisi da chi-ha-cura, come per esempio quelli che vengono definiti bisogni educativi. • L’intenzione che guida A caratterizzare l’agire dell’essere umano è l’intenzione e per identificare l’essenza della cura è fondamentale individuare l’intenzione che la muove. Se la cura è pratica ontologica primaria dell’esistere è la ricerca di bene, allora la pratica di cura non può che stare in una relazione essenziale con la ricerca di bene. Chi ha cura è in cerca di qualcosa di buono. C’è cura laddove l’agire è orientato dall’intenzione di produrre beneficio all’altro, benessere. Non esiste il bene al singolare, ma esiste un bene al plurale, di conseguenza la ricerca del bene non può che essere concepita come prassi relazionale. La teoria sviluppata mostra che la cura di sé, se ben intesa, non è cosa distinta dalla cura degli altri poiché non esiste un bene per sé distinto dal bene di ciascun altro. Per smentire l’ipotesi che la cura comporti anche sempre sofferenza conciene riprendere una riflessione di Aristotele, che suggerisce di considerare non solo il ricevere ma anche il fare bene fra le cose piacevoli. 2.3 LA DENSITÀ ETICA DEL LAVORO DI CURA (p. 99) • La questione prima A generare il modo di esserci dell’aver cura è, dunque, una domanda etica: cosa e come fare perché all’altro arrivi del bene ? È necessario quindi sapere in che cosa consiste il bene. La cura si attualizza in azioni fatte di parole o di gesti; il difficile sta nel trovare le parole e i gesti giusti al momento opportuno per quella specifica persona; parole e gesti che all’altro procurino beneficio. Un problema è però, il fatto che, come afferma Socrate, alla mente umana non è accessibile un’idea chiara del bene. In questo ulteriore senso la vita umana è mancante, poiché manca con certezza del sapere primo di cui avrebbe bisogno, l’idea di bene cui aspira. L’agire della cura avviene in un campo accidentato, dove i punti di appoggio su cui basare le decisioni sono sempre provvisori e incerti. Il bene si profila come un’idea che va esaminata all’infinito. Anche nelle forme incerte che assume l’idea di bene esercita comunque un’autorità sul pensiero e interrogarsi con continuità sul bene è della massima importanza per la vita umana. È proprio perché la filosofia della cura muove dall’esperienza vissuta e a questa sempre ritorna, la questione del bene si pone non solo come essenziale ma anche senza retoriche. In questo senso la filosofia della cura può dare nuova sostanza alla filosofia morale. • Tenersi nella domanda Anche se alla domanda prima non c’è risposta definitiva, il bisogno per la vita di sapere in che cosa consiste il bene è tale che non è possibile evitare di porre questa domanda. Piuttosto che confezionare affermazioni non attendibili è meglio tacere e perseverare nella ricerca accettando lo scarto fra il proprio desiderio e quanto possiamo raggiungere. Cercare di pervenire a un’idea che per quanto fragile e provvisoria possa costituire l’orizzonte alla luce del quale prendere le decisioni nella vita. Si tratta di dedicare il tempo del pensare a un domandare che si sa essere mai finito. Ma questa infinitività del domandare non toglie valore al pensare intorno al bene, perché ogni idea di bene cui si perviene, meditandola nel profondo, costituisce un punto di appoggio; l’importante è assumerla come qualcosa di provvisorio, un provvisorio punto fermo. Si può dire che una buona pratica di cura si profila come fortemente nutrita di pensiero. Il pensare che informa la pratica di cura non può che essere un pensare con il cuore, che sente la presenza dell’altro e l’altro si prende a cuore. • Dove ne va del bene Capire cosa fare per promuovere il bene è difficile ma se si accetta il presupposto aristotelico secondo il quale agire per il bene è agire secondo virtù, allora l’aver cura, in quanto cerca ciò che p bene per la vita, è nella sua essenza un agire secondo virtù. Stare nelle zone rischiarate dal bene significa stare là dove le virtù fioriscono. Nessun’altra cosa come la passione per il bene è capace di fare crescere quelle cose di valore che sono i modi di essere ispirati alle virtù. La passione per qualcosa è l’energia necessaria per iniziare processi di trasformazione; il problema è dare alla passione un buon orientamento, quello che si trova avendo come riferimento cose degne di valore per la vita. L’essere presi dalla passione per il bene, per l’altro e per sé è la condizione dell’anima necessaria per tenersi lontani dal compiere azioni che producono malessere nell’altro. Se più persone si impegnassero nella cura nutrendo la passione per il bene si potrebbe avere un mondo certamente migliore. A margine : l’obbedienza alla realtà chiede di usare il concetto di bene così come è usato nell’esperienza quotidiana, perché questa è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, per pervenire a una valida teoria descrittiva della cura. 3. IL NOCCIOLO ETICO DELLA CURA 3.1 AL CUORE DELLA CURA (p. 115) Per costruire una teoria validamente fondata risulta essere passaggio epistemico obbligato accedere alla datità esperienziale resa possibile dall’incontro con persone cui è riconosciuto di essere testimoni di una buona cura. Maria Zambrano, filosofa spagnola, invita a considerare che la realtà non è solo quella che la ragione riesce a captare e analizzare, che c’è dell’altro e questo altro risulta difficile da intercettare. Per Murdoch l’agire etico potrebbe essere guidato da forze che agiscono fuori dal controllo della ragione e potrebbero essere forme di pensiero diverse da quella che in filosofia morale si ipotizza fondare la deliberazione etica (es. “si fa perché si deve”). Le persone capaci di importanti gesti di cura quando sono chiamate a spiegare il loro agire danno risposte sintetiche, “povere” che però non indicano che non c’è pensiero ma che esso è semplice, radicalmente semplice. È semplice nel senso che è essenziale ed è essenziale perché sa dove sta l’essenza delle cose. La decisione eticamente orientata non ha bisogno di raffinare retoriche, ha invece bisogno di una percezione raffinata della realtà. Nella semplicità di questo pensare c’è una forza etica che è la voce di una coscienza che sa ciò che è irrinunciabile e da lì orienta l’esserci. È questa, sostiene Murdoch, “la condizione estrema cui aspirare”: vedere ciò che è necessario e obbedire al reale. Il volto dell’altro mi chiama a una responsabilità irrecusabile quando in me si attiva un modo di vedere capace di comprendere la reale situazione dell’altro. il sentirsi responsabile diventa un principio d’essere dinamico quando si sente la passione per il bene. • Sentire la realtà Sentire e sapere l’essenziale mi obbliga a rispondere alla chiamata a esserci per l’altro. nella cura l’azione etica risponde a una necessità: obbedire al reale nella sua essenziale necessità. È una posizione in cui già prima dell’azione di cura è stata compiuta la scelta di cercare di stare dalla parte delle cose buone e giuste. Per Murdoch la virtù prima è: vedere la qualità della condizione umana e a questa visione rimanere fedele. Questo afferma il ruolo morale dell’attenzione alla realtà. L’agire etico richiede quell’azione recettiva e passiva del vedere e dell’accogliere quello che la realtà mi dice di sé, ma poi si attualizza nel rispondere attivamente alla realtà con gesti concreti. In certi casi gli atti cognitivi sono governati da un sistema di idee acquisite per partecipazione diretta all’ambiente culturale in cui si vive e che tacitamente agiscono sulla coscienza. Come ridurre il potere esercitato dallo sfondo tacito per agire in modo giusto? Una buona pratica di cura è intensivamente informata dal pensare, un pensare impegnato a comprendere la fenomicità della vita razionale, a trovare l’azione più adeguata e a valutare criticamente l’impatto delle pratiche sull’esperienza. Il pensare trova il suo giusto orientamento quando cerca di tenersi nell’ordine del bene. La vita ha bisogno di ragione materna, che prima di tutto si prende a cuore la qualità d’essere delle cose e per questo è capace di fecondare l’esserci. Ha bisogno di una ragione che innanzitutto è preoccupata di stare “al servizio del bisogno”, cioè delle domande che nascono dall’esperienza che possono rendere la vita un tempo buono. 3.4 AGIRE CON GENEROSITÀ (p. 143) • L’azione donativa Aver cura è dare tempo e poiché il tempo è vita dare tempo è generosità. Nel dedicare tempo ed energie alla cura per gli altri si verifica un guadagno d’essere come conseguenza del sapere che quanto si fa procura beneficio all’altro. nel lavoro di cura c’è intrinseco un elemento di gratutità. La cura che si prende a cuore l’altro esce dal perimetro del calcolo, del misurabile, del negoziabile. Si ha cura per l’altro perché di questo agire si sente la necessità. Qui sta la qualità donativa della cura. La cura per essere buona non deve procurare danno a nessuno. Solo che per chi-ha-cura il vantaggio non è qualcosa che si chiede a chi-riceve-cura, ma sta in quello che si fa. Ogni atto di cura che riceviamo richiama alla coscienza la nostra condizione di bisognosità e la responsabilità etica di dare forma al nostro esserci. L’azione del prendersi cura di chi si trova nelle condizioni di non potere fare nulla da sé è narrata nella parabola del “buon samaritano”. L’agire donativo occupa momenti dell’esistenza, non è mai totalizzante; se si pretendesse tale sarebbe insostenibile. Il buono c’è se c’è il giusto e una cosa è giusta se sta nella misura esatta delle cose. In questo senso il bene richiede sempre misura. Non c’è allora opposizione fra etica della cura ed etica della giustizia. A fecondare la postura donativa è la passione per il bene, e insieme il non accettare il male, sentire l’ingiustizia della sofferenza come qualcosa che non può essere tollerato e che ci chiama in prima persona; nelle esperienze più intensive della cura si può parlare di passione per il bene dell’altro. • Senza pretese Jacques Derrida sostiene che c’è dono quando un’azione non appare come dono né al donatario né al donatore. La gratuità interrompe ogni logica circolare di scambio e si manifesta in una relazione unilineare. Il dono non cerca nulla, dunque non cerca neppure il consolidamento del legame sociale; se è certo che è estraneo al valore d’uso e al valore di scambio, altrettanto evidente è che non sta dentro il valore del legame. Il valore del dono sta proprio in questa completa dislocazione dell’attenzione sull’altro che rimane estranea a ogni calcolo. Centrale nella formulazione della teoria del dono è l’idea che la società è tenuta insieme da idee, credenze, mentre la teoria della cura mette al centro gli atti, gesti concreti che agiscono nell’esperienza. Se per Mauss il dono è inscrivibile nella logica circolare del dare-ricevere-ricambiare, dall’analisi delle pratiche di cura emerge che il dono è un gesto concreto che si compie tangibilmente e trova il suo senso compiuto nel fare qualcosa. • Una straordinaria ordinarietà La pratica di cura si manifesta in modi differenti ma sempre richiede tempo. Dedicare tempo significa donare ciò che nella vita è essenziale: il tempo appunto, perché la materia della vita è il tempo. Quando il tempo è massimamente organizzato qualcosa di essenziale si perde. Nel donare il tempo là dove ne va del senso delle cose non c’è nessuna emorragia di essere, non c’è nessuna ideologia auto sacrificale che faccia smarrire la direzione giusta dell’agire. C’è perdita di senso dove si smarrisce il piacere del fare. L’agire donativo della cura trova il suo senso in un piacere etico, cioè il piacere che viene dal sapere di fare ciò che è essenziale fare. Se consideriamo la teoria aristotelica, ogni essere umano mira all’eudaimonia (felicità) che letteralmente significa il ben-essere spirituale, e questo ben-essere dell’anima si troverebbe quando si vive bene e si agisce bene. Si può dire che chi agisce con cura è mosso dall’idea che il proprio ben-essere coincida con il proprio ben-agire e che l’agire bene è quello capace di offrire situazioni esperienziali in cui l’altro possa trovare il suo ben-essere. Chi agisce in modo donativo ragiona secondo una grammatica etica che disordina il modo ordinario di pensare, proprio perché nel donare non sente di fare qualcosa di eccezionale, ma semplicemente ciò che è necessario. È li che sta quell’essere altrimenti in cui ne va del senso vero dell’esserci: straordinarietà ordinaria. Quando si sa di essere in presenza di ciò che è essenziale nell’esistenza allora certe scelte fuori dall’ordinario modo di esserci, non sono vissute come situazioni di impoverimento di sé, ma come un guadagno del senso vero dell’esserci. Il pensiero della cura è situazionato perché attento all’altro nella sua singolarità, ma allo stesso tempo è generale perchè informato dall’idea di bene cui la mente non cessa di dedicare attenzione. È un pensare realistico, che sta alla singolarità dell’esserci, ma allo stesso tempo ideale, perché non rinuncia a pensare l’idea che orienta l’agire. • La necessità vitale del dono Ci sono momenti e situazioni della vita in cui l’atto donativo della cura è assolutamente necessario. La cura come dono di attenzione, di gesti e di parole che avvalorano l’essere dell’altro è condizione necessaria affinchè l’altro trovi l’energia necessaria per coltivare la passione ed aver cura di sé. Ricevere il dono di atti di cura fa sentire di aver valore ed è sentendo il proprio valore che si trova la forza di esserci con senso. Fare esperienza di una buona cura all’inizio del proprio tempo è cosa vitale. Rispetto a certe mancanze di cura che si sono patite all’inizio del tempo della vita non si può fare nulla: solo imparare ad accettare, e da lì, dove tutto sembra difficile, iniziare a esserci. 3.5 AVVICINARE L’ALTRO CON REVERENZA (p. 158) Chi ha cura si trova in una condizione di potere rispetto a chi non è autonomo. Responsabilità e generosità strutturano una buona cura se sono intimamente connesse alla capacità di avere rispetto per l’altro; quel rispetto che è reverenza. Avere rispetto significa consentire all’altro di esserci da sé e secondo il suo modo di essere. • L’essenza del rispetto Nei gesti e nelle parole. Il rispetto si esprime nei gesti e nelle parole. Il rispetto si manifesta nell’avvicinare (andare verso) l’altro con delicatezza e nel saper essere ospitare della soggettività dell’altro (accogliere). Il rispetto è ospitalità; è lasciare che È compito di un’indagine fenomenologica capire quali sono i modi d’essere o “indicatori comportamentali della cura” (Noddings) che attestano responsabilità, rispetto, condivisione generosa con l’altro e coraggio. Si può affermare che “ricettività” (fare posto dentro la propria mente all’essere dell’altro) e “responsività” (mettere in atto azioni concrete a favore dell’altro) sono le due categorie che ordinano i modi d’essere della cura. 4.1 PRESTARE ATTENZIONE (p. 178) • Tenere lo sguardo sul reale Per agire bene nella relazione di cura è necessario acquisire conoscenza di quello che accade. L’attenzione è un gesto cognitivo primario. S’impara la qualità del reale prestando attenzione. L’attenzione è un gesto etico: tenere nello sguardo l’altro è la prima forma di cura. L’attenzione come gesto di cura non è un semplice guardare, ma un’intensa concentrazione sull’altro, i suoi desideri e il suo dolore, le sue speranze e le sue paure. L’attenzione deve essere sensibile e recettiva, della mente e del cuore. L’attenzione accompagna ogni momento dell’aver cura: la fase iniziale della relazione quando facciamo posto all’esserci dell’altro e poi la fase responsiva dell’agire a favore dell’altro perché mentre agisco ho bisogno di capire quali effetti ha la mia azione sulla condizione dell’altro e come questi reagisce. L’attenzione dell’aver cura è uno spostare l’interesse da sé all’altro. l’attenzione che ha cura ha la sua matrice generativa non solo nel riconoscimento del valore dell’altro, ma anche nel sapere e nell’accettare che la necessità prima è la necessità di bene. • Con fedeltà alle cose Si può accogliere l’essere dell’altro, fare posto al suo vissuto nella misura in cui la mente si fa leggera, cioè alleggerita del peso di tutte quelle teorie che anticipano l’altro, lo chiudono dentro un processo di interpretazione deciso prima dell’incontro. Il prestare attenzione è difficile anche perché quando la realtà ha il volto del negativo la difficoltà del prestare attenzione aumenta esponenzialmente. In certi momenti si cerca rifugio nell’immaginazione, per raffigurarsi una realtà che produce consolazione per rendere sopportabile la scena. È necessario coltivare una disciplina dell’attenzione che sappia tenersi ancorata al principio epistemologico di cercare la verità. L’attenzione è coltivata nel suo pieno se sa stare sia nel mondo delle cose che accadono nel concreto sia nel mondo delle idee. Entrambi i piani del reale mettono in scacco l’attenzione: non solo il mondo intellegibile non può essere contemplato a lungo ma neppure la realtà concreta, che continuamente ci chiede di capire per prendere la giusta decisione. La conversione da compiere è quella di sostenere la duplice fatica di prestare attenzione al mondo così com’è e al mondo immaginato a partire dalla nostra intima tensione al bene. 4.2 ASCOLTARE (p. 184) È un dato fenomeno logicamente evidente che il nostro esserci, in quanto relazionale, è originariamente orientato secondo il modo dell’ascoltarsi l’un l’altro. L’ascolto diventa azione di cura quando sa restituire all’altro la considerazione per quanto sta dicendo a noi. Ascoltare viene dal greco e tradotto significa “odo” e “percepisco” ma anche “imparo” e “obbedisco”. Ascoltando l’altro si impara perché l’ascolto provoca la postura della presenza riflessiva sui propri vissuti. L’obbedire è assumere quanto il senso indica, prendersi cura del senso dell’altro. quando una persona parla di sé si palesa, si svela nel suo essere proprio; in quel caso trovare ascolto significa esperire considerazione per il proprio essere. L’ascoltare con cura non va inteso con una tonalità pietosa ma come disposizione a cogliere il senso che l’altro mi comunica. Ascoltare passivo è fondamentalmente un tacere mentale, poiché è capacità di sospendere i propri dinamismi cognitivi in modo da sintonizzarsi con il dire dell’altro. La passività è necessaria per fare posto all’altro nella nostra mente e la tensionalità per accedere a quel senso dell’altro che chiede lo sforzo della comprensione. 4.3 ESSERCI CON LA PAROLA (p. 186) Ma dopo l’ascoltare in silenzio a essere importante è il gesto della parola con cui chi-ha- cura mostra di aver accolto il dire dell’altro e interviene con parole di comunicazione con l’altro. La parola che è dono è la parola che cura, una parola che non ha bisogno di essere analizzata poiché entra nel respiro della mente dell’altro quasi senza sforzo. Sorvegliare l’uso delle parole è un imperativo etico della pratica di cura. La parola che cura è una parola che sta nell’ordine della verità. La parola che cura è una parola che apre gli spazi dell’esserci risultando allo stesso tempo realistica, franca. È però essenziale che la franchezza sia informata da un modo di dire che renda la verità sostenibile per l’altro. La parola che cura è quella capace di dare corpo a un discorso ospitale. L’ospitalità è lasciare che l’altro entrando nel nostro spazio non rinunci a se stesso, ma, portando la sua soggettività, disordini le nostre abitudini e scompigli le nostre tacite rigidità. Ma il comunicare considerazione non sempre richiede la parola. In certi casi basta “esserci”, far sapere che al momento opportuno ci saremo. È la disponibilità pura. 4.4 COMPRENDERE (p. 188) È il rivolgersi all’altro secondo l’intenzione di comprendere che rende possibile la relazione, poiché consente di gettare un ponte ontologico tra sé e l’altro. la comprensione che concorre ad attualizzare una buona azione di cura: può configurarsi come un atto teorico che interpreta la situazione dell’altro per aiutarlo a comprendere se stesso, a trovarsi nel suo essere proprio e può consistere anche nell’aiutare l’altro a progettarsi nelle sue possibilità più proprie. Il comprendere richiede conoscenza, conoscenza della condizione dell’altro. una buona conoscenza si fonda su un’onesta visione delle cose, la quale richiede una forma di “obbedienza alla realtà”: la mente è capace di obbedienza alla realtà quando avvicina i fenomeni senza precomprensioni, con un’attenzione ricettiva rispetto alla forma con cui il reale si rivela. Per avere accesso alla conoscenza dell’altro le praticalità cognitive devono essere il meno imperative possibili, così da lasciare che l’altro venga all’evidenza nel suo proprio essere; ciò richiede uno stile del conoscere massimamente ricettivo. Il principio regolativo del cercare una condizione di purezza e di leggerezza, pur impossibile da realizzare, può svolgere una funzione positiva, poiché costringe la mente a una analisi del proprio funzionamento allo scopo di verificare se e come si sta perseguendo una comprensione dell’altro quanto più fedele possibile al suo esserci. Tuttavia, anche quando ci sembra di aver compreso l’altro, non resta che disfare questa convinzione che ci porterebbe in una illusoria comfort zone, perché il processo di comprensione, degli altri come di se stessi, non può mai ritenersi concluso. In questo senso è utile pensare il volto dell’altro come traccia dell’infinito, la quale comprensione è chiamata a non essere mai terminata. 4.5 SENTIRE CON L’ALTRO (p. 192) L’atto del comprendere è sempre emozionalmente situato. Farsi sensibili al vissuto dell’altro significa sentire nella carne il suo stato d’essere, ed è questo sentire incarnato che rende possibile una vera comprensione. Un cuore puro è quello che si fa guidare dall’intenzione di mettere il suo sentire al servizio del processo di comprensione del reale: incontrare l’altro con il massimo dei sentimenti che fanno piacere e limitando quelli che fanno dolore. • Sentire empatia Per agire con cura è indispensabile la capacità di sentire l’altro, e sentire il sentire dell’altro è empatia, cioè la capacità di cogliere l’esperienza vissuta estranea (Stein). Essere empaticamente presenti comporta entrare in uno stato di risonanza emotiva con l’altro, significa poter avvicinare l’altro anche quando si trova nelle situazioni più difficili e in certi casi la capacità di risonanza affettiva del vissuto dell’altro può arrivare a rompere la solitudine congelata e congelante del dolore. L’esperienza dell’altro che è oggetto di empatia “non è stata vissuta da me eppure si annunzia in me, manifestandosi nella mia esperienza vissuta non originaria” (Stein). L’esperienza vissuta e l’esperienza empatizzata restano due esperienze diverse, nel senso che attraverso l’atto empatico io non accedo al modo proprio del vissuto dell’altro, ma posso cogliere la sua tonalità. Sul piano relazionale si evita il pericolo di continui sconfinamenti da parte di chi-ha-cura nei confronti dello spazio vitale dell’altro e si evita l’insostenibile peso emotivo che deriva da situazioni di dolore e di sofferenza; questo si può definire separatezza intimamente relazionale. • Provare compassione Ci sono situazioni in cui non solo si sente il sentire negativo dell’alro, il suo soffrire, ma questo co-sentire è accompagnato da una valutazione di quello che accade; quando è