Scarica Filosofia della cura - Luigina Mortari e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia dell'infanzia e pratiche narrative solo su Docsity! Filosofia della cura – Mortari Cap 1. Ragioni ontologiche della cura PRIMARIETÀ DELLA CURA. • Ciò che è da pensare. Per la vita, la cura è cosa essenziale e irrinunciabile, poiché senza cura la vita non può fiorire. La sapienza dell’essenzialità ontologica della cura ha radici antiche: per esempio, nel Fedro di Platone, si dice che la cura è tratto essenziale non solo dei mortali ma anche delle divinità. HEIDEGGER: afferma che ciò che illumina nella sua essenza l’essere umano è la cura; in quanto essa è “struttura dell’essere dell’esserci”, infatti, da subito e per tutti il tempo della vita l’essere umano si trova a doversi occupare di sé e degli altri. “Ognuno è quello che fa e di cui si cura”. Dire che noi diventiamo quello di cui abbiamo cura e che i modi della cura danno forma al nostro essere significa che se abbiamo cura di certe relazioni, il nostro essere sarà costruito dalle cose di cui ci prendiamo cura. Della cura si può pertanto parlare nei termini di una fabbrica dell’essere; la cura può essere definita come il lavoro del vivere e dell’esistere e il lavoro di cura accompagna la vita intera. La cura è ontologicamente essenziale: protegge la vita e coltiva le possibilità di esistere. Una definizione semplice ed essenziale di cura: aver cura è prendersi a cuore, preoccuparsi, avere premura, dedicarsi a qualcosa. • Esserci mancanti d’essere. Noi siamo esseri mancanti, in continuo stato di bisogno: non siamo esseri finiti, interi, autonomi e autosufficienti nel nostro essere; poiché siamo fatti di materia corporea e di materia spirituale, dobbiamo continuamente procurarci cose per nutrire e conservare il nostro essere nel corpo e nell’anima. Il mancare è il trovarsi a desiderare sempre una realtà piena della vita che mai ci appartiene. La nostra essenza ontologica è essere nella possibilità, ovvero poter divenire, quel divenire che è passaggio dall’essere possibile all’essere attuale. L’essere che noi siamo non possiede il suo essere, ma lo riceve in dono: infatti siamo esseri dipendenti dal mondo in cui ci troviamo. La nostra mancanza è evidente nel fatto che nasciamo senza forma del nostro esserci e con il compito di modellarla nel tempo senza che ci sia chiaro cosa si debba fare per dare una buona forma al nostro divenire. L’essere è, quindi, un divenire con durata limitata: la possibilità di non essere più è una costante che ci accompagna per tutti il tempo e da qui nasce l’angoscia, l’angoscia dello svanire imprevedibile e inevitabile nel nulla. Se da una parte siamo mancanti di essere, dall’altra siamo costretti a subire la mancanza di sovranità: subiamo la realtà perché tutto si può sopportare: il cuore sopporta tutto, non si rompe, ma provi dolore. È un paradosso dell’esistenza: sentire il proprio essere fragile, tenuto nel tempo di momento in momento, senza disporre di alcuna sovranità sul proprio divenire. In conclusione, nasciamo mancanti d’essere, tali rimaniamo e siamo inchiodati al compito di divenire il proprio poter essere; qui sta tutto il difficile di vivere. In fatti, il dato primo che la mente accoglie è la certezza del proprio essere, ma questa certezza non è rassicurante poiché diviene subito certezza della fatica del proprio divenire e dell’impossibilità di sottrarsi ad essa. DIREZIONALITÀ DELLA CURA. • La cura che conserva la forza vitale. La vita ha continuamente bisogno di qualcosa e senza questo qualcosa la vita viene meno; questo qualcosa va procurato. La cura della vita si manifesta innanzitutto nella forma del procurare cose che alimentano e conservano il ciclo vitale. Il termine greco merimna indica la preoccupazione di far fronte al compito di vivere, di salvaguardare le possibilità di continuare a esserci, di dovere sempre e con continuità procurare cose per poter continuare ad essere. La cura, tuttavia, può assumere dimensioni smisurate a causa dell’ansia che prende l’anima di fronte alla nostra fragilità ontologica: il nostro mancare di sovranità sulla vita genera inquietudini e paure, che possono portare a una frenesia del procurare cose, ma questa frenesia finisce per consumare la vita stessa. La preoccupazione per la vita può tradursi in un eccesso, una forma quasi di accanimento nell’accumulare ciò che potrebbe essere utile che porta ad affannarsi. Una vita beata è pensata come quella “senza l’angoscia della vita”, condizione necessaria per aiutarci a trovare la giusta misura del nostro avere cura. • La cura che fa fiorire l’essere. Proprio perché l’essere umano viene al mondo mancante di una forma dell’esserci, il suo compito è quello di cercare la migliore forma possibile del proprio divenire. La cura si realizza come prendersi cura delle possibilità. L’uomo subisce la trascendenza (essere in cammino, verso altre forme dell’essere): questo significa che il proprio esserci è sempre ciò che è da essere, chiamato a divenire tutto ciò che non è ma che può divenire. l’essere umano non è un punto fermo nel divenire ma è un nucleo d’essere in continuo divenire che viene a prendere qualche forma, ma sempre provvisoria, sempre da superare. Assecondare la tensione a trascendere ciò che si è per aprirsi all’ulteriore risponde all’esigenza dell’anima. La cura in quanto cura dell’esserci è tensione a realizzare il possibile nelle sue forme migliori, quelle in cui sentiamo compiersi il senso buono dell’esistere. La cura di sé si declina non solo come il procurare quanto necessario al vivere per garantire la propria durata e conservazione, ma anche come costruire uno spazio vitale in cui potere dare completa realizzazione alle proprie possibilità d’esistere. Avere cura della vita è anche assumersi l’impegno di rendere attuale il possibile in modo da realizzare una vita che faccia fiorire il meglio dell’umano e come tale sia degna di essere vissuta. L’educazione è una pratica di cui con cui chi-ha-cura promuove nell’altro la capacità di aver cura di se stesso e poiché il sé coincide con l’anima, aver cura di sé significa anche aver cura dell’anima. SOCRATE: afferma che l’anima è la cosa di maggior valore, e parla di cura dell’anima usando il termine “epimeleia” che sta a indicare quell’aver cura che coltiva l’essere per farlo fiorire. Quando si ha avuto esperienza di una cura che ha nutrito l’anima di energia vitale, allora si può stare di fronte all’angoscia senza che questa ci travolga; il neonato che si è sentito tenuto in braccio ha potuto far esperienza di una quiete che nutre l’essere. La cura è come luce che si distende nell’anima lasciando vedere uno spiraglio di altro; aver cura è togliere via il peso della sofferenza, alleggerire l’altro dal gravame di pensieri e di emozioni troppo pesanti da sostenere da soli e insieme cercare un ritmo buono per camminare nel tempo. • Aver cura delle ferite dell’esserci. A essere necessario risulta anche un altro tipo di cura, che ripara l’essere nei momenti di massima vulnerabilità e fragilità, quando il corpo o l’anima si ammala: è la cura come terapia. La terapia è la cura chiama a lenire le sofferenze che assorbono l’energia vitale. Il minaccioso da cui cerchiamo riparo può venire proprio da coloro che ci sono vicini. Ciò che più da senso alla vita sono i beni relazionali, come l’amicizia, l’amore e con essi tutte le azioni connesse alle virtù che creano buone relazioni: gentilezza, cortesia, solidarietà, compassione. L’amicizia e l’amore trascendono la nostra volontà, sono qualcosa di imprevisto e gratuito, che si sottrae ad ogni logica. L’amicizia non si cerca, si mette in atto; anche l’amore: non è qualcosa che si progetta, ma che si vive. E in questo poter coltivare un’amicizia o coltivare un amore dipendiamo fortemente dall’altro. I beni di relazione, quelli del più alto valore, non solo sono trascendenti la nostra volontà, ma anche massimamente delicati: sono vulnerabili perché esposti agli urti della realtà, agli eventi che possono indebolire o distruggere i legami relazionali. Nel vivere le relazioni il nostro divenire s’intreccia intimamente con gli altri e quando l’altro se ne va anche una parte di noi viene meno. Solo il bene dà il valore alla vita e c’è un dolore che viene quando ci troviamo a sopportare il male; ma c’è anche un altro tipo di dolore: quello che si prova quando viene a mancare il bene e il suo venir meno, lascia mancanti dell’essenziale, lascia senza il senso vero dell’esserci. Il difficile della condizione umana è di dover investire laddove si situa il rischio della massima vulnerabilità; ma una vita completamente autosufficiente è impossibile e non è propriamente umana, proprio a ragione del fatto che noi siamo esseri relazionali. • Fragilità. Anche se non dipendessimo dagli altri e potessimo bastare a noi stessi ci mancherebbe sempre qualcosa. Non solo siamo vulnerabili perché esposti agli urti del mondo e a quelli che ci provochiamo gli uni con gli altri, ma siamo anche intimamente fragili: siamo fragili poiché veniamo ad essere indipendentemente da una nostra decisione, e una volta nel mondo veniamo a trovarci nel fluire del tempo e questo nostro essere nel tempo non sta sotto la nostra sovranità. Scoprire che io non dipendo da me, e che da me non sono nulla fa sentire tutta la fragile inconsistenza del proprio essere. La fragilità del nostro essere si coglie nella enigmaticità della nostra origine e della nostra fine: nei vuoti non conosciuti del nostro passato e nell’impossibilità di chiamare all’essere tutto ciò che vorremmo. HEIDEGGER: afferma che siamo esseri gettati nel mondo, e proprio perché la condizione umana è quella di essere gettati, non ci è dato di avere sovranità su ciò da cui dipende la realizzazione del nostro divenire. Nella nostra vita impariamo che il bene più grande è la libertà e la ricerchiamo per tutto l’arco della nostra esistenza, ma è una ricerca paradossale perché a cercare tale libertà è un essere che si trova nel bel mezzo della sua esistenza senza averlo deciso. Gli attimi di libertà sono momenti privilegiati che nutrono l’anima di quella energia vitale che rende sostenibile il mestiere del vivere; ma questi momenti, in cui ci sentiamo veramente vivi, fanno esperire l’altro della condizione umana: quel nostro trovarci a essere per tutto il tempo della vita costretti a misurarci con eventi e decisioni che non dipendono da noi e che evidenziano la qualità condizionata della vita umana. Gli essere umani sono esseri condizionati non solo perché nel loro venire a essere dipendono da una decisione che non avviene da sé stessi, ma anche perché ogni elemento con cui entrano in contatto diventa una condizione della loro esperienza. Non solo il mondo naturale, ma anche gli artefatti del lavoro umano condizionano i modi della nostra esistenza. La condizione di fragilità dipende anche dalla sostanza temporale dell’esserci; l’espressione “io sono” non indica qualcosa che resiste al tempo, perché ciò che io sono è continuamente in divenire. Il nostro sguardo ci trova continuamente diversi e il dover divenire, è un dover divenire il proprio essere possibile; Il lavoro faticoso di dare forma al proprio essere possibile è quanto di più fragile possa esserci poiché l’esistenza è come sottoposta a un “vento perenne” dove anche le costruzioni più solide finiscono per non resistere all’urto del reale. Infatti, per quanto dedizione si metta a coltivare questa tecnica del vivere, questa forma migliore del proprio divenire, niente ha la minima garanzia di permanenza. Sapere che il nostro essere è limitato al presente e che passato e futuro non ci appartengono, ci consegna alla consapevolezza della fragilità del nostro essere: ovvero l’oscillare tra l’essere e il nulla. Il nostro essere ha una durata e la sua attualità sta nell’attimo in cui diviene qualcosa; questo esserci attimo per attimo ha il carattere della continuità, nel senso che l’essere già stato lascia nel presente qualcosa di sé. Quindi con il divenire l’essere si riempie di vissuti che nestano nelle pieghe dell’anima. La fragilità ontologica sta nell’impossibilità di riempire di senso ogni attimo del proprio tempo, di chiamare all’essere tutto ciò che si vorrebbe e disfare tutto ciò che non si vorrebbe. • Debolezza ontologica. Fragilità e vulnerabilità danno debolezza ontologica: c’è una vulnerabilità e una fragilità del corpo e una dell’anima; non solo l’afflizione del corpo può compromettere la fioritura del nostro essere e minaccia la fiducia nel possibile, ma anche vissuti difficili possono infiltrarsi nell’anima e consumare le energie vitali. La debolezza ontologica è conseguente al fatto che siamo esseri condizionati, poiché non solo ogni cosa con cui entriamo in contatto, ma anche ogni cosa che noi stessi costruiamo diventa inevitabilmente qualcosa che condiziona la nostra esistenza. La nostra sostanza immateriale è fatta da pensieri ed emozioni; i pensieri buoni e le emozioni buone nutrono la mentre, ma ci sono pensieri e emozioni che lavorano al negativo, procurando sofferenza dell’anima. Ciò che ci rende deboli nell’essere: • L’inquietudine è generata dal sapersi enti che subiscono la propria trascendenza, dal sapere il difficile e l’imprevedibile che accompagna lo sforzo di esistere. È una tonalità affettiva propria della vita; svolge, infatti, la funzione essenziale di mettere in tensione l’esserci e lo rende aperto alla chiamata dell’ulteriore: in questo senso, è il sentimento chiave dell’esistenza. • L’angoscia, invece, nasce dalla consapevolezza di non riuscire mai nella piena attuazione del nostro poter essere, di non poter divenire come si vorrebbe. Si fa esperienza di angoscia quando si prende coscienza di trovarsi in una realtà che è e diviene indifferentemente ai nostri progetti, sorda delle nostre tensioni. Ma se l’inquietudine è qualcosa che ci accade indipendentemente da un atto del pensare e se l’angoscia invade l’anima all’improvviso, il meditare radicalmente la nostra debolezza genera un altro sentimento: il dolore ontologico. Esso è un pensiero che si forma gradualmente nel tempo, quando la mente si ferma a meditare sull’esserci e radicalmente prende consapevolezza di tutta la nostra debolezza; si fa esperienza del dolore ontologico nel momento in cui si approfondisce la qualità della nostra condizione: per questo, sapere è patire, perché significa imparare a vedere le cose per quello che sono. Accettare la qualità della condizione umana significa sapere quello che si è per poter progettare l’esserci entro i limiti di quello che si è; non è rassegnazione. Sostenere il lavoro del vivere e dedicare l’energia vitale a coltivare l’arte di esistere chiede di sapere resistere al dolore ontologico; non opporsi, ma il saper accettare fino in fondo la drammatica qualità della realtà. Se dunque siamo enti mancanti, non finiti, e come tali chiamati a divenire il nostro proprio poter essere, e se questo lavoro del divenire deve fare i conti con il nostro essere intimamente fragili e fortemente vulnerabili, e se questo divenire è intrecciato con quello degli altri, in quanto bisognosi di quanto alimenta la vita, allora avendo definito la cura come quell’agire che conserva, ripara e protegge l’esserci, si può affermare che, sulla base di quella che si può definire una evidenza ontologica, tutti noi abbiamo necessità di cura. • Orizzonte paradigmatico. L’attività di pensiero trova la sua realtà nella formulazione di concetti. Dal momento che ogni prodotto del pensiero prendere forma dentro un preciso orizzonte di pensieri, e dunque è inevitabile che sia culturalmente situato, occorre esplicitare tale orizzonte. Riferimento essenziale per lo sviluppo del discorso è la filosofia fenomenologica, poiché in ambito contemporaneo è qui che si forma la teoria della cura e il riferimento al pensiero greco antico, dove il concetto di cura ha preso forma. Un importante riferimento per l’elaborazione della teoria descrittiva della cura è l’analisi dei dati che nel tempo sono andata raccogliendo sui pensieri di chi fa lavoro di cura, ovvero da quelli che sono chiamati “testimoni privilegiati” cioè coloro che vengono indicati come testimoni di una buona pratica di cura. Tenersi ancorati all’esperienza è importante, nonostante può dare l’impressione di arrivare a pensieri troppo semplici, quasi banali, ma un pensare fedele alla realtà, capace di stare la dove ne va del senso delle cose, è spesso proprio quello più semplice. Cap 2. L’essenza di una buona cura Per arrivare a una teoria rigorosa della cura risulta adeguato il metodo fenomenologico; assumere tale metodo significa indagare che cosa sia la cura nella sua essenza, non si limita a fornirne una descrizione delle azioni di cura, ma guida l’indagine a cogliere che cosa sia la cura in sé. QUESTIONI DI METODO. • Cercare l’essenza generale. Per agire bene è necessario avere conoscenza di ciò di cui ci si occupa; la fenomenologia asserisce che l’operazione fondativa di un sapere che intende essere rigoroso consiste nel cogliere l’essenza della cosa oggetto di indagine, ossia individuare le qualità essenziali in cui quella cosa consiste. Con il termine essenza si intende la struttura intimamente propria di una cosa, la quale è costituita da quella serie di qualità essenziali che necessariamente la identificano, in quanto senza di esse non potrebbe esserci. Se consideriamo il quotidiano accadere degli eventi possiamo rilevare che ci sono molti modi di attualizzazione della cura, ma l’essenza della cura. L’essenza può essere, quindi, definita come un nucleo di proprietà senza le quali una realtà non sarebbe quella realtà. HUSSERL: afferma che l’essenza è l’invariante, ossia “la forma universale necessaria” senza la quale qualcosa come questa cosa, come esempio della sua specie, sarebbe impensabile; è quindi l’essenza universale. Affinché un fenomeno possa essere definito come “cura” deve presentare tutte le qualità che strutturano l’essenza della cura. • L’essenza del concreto. Nella realtà concreta non incontriamo essenze generali pure, ma attualizzazioni particolari delle essenze poiché “ho esperienza della cura così come la ricevo o come la metto in atto nel mio essere qui e ora, non della cura nella sua essenza generale.” Ogni fenomeno manifesta qualità specifiche, che anche se non fanno parte dell’essenza generale concorrono a definire la sua essenza particolare. L’essenza del concreto è costituita dalle qualità concretamente essenziali che qualificano uno specifico evento di esperienza. Prenderne in esame gli eventi singolari, le esperienze, è dunque una necessità; infatti per avere un sapere rigoroso si deve fare un’analisi fenomenologica del concreto, cioè basarsi sulle esperienze. Dunque, per comprendere la qualità del reale è necessario occuparsi dei singoli atti di cura. La ricerca dell’essenza generale-formale va concepita in relazione alla ricerca delle essenze particolari-concrete: l’essenza generale-formale va pensare come un’intelaiatura che si riempie di elementi concreti in reazione alle singole determinazioni ricavate dall’esperienza. Tra il piano di ricerca dell’essenza generale della cura e il piano di indagine che ha per oggetto l’atto di cura realizzato da una persona sono individuabili quelle che si definiscono regioni fenomeniche della cura; essa si attualizza in modi differenti a seconda della regione di contesto in cui accade (nell’educazione, in ambito sanitario, in ambito familiare). Una regione fenomenica comprende, quindi tutti quegli atti concreti che condividono un insieme di qualità (la cura educativa, la cura sanitaria, la cura materna). In conclusione: • Essenza generale-formale: (caratterizza tutti quanti) assume come dati i prodotti del pensiero ed individua le qualità essenziali indipendentemente dall’esperienza e dalle singole situazioni. Comprende tutte quelle qualità senza le quali il fenomeno non potrebbe essere ciò che è. • Essenza singolare-concreta: (atti concreti) dedica attenzione alle situazioni in cui le persone mettono in atto azioni di cure tramite l’esperienza del mondo reale. La preoccupazione per l’altro si esprime con intensità diversa: si va dalla semplice disponibilità, al prendersi a cuore, che si manifesta con diversi gradi di intensità, che vanno dalla sollecitudine e premura alla devozione. La devozione è un atteggiamento di attenzione intensiva che fa essere con continuità concentrati sull’altro in modo da rispondere con prontezza ai suoi appelli. La dedizione è quel “di più” che può caratterizzare quelle situazioni in cui chi-ha-cura offre una disponibilità fuori dall’ordinario; tale situazione si verifica, per esempio, quando medici o infermieri si rendono costantemente reperibili fino a quando una situazione critica non viene superata. Cura significa voler il bere di qualcuno e questo desiderio spinge a un movimento verso l’altro, ci fa inclinare verso l’altro, e maggiore è la tensione alla cura maggiore è l’inclinazione. L’inclinazione però non deve mai diventare quello sporgersi sull’altro che fa sentire all’altro la nostra presenza come eccessiva: il problema è sempre quello di trovare la giusta misura della propria posizione rispetto all’altro. • L’oggetto dell’azione. Si ha cura quando ci si occupa di qualcosa di essenziale per l’altro e che l’altro da solo non è in grado di procurarsi, in caso contrario si tratta di servizio. Nella relazione educativa si tratta non solo di soddisfare i bisogni dove l’altro non è in grado di agire autonomamente ma allo stesso tempo di metterlo nelle condizioni di apprendere a soddisfarli in modo autonomo. Uno dei problemi che è chiamato ad affrontare chi-ha-cura consiste nell’individuare quali sono i bisogni degni di cura, i bisogni basici. Identificare i bisogni, ossia ciò che è necessario per una vita buona, non è facile; è facile identificare le necessità biologiche, ma c’è anche dell’altro: i bisogni relazioni, cognitivi, affettivi, spirituali. NODDINGS: ritiene che solo quando siano individuati i bisogni essenziali si pongono le premesse per una reale cultura della cura. Una volta stabilito che si tratta di un bisogno irrinunciabile, è necessario valutare se e quanto è possibile coinvolgere chi-receve-cura nell’azione di cura mettendo l’altro nelle condizioni di provvedere a sé Quando si verificano queste condizioni si può parlare di cura per l’altro e non di semplice cura dell’altro. Ciò che costituisce una questione delicata da affrontare sono i bisogni decisi da chi-ha-cura, come per esempio quelli che vengono definiti bisogni educativi: la cura in educazione è decidere che qualcosa è un bisogno vitale e agire in modo da far percepire all’altro non solo l’esistenza ma anche l’irrinunciabilità di ciò che quel bisogno consente di soddisfare. • L’intenzione che guida. A caratterizzare l’agire dell’essere umano è l’intenzione e per identificare l’essenza della cura è fondamentale individuare l’intenzione che la muove. Se si assume il principio aristotelico secondo il quale “ogni cosa tende al bene” allora si può affermare che il movimento dell’esistere è mosso dall’intenzione di cercare il bene: chi ha cura è quindi in cerca di qualcosa di buono. C’è cura laddove l’agire è orientato dall’intenzione di produrre beneficio all’altro, benessere. Il venir meno del bene risulta insopportabile: quando si parla dell’essere umano come di un ente mancante, quel che manco non è l’essere, ma le cose di valore che per tutta la vita sono l’oggetto del cercar; l’essere umano è mancante del bene. Una buona cura è: • Proattiva: perché cerca il bene; • Protettiva: poiché cerca di proteggere la vita, propria e altrui, da ogni forma di male. La teoria sviluppata mostra che la cura si sé, se ben intesa, non è cosa distinta dalla cura degli altri, poiché non esiste un bene per sé distinto dal bene di ciascun altro. ARISTOTELE: suggerisce di considerare non solo il ricevere ma anche il fare bene fra le cose piacevoli: dal momento che è piacevole fare il bene, è allora piacevole per gli esseri umani manche migliorare chi sta vicino a loro. LA DENSITÀ ETICA DEL LAVORO DI CURA. • La questione prima. A generare il modo di esserci dell’aver cura è, dunque, una domanda etica: cosa e come fare perché all’altro arrivi del bene? È necessario quindi sapere in che cosa consiste il bene. La cura si attualizza in azioni fatte di parole o gesti; il difficile sta nel trovare le parole e i gesti giusti al momento opportuno per quella specifica persona: parole e gesti che all’altro procurino beneficio. Un problema è però, il fatto, che come afferma SOCRATE, alla mente umana non è accessibile un’idea chiara del bene. In questo ulteriore senso la vita umana è mancante, poiché manca con certezza del sapere primo di cui avrebbe bisogno, l’idea di bene cui aspira: a nessuno è dato cogliere l’idea di bene nella sua essenza. Il concetto di bene è destinato ad essere sempre oltre la possibilità di una piena comprensione, a mantenersi per la mente umana in una zona di mistero; un’idea chiara e luminosa del bene potrebbe essere sostenuta solo da una mente divina. L’agire della cura avviene in un campo accidentato, dove i punti di appoggio su cui basare le decisioni sono sempre provvisori e incerti; quindi, il bene si profila come un’idea che va esaminata all’infinito. • Tenersi nella domanda. Nonostante non ci sia una risposta definitiva alla domanda precedente, il bisogno per la vita di sapere in che cosa consiste il bene è tale che non possibile evitare di porre questa domanda. Piuttosto che confezionare affermazioni non attendibili è meglio tacere e perseverare nella ricerca; cercare di pervenire a un’idea che per quanto fragile e provvisoria possa costituire l’orizzonte alla luce del quale prendere le decisioni nella vita. Se è vero che pervenire a una definizione esatta del bene è compito impossibile, tuttavia, avendo definito la cura quella pratica mossa dall’intenzione di procurare ciò che è bene per la vita, non si può evitare di esaminare questa domanda, anche sapendo l’inevitabile imprecisione di ogni idea che si possa formulare; l’importante è assumerla come qualcosa di provvisorio, un provvisorio punto fermo. Si può dire che una buona pratica di cura si profila come fortemente nutrita di pensiero; il pensiero che informa la pratica di cura non può che essere un pensare con il cuore, che sente la presenza dell’altro e l’altro si prende a cuore. • Dove ne va del bene. Una buona politica dell’esistenza assume come fondamentale la cura, e poiché essa è nella sua essenza mossa dall’idea del bene, diventa essenziale prendere in esame l’idea del bene. Il bene è ciò che si eleva al di sopra dell’essere, ed è proprio in quanto tale che non può essere conosciuto, compreso dalla mente umana. Capire cosa fare per promuovere il bene è difficile ma se si accetta il presupposto aristotelico secondo il quale agire per il bene è agire secondo virtù, è nell’essenza della cura agire secondo virtù. Ma senza passione la vita non si trasformerebbe, non troverebbe la forza per andare in cerca di altre forme dell’essere: non solo altri modi di fare esperienza delle cose, ma anche altri spazi del pensare. La passione per qualcosa è l’energia necessaria per iniziare processi di trasformazione; ma il problema è quello di fare alla passione un buon orientamento, quello che si trova avendo come riferimento cose degne di valore per la vita. Il problema fondamentale per l’esistenza, e dunque per chi fa lavoro di cura, è trovare questo nutrimento per l’anima; solo una via rischiarata dalla passione per il bene è degna di essere vissuta. L’essere presi dalla passione per il bene, per l’altro e per sé è la condizione dell’anima necessaria per tenersi lontani dal compiere azioni che producono malessere nell’altro. Cap 3. Il nocciolo etico della cura AL CUORE DELLA CURA. Per capire un fenomeno è necessario cogliere i modi del suo apparire; Nella cura: • I modi di esserci sono le immediate evidenze fenomeniche dell’agire con cura, che chi-ha-cura manifesta concretamente e che l’altro percepisce nel vivo della relazione; • Le posture dell’esserci sono le basi organiche che preparano l’azione di cura, possono essere definite come evidenze fenomeniche trascendenti, che risultano splendere nei modi di essere. Rispondere praticamente alla passione per il bene orienta la persona a sviluppare precise posture dell’esserci in cui si condensa l’essenza etica della cura: sentirsi responsabile, condividere con l’altro l’essenziale, avere una considerazione reverenziale per l’altro, avere coraggio. SENTIRSI RESPONSABILE PER L’ALTRO. Il sentire la responsabilità della qualità della vita dell’altro è una condizione necessaria per aver cura dell’altro. • L’essenza della responsabilità. Responsabilità viene dal latino rispondere, rispondere a una chiamata. Assumersi la responsabilità di aver cura di un’altra persona significa essere disponibile a fare quanto necessario e quanto è possibile per il ben-essere dell’altro; questa disponibilità non va solo agita ma anche dichiarata, affinché l’altro sappia che su di noi può contare. Se presto un’attenzione realmente sensibile all’altro, il suo vissuto non può non toccarmi e toccandomi mi metto in questione, mi interpella e come tale mi intima di rispondere attivamente. La responsabilità di chi-ha-cura si manifesta secondo gradi diversi a seconda della condizione di bisogno in cui si trova l’altro: • Ci sono situazioni in cui il livello di autonomia dell’altro è talmente scarso da richiedere a chi-ha- cura una responsabilità diretta dell’altro (es. il neonato, il disabile); • Ci sono altre situazioni in cui chi-ha-cura agisce il modo tale da mettere l’altro nelle condizioni di potersi assumere la responsabilità da sé e quindi si richiede una responsabilità indiretta (es. cura educativa). Dunque rispondere alla chiamata alla responsabilità significa agire nel modo dell’ “essere per altri”; l’agire per altri è il modo in cui si costituisce l’agire etico. Proprio perché la condizione umana è quella della finitezza, l’energia vitale di ciascuno è limitata, pertanto non si può chiedere una responsabilità infinita; invece è richiesta una responsabilità sostenibile nella misura dell’uomo. Una buona cura è una cura giusta che risponde al bisogno dell’altro secondo la misura necessaria e quindi la disponibilità verso l’altro deve trovare il suo equilibrio nel resistere a ogni eccesso di presenza. • Alla radice del senso di responsabilità. Il senso di responsabilità necessita di una precisa posizione del pensiero: sapere che tutti noi siamo deboli e capire che l’altro è nella mia stessa debolezza; perché solo sapendo che siamo tutti fragili e vulnerabili si può avvertire la tensione ad agire per l’altro, a fare per l’altro quello che vorremmo fosse fatto per noi. Se cogliere questa debolezza è importante per sentirsi accomunati, però non basta a generare responsività verso l’altro, infatti, la disposizione alla responsabilità si genera quando nell’altro si coglie una condizione di bisognosità. È necessario fare attenzione a non pensare la responsabilità solo in relazione a una situazione di difficoltà dell’altro ma anche come un fare fiorire le possibilità dell’essere, che costituiscono il significato primario del lavoro di cura. Dunque, a generare la disposizione ad assumersi la responsabilità dell’esserci per l’altro è un orientamento preciso della vita della mente: la passione per il bene. Ma ad essere decisivo è il sentirsi toccati dagli altri; ci deve essere un sapere sensibile, che sente la qualità del vissuto dell’altro. Sentire la qualità del sentire dell’altro può prendere la forma dell’empatia, quando l’altro è bisognoso di essere accompagnato nel lavoro di costruzione del proprio esserci, o compassione, quando l’altro segnala una situazione in cui subisce una forma di ingiustizia. PULCINI: sostiene che la vulnerabilità dell’altro stimola il sentimento emotivo, mobilita il nostro lato emotivo, fornisce una motivazione all’agire responsabile. Egli considera l’amore come un “elemento costitutivo della cura dell’altro, una spinta motivazionale verso il dovere della responsabilità”. La compassione emerge se alla base c’è l’idea di giustizia, vedendo l’ingiustizia sento compassione ed è possibile solo se guardo l’altro con l’idea che l’altro è debole e fragile come me, e come tale necessita di cura come me. Si può dire allora che alla radice del senso di responsabilità c’è un pensare con il cuore. La vita della mente è un tutt’uno: dove c’è il pensare c’è il sentire, dove ci sono i sentimenti ci sono contenuti cognitivi. Per promuovere una cultura della responsabilità dell’aver cura occorre coltivare un certo modo di pensare, una certa visione: quella che dell’altro nomina il suo valore e allo stesso tempo la sua fragilità e vulnerabilità. In conclusione, è decisivo saper non solo vedere nell’altro la sua debolezza ontologica ma innanzitutto saper riconoscere quel valore che lo rende sacro, inviolabile. • L’essenza del rispetto. Il rispetto si esprime nei gesti e nelle parole. Il rispetto si manifesta nell’avvicinare (andare verso) l’altro con delicatezza e nel saper essere ospitali della soggettività dell’altro (accogliere); è lasciare che l’essere dell’altro mi parli e che sporga sui modi del mio pensare. Prima si qualsiasi azione l’altro va ascoltato e capito a partire dal suo modo di stare nella realtà. Inoltre, occorre avere rispetto anche per il corpo dell’altro, ovvero esercitare la cura con una vicinanza partecipe ma allo stesso tempo discreta. La carezza è dimostrazione di una vicinanza piena di premura, che sa testimoniare un’attenzione sensibile all’altro senza nulla cercare e nulla pretendere. Chi è capace di esercitare una buona cura sa avvertire quando il rispetto dello spazio dell’altro è messo a rischio, perché sa cogliere i segnali di resistenza che l’altro manifesta. Aver cura deve accadere secondo una giusta misura, e in questo caso si tratta di trovare l’equilibrio nel saper stabilire la giusta distanza o la giusta vicinanza. Il pensiero è innanzitutto un’operazione del pensare. Ogni essere umano è unico e avere rispetto significa accogliere ciascuno nella sua unicità, lasciare che venga alla presenza nelle sue proprie possibilità di essere. La prima forma di rispetto di realizza dunque in quel pensare al singolare che consente alla relazione di cura di essere un incontro tra due soggetti; questo modo di pensare si nutre dell’esercizio di un’attenzione sensibile che implica da parte di chi-ha-cura di tenere la mente libera da sistemi concettuali anticipanti così da essere maggiormente ricettività delle qualità singolari dell’altro. • La radice del rispetto. Alla radice della capacità di avere rispetto c’è l’idea dell’altro come ente intrinseco di valore e in quanto tale inviolabile. Sentire il valore dell’altro situa la relazione dentro la dimensione del sacro; nella sua vita materia e nella sua vita spirituale l’altro è sacro e come tale va trattato. La cura è partecipazione del sacro che c’è nell’altro. Una buona e giusta cura ha necessità di un pensare fuori dall’ordinario, un pensare che prende le distanze dalle mosse cognitive ordinarie. È evidente che il pensare che informa il lavoro di cura richiede l’esercizio delle virtù cognitive: il rispetto per la qualità dell’altro cui è dedicato il pensiero, cercare un dire che sia fedele al profilo del suo essere, evitare forme del ragionare che si tramutino in possesso se non addirittura in violenza sull’altro. AVERE CORAGGIO. La cura sembrerebbe una pratica atopica nel nostro tempo per quell’individualismo che fortemente lo caratterizza. TAYLOR: afferma che a causa dell’individualismo, vede il venir meno dei grandi ideali, delle passioni; ma soprattutto, la tensione alla centratura su di sé comporta una svalutazione di tutti quei modi di essere collegati alla relazione con l’altro, perché impoverirebbero il progetto di autorealizzazione del sé. Nella vita quotidiana spesso sperimentiamo un eccesso di amore di sé coniugato con l’indifferenza verso l’altro che segnala la perdita di attenzione per gli altri. Due sono le considerazioni da fare: innanzitutto, l’individualismo esasperato e il narcisismo non sono una caratteristica solo della contemporaneità; inoltre, è da considerare che il negativo, che c’era nei tempi passati e che c’è oggi, è sempre mescolato al positivo. Evitando quindi di lasciarsi condizionare da visioni errate della realtà, è necessario andare a cercare testimonianza di quella che si può definire una “buona cura”, perché è da lì, dal positivo che c’è, che si può costruire una cultura della cura. Queste testimonianze possiamo ricercarle nell’ambito sanitario, dove sono frequenti le denunce di trascuratezza, o di offesa all’essere dell’altro. Ma ce anche dell’altro: ci sono atti di cura che sanno lenire le ferite, restituendo al malato il senso del suo valore come persona. Sono questi gli atti di cura che richiedono coraggio: proprio perché si sente il dolore dell’altro si decide di assumersi la responsabilità di un atto coraggioso, di parresia, cioè nel dire come stanno veramente le cose, mossi dall’esigenza di denuncia re ciò che non va e riportare lo sguardo sulla verità delle cose. In questo caso, la parresia è un gesto di cura perché nasce dall’attenzione alla situazione dell’altro ed è mosso dall’intenzione di innescare un processo di trasformazione delle cose. La pratica di cura richiede spesso coraggio; il coraggio di opporsi al pensare dominante. In conclusione, si può dire che responsabilità, generosità, rispetto e coraggio sono nominati nella nostra cultura come virtù. Queste virtù guidano le esperienze di cura: se l’agire con virtù è mosso dalla ricerca del bene e il ben- esserci è qualcosa che accade nella relazione con gli altri, allora le virtù di relazione non possono che essere quelle di maggior valore. Obbedire alla realtà, sostenere con lealtà lo sguardo anche di fronte al difficile dell’esperienza di cura, mantenere il pensare libero da teorie predate per essere capaci di accogliere l’altro nella sua dignità originaria, e non ultimo il resistere alla tentazione di accontentarsi delle idee di bene disponibili e stare continuamente alla ricerca di un’idea che meglio delle altri aiuti con senso con gli altri nel mondo costituiscono orientamenti etici della vita della mente. Cap 4. Il farsi concreto dell’essenza della cura La cura è una pratica mossa dall’intenzione di procurare beneficio all’altro; il principio di benevolenza identifica la matrice generativa. L’orientamento a cercare ciò che fa bene si attualizza in alcune posture dell’esserci: l’assunzione di responsabilità verso l’essere dell’altro, che è orientata da premura per l’altro, il sentire reverenza per l’altro, il nutrire la disposizione a condividere l’essenziale e il coraggio nell’intraprendere iniziative. NODDINGS: afferma che è compito di un’indagine fenomenologica capire quali sono i modi d’essere o “indicatori comportamentali della cura” che attestano responsabilità, rispetto, condivisione generosa con l’atro e coraggio. Si può affermare che “ricettività”, ovvero il far posto dentro la propria mente all’essere dell’altro e “responsività”, ovvero mettere in atto azioni concrete a favore dell’altro, sono le due categorie che ordinano i modi d’essere della cura. PRESTARE ATTENZIONE. • Tenere lo guardo sul reale. La ricettività dell’aver cura si esprime essenzialmente nell’attenzione; per agire bene nella relazione di cura è necessario acquisire conoscenza di quello che accade. L’attenzione è un gesto etico: tenere nello sguardo l’altro è la prima forma di cura. L’attenzione come gesto di cura non è un semplice guardare, ma un’intensa concentrazione sull’altro, i suoi desideri e il suo dolore, le sue speranze e le sue paure. L’attenzione deve essere sensibile e ricettiva e accompagna ogni momento dell’aver cura: • La fase iniziale della relazione quando facciamo posto all’esserci dell’altro; • La fase responsiva dell’agire a favore dell’altro, perché mentre agisco o bisogno idi capire quali effetti ha la mia azione sulla condizione dell’altro e come questi reagisce. Per aver cura dell’altro è necessario saper vedere l’altro. NODDINGS: parla di displacement per indicare come l’attenzione di aver cura sia uno spostare l’interesse da sé all’altro. L’attenzione che ha cura ha la sua matrice generativa non solo nel riconoscimento del valore dell’altro, ma anche nel sapere e nell’accettare che la necessità prima è la necessità del bene. • Con fedeltà alle cose. Ma il prestare attenzione è cosa faticosa: si può accogliere l’essere dell’altro, fare posto al suo vissuto nella misura in cui la mente si fa leggera, cioè alleggerita del peso di tutte quelle teorie che anticipano l’altro e lo chiudono dentro un processo di interpretazione deciso prima dell’incontro. Il prestare attenzione è difficile anche perché quando la realtà ha il volto del negativo, come quando ci si trova di fronte alla sofferenza, la difficoltà del prestare attenzione aumenta esponenzialmente. Proprio per questa nostra incapacità di sopportare troppa realtà in certi momenti si cerca rifugio nell’immaginazione, per raffigurarsi una realtà che produce consolazione. Questa tendenza più o meno latente della mente umana, se in certi momenti aiuta a trovare una sosta rispetto alla fatica del vivere, diventa pericolosa quando assume contorni tali da distorcere l’agire. L’attenzione è coltivata nel suo pieno se sa stare sia nel mondo concreto, sia nel mondo delle idee. PLATONE: sostiene che il mondo intellegibile non può essere contemplato a lungo, ma neppure la realtà concreta, che continuamente ci chiede di capire per prendere la giusta decisione. La conversazione da compiere è quella di sostenere la duplice fatica di prestare attenzione al mondo così com’è e al mondo immaginare a partire dalla nostra intima tensione al bene. ASCOLTARE. Il prestare attenzione si attualizza non solo con lo sguardo, ma anche con la parola. Il nostro esserci, in quanto relazionale, è originariamente orientato secondo il modo dell’ascoltarsi l’un l’altro. Senza ascolto non c’è comprensione e ascoltare implica che l’altro prenda parola e l’ascolto diventa azione di cura quando sa restituire all’altro la considerazione per quanto sta dicendo a noi. Ascoltando l’altro si impara, si impara dalla sua esperienza; quindi il tempo dato all’ascolto alla fine è un tempo carico di senso anche per sé, perché l’ascolto provoca la postura della presenza riflessiva sui propri vissuti. L’obbedire può essere inteso come il tener conto di quanto l’altro dice e assumere quanto il senso indica, prendersi cura del senso dell’altro. Proprio perché noi siamo linguaggio e con le parole sveliamo il nostro essere e svelandoci ci apriamo all’altro, l’ascoltare è un modo essenziale d’essere per la formazione di una relazione di cura. Quando una persona parla di sé si palesa, si svela nel suo proprio essere, in quel caso trovare ascolto significa esperire considerazione per il proprio essere, mentre il sentirsi non ascoltati può essere interpretato come distrazione temporanea o come negazione del proprio valore. L’ascoltare con cura non va inteso con una tonalità pietosa ma come disposizione a cogliere il senso che l’altro mi comunica. Ascoltare richiede passività, richiede la capacità di farsi come un vaso vuoto che sa fare posto a quello che l’altro ci vuol dire di sé. C’è dunque nell’ascoltare allo stesso tempo passività ricettiva e tensione: la passività è necessaria per fare posto all’altro nella nostra mente; la tensionalità è necessaria per accedere a quel senso dell’altro che per essere colto sempre chiede lo sforzo della comprensione. ESSERCI CON LA PAROLA. È nelle parole che si fa presente l’essenza dell’esperienza: noi siamo le parole che ci diciamo gli uni con gli altri. La parola che è dono è la parola che cura, una parola che non ha bisogno di essere analizzata poiché entra nel respiro della mente dell’altro quasi senza sforzo. Ma come deve essere la parola che cura? Una parola semplice che sta nell’ordine della verità, che apre gli spazi dell’esserci risultando allo stesso tempo realistica, franca; pretende sincerità e franchezza. È essenziale che la franchezza sia informata da un modo di dire che renda la verità sostenibile per l’altro. Il momento della presa di parola da parte di chi-ha-cura deve avvenire con il massimo di riguardo e di delicatezza, che comunica rispetto per l’altro. L’ospitalità è lasciare che l’altro, entrando nel nostro spazio, non rinuncia a se stesso, ma che dica le sue parole, accettando il rischio che l’alterità provochi disordine nei nostri pensieri, abitudini. Il comunicare considerazione non sempre richiede la parola; in certi casi, basta “esserci”, far sapere che al momento opportuno ci saremo: è la disponibilità pura. COMPRENDERE. La comprensione costituisce un fenomeno esistenziale fondamentale, nel senso che l’essere umano avverte la necessità di capire ciò che accade, non solo nella sua esistenza ma, in quanto essere relazionale, anche all’’esistere degli altri. È il rivolgersi all’altro secondo l’intenzione di comprenderlo che rende possibile la relazione, poiché consente di gettare un ponte tra sé e l’altro. Da ciò consegue che qualità essenziale dell’agire con cura è l’intenzione di comprendere l’altro. La comprensione dell’aver cura è orientata dall’intensione di cogliere ciò di cui l’altro necessita per attualizzare le possibilità del suo esistere. Essa concorre su due differenti livelli: 1. Come atto teoretico che interpreta la situazione dell’altro per aiutarlo a comprendere se stesso; Stare in prossimità dell’altro è sentire l’ingiunzione a non allontanarsi, ma allo stesso tempo a stare ai margini del suo spazio vitale: tenersi ai margini per esserci con discrezione. Quindi, una buona pratica di cura è quella che difende la soggettività dell’altro e facilità il determinarsi delle condizioni che consentano la messa in luce del suo esserci. CON DELICATEZZA E CON FERMEZZA. Chi-chiede-cura è vulnerabile e proprio per questo il trattare con l’altro richiede tatto, delicatezza: delicatezza nel trattare il corpo dell’altro e delicatezza nell’entrare in contatto con la sua dimensione spirituale. Agire secondo il principio della delicatezza è prendere tempo per trovare la parola giusta, e quando necessario sapere stare in silenzio, senza che il silenzio si tramuti in distanza. La delicatezza può essere però un modo di porsi che tiene l’altro riguardato ma a distanza; si fa invece fonte viva di cura quella delicatezza che è espressione di tenerezza. Ma il sentirsi vulnerabili è esperienza anche di chi fa lavoro di cura: l’altro di cui si ha cura non è un angelo, ma un essere umano con tutte le sue debolezze. Chi esercita la responsabilità della cura ha il dovere non solo della tenerezza ma anche della fermezza, poiché sottostare a un eccesso di richieste da parte di chi-riceve-cura comporta un’erosione di energie che va impedita. Ci possono essere però anche lunghi periodi di tempo in cui chi-riceve-cura rifiuta il nostro modo fermo di stare in relazione; in questi casi a chi-ha-cura si richiede l’esercizio, oltre che del coraggio di prendere decisioni difficili, anche della virtù della pazienza. Il rischio di lasciarsi dominare da chi-riceve-cura è maggiore nei casi in cui si viene a creare un legame affettivo fra le persone; in questi casi è importante che chi-ha-cura sappia lavorare su di sé affinché l’investimento emotivo non condizioni negativamente il modo in cui reagisce alle richieste di chi-riceve-cura. LA FATICA DELLA CURA. • Il difficile della cura. Il lavoro di cura è faticoso; richiede molte energie cognitive, emotive, e in certi casi fisiche e organizzative. Proprio perché noi siamo essere relazioni e dunque mancanti di un essere completo, ma bisognosi dell’altro, per sostenere la fatica del lavoro di cura è necessaria una forma di riconoscimento. C’è riconoscimento quando l’altro mostra di accettare positivamente il nostro agire, con le parole o con i gesti; ma può accadere che il riconoscimento tardi ad arrivare o che l’altro non sia al momento nelle condizioni di reciprocità. Questo richiede a chi-ha cura un forte lavoro su di sé, per tenere viva e attiva l’energia necessaria. Poiché gli effetti delle azioni umane sono imprevedibili e in molti casi irreversibili, il lavoro di cura chiede di vigilare su quello che si fa, valutando attentamente cosa accade all’altro quando i nostri gesti e le nostre parole entrano nel suo spazio vitale. Il difficile dell’agire con responsabilità è che la vigilanza dovrebbe essere continua, non solo perché non c’è nessuna garanzia che alla qualità dell’intenzione corrisponda l’effetto intenzionato, ma anche perché il gesto e la parola apparentemente più insignificanti possono generare processi di un certo rilievo. ARENDT: afferma che è importante sapere che, nel caso non si raggiunga l’esito atteso, di può essere perdonati, e sentirsi perdonati è la condizione per trovare la forma di ricominciare ad agire. Inoltre, chi-ha-cura può trovarsi ad assumersi la responsabilità per qualcuno che non è autonomo e che quindi non è in grado di partecipare al processo di cura; in questi casi, comporta alla piena responsabilità del proprio agire e dunque della capacità di sopportare da soli l’esito delle proprie azioni. In questo senso il decidersi per l’avere cura di un’altra persona è sempre un azzardo e trovarsi in una posizione azzardata evidenzio la necessità di una vigilanza continua sul proprio modo di stare nella relazione di cura. È difficile trovare la giusta misura dell’agire non solo perché non possediamo chiaramente l’idea di cosa è bene fare, ma anche perché l’esito di un’azione non dipende unicamente dal soggetto che decide ma anche dalle variabili contestuali. In conclusione, mantenersi nella responsabilità della cura è difficile perché non si controlla l’azione; perché non si può essere sempre perdonati e perché può accadere di non trovare riconoscimento. • La ragione necessaria della cura. La qualità altamente problematica dell’agire con cura sarebbe sufficiente a prendere la decisione di non assumere questa forma di responsabilità. Ma la realtà vive di azioni di cura perché queste sono agite grazie alla passione per il bene; del bene siamo destinati a non avere un’idea sufficientemente chiara da costituirsi come orizzonte per il nostro agire. Per questa ragione il mettersi alla ricerca delle cose che fanno bene può essere rischioso; ma è la qualità della condizione umana e la tensione intima che la muove a rendere evidente che la ricerca del bene non deve fare paura, piuttosto deve appassionare. Quando c’è del male bisogno “farsi su le maniche”, anche sapendo che si può sbagliare; è la stessa realtà che se ascoltata chiede di avere il coraggio di sporcarsi le mani pensando al bene. Nel pensare che accompagna il lavoro di cura il confronto con le domande generali non è mai finalizzato a costruire teorie; ciò che conta è quel modo della riflessione che consente di disegnare orizzonti che aiutino a stare nella realtà. La cura è la cura di un’altra persona: il bene è quello di cui l’altro ha bisogno per stare bene in quel preciso momento. La vita ha necessità di attenzione e di dedizione in quel preciso istante per quel preciso sguardo. Noi viviamo nel tempo e l’amica si nutrice di istanti di bene.