Scarica Filosofia della cura - Luigina Mortari e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia morale solo su Docsity! 1 FILOSOFIA DELLA CURA Luigina Mortari Indice RAGIONI ONTOLOGICHE DELLA CURA ................................................................................ 3 PRIMARIETA’ DELLA CURA ...................................................................................................... 3 LE DIREZIONALITÀ DELLA CURA ........................................................................................... 3 LA CONSISTENZA RELAZIONALE DELL’ESSERCI ............................................................... 5 LA CONDIZIONATEZZA DELL’ESSERCI ................................................................................. 7 L’ESSENZA DI UNA BUONA CURA ............................................................................................ 8 QUESTIONI DI METODO ............................................................................................................. 8 L’ESSENZA GENERALE-FORMALE DELLA CURA................................................................ 9 LA DENSITÀ ETICA DEL LAVORO DI CURA ........................................................................ 11 IL NOCCIOLO ETICO DELLA CURA ....................................................................................... 12 AL CUORE DELLA CURA.......................................................................................................... 12 SENTIRSI RESPONSABILE PER L’ALTRO ............................................................................. 12 OBBEDIRE ALLA REALTÀ ....................................................................................................... 14 AGIRE CON GENEROSITÀ ........................................................................................................ 15 AVVICINARE L’ALTRO CON REVERENZA .......................................................................... 16 AVERE CORAGGIO .................................................................................................................... 17 IL FARSI CONCRETO DELL’ESSENZA DELLA CURA........................................................ 18 PRESTARE ATTENZIONE .......................................................................................................... 18 ASCOLTARE ................................................................................................................................ 18 ESSERCI CON LA PAROLA ....................................................................................................... 19 COMPRENDERE .......................................................................................................................... 19 SENTIRE CON L’ALTRO ............................................................................................................ 20 ESSERCI IN UNA DISTANTE PROSSIMITÀ ........................................................................... 21 CON DELICATEZZA E CON FERMEZZA ................................................................................ 22 LA FATICA DELLA CURA ......................................................................................................... 22 2 5 anestetizzare la sensibilità fino al punto da non sentire più, per non sentire il dolore. L’idea di un’anima che si libera dal gravame della vita materiale e che così alleggerita può accedere a un altro ordine di realtà, dà voce a quel desiderio profondamente umano di non avere il respiro spirituale mischiato alla carne quando la carne fa male. La realtà però è diversa da quella che si vorrebbe: è quella per cui noi siamo corpo e anima insieme; un corpo e un’anima da pensare non come sostanze distinte e solo temporaneamente annodate, ma inestricabilmente mischiate l’una con l’altra. Se concepiamo il corpo come materia spirituale e l’anima come una sostanza corporea, allora non può non cambiare il nostro modo di stare in relazione con l’altro: aver cura di un neonato significa occuparsi di un corpo che sente in modo spirituale il tocco di chi- ha-cura. Le azioni che con il corpo subiamo sono avvertite anche dall’anima. Trattare un neonato senza delicatezza è un agire incurante del sentire della sua anima. Quello che gli antichi sapevano la medicina moderna ha dimenticato. Dimenticato che corpo e anima sono tutt’uno e, quindi, la cura chimica deve procedere integrata con quella spirituale. La persona sente nell’anima la qualità della vita corporea, perché il nostro corpo ha una sostanza spirituale. Il senso di precarietà del vivere acquista con la malattia una forma grave di pesantezza, che fa percepire in tutta la sua evidenza la fragilità della vita umana. Quando nella vita si fa esperienza di buoni vissuti di cura, di quella che nutre l’anima di fiducia, allora si sta stare in presenza del dolore senza che questo ci travolga. L’assenza di cura, invece, rende più deboli, fragili, più pronti a essere nientificati dal dolore. La capacità di avere cura dell’altro è anche questo: esserci quando l’altro avverte tutta la fatica del mestiere di vivere, mostrando la disponibilità a mettere in comune quello che si ha per sostenere insieme il lavoro di tessitura dell’esistenza senza lasciare che il senso di una fredda solitudine spenga l’energia vitale. La cura di sé ha necessità del nutrimento che viene dal ricevere cura da altri. Il termine cura risulta carico di differenti significati: c’è una cura necessaria per continuare a vivere, una cura necessaria all’esistere per dare corpo alla tensione alla trascendenza e nutrire l’esserci di senso, e una cura che ripara l’essere sia materiale sia spirituale quando il corpo o l’anima si ammalano. La cura nella sua essenza risponde a una necessità ontologica, la quale include una necessità vitale, quella di continuare a essere, una necessità etica, quella di esserci con senso, e una necessità terapeutica per riparare l’esserci. LA CONSISTENZA RELAZIONALE DELL’ESSERCI La relazionalità come dato ontologico primario Questo nostro prenderci a cuore il proprio essere ha il limite di non bastare, perché noi siamo esseri relazionali e in quanto tali bisognosi degli altri. Per l’essere umano vivere è sempre con-vivere, poiché nessuno da solo può realizzare pienamente il progetto di esistere. Come spiega Donald Winnicott, l’origine di tutto è la relazione con la madre, dove all’inizio in bambino non esiste come essere distinto ma in un’identificazione primaria con chi ha cura del suo essere. È un dato evidente della nostra esperienza che la ricerca di relazioni significative, anche se differenziate e di differente intensità, accompagna il divenire di ciascuno. Ciò accade poiché la relazione con altri è struttura ontologica dell’esserci. “Ciò che esiste, qualsiasi cosa sia, dal momento che esiste, coesiste” (Nancy). Si potrebbe dire che è il “con” a fare l’essere e non qualcosa che si aggiunge all’essere. Il sentire la vicenda esistenziale dell’altro come qualcosa che ci riguarda intimamente e quindi il progettare l’esistere come co-esistere, non è il frutto di una delle tante possibili decisioni di andare oltre sé per incontrare “un” altro, non è un forzarsi a uscire da sé per arrischiare uno spazio estraneo alla nostra qualità ontologica, ma è la risposta necessaria dalla struttura intimamente relazionale dell’esserci. 6 Essere soli insieme all’altro/la solitudine dell’essere-con Nel venire al mondo subito diventiamo esseri dipendenti da altri e come tali bisognosi di cure; è l’essere dipendenti che rende necessario ricevere cura. Proprio perché il trovarsi in una condizione di dipendenza dall’altro costituisce un tratto inevitabile della vita umana, il lavoro di cura viene inteso come un “dependency work”. Se la teoria politica mettesse al centro la centralità della cura come bisogno primario, allora la teoria dell’uguaglianza centrata sul principio del soddisfacimento dei diritti si trasformerebbe nella teoria dell’uguaglianza nella responsabilità della cura per altri. Ma assumere la cura come fondativa della filosofia della politica significa anche ripensare la primari età del concetto di uguaglianza, perché la relazione di cura è una relazione fra ineguali, fra la persona che-ha-cura che ha il potere di fare qualcosa e colui che-riceve-cura che si trova in una situazione di dipendenza. La realtà mi evidenzia continuamente il fatto che “io sono solo”, nel senso che il mio esistere costituisce un elemento assolutamente intransitivo. Ogni singolarità è un accesso originario al mondo, quello che ci fa sentire unici pur essendo fra altri. In questa singolarità c’è non solo il valore dell’eccezione, dell’unico, ma anche tutto il dramma della solitudine. Solo in certi momenti privilegiati dell’essere, come quando si esperisce un’intensa intesa amorosa con l’altro, la solitudine della relazione con il proprio esistere non si fa percepire. Invece, nell’esperienza ordinaria possiamo “scambiarci tutto reciprocamente, fuorché l’esistere”, che non riguarda nessun altro se non il suo esistente; in questo senso l’esistente è “monade e solitudine”. Nei momenti difficili, quelli dove l’anima di fronte all’accadere drammatico degli eventi della vita è presa dal dolore e dall’angoscia, si sente in tutta la sua forza ontologica il bisogno dell’altro, anche se il peso del vivere rimane qualcosa di assolutamente personale. E quando gli altri mancano, si assentano, capita di sentirsi come in un deserto, senza radici nel mondo. La bisognosità dell’altro La bisognosità dell’altro si manifesta nel neonato nel fenomeno dell’attaccamento alla figura materna, e poi ricompare sotto diverse forme nel corso della vita. L’essenza dell’essere è “co-esistenza singolarmente plurale” (Nancy) e ciò significa che l’unicità del nostro essere è possibile proprio a partire dal divenire insieme agli altri. Il riconoscere di non poter fare a meno di una carezza che ti comunica la vicinanza dell’altro, di uno sguardo che ti accoglie, della parola che addolcisce i tuoi vissuti, non è mera sentimentale ria, ma cosa umanamente vitale. Quando un essere umano cominciala sua esistenza di fatto inizia a coesistere; quando viene al mondo viene accolto, prima che in uno spazio e in un tempo, dallo sguardo di chi ha cura della sua vita. E di gesti e parole che attestano che siamo tenuti dentro una relazione di cura ciascuno ha una viva e ineludibile necessità per tutto il tempo della vita. Se vivere è con-vivere, allora trovare nella vita il ritmo della condivisione con altri è essenziale. Ordinando i fili del discorso si può dire che se la cura si qualifica come fenomeno ontologico sostanziale dell’esserci e se l’esserci è intimamente relazionale, poiché l’essere-con-altri è l’intima essenza dell’umano, allora l’aver cura dell’esserci è tutt’uno con l’aver cura del con-esser- ci e dunque con l’aver cura degli altri. Esserci è aver cura e in questa cura ci sono io-con-altri. La cura come premura per l’altro, come sollecitudine a favorire il ben-essere dell’altro, è condizione indispensabile per una vita buona. Se dunque condividiamo il presupposto secondo il quale la cura è qualcosa di ontologicamente essenziale, allora l’agire con cura è un valore primario, ed è tale non solo per chi riceve cura ma anche per chi la agisce. È un valore per chi la agisce poiché assumersi la responsabilità della cura significa situarsi laddove ne va dell’irrinunciabile per la vita. Per questo la relazione di cura porta valore sia a chi riceve sia a chi esercita la cura (Kittay). 7 LA CONDIZIONATEZZA DELL’ESSERCI Vulnerabilità Proprio perché siamo esseri intimamente relazionali, siamo dipendenti da altri; in questo dipendere- da-altro-da-sé sta la vulnerabilità propria dell’essere umano. La nostra materia ontologica è porosa: assorbe la realtà intorno e si modella in relazione all’altro. La porosità dell’essere rende possibile la relazione ma allo stesso tempo è vulnerabilità poiché siamo sottoposti a azioni di esseri viventi che possono essere anche minacciose. Il minaccioso da cui cerchiamo riparo stringendoci all’altro può venire proprio da coloro che ci sono vicini (Rilke). Siamo vulnerabili sia nella vita corporea sia in quella spirituale. Ciò che più dà senso alla vita sono i beni relazionali, come l’amicizia, l’amore e con essi tutte le azioni connesse alle virtù che creano buone relazioni: gentilezza, cortesia, solidarietà, compassione. L’amicizia e l’amore trascendono la nostra volontà, sono qualcosa di imprevisto e gratuito che si sottrae a ogni logica. L’amicizia non ci cerca, si fa, si mette in atto. Anche l’amore: non è qualcosa che si progetta, ma è qualcosa che si fa, si vive. E in questo poter coltivare un’amicizia e nutrire un amore dipendiamo fortemente dall’altro. Affermare che l’eccellenza va cercata nelle relazioni con gli altri contrasta con l’idea presente nella nostra cultura secondo la quale va cercata nella produzione di cose capaci di resistere all’usura del tempo. I beni di relazione, quelli del più alto valore, non sono solo trascendenti la nostra volontà, ma anche massimamente delicati: sono vulnerabili perché esposti agli urti della realtà, agli eventi del mondo che possono indebolire o distruggere i legami relazionali. Nel vivere le relazioni il nostro divenire s’intreccia intimamente con quello di altri e quando l’atro se ne va anche una parte di noi viene meno. Solo il bene dà valore alla vita e il suo venir meno, il venir meno delle cose buone degne d’amore, lascia mancanti dell’essenziale, lascia senza. Senza il senso vero dell’esserci. Il difficile della condizione umana è di dover investire laddove si situa il rischio della massima vulnerabilità. Ma oltre che essere impossibile, una vita completamente autosufficiente non è propriamente umana, proprio a ragione del fatto che noi siamo esseri relazionali. Fragilità Il nostro esserci non si pone da sé, ma viene da un altrove e accade come un prorogarsi di momento in momento in virtù di una decisionalità a noi estranea. È questo nostro ricevere l’essere attimo dopo attimo a renderci fragili. Nel lavoro del vivere manchiamo di un fondamento, poiché manchiamo del potere principiante da cui l’esserci dipende; dipendiamo sempre da altro. Non abbiamo potere sulle condizioni da cui dipende la sicura realizzazione del compito esistenziale del divenire il proprio esserci, perché la condizione umana è quella di una continua commistione fra quello che dipende da noi e quello che viene dal mondo. Poiché nel fondamento del nostro essere siamo senza sovranità, la nostra qualità ontologica è la fragilità. La condizione di fragilità dipende anche dalla sostanza temporale dell’esserci. Il lavoro faticoso di dare forma al proprio essere possibile è quanto di più fragile possa esserci; è un continuo fabbricare modi di esserci, da superare in continuazione. Per quanta dedizione si metta a coltivare questa “tecnica del vivere” niente di quanto acquisito ha la minima garanzia di permanenza. Sapere che il nostro esserci è limitato al presente e che passato e futuro non ci appartengono ci consegna alla consapevolezza della fragilità del nostro essere, alla sua istantaneità, e ci suggerisce essere fuori misura dell’umano sobbarcarci l’intera durata del tempo. La fragilità ontologica sta in questo rimanere enigmatiche la nostra origine e la nostra fine, nell’impossibilità di riempire di senso ogni attimo del proprio tempo, di chiamare all’essere tutto ciò che si vorrebbe e disfare tutto ciò che non si vorrebbe. L’esperienza, anche breve, del bene che ti può 10 La qualità essenziale Definiamo la cura una pratica: è qualcosa che si fa nel mondo in relazione con altri. Si può dire di trovarsi di fronte a un fenomeno di cura solo quando troviamo una persona che agisce: con i gesti e/o con la parola. Noddings distingue un “natural caring”, un’azione che emerge spontaneamente quando si percepisce nell’altro il bisogno di ricevere atti di cura, da un “ethical caring”, che ha i tratti dell’agire mosso dal senso del dovere, proprio di chi fa il lavoro di cura. Lo spazio dell’accadere L’aver cura ha luogo in una relazione fra una persona che-ha-cura e un’altra che-riceve- cura. Le relazioni possono essere informali (materne, parentali, amicali ecc.) o formalizzate (contesti educativi, terapeutici, assistenziali). In letteratura troviamo posizioni differenti: chi ritiene che la cura richiede una relazione faccia-a-faccia, chi che anche a distanza ci può essere cura. Joan Tronto definisce “prestare cura” (“care-giving”) il coinvolgimento diretto nella relazione di cura e “prendersi cura di” (“taking care of”) l’organizzare condizioni per l’agire con cura. Per Noddings la cura in presenza e quella a distanza sono qualitativamente differenti. Per Noddings basilare resta l’agire nella forma del “caring for”, poiché il “caring about” è sempre vuoto se non culmina in relazioni di cura. Tuttavia non è possibile il “caring for” senza le azioni del “caring about”. Il meglio è impegnarsi su entrambi i versanti. Si può ipotizzare che la filosofia della cura possa costituire il paradigma anche della più ampia vita politica. Occorre però istituire la differenza tra cura come pratica e cura come paradigma di azione: la prima può avere luogo solo nel vivo delle relazioni vissute, mentre la seconda può costituire l’orizzonte primo che informa la filosofia della vita politica. Va poi considerata anche la tesi di chi ritiene si possa parlare di cura anche riguardo ad azioni che una persona mette in atto nei confronti del mondo non umano: animali, piante e ambiente costruito. Heidegger stabilisce la distinzione tra “prendersi cura” e “aver cura”: il prendersi cura ha per oggetto le cose alla mano di cui ci occupiamo nella maniera dell’utilizzabile, l’aver cura è azione diretta agli atri esseri con i quali condividiamo l’esperienza del vivere. La durata temporale La cura è cosa che riguarda la vita, e poiché la vita si svolge nel tempo anche la cura ha una consistenza temporale. L’azione di cura può richiedere un tempo lungo, come la messa in atto di buone esperienze educative, ma può richiedere anche un tempo relativamente breve e si danno anche gesti che possono avere la durata di un istante come quando l’intenzione di cura si manifesta in uno sguardo, in una carezza. La matrice generativa A mettere in moto un’azione di cura è l’interesse per l’altro, avere preoccupazione per la sua condizione. Si sente l’urgenza di aver cura quando si percepisce l’altro necessitante di qualcosa che da sé non può procurarsi. La preoccupazione per l’altro si esprime con intensità diversa: si va dalla semplice disponibilità, al prendersi a cuore, che si manifesta con diversi gradi di intensità, che vanno dalla sollecitudine e premura alla devozione. La devozione indica un atteggiamento di profonda dedizione dell’altro; in ambito religioso indentifica l’essere intensamente dedicati a qualcosa. La dedizione è quel “di più” che può caratterizzare quelle situazioni in cui chi-ha-cura offre una disponibilità fuori dall’ordinario e perciò non è fra le qualità essenziali del lavoro di cura. Cura significa desiderare il bene di qualcuno e questo desiderio spinge a un movimento verso l’altro. 11 L’oggetto dell’azione Si ha cura quando ci si occupa di qualcosa di essenziale per l’altro e che l’altro da solo non è in grado di procurarsi, in caso contrario si tratta di servizio. Si tratta non solo di soddisfare i bisogni dove l’altro non è in grado di agire autonomamente ma allo stesso tempo di metterlo nelle condizioni di apprendere a soddisfarli in modo autonomo. Uno dei problemi che è chiamato ad affrontare chi-ha- cura consiste nell’individuare quali sono i bisogni degni di cura, i bisogni basici. Una volta stabilito che si tratta di un bisogno irrinunciabile, si rende necessario valutare se e quanto è possibile coinvolgere chi-riceve-cura nell’azione di cura mettendo l’altro nelle condizioni di provvedere da sé. Solo quando si verificano queste condizioni si può parlare di cura per l’altro e non di semplice cura dell’altro. L’intenzione che guida A caratterizzare l’agire dell’essere umano è l’intenzione e per identificare l’essenza della cura è fondamentale individuare l’intenzione che la muove. Se la cura è pratica ontologica primaria dell’esistere è la ricerca di bene, allora la pratica di cura non può che stare in una relazione essenziale con la ricerca di bene. Chi ha cura è in cerca di qualcosa di buono. C’è cura laddove l’agire è orientato dall’intenzione di produrre beneficio all’altro. Non esiste il bene al singolare, ma esiste un bene al plurale, di conseguenza la ricerca del bene non può che essere concepita come prassi relazionale. Aver cura dell’esserci aver cura di cercare fili di bene con cui tessere il tempo della vita, e poiché esserci è con-esserci cercare il bene è cercare ciò che è bene-con-gli-altri. LA DENSITÀ ETICA DEL LAVORO DI CURA La questione prima A generare il modo di esserci dell’aver cura è, dunque, una domanda etica: cosa e come fare perché all’altro arrivi del bene? È necessario quindi sapere in che cosa consiste il bene. La cura si attualizza in azioni fatte di parole o di gesti; il difficile sta nel trovare le parole e i gesti giusti al momento opportuno per quella specifica persona; parole e gesti che all’altro procurino beneficio. Un problema è però, il fatto che, come afferma Socrate, alla mente umana non è accessibile un’idea chiara del bene. In questo ulteriore senso la vita umana è mancante, poiché manca con certezza del sapere primo di cui avrebbe bisogno, l’idea di bene cui aspira. L’agire della cura avviene in un campo accidentato, dove i punti di appoggio su cui basare le decisioni sono sempre provvisori e incerti. Il bene si profila come un’idea che va esaminata all’infinito. Anche nelle forme incerte che assume l’idea di bene esercita comunque un’autorità sul pensiero e interrogarsi con continuità sul bene è della massima importanza per la vita umana. È proprio perché la filosofia della cura muove dall’esperienza vissuta e a questa sempre ritorna, la questione del bene si pone non solo come essenziale ma anche senza retoriche. In questo senso la filosofia della cura può dare nuova sostanza alla filosofia morale. Tenersi nella domanda Anche se alla domanda prima non c’è risposta definitiva, il bisogno per la vita di sapere in che cosa consiste il bene è tale che non è possibile evitare di porre questa domanda. Piuttosto che confezionare affermazioni non attendibili è meglio tacere e perseverare nella ricerca accettando lo scarto fra il proprio desiderio e quanto possiamo raggiungere. Cercare di pervenire a un’idea che per quanto fragile e provvisoria possa costituire l’orizzonte alla luce del quale prendere le decisioni nella vita. Si tratta di dedicare il tempo del pensare a un domandare che si sa essere mai finito. Ma questa infinitività del domandare non toglie valore al pensare intorno al bene, perché ogni idea di bene cui 12 si perviene, meditandola nel profondo, costituisce un punto di appoggio; l’importante è assumerla come qualcosa di provvisorio, un provvisorio punto fermo. Si può dire che una buona pratica di cura si profila come fortemente nutrita di pensiero. Il pensare che informa la pratica di cura non può che essere un pensare con il cuore, che sente la presenza dell’altro e l’altro si prende a cuore. Dove ne va del bene Capire cosa fare per promuovere il bene è difficile ma se si accetta il presupposto aristotelico secondo il quale agire per il bene è agire secondo virtù, allora l’aver cura, in quanto cerca ciò che è bene per la vita, è nella sua essenza un agire secondo virtù. Stare nelle zone rischiarate dal bene significa stare là dove le virtù fioriscono. Nessun’altra cosa come la passione per il bene è capace di fare crescere quelle cose di valore che sono i modi di essere ispirati alle virtù. La passione per qualcosa è l’energia necessaria per iniziare processi di trasformazione; il problema è dare alla passione un buon orientamento, quello che si trova avendo come riferimento cose degne di valore per la vita. L’essere presi dalla passione per il bene, per l’altro e per sé è la condizione dell’anima necessaria per tenersi lontani dal compiere azioni che producono malessere nell’altro. Se più persone si impegnassero nella cura nutrendo la passione per il bene si potrebbe avere un mondo certamente migliore. IL NOCCIOLO ETICO DELLA CURA AL CUORE DELLA CURA L’intenzione che oriente l’agire con cura è la ricerca di ciò che fa bene alla vita. Essere alla ricerca di ciò che fa bene significa dare un orientamento etico all’esistenza. Poiché una rigorosa filosofia della cura sta alla ricerca dell’essenza, diventa qui necessario cercare l’essenza del cuore etico della pratica di cura. Per capire un fenomeno è necessario cogliere i modi del suo apparire: i modi di esserci sono le immediate evidenze fenomeniche dell’agire con cura, che chi-ha-cura manifesta concretamente e che l’altro percepisce nel vivo della relazione; mentre le posture dell’esserci sono come l’al-di-qua dell’azione e costituiscono l’humus generativo che prepara l’azione di cura. Poiché nel capitolo precedente ha preso forma la tesi di un nocciolo etico della pratica di cura e le posture dell’esserci della cura risultano avere una qualità intensamente etica sembra opportuno partire da questa parte del discorso. Rispondere praticamente a questa passione per il bene orienta la persona a sviluppare precise posture dell’esserci in cui si condensa l’essenza etica della cura: sentirsi responsabile, condividere con l’altro l’essenziale, avere una considerazione reverenziale per l’altro, avere coraggio. SENTIRSI RESPONSABILE PER L’ALTRO L’agire con cura per l’altro è mosso dal senso di responsabilità per l’altro. Il sentire la responsabilità non solo della propria qualità di vita, ma anche di quella dell’altro è una condizione necessaria per aver cura per l’altro. L’essenza della responsabilità Responsabilità viene dal latino respondere, che nel suo significato originario significa rispondere a una chiamata. Assumersi la responsabilità di aver cura di un’altra persona significa essere disponibile a fare quanto necessario e quanto è possibile per il ben-essere dell’altro; questa disponibilità non va solo agita ma anche dichiarata, affinché l’altro sappia che su di noi si può contare. Se presto un’attenzione realmente sensibile all’altro, il suo vissuto non può non toccarmi e toccandomi mi mette 15 AGIRE CON GENEROSITÀ L’azione donativa Aver cura è dare tempo e poiché il tempo è vita dare tempo è generosità. Nel dedicare tempo ed energie alla cura per gli altri si verifica un guadagno d’essere come conseguenza del sapere che quanto si fa procura beneficio all’altro. Nel lavoro di cura c’è intrinseco un elemento di gratuità. La cura che si prende a cuore l’altro esce dal perimetro del calcolo, del misurabile, del negoziabile. Si ha cura per l’altro perché di questo agire si sente la necessità. Qui sta la qualità donativa della cura. La cura per essere buona non deve procurare danno a nessuno. Solo che per chi-ha-cura il vantaggio non è qualcosa che si chiede a chi-riceve-cura, ma sta in quello che si fa. Ogni atto di cura che riceviamo richiama alla coscienza la nostra condizione di bisognosità e la responsabilità etica di dare forma al nostro esserci. L’azione del prendersi cura di chi si trova nelle condizioni di non potere fare nulla da sé è narrata nella parabola del “buon samaritano”. La vita è un viaggio nel tempo e del tempo si deve avere la massima cura; ma il tempo si riempie di senso quando si agisce alla luce della ricerca di bene, per questo il samaritano non esita a interrompere il suo viaggio per dedicare tempo ed energie a chi si trova in una condizione di bisognosità. Il fermarsi per aiutare l’altro comporta solo una pausa nel viaggio, non mette a rischio i progetti personali; infatti il samaritano dopo essersi preso cura dell’altro riprende il suo viaggio. Senza pretese Jacques Derrida sostiene che c’è dono quando un’azione non appare come dono né al donatario né al donatore. La gratuità interrompe ogni logica circolare di scambio e si manifesta in una relazione unilineare. Il dono non cerca nulla, dunque non cerca neppure il consolidamento del legame sociale; se è certo che è estraneo al valore d’uso e al valore di scambio, altrettanto evidente è che non sta dentro il valore del legame: il samaritano, infatti, non cerca legami, semplicemente si prende cura. Il dono è qualcosa che qualcuno fa sentendosi chiamato a essere responsivo rispetto a una necessità ontologicamente essenziale che si avverte nell’altro. Senza atti gratuiti la vita non troverebbe modi di fiorire nelle sue possibilità. Una straordinaria ordinarietà La pratica di cura si manifesta in modi differenti ma sempre richiede tempo. Dedicare tempo significa donare ciò che nella vita è essenziale: il tempo appunto, perché la materia della vita è il tempo. Il donare inteso come dedicare all’altro pensieri ed emozioni, gesti e azioni, è l’essenza etica della cura. Nel donare il tempo là dove ne va del senso delle cose non c’è nessuna emorragia di essere, non c’è nessuna ideologia auto sacrificale che faccia smarrire la direzione giusta dell’agire. C’è perdita di senso dove si smarrisce il piacere del fare. L’agire donativo della cura trova il suo senso in un piacere etico, cioè il piacere che viene dal sapere di fare ciò che è essenziale fare. Se consideriamo la teoria aristotelica, ogni essere umano mira all’eudaimonia, termine che si tende a tradurre con felicità, ma che letteralmente significa il ben-essere spirituale, e questo ben-essere dell’anima si troverebbe quando si vive bene e si agisce bene. Si può dire che chi agisce con cura è mosso dall’idea che il proprio ben-essere coincida con il proprio ben-agire e che l’agire bene è quello capace di offrire situazioni esperienziali in cui l’altro possa trovare il suo ben-essere. Per chi-ha-cura, l’essenziale è volere il bene; se volere bene è donare ciò che per la vita è essenziale e se l’essenza dell’esserci è il tempo, stare nell’essenziale è donare il tempo alla ricerca di ciò che fa stare bene. Chi agisce in modo donativo ragiona secondo una grammatica etica che disordina il modo ordinario di pensare, proprio perché nel donare non sente di fare qualcosa di eccezionale, ma semplicemente ciò che è necessario. 16 È lì che sta quell’essere altrimenti in cui ne va del senso vero dell’esserci. È una straordinarietà ordinaria. Quando si sa di essere in presenza di ciò che è essenziale nell’esistenza allora certe scelte fuori dall’ordinario modo di esserci, non sono vissute come situazioni di impoverimento di sé, ma come un guadagno del senso vero dell’esserci. La necessità vitale del dono Ci sono momenti e situazioni della vita in cui l’atto donativo della cura è assolutamente necessario. La cura come dono di attenzione, di gesti e di parole che avvalorano l’essere dell’altro è condizione necessaria affinché l’altro trovi l’energia necessaria per coltivare la passione ed aver cura di sé. Ricevere il dono di atti di cura fa sentire di aver valore ed è sentendo il proprio valore che si trova la forza di esserci con senso. Fare esperienza di una buona cura all’inizio del proprio tempo è cosa vitale. Rispetto a certe mancanze di cura che si sono patite all’inizio del tempo della vita non si può fare nulla: solo imparare ad accettare, e da lì, dove tutto sembra difficile, iniziare a esserci. AVVICINARE L’ALTRO CON REVERENZA Chi ha cura si trova in una condizione di potere rispetto a chi non è autonomo. Responsabilità e generosità strutturano una buona cura se sono intimamente connesse alla capacità di avere rispetto per l’altro; quel rispetto che è reverenza. Avere rispetto significa consentire all’altro di esserci da sé e secondo il suo modo di essere. L’essenza del rispetto Nei gesti e nelle parole. Il rispetto si esprime nei gesti e nelle parole. Il rispetto si manifesta nell’avvicinare (andare verso) l’altro con delicatezza e nel saper essere ospitare della soggettività dell’altro (accogliere). Il rispetto è ospitalità; è lasciare che l’essere dell’altro mi parli e che sporga sui modi del mio pensare. Prima di qualsiasi azione l’altro va ascoltato e capito a partire dal suo modo di stare nella realtà. Occorre avere rispetto anche per il corpo dell’altro che significa esercitare la cura con una vicinanza partecipe ma allo stesso tempo discreta. Il modo dell’esserci dell’incontro fra corpi con accoglienza e rispetto è simboleggiato nella carezza. La carezza è attestazione di una prossimità piena di premura, che sa testimoniare un’attenzione sensibile all’altro senza nulla cercare e nulla pretendere. Aver cura per l’altro richiede disponibilità di tempo, di energie cognitive, emotive e fisiche, ma la disponibilità per essere una cosa buona deve accadere secondo una giusta misura. Nel pensiero. Il rispetto è innanzitutto una operazione del pensare. Ciascun essere umano è unico. Avere rispetto significa accogliere ciascuno nella sua unicità, lasciare che venga alla presenza nelle sue proprie possibilità di essere. È sempre difficile stare in relazione con l’altro salvaguardando la sua differenza. Chi nel lavoro di cura incontra più persone contemporaneamente rischia di smarrire la possibilità di avere uno sguardo singolare sull’altro per assimilarlo dentro un pensiero generale. Sussumere l’altro dentro il perimetro ermeneutico di teorie già date significa intrappolarlo dentro dispositivi concettuali per i quali la singolarità non conta. Quando, dissolvendosi l’alterità dell’altro, viene meno la relazione, allora è impossibile avere cura. Chi-ha-cura sa la necessità di tenere l’altro estraneo al perimetro assorbente di teorie dell’agire già definite. Il sapere generale consente un certo livello di efficienza, e per questo è necessario e non evitabile, tuttavia se non è supportato da un sapere del particolare che sappia cogliere l’unicità dell’altro finisce per togliere all’altro quello che è suo proprio. La prima forma di rispetto si realizza dunque in quel pensare al singolare che consente alla relazione di cura di essere un incontro tra due soggetti. Pensare l’altro come infinito significa 17 concepirlo e tenerlo trascendente, salvaguardandolo dall’essere afferrato dentro i propri dispositivi epistemici. La ricerca di comprensione dell’altro va significata come in-finita, cioè mai completabile. La radice del rispetto Alla radice della capacità di avere rispetto c’è l’idea dell’altro come ente intrinsecamente di valore e in quanto tale inviolabile. Sentire il valore dell’altro situa la relazione dentro la dimensione del sacro. L’altro è sacro: nella sua vita materiale e nella sua vita spirituale. La cura è partecipazione del sacro che c’è nell’altro. Sacra è la materialità dei corpi e dei vissuti che incontriamo nelle relazioni viventi. Una buona e giusta cura ha necessità di un pensare altrimenti dall’ordinario, un pensare che prende le distanze dalle mosse cognitive ordinarie. È evidente che il pensare che informa il lavoro di cura richiede l’esercizio delle virtù cognitive: il rispetto per la qualità dell’altro cui è dedicato il pensiero, cercare un dire che sia fedele al profilo del suo essere, evitare forme del ragionare che si tramutino in possesso se non addirittura in violenza sull’altro. AVERE CORAGGIO La cura sembrerebbe una pratica atopica nel nostro tempo per quell’individualismo che fortemente lo caratterizza. Fra le perdite che l’individualismo si porta appresso Taylor vede il venir meno dei grandi ideali, delle passioni; ma innanzitutto, la tensione alla centratura su di sé comporta una svalutazione di tutti quei modi di essere che sono attenti alla relazione con l’altro, perché impoverirebbero il progetto di autorealizzazione del sé. Nella vita quotidiana spesso sperimentiamo un eccesso dell’amore di sé coniugato con l’indifferenza verso l’altro che segnala la perdita di attenzione per gli altri. Due sono le considerazioni da fare. Innanzitutto l’individualismo esasperato e il narcisismo non sono una caratteristica solo della contemporaneità; inoltre è da considerare che il negativo, che c’era nei tempi passati e che c’è oggi, è sempre mescolato al positivo. È necessario vedere se c’è altro, e l’altro c’è perché senza cura nessuna cultura sopravvivrebbe. In certi casi l’azione di cura assume una valenza politica, perché si esprime come denuncia delle situazioni di incuria che provocano inutile sofferenza nel malato. Sono atti di cura che richiedono coraggio. Assumersi la responsabilità di un atto coraggioso in alcuni casi è fare parresia. La parresia è una presa di parola pubblica mossa dall’esigenza di denunciare ciò che non va e riportare lo sguardo dell’altro sulla verità delle cose a partire da una situazione di asimmetria di potere, comporta dunque un rischio elevato per il parlante. In questo caso il gesto della parresia è un gesto di cura perché nasce dall’attenzione alla situazione dell’altro ed è mosso dall’intenzione di innescare un processo di trasformazione delle cose. Alla radice di questo modo di essere c’è la capacità di sentire intimamente la condizione dell’altro, il lasciarsi toccare dalla sua sofferenza, e anziché scansare l’esperienza del dolore dell’altro perché troppo forte, fare di questo sentire la spinta ad agire con cura. La pratica di cura richiede spesso coraggio: il coraggio di opporsi al pensare dominante, di dichiarare il proprio dissenso a chi si trova in posizione di potere. Responsabilità, generosità, rispetto, coraggio: sono nominati nella nostra cultura come virtù. 20 SENTIRE CON L’ALTRO Non c’è comprensione se non c’è la capacità di sentire il sentire dell’altro. L’atto del comprendere è sempre emozionalmente situato. Farsi sensibili al vissuto dell’altro significa sentire nella carne il suo stato d’essere, ed è questo sentire incarnato che rende possibile una vera comprensione. Un cuore puro è quello che si fa guidare dall’intenzione di mettere il suo sentire al servizio del processo di comprensione del reale: incontrare l’altro con il massimo dei sentimenti che fanno piacere e limitando quelli che fanno dolore. Sentire empatia Per agire con cura è indispensabile la capacità di sentire l’altro, e sentire il sentire dell’altro è empatia, cioè la capacità di cogliere l’esperienza vissuta estranea (Stein). Essere empaticamente presenti comporta entrare in uno stato di risonanza emotiva con l’altro, significa poter avvicinare l’altro anche quando si trova nelle situazioni più difficili e in certi casi la capacità di risonanza affettiva del vissuto dell’altro può arrivare a rompere la solitudine congelata e congelante del dolore. L’esperienza dell’altro che è oggetto di empatia “non è stata vissuta da me eppure si annunzia in me, manifestandosi nella mia esperienza vissuta non originaria” (Stein). L’esperienza vissuta e l’esperienza empatizzata restano due esperienze diverse, nel senso che attraverso l’atto empatico io non accedo al modo proprio del vissuto dell’altro, ma posso cogliere la sua tonalità. L’esperienza empatica non è mero sentimentalismo irrazionale, ma una forma del pensare, è pensare con il cuore. È un pensiero che sente il sentire dell’altro ed è questo che rende possibile la comprensione. Provare compassione Ci sono situazioni in cui non solo si sente il sentire negativo dell’altro, il suo soffrire, ma questo co- sentire è accompagnato da una valutazione di quello che accade; quando è qualcosa che il senso di giustizia non può tollerare allora l’esperienza empatica viene definita compassione. Avere compassione significa sentire il patire dell’altro e valutarlo come qualcosa che non può essere accettato. Se aver cura implica la capacità di empatia e di compassione, e se questo modo di sentire è proprio della persona giusta, allora la cura non è qualcosa di altro dalla giustizia, ma piuttosto sta in una relazione intima con questa virtù e con l’etica che la assume come idea fondativa. Si può parlare di “realismo della compassione” perché sentire il sentire dell’altro aiuta a cogliere la qualità del reale. Nella parabola del “buon samaritano” si dice che questi quando vide l’altro a terra ebbe compassione e per questo si prese cura di lui. Alla radice della capacità di compassione c’è il lasciarsi toccare dalla sofferenza dell’altro. Agisco per l’altro quando so sentire la sua situazione, quando non mi limito a vedere il suo volto, ma sento la qualità del suo vissuto. Il modo di esserci richiesto per stare in una relazione di cura non è uno stato di fusione con l’altro ma l’essere in contatto. Non significa né investire l’altro con il proprio modo di pensare e di sentire, né cercare di annullare se stessi nell’altro. Significa essere presente e fare sentire la propria presenza, ma con riguardo per l’altro e anche per sé. È interessante rilevare che fra coloro che sono capaci di pietà Aristotele le annovera “le persone che hanno ricevuto educazione, perché sanno ragionare bene”. 21 Co-sentire con misura Una cosa è buona quando accade nella giusta misura, mentre dannosi sono il difetto e l’eccesso. Il difetto della capacità di sentire il sentire dell’altro ostacola la tessitura di una relazione e non consente un’adeguata comprensione; invece, il troppo investimento può tradursi in una presenza invasiva che danneggia l’azione di cura. Quando il modo della compassione si ripete spesso e con intensità si produce nell’intimo una fatica emotiva che rischia di essere insostenibile. Tuttavia, agire in modo affettivamente neutro non solo non è impossibile, ma impoverirebbe la relazione. L’esperienza emotiva consente di capire la qualità dei fenomeni di cui facciamo esperienza. A essere necessaria è una riflessione post-azione, cioè un pensiero che porta l’attenzione su ciò che è accaduto, ma un pensare riflessivo che accade nel mezzo dell’azione, perché la riflessione quasi contemporanea al vissuto è la sola possibilità di salvare la relazione di cura dalle distorsioni che possono accadere. Sentire con premura Al momento di venire alla luce sentirsi accolti acquieta l’anima e quando l’anima è quieta si distende e distendendosi può trovare radici nel mondo. C’è possibilità di muoversi nel mondo, quando c’è uno spazio interno sicuro da cui partire e a cui ritornare. Ma quando non c’è un fondamento sicuro che nutre l’anima di forza vitale, l’agire diventa faticoso, soprattutto quando si tratta di prendere un’iniziativa perché evoca nell’anima il primo inizio, quello della nascita biologica. Primaria è l’esperienza della nascita biologica, ma non meno importante è la nascita al mondo esterno quando s’inizia ad “andare a scuola”. La severità e la fermezza diventano modi di cura quando sono nutriti da delicatezza e fiducia nell’altro. Chi-ha-cura riesce a comunicare fiducia solo se sa accettare l’altro nel suo proprio esserci. Saper accettare l’altro nelle qualità del suo esserci restituisce a lui/lei il senso del suo valore e genera a sua volta la capacità di accettarsi. Accettare la realtà per come è non significa rinunciare al differente, ma cercare fili differenti con cui tessere il tempo partendo però da dove l’esserci è. Il movimento del divenire il proprio essere possibile si nutre di un equilibrio fra ricerca di altro e accettazione del reale. ESSERCI IN UNA DISTANTE PROSSIMITÀ Secondo Noddings una delle qualità essenziali di una buona pratica di cura è l’impegno a predisporre le condizioni affinché l’altro non arrivi a danneggiare se stesso; si può parlare dunque di una cura che svolge una funzione di prevenzione. Agire per proteggere l’altro non è semplice, perché certi danni sono chiaramente percepibili, mentre altri – come la violenza psicologica – sono meno tangibili. Occorre trovare la giusta misura dell’essere con e per l’altro. Semplicemente stare in contatto, mostrare di esserci e dalla distanza giusta fare quanto è necessario per accompagnare l’altro nel suo divenire lasciando lo spazio per un progetto dell’esserci a partire da sé. Stare in prossimità dell’altro è sentire l’ingiunzione a non allontanarsi, ma allo stesso tempo a stare ai margini del suo spazio vitale. Tenersi sui margini per esserci con discrezione, fare in modo che l’altro ti senta raggiungibile e disponibile. La cura richiede una presenza discreta. In certi casi ciò di cui l’altro ha bisogno è una presenza silenziosa, ma che comunica la disponibilità a esserci e a essere coinvolto nello spazio esperienziale dell’altro quando questi ne avverta la necessità. 22 CON DELICATEZZA E CON FERMEZZA Proprio perché chi-chiede-cura è vulnerabile, trattare con l’altro richiede tatto, delicatezza. Delicatezza nel trattare il corpo dell’altro e delicatezza nell’entrare in contatto con la sua dimensione spirituale. Avvicinare l’altro senza mai dominarlo. Il rispetto si misura anche nella ricerca di una parola viva e non consumata. Aver cura dell’altro implica dunque l’aver cura delle parole che si pronunciano perché nella relazione possano essere generative di spazi di respiro. Si fa fonte viva di cura quella delicatezza che è espressione di tenerezza. Ma il sentirsi vulnerabili è esperienza anche di chi fa lavoro di cura. L’altro di cui si ha cura non è un angelo, ma un essere umano con tutte le sue debolezze. Chi esercita la responsabilità della cura ha il dovere non solo della tenerezza ma anche della fermezza. Sottostare a un eccesso di richieste da parte di chi-riceve-cura comporta un’erosione, non solo inutile ma anche dannosa, di energie che va impedita. Il rischio di lasciarsi dominare da chi- riceve-cura è maggiore nei casi in cui si viene a creare un legame affettivo fra le persone. In questi casi è importante che chi-ha-cura sappia lavorare su di sé affinché l’investimento emotivo non condizioni negativamente il modo in cui reagisce al comportamento e alle richieste di chi-riceve- cura. LA FATICA DELLA CURA Il difficile della cura Il lavoro di cura è faticoso. Chiede molte energie cognitive, emotive e in certi casi fisiche e organizzative. Proprio perché noi siamo esseri relazionali e dunque mancanti di un essere completo, ma bisognosi dell’altro, per sostenere la fatica del lavoro di cura è necessaria una forma di riconoscimento. C’è riconoscimento quando l’altro mostra di accettare positivamente il nostro agire, con le parole o con i gesti. Ma può accadere che il riconoscimento tardi ad arrivare o che l’altro non sia al momento nelle condizioni di reciprocità. Questo richiede a chi-ha-cura un forte lavoro su di sé, per tenere viva e attiva l’energia necessaria. Poiché gli effetti delle azioni umane sono imprevedibili e in molti casi irreversibili, il lavoro di cura chiede di vigilare su quello che si fa, valutando attentamente cosa accade all’altro quando i nostri gesti e le nostre parole entrano nel suo spazio vitale. Chi ha cura può trovarsi ad assumere la responsabilità per qualcuno che non è autonomo e non è in grado di partecipare attivamente al processo di significazione dell’esperienza. La responsabilità per l’altro comporta in molti casi la piena responsabilità del proprio agire e dunque della capacità di sopportare da soli l’esito delle proprie azioni e quindi è sempre un azzardo. È difficile trovare la giusta misura dell’agire non sono perché non possediamo chiaramente l’idea di cosa è bene fare, ma anche perché l’esito di un’azione non dipende unicamente dal soggetto che decide ma anche dalle variabili contestuali. La ragione necessaria della cura La qualità altamente problematica dell’agire con cura sarebbe sufficiente a prendere la decisione di non assumere questa forma di responsabilità. La passione per la ricerca del bene è la risposta alla consapevolezza che, se nessuno vive al singolare ma sempre si nutre dell’altro, cercare per la vita le cose di valore che la rendono degna di esser vissuta non può che essere un progetto che ci coinvolge nella nostra intima pluralità. Del bene siamo destinati a non avere un’idea sufficientemente chiara da costituirsi come orizzonte del nostro agire. Per questa ragione il mettersi alla ricerca delle cose che fanno bene può essere rischioso. È la qualità della condizione umana e la tensione intima che la muove a rendere evidente che la ricerca del bene non deve fare paura, piuttosto deve appassionare. Quando