Scarica Filosofia della cura - Luigina Mortari e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia dell'infanzia e pratiche narrative solo su Docsity! FILOSOFIA
DELLA CURA
INTRODUZIONE Nonostante il fatto che il significato del termine “cura” vari da una società all’altra, la cura si profila nel senso di un aspetto universale della vita umana. Si può dire che la cura sia il luogo dove comincia il senso dell’esserci. Con il termine “cura” comunemente si indicano molteplici attività: dalle attività di presa in carico dei bambini a quella di accadimento delle persone altamente dipendenti sia a causa di malattia sia a causa di handicap, all’accoglienza di bambini e adulti in situazioni di disagio di vario tipo. Ricevere cura significa sentirsi accolti dagli altri nel mondo; aver cura significa coltivare quel tessuto dinamico e complesso di relazioni in cui ogni soggetto riconosce, se educato, a uno sguardo fedele alla datità delle cose, la matrice vivente del proprio essere nel mondo. Se l’aver cura diventasse la preoccupazione primaria in ambito sociale, politico e soprattutto educativo, i mutamenti nelle condizioni di esistenza delle persone sarebbero radicali. Affinché l’utopia di una civiltà della cura di realizzi è necessario elaborare una teoria della cura, che consenta di dare fondamento rigoroso all’idea che la cura è essenziale all’esistenza, per poi individuare i modi d’essere che qualificano una buona pratica della cura. Per dare forma a un discorso capace di rendere conto del valore della cura, è fondamentale il riferimento al pensiero femminile, soprattutto nordamericano, che della cura ha indagato la primarietà ontologica ed etica mostrandone la rilevanza sociale e politica. CAPITOLO 2: LA VALORIZZAZIONE DELLA CURA La cura occupa gran parte della nostra vita, sia in termini attivi sia in termini passivi, la cura è necessaria perché nessuno è autonomo e autosufficiente, né può essere da solo la fonte del senso dell’esistenza. La cura è svalutata e la primarietà della cura è culturalmente invisibile perché associata con le attività femminili, che sono state a lungo svalutate e non adeguatamente retribuite. Proprio perché presi in carico dalle donne, i lavori di cura sono stati pregiudizialmente concepiti come attività naturali, negando tutto il lavoro di pensiero e di produzione culturale che essi occupano Bucker Chi è impegnato nei lavori di cura occupano i posti più bassi della scala della retribuzione economica e del riconoscimento sociale, mentre chi occupa posizioni elevate tende a non riconoscere la sua dipendenza da chi pratica il lavoro di cura (es. self made man) Tronto Di fatto chi svolge un’attività di cura esperisce uno scarso riconoscimento del proprio impegno. L’affermarsi degli anni settanta del welfare state e il conseguente sviluppo di studi sociologici su quello che viene chiamata social care, se hanno contribuito a fare della cura una questione politica e hanno iniziato a retribuire certe occupazioni di cura, non hanno però promosso quella cultura necessaria a scardinare la svalutazione cui sono sottoposte in genere le attività di cura. ALLA RADICE DEL DISVALORE DELLE PRATICHE DI CURA Lo scarso riconoscimento simbolico riservato alla cura si può spiegare con il fatto che il termine “cura” è associato, se non identificato, con l’universo femminile e il femminile è stato a lungo, e per certi aspetti lo è ancora, soggetto a una pesante svalorizzazione. Nella nostra cultura ha prevalso il soggetto maschile come essere razionale contrapposto al soggetto femminile come essere emotivo e, dunque, irrazionale, su questo dualismo si fonda l’allocazione del maschile nella sfera pubblica, che sola è considerata luogo in cui si genera cultura, e il confinamento del femminile nel privato visto come contesto della cura. Si può ipotizzare che l’aver esperienza del prendersi cura sia certamente determinante nello sviluppo della disposizione a impegnarsi in pratiche di cura, soprattutto in quella fase di vita in cui i figli sono più fragili e vulnerabili, e poiché, secondo la teoria della relazione con gli oggetti, i figli maschi costruiscono la loro identità separandosi dalla figura femminile che gli ha allevati mentre le figlie crescono identificandosi con la madre, sarebbero le figlie a sviluppare più facilmente la tendenza ad aver cura. Tutti, e non solo le donne, se disposti a mettersi in ascolto della dimensione logica fondamentale, sono capaci di cura, perché di tutti la cura è esperienza esistenziale primaria. Le donne dedicano una parte più o meno considerevole della loro esistenza alla cura lo fanno perché ne sanno l’essenzialità. Il problema sta, non tanto nella supremazia maschile, ma piuttosto nella mancanza di simbolico. È il simbolico che dà dignità al lavoro di cura, che dà misura, quella misura che manca quando il fare resta muto e non riconosciuto. Ciò detto rimane il fatto che l’immagine occidentale identifica la cura con il materno, con nota il materno come oblativo e quindi confina il materno nel privato, rendendo la donna subalterna al mondo maschile. Tuttavia, sbarazzarsi di un’eredità simbolica che ha imposto alle donne un ruolo riduttivo e sacrificale per conquistare un ordine simbolico che riconosca alla donna la capacità di autonomia, di razionalità, di partecipazione e un ruolo da protagonista negli spazi della politica, non deve significare l’esclusione da ogni riflessione del tema della cura e di quanto nelle pratiche di cura genera civiltà. LA MATERIALITÀ DELLA CURA A identificare il mondo della cura sono in genere le attività di accadimento dei bambini, di assistenza alle persone con handicap e agli anziani. In tutte queste pratiche è centrale l’aver cura del corpo: quando si tratta di bambini è il corpo di un soggetto non ancora autonomo, negli altri casi si tratta di un corpo malato o di un corpo che può aver perso molte delle sue funzioni. L’aver cura sarebbe, dunque, concettualizzata come una pratica che, avendo come riferimento il corpo, tiene il caregiver, cioè chi fa il lavoro di cura, in connessione con la materialità della vita. Proprio perché libertà e materialità sono inseparabili, una buona qualità della vita implica non solo una buona qualità della vita spirituale, di quella sociale e di quella politica, ma anche una buona qualità della vita corporea. Di conseguenza le pratiche di cura del corpo, e in genere della vita materiale, in quanto ontologicamente rilevanti, necessitano di un adeguato riconoscimento simbolico. In conclusione chi pratica la cura come aver cura teso a promuovere nell’altro le possibilità di attualizzare il suo essere più proprio, conosce il valore di ciò che fa, e sapere che ciò che fa ha valore perché la cura è quel lavoro che sostiene la vita è argomento bastevole per dedicarsi alle pratiche di cura. CAPITOLO 3: DALLA SOTTO-TEORIZZAZIONE AL RICONOSCIMENTO SIMBOLICO Se la cura, pur essendo una pratica ontologicamente fondamentale, non trova riconoscimento simbolico, allora la prima operazione da compiere è portarla al centro del discorso e consentirle di uscire dalla sua attuale condizione di scarsa teorizzazione. Il concetto di cura è una parola rimasta a lungo poco pensata e per questo nella nostra cultura la cura è qualcosa di molto vago, amorfo. Per questa ragione è necessario avviare un’analisi concettuale quanto più possibile accurata. Ogni ricerca nasce da una domanda. In questo caso, una volta deciso che la pratica educativa può essere interpretata come pratica di cura, la domanda generativa che si pone è la seguente: come si configura una buona pratica di cura in educazione? Quindi, è necessario procedere innanzitutto a un’analisi del concetto di cura, per poi individuare quali sono i tratti essenziali di una buona cura. CHE COS’È LA CURA? Innanzitutto la cura, indipendentemente dal modo in cui si attua, si profila nei termini di una pratica, cioè di un agire che implica precise disposizioni e che mira a precise finalità. La caratteristica di tale pratica è quella di soddisfare i bisogni di altri; a questo scopo è necessario un investimento di tempo e di energia ed è tale investimento che fa della cura una pratica. Esiste una cura, precisamente quella educativa, il cui fine è quello di mettere l’altro nelle condizioni di provvedere da sé ai propri bisogni, rendendolo capace sia di azioni cognitive, sia di azioni concrete per soddisfare bisogni e realizzare obiettivi. Nel suo significato più generale, la cura può essere definita una pratica che mira a procurare il benessere dell’altro e a metterlo nelle condizioni di decidere e di provvedere da sé al proprio ben essere. Non solo la cura è universale; essa è anche necessaria per coltivare ogni aspetto della vita umana, sia quella corporea sia quelli per così dire immateriali, cioè la vita cognitiva, emotiva e spirituale, quella che può essere definita vita della mente. Mentre gli altri lavori sono soggetti alla logica del progresso fondato sull’evoluzione tecnologica, il lavoro di cura è rimasto lo stesso nel corso del tempo, nessun dispositivo meccanico può sopperire all’assenza di un caregiver. Infatti, qualora manchi del contatto relazionale fra i soggetti, qualsiasi pratica che vuole essere di cura di fatto cessa di esserlo, dal momento che la cura nella sua essenza è relazione. La pratica di cura, inoltre, si realizza necessariamente in una relazione diadica, perché chi ha cura non può che aver cura di ogni persona nella sua unicità. Detto altrimenti, non si ha cura di molti contemporaneamente, ma di ogni persona considerata nel suo specifico profilo. Quindi si può dire che è la cura a creare la possibilità dell’esserci, il suo scopo è quello di promuovere il pieno fiorire dell’altro. Al centro, dunque, viene posto l’altro, nel senso che chi ha cura cerca innanzitutto di aiutare l’altro ad attualizzare le proprie originali direzioni esistentive, perché solo in questo modo anche chi ha cura trova la propria autorealizzazione. Se si vuole individuare una concettualizzazione si potrebbe individuare l’essenza della cura nell’essere una pratica relazionale che impegna chi ha cura nel fornire energie e tempo per soddisfare i bisogni dell’altro, bisogni materiali e immateriali, in modo da creare le condizioni che consentono all’altro di divenire il suo proprio poter essere sviluppano la capacità di aver cura di sé. Per essere efficace una pratica di cura dev’essere sostenuta da una politica della cura, dover per politica s’intende sia tessere relazioni con altri sia dare corpo ad azioni simboliche capaci di mostrare il valore della cura. ANALISI CONCETTUALE DELLA CURA La pratica di cura è analizzabile in base a: – PRENDERSI CURA ED AVER CURA: se la cura è priorità esistenziale dell’esserci e l’esserci è sempre aperto al mondo, allora la cura si presenta come un fenomeno la cui essenza è la relazionalità. La differenza fondamentale fra il prendersi cura delle cose utilizzabili e l’aver cura per gli altri è che la relazione con le altre persone non è quella CAPITOLO 4: FENOMENOLOGIA DELLA CURA Ora dobbiamo delineare il metodo da praticare per individuare l’essenza della pratica di cura. Applicare il metodo fenomenologico in questo contesto tematico significa individuare quei fenomeni che attestano una buona pratica di cura e darne una descrizione dettagliata. Per cogliere l’essenza occorre individuare le qualità che ogni relazione condivide con le altre analoghe. Bisogna partire da un’idea vagamente densa di che cosa s’intende per cura, che possono essere definite di tipo seminale, nel senso che dicono solo quanto è necessario e sufficiente per individuare quel fenomeni in cui appaia ciò di cui si occupa, sarà poi l’analisi a consentire di cogliere l’assenza. Quindi si può definire in modo densamente vago la cura come una pratica che ha luogo in una relazione in cui qualcuno si prende a cuore un’altra persona dedicandosi, attraverso azioni cognitive, affettive, materiali, sociali e politiche, alla promozione di una buona qualità della sua esistenza. È possibile ipotizzare che ci siano relazioni di cura in presenza e relazioni di cura a distanza e che ciò che le qualifica come relazioni di cura sia la presenza di quegli atteggiamenti che identificano l’essenza della cura e che esiste una relazione diadica in cui chi ha cura ha nel suo pensiero una persona precida di cui aver cura. L’obiettivo di questo studio consiste nel fondare la relazione educativa come relazione in cui l’aver cura assume un ruolo fondamentale. Attraverso l’analisi dei cadi paradigmatici individuati si tratteggerà l’essenza della cura e ciò costituirà la linea di orizzonte necessaria per ritemattizare la pratica di cura. FENOMENOLOGIA DELL’AGIRE MATERNO Solo con l’affermarsi del pensiero femminista la cura è stata concettualizzata come un fenomeno culturale in cui non si limita a riprodurre biologicamente, ma si crea cultura. Questa opzione teorica poggia su tre ragioni: 1. RAGIONE ONTOLOGICA la relazione materna si configura come la prima e fondamentale relazione di cura. Se cura ed essere sono un tutt’uno, allora è nella relazione materna, in quanto primaria relazione di cura, che si ha una vera e propria esperienza dell’essere. 2. RAGIONE ANTROPOLOGICA il mondo femminile è contrassegnato da un’eredità simbolica in cui è possibile rintracciare fenomenologicamente l’essenza del sapere della cura, sia nelle sue manifestazioni positive sia nei suoi elementi problematici. 3. RAGIONE PSICOLOGICA la scienza psicologica assegna alla cura materna un ruolo fondamentale di definizione ontologica, poiché all’inizio della vita il bambino si alimenta del modo d’essere della madre, nutrendosi non solo delle sue parole e dei suoi gesti, ma anche delle visioni della vita che stanno dietro questi gesti. L’operazione teorica che, nella ricerca dell’essenza della cura assegna un ruolo importante alla relazione materna, non intende affatto autorizzare l’immaginario che vede esclusivamente nelle donne una sorta di vocazione alla cura. La cura di cui è capace una madre non solo garantisce la continuazione della vita di una comunità, ma plasma il linguaggio e la cultura dei nuovi venuti. Assumere l’agire materno come archetipo per la costruzione di un paradigma della cura non significa affatto idealizzarlo, poiché di esso si conoscono gli elementi di problematicità. Pur sapendo che l’agire materno presenta luci e ombre è necessario cominciare ad attivare un atteggiamento di riconoscimento simbolico nei confronti dell’azione di cura esercitata dalle madri, poiché tale riconoscimento consente di generare non solo un nuovo paradigma pedagogico, ma anche un nuovo orizzonte etico. Per avere un paradigma della cura dobbiamo tenere presente anche il concetto di madre adeguatamente buona o madre normalmente devota, poiché si costituisce come misura vivente della buona cura. Prendendo in esame l’agire della madre normalmente devota, è possibile individuare quegli aspetti che qualificano una buona pratica di cura, cioè quella che produce beneficio e giovamento in chi è oggetto di cura. Per il bambino cominciare a essere significa essere insieme a un’altra persona che gli offre il suo sostegno. Sostenere significa proteggere delle offese fisiologiche, tenere conto della sensibilità cutanea dell’infante, attivare una serie di cure diurne e notturne che non sono uguali per tutti i bambini, ma che la madre capace di buona cura sa individuare in base a una lettura attenta dei segni che il bambino manda, inoltre implica tenere il passo con le piccole modificazioni che avvengono giorno per giorno nel bambino in conseguenza del suo sviluppo fisico e psicologico. Il sentirsi oggetto di cura consente al bambino di percepirsi reale e questo sentimento costituirebbe una condizione essenziale per affrontare il mondo. La normale devozione che genera una buona cura si esprime sia in azioni corporee sia in gesti di pensiero (es. tenere in braccio). Poiché l’essere umano è un’unità indiscendibile di corpo e mente, un buon accadimento del corpo facilita un buon sviluppo cognitivo ed emozionale. Di conseguenza una madre adeguatamente buona è quella capace di aver empatia, ossia di sentire dentro di sé l’esperienza del suo bambino. Questa capacità eccezionale della mente materna di sentire il sentire dell’altro verrebbe preparata durante la fase della gravidanza, in cui insieme ai cambiamenti del corpo avrebbe anche un cambiamento nella postura cognitiva tale per cui la madre si libererebbe di ogni deformazione egocentrica rendendosi capace di pensare intensamente al bambino arrivando così ad avere empatia. Quindi la madre normalmente devota è quella che sa essere responsiva, ossia sa soddisfare in modo adeguato i bisogni. Essere responsiva significa rispondere alla chiamata dell’altro, ma questo presuppone che all’altro siano dati tempo e spazio per chiedere la cura di cui ha bisogno. Quindi la normale devozione in cui si esprime una buona cura è quella della madre capace di offrire una presenza costante e attendibile ma discreta, perché è il proporsi come punto di appoggio affidabile, ma senza sottrarre all’altro lo spazio per respirare individualmente, che facilita nel bambino lo sviluppo della fiducia in sé e nel mondo. Un altro atteggiamento è la sorveglianza, cioè un’attenzione costante, ma dissimulata, in modo che il bambino, senza sentirsi controllato, possa tuttavia percepire la disponibilità di una presenza affidabile. La cura materna è complessa perché, durando nel tempo, chiede una continua ridefinizione di sé nella relazione, la quale presuppone la disponibilità a cambiare per adattarsi ai cambiamenti del figlio. La competenza materna dunque è caratterizzata dalla capacità di attivare una responsività sempre modificabile, che implica un continuo lavoro trasformativo su di sé. La cura materna si profila, dunque, nei termini di un’azione culturale complessa, poiché la madre si trova chiamata nello stesso tempo a preservare la vita del bambino, a riparare eventuali ferite nel suo essere e promuovere il pieno fiorire delle sue possibilità esistentive, tenendo conto anche delle richieste di socializzazione avanzate dal gruppo sociale di appartenenza. Quindi è necessario pensare alla cura non come a una serie diserta e atomistica di azioni chiuse negli spazi della relazione di cura, ma a come pratiche legate fra loro in una catena di situazioni facilitanti. Per questa ragione una buona politica è quella che rende disponibili alle madri contesti di socializzazione per non rischiare quei vissuti di solitudine che costituiscono a minaccia più grave all’esercizio di un’adeguata funzione materna. FENOMENOLOGIA DELLA RELAZIONE AMICALE Un’altra relazione archetipica di cura informale è quella amicale: essa si presenta come una relazione fra altri che liberamente e in modo condiviso scelgono di coltivare il legame dell’amicizia. Si può dire che l’amicizia sia una relazione archetipica delle relazioni simmetriche informali. Tale relazione non è costretta entro precise norme e aspettative sociali e gode, quindi, di una certa libertà. Rispetto alla relazione materna e a quella infermieristica, per quella amicale non esiste il problema di distinguere il momento in cui si attua una buona cura, perché dove c’è amicizia c’è buona cura: i due fenomeni sono inscindibili. Nella forma primaria di amicizia il legame che si stabilisce con l’altro non è dovuto all’interesse per aspetti marginali e accidentali del suo modo d’essere, ma si basa sulla considerazione incondizionata per la sua persona. Anche nella relazione amicale l’essenza dell’agire con cura consiste nel volere il bene dell’altro per se stesso, per il suo bene. Si può dunque affermare che un tratto essenziale della buona cura è quel prendersi a cuore l’alto perciò che l’altro è in se stesso e in vista del suo massimo bene. La benevolenza che si concretizza non solo nel desiderio ma soprattutto nell’agire per il bene dell’altro costituisce la componente essenziale dell’amicizia e più ampiamente di una buona relazione di cura. Infatti, la disposizione alla benevolenza è il modo d’essere non solo del vero amico ma anche della madre normalmente devota. Per questo la relazione amicale, come quella materna, si nutre della logica del dono, con la differenza che in questa specifica relazione di cura il principio della gratitudine è reciproco. Avere attenzione significa in primo luogo saper dedicare tempo all’altro, perché senza la disponibilità di tempo non è possibile conoscere l’amico e, quindi, aiutarlo come si conviene al suo modo d’essere. L’attenzione implica innanzitutto capacità di ascolto. Essere capaci di ascolto significa saper mettere da parte le proprie preoccupazioni per fare posto al vissuto dell’altro, così che possa percepire di essere in ascolto nel nostro sguardo. Chi ascolta sa porsi in una condizione passiva: quella in cui si disattiva la tendenza ad un uso subitaneo dei propri abituali dispositivi cognitivi, che ci fanno stare in una relazione anticipata con l’altro e si rende la mente capace di un’attenzione aperta e accogliente. È propria della disposizione passiva la rinuncia ad esercitare la logica del controllo, per adottare la logica della remissione all’altro, che si dà nella forma di una presenza discreta. La presenza discreta è quella di chi sa stare in contatto con l’altro senza annullare la sua alterità. La delicatezza, però, non è rinuncia ad agire anche con fermezza, perché il dialogo autentico, quello in cui accade un vero cambio d’essere, da un lato richiede una profonda disponibilità cognitiva ed emotiva, necessaria affinché l’amico senta di essere ascoltato, dall’altro lato non può rinunciare a uno scambio dialogico onesto e franco. Ingrediente essenziale della relazione amicale è, dunque, la franchezza perché, anche quando produce dolore, toccando nel vivo le proprie convinzioni e il proprio sentire più intimo, ha comunque conseguenze positive poiché innesca un processo di autocomprensione critica. In questo modo si agisce secondo il principio del rispetto autentico per l’altro, perché avere rispetto non significa lasciare l’altro dove si posiziona quando si percepisce essere in errore, ma richiede di intervenire con l’obiettivo di mettere in movimento le sue capacità di valutazione critica, avendo comunque sempre riguardo per le sue opinioni. Essere capaci di apertura all’altro richiede una forma di tenerezza cognitiva, cioè la capacità di ammorbidire certe nostre convinzioni e le teorie su cui facciamo affidamento per rendere la mente permeabile al dire dell’altro e, dunque, capace di accogliere il suo punto di vista secondo il principio della carità interpretativa che chiede di ascoltare senza pregiudizi. Indice di questa postura accogliente della mente è la disposizione empatica, cioè l’aprirsi della mente al vissuto dell’altro in modo tale che possa risuonare dentro di noi. La capacità empatica è un tratto essenziale dell’amicizia, che si presta pertanto a essere assunta come archetipo della relazione in cui l’apertura alla comprensione dell’altro nella sua differenza trova le maggiori possibilità di concretizzarsi. Fra i sentimenti che qualificano l’amicizia non meno importante della fiducia e della tenerezza è la generosità, intesa come la disponibilità a mettere a disposizione ciò che è proprio, sia in termini materiali sia di competenze, per aiutare l’altro. Affinché una comunità possa fiorire, essa ha bisogno di cittadini disposti a collaborare, nel rispetto e nella valorizzazione delle reciproche differenze, per raggiungere il bene comune questa disposizione è appunto l’amicizia politica. La buona cura è quella in cui per entrambi i soggetti della relazione non c’è perdita di sé ma guadagno d’essere e questo è possibile solo se chi ha cura si prende anche cura di sé. FENOMENOLOGIA DELLA RELAZIONE INFERMIERISTICA La professione infermieristica è considerata una professione di cura perché, pur richiedendo una competenza scientifica, ha necessità di altro oltre a ciò che la scienza può offrire. La pratica di cura esercitata da chi svolge la professione infermieristica è differente dai due casi paradigmatici esaminati, poiché ha una dimensione pubblica. La relazione infermiera-paziente può essere assunta come archetipo di quelle relazioni asimmetriche in cui chi ha cura svolge questo ruolo nei termini di un’attività professionale e, quindi, rem unitaria. Anche in questo caso chi riceve cura sono persone che si trovano in una situazione di dipendenza, ma il contesto della cura è in questo caso regolato da procedure precise in cui l’infermiera deve attenersi, a differenza della cura materna. Una buona e giusta cura da parte del personale infermieristico è innanzitutto la capacità di sviluppare una cura ontologicamente buona, cioè quella che salva la relazione, è riconoscersi mancanti e, dunque, altrettanto bisognosi di cura, riconoscere che per realizzare il nostro poter essere più proprio a noi stessi abbiamo bisogno dell’altro. Mettere al centro l’altro che ti interpella A muovere l’esserci è soprattutto un desiderio, nel caso delle pratiche di cura il desiderio di fare qualcosa che fa stare bene. Volere il bene non è sentimentalismo, è il cuore dell’etica. Non significa pretendere di agire secondo la propria idea di bene, bensì fare ciò che si sente essere bene a partire dalla situazione e dalla prospettiva dell’altro. Il saper ascoltare comporta il saper mettere in discussione le proprie convinzioni e le proprie prospettive quando si avvertono nelle parole o nel modo d’essere dell’altro direzioni di senso inaspettate. Si è detto che l’agire con cura è mossa dal desiderio di promuovere il ben-essere dell’altro; quando questo desiderio è autentico accade che si sappia ascoltare le sue priorità ed è il tenerle in conto che inevitabilmente ci mette in discussione. Il desiderio di bene non è desiderio di affermazione di sé, ma è desiderio che l’altro trovi la sua dimensione di ben-essere in cui realizzare le possibilità del suo proprio essere. La relazione etica è quella che si attiva con un’attenzione nutrita di direzioni di valore. È questa la matrice generativa dell’agire etico perché è quella che impedisce che i germi dell’indifferenza attecchiscano l’anima. Nella rottura dell’indifferenza, che accade quando si ha cura, si attualizza l’evento etico. Elementi di criticità Una buona teoria della cura non può non affermare che l’occuparsi del ben-essere di altri si configura come un’attività generativa di senso che produce effetti positivi sull’altro solo se è bilanciata dall’occuparsi di sé. Affinché si possa parlare di pratiche di cura è necessario non solo che si tratti di un’attività che soddisfa i bisogni di un’altra persona, ma che tali bisogni siano del tipo che una persona non è in grado di soddisfare autonomamente, altrimenti si arriva a prestazioni di attività di servizio. Fornire contesti di esperienza favorevoli a quanti sono impegnati nella cura significa garantire loro le condizioni affinché possano coltivare una buona condizione fisica e una buona salute mentale e possono usufruire di un’adeguata formazione. Tutti questi elementi concorrono a salvaguardare la relazione in modo che sia generativa di benessere per entrambi i soggetti coinvolti. L’ESSENZA DELL’AVER CURA A questo punto, per arrivare a definire i contorni di una pratica educativa che assume la cura come modo d’essere paradigmatico, occorre individuare l’essenza della cura adeguatamente buona, ossia identificare i modi esistentivi o indicatori empirici della cura. Indicatori empirici della cura 1. RICETTIVITÀ essere capaci di un modo di un modo giusto di interpretare la pratica di cura significa essere capaci di passività, quella che consiste nel lasciare che l’altro ci interpelli a partire da sé, ciò si realizza attraverso la ricettività. La ricettività è la capacità di fare posto all’altro: far posto ai suoi pensieri e ai suoi sentimenti. Per essere ricettivi occorre innanzitutto saper attivare una profonda capacità di ascolto, necessaria a comprendere ciò che l’altro cerca di comunicare. Adottare una postura ricettiva incrementa la vulnerabilità di chi ha cura. È per questa ragione che molti considerano la ricettività un atteggiamento pericoloso. Se tuttavia, nonostante i rischi che comporta, non può essere esclusa dalla relazione di cura, è perché diversamente non ci sarebbe accoglienza dell’altro. In ogni caso tale atteggiamento andrebbe attentamente monitorato attraverso una continua riflessione sull’esperienza che si sta vivendo. 2. RESPONSIVITÀ la ricettività trova il suo necessario completamento nella responsività. La responsività implica una presenza attiva e vigile supportata da uno spostare l’attenzione dalla propria realtà a quella dell’altro, riconoscendo la primarietà anche temporanea dei suoi bisogni e delle direzioni dei suoi desideri. Ricettività e responsività configurano un atteggiamento di adeguata accoglienza dell’altro, quindi quando l’altro percepisce un ambiente relazionale accogliente, si sente accettato e sa di poter contare sull’altro. Proprio il sentirsi accolti e accettati consente lo sviluppo di un sentire emotivo positivo. Essere responsivi è saper vedere ciò che è necessario per il ben-essere dell’altro e con sollecitudine agire di conseguenza. 3. DISPONIBILITÀ COGNITIVA ED EMOTIVA: ricettività e responsività presuppongono una sensibile disponibilità, sia emotiva e cognitiva, a mettere a disposizione le proprie capacità e risorse personali nella relazione con l’altro. Qualsiasi azione di cura dev’essere supportata da una riflessione che sappia individuare nell’altro se e di quale tipo di cura ha necessità, e sulla base di una valutazione analitica dei modi in cui si profila la situazione relazionale, sappia esprimere quel pensare misurante che valuta cosa è meglio fare per il suo ben-esserci. Proprio a ragione del fatto che ogni azione di cura si presenta unica e singolare come unici e singolari sono gli esseri umani, l’assunzione della responsabilità ad aver cura richiede un’intelligenza dell’agire che si esprime nella valutazione contestuale della situazione. Le pratiche di cura adeguatamente buone richiedono di mettere in atto abilità differenti in relazione alle differenti fasi in cui si articola l’azione di cura: 1) individuare quelle situazioni in cui è necessario un’attività di cura 2) sulla base di un’attenta analisi del contesto, riconoscere nell’altro lo specifico bisogno di cura che manifesta 3) valutare in che misura è un bisogno necessario a conservare, a riparare e/o a far fiorire la vita, oppure se si tratta di un bisogno non sostanziale 4) identificare quale tipo di azioni di cura occorre attivare per rispondere a tale bisogno 5) valutare se e com’è possibile intraprendere l’assunzione dell’aver cura 6) pianificare intelligentemente il proprio agire così da mettere in pratica quanto pensato 7) valutare l’esperienza attivata sulla base della risposta fornita dal soggetto cui le cure erano dirette Si può dunque affermare che in una buona pratica di cura la disponibilità si manifesta in un pensare emotivamente denso, o in altre parole, in un sentire intelligente. Proprio perché in un’autentica relazione di cura c’è rispetto per l’alterità dell’altro, la dimensione affettiva che entra in gioco non è mai assimilativa, ma lascia che l’altro sia sempre altro. 4. EMPATIA l’empatia è quel co-sentire che consente a un soggetto di avvertire l’altro nel suo essere proprio. Quando si è capace di empatia accade che l’esperienza di altri, quindi ciò che non abbiamo vissuto e che non vivremo mai, diventi elemento della nostra esperienza. Nella relazione empatica l’apertura all’apertura all’altro non è mai fusione affettiva o identificazione, ma si profila nella forma di un ascolto partecipe che salvaguarda l’alterità dell’altro, la sua irripetibile singolarità. L’empatia si può dunque definire una pratica di relazione ed è in quanto pratica che può avere effetti trasformativi su chi la esperisce, poiché vivere, seppure non in modo originario, l’esperienza dell’altro mi trasforma nel più profondo delle pieghe del mio essere. Affinché la relazione educativa favorisca nell’alto il pieno divenire del suo poter essere, occorre che l’educatore sia capace di rispettare la sua trascendenza, avvicinarsi a lui con intensità emotiva e allo stesso tempo con discrezione, così da consentirgli di mostrarsi per quello che è. La disposizione empatica si nutre di passività, ossia di quel modo d’essere che solo consente di prestare all’altro un ascolto autentico, capace di individuare le sue mosse esistentive e i suoi desideri vitali, condizione questa necessaria alla messa in atto di un’azione di cura che dell’altro salvaguardi l’alterità. È importante sottolineare che la capacità empatica non è un atteggiamento che prende forma improvvisamente, ma richiede di essere coltivato attraverso la disciplina di portare l’attenzione sull’altro e contemporaneamente sulla propria esperienza interna. 5. ATTENZIONE affinché la mia intenzione di aver cura dell’altro si traduca in azioni adeguate è necessario dedicare tempo alla comprensione del suo modo d’essere, delle sue necessità, dei suoi desideri. La condizione necessaria per acquisire quella conoscenza su cui si fonda la comprensione è che si dedica all’altro un’intensa attenzione, ma non un’attenzione intellettualistica, ma bensì un’attenzione sensibile, che si presenta come uno sforzo vigile sull’altro cosicché niente del suo vissuto vada perduto. Quando si attiva un’autentica relazione di cura è perché si è in grado di essere allocentricamente concentrati sull’altro: ciò è possibile quando si sospende ogni forma di agire indaffarato. Si può dunque annoverare fra i comportamenti che contraddistinguono una buona cura la capacità di prestare un’attenzione allocentrica, quella cioè in cui lo sguardo attiva una completa svolta verso l’altro così da cogliere in lui/lei quei segnali che possono guidare l’azione opportuna. 6. ASCOLTO dedicare tempo all’ascolto, quando l’altro è in condizione di raccontare, diventa un’essenziale pratica di cura solo ascoltando si possono comprendere i processi di elaborazione del significato dell’esperienza che l’altro attiva per situarsi nel mondo. Saper ascoltare l’altro con attenzione sensibile al suo esserci significa mettere l’altro al centro, ossia considerare il suo essere presente per comprendere quello di cui ha necessità per vivere una vita umana, cioè degna di essere vissuta. Fare dentro di sé lo spazio per l’altro si traduce immediatamente in accoglienza, indipendentemente dal momento in cui l’altro si fa presente nella nostra vita. 7. PASSIVITÀ ATTIVA una presenza non intrusiva consiste nel facilitare l’altro con discrezione. In questo tipo di presenza che ha cura stabilisce con l’altro una relazione significativa, ma allo stesso tempo discreta. L’educatore deve mettersi indietro, ossia mettersi in quella posizione secondaria che consente di comprendere i modi in cui l’altro va alla ricerca del suo essere proprio, facilitando tale ricerca. Solo quando è guidato dal riguardo, inteso come un’attenzione intensa e discreta, e dal sentimento dell’indulgenza l’aver cura si rivela una pratica che facilita nell’altro il costruirsi della sua soggettività. Aver riguardo significa anche saper attendere, ossia lasciare all’altro il tempo di essere, il tempo di cui ha bisogno per rispondere affermativamente all’appello a esistere. Questo atteggiamento sarebbe una fondamentale componente della pratica di cura, perché saper stare ai tempi dell’altro è condizione necessaria affinché l’altro trovi i propri tempi. Il lasciar essere non è permissivo, n’è abdicazione alle proprie responsabilità, ma saper essere presenti secondo il modo della responsabilità discreta, ovvero essere capaci di una presenza che non invade mai il movimento d’essere dell’altro. La passività non è certo l’indifferenza, ma essere presenti con attenzione discreta, ossia con il massimo possibile di vicinanza e di distanza allo stesso tempo. Il mettersi in una posizione passiva non significa non agire, ma scegliere quel modo d’essere che è l’azione non agente. L’autentica relazione di cura è quella capace di trascendenza, in cui un soggetto si rapporta a una realtà infinitamente distante dalla sua, senza che questa distanza distrugga la relazione e senza che la relazione annulli la distanza. Affinché si costituisca una relazione ontogenia, ossia quello spazio in cui si può divenire il proprio essere, è necessario che ciascuno incontri l’altro secondo la sua essenza di essere parlante che con altri costituisce quei modi di significato che sono lo spazio in cui si viene a esistere. Ascoltare solo l’altro mettendo a tacere il proprio sé significa annichilire ogni possibilità di dialogo e quindi di cura. Chi è quotidianamente impegnato in pratiche di cura sa per esperienza quanto sia essenziale mettere in gioco il proprio sé, le proprie risorse, non secondo una logica di imposizione ma del donare all’altro. 8. RIFLESSIVITÀ delle cura non esiste un sapere certo né una scienza, perché sulle cose essenziali della vita non c’è nulla di certo. È questa costitutiva problematica dell’azione di cura che richiede un elevato tasso di riflessività. L’aver cura bene chiede a chi a cura di interrogare continuamente l’esperienza che sta vivendo, coltivando un atteggiamento pensoso, riflessivo, che consideri sempre ogni situazione nella sua irriducibile singolarità. 9. IL SENTIRE NELLA CURA raccontare l’esperienza significa raccontare la tonalità emotiva con cui sono stati vissuti gli eventi. Non esistono dunque un prendersi cura e un aver cura emotivamente neutri; essi sono sempre emotivamente totalizzati. Considerando il senso profondo che i sentimenti giocano nell’evoluzione del processo ontogenetico, poiché hanno la possibilità di svelare la qualità dell’esserci, sarebbe carente quell’analisi che non prendesse in considerazione quelle forme del sentire che L’ETICITÀ DELLA CURA Non è necessario insistere sulla formulazione di un’etica della cura, ma si dovrebbe approfondire la cultura della cura. Questo non significa superare la questione etica, ma affrontarla da un’altra prospettiva. È importante sottolineare che: – la cura è una pratica, l’essenza della quale va cercata in una serie di modi d’essere in relazione con altri che non vanno affatto tradotti in dover essere – come ogni pratica la cura è orientata da modi di pensare emotivamente connotati, di conseguenza una questione importante da affrontare consiste proprio nel capire l’orizzonte di pensiero entro il quale si muove una buona pratica di cura ed esso è costituito oltre che da assunzioni ontologiche anche da direzionalità etiche Promuovere una vita buona La primaria e basilare direzionalità etica che emerge e che risulta essere la ragione generativa della disponibilità a rispondere alla chiamata della cura è costituita dall’intenzione di concorrere alla promozione di una buona qualità della vita dell’altro. Poiché la ricerca di ciò che è bene costituisce la questione etica per eccellenza, si può dire che la pratica di cura, nella misura in cui è mossa da questa direzionalità, è una pratica eticamente informata. Se poi, sempre ragionando in termini aristotelici, si assume come valido riferimento la tesi secondo cui la giustizia è quella virtù che consiste nel tenere in massimo conto il bene dell’altro, allora non ci può essere opposizione fra la direzione etica della cura e quella della giustizia. Per una formazione metafisica Vi è un preciso concetto di competenza nell’ambito della cura, che, oltre a prevedere un’abilità di tipo teorico, richiede anche una competenza metafisica che consiste nella tensione a interrogare criticamente le questioni di fondo e tale interrogazione non andrebbe agita solo nella solitudine della propria coscienza, ma in un contesto intersoggettivo dialogando con altri che possono confutare le nostre posizioni. CAPITOLO 7: LA CURA COME PRATICA La cura non è un’etica, ma una pratica eticamente informata. Ed è informata dalla ricerca di ciò che è bene, ossia di ciò che aiuta a condurre una vita buona. È in funzione del riuscire a promuovere contesti esperienziali che aiutano l’altro a ben-esistere che si profilano tre direzionalità etiche in cui si condensa l’essenza dell’eticità della cura: 1) FARSI RESPONSABILI la disposizione etica della responsabilità si fonda sulla consapevolezza ontologica dell’esserci come mancanza, ossia sul sapere che ciascuno si trova in una condizione di dipendenza perché mancante d’essere, nel senso di mancante di quella forma compiuta che non necessiterebbe di alcunché proveniente dall’esterno dell’individuo. La responsabilità di chi ha cura va intesa come responsabilità di predisporre quei contesti esperienziali che possono facilitare nell’altro l’assunzione della responsabilità della ricerca del proprio ben-esserci. Poiché l’agire nella relazione è fatto di azioni e di parole i cui effetti sono irreversibili, essere responsabili significa vigilare su quello che si fa e su quello che si dice valutando attentamente se la qualità dell’agire è indice di buona cura. Il difficile della responsabilità è che questa vigilanza deve accompagnare ogni momento del proprio agire, perché anche l’azione più insignificante o la parola meno rilevante basta a mutare la direzioni di senso di una relazione. La disponibilità a intessere una relazione di cura si attiva quando si sente che lì c’è del bene che si va cercando. È la passione per ciò che fa star bene, ossia per ciò che rende la vita degna di essere vissuta, che catalizza la disposizione all’azzardo dell’azione di cura. L’aprirsi all’altro, che significa esporsi, è una disposizione etica e come tale si fonda su un’ontologia, quella del sapersi mancanti d’essere, sapere che solo nella relazione con l’altro andiamo tessendo il nostro essere. Nell’aver cura c’è bisogno di un’intelligenza materna, capace di fecondare l’esserci. È quella ragione dove pensare e sentire vanno assieme; è questa ragione che è propulsiva di quell’agire con cura che non si converte ai criteri di giudizio della ragione calcolante, e che quindi ai più sembra insensata. Sentire nell’altro la necessità di ricevere una qualche forma di cura e lasciare che la percezione di questa necessità di ricevere una qualche forma di cura e lasciare che la percezione di questa necessità preformi il nostro agire è conseguente al pensare che nell’agire con cura è in gioco l’essenziale. Perché chi ha cura secondo la direzione del prendersi a cuore che cerca il bene sa dove sta l’essenziale. Agire sapendo che è in gioco l’essenziale significa sapere che quella è la cosa primaria da fare e questo basta a dare senso al proprio agire e il senso è tutt’uno con il piacere. La concettualizzazione della cura come di un agire “naturale” viene spiegata con il fatto che il comportamento etico della cura si esplicherebbe non in conseguenza dell’apprendimento di norme, ma in relazione alle esperienze vissute, nel senso che l’essere capace di cura dipenderebbe dall’avere a propria volta ricevuto buone cure, perché solo apprendendo ciò che significa ricevere cure si sarebbe in grado di aver cura di altri di cui ha esperienza diretta, per poi dilatare questo sapere in esperienze di cura diffusa rivolta a soggetti di cui si ha esperienza indiretta. È il contatto con testimoni autentici della cura, accompagnato da un’educazione alla riflessione costante sul senso di ciò che accade, la condizione necessaria per sviluppare la capacità di aver cura, un modo di essere che non ha dunque nulla di naturale ma è socialmente costruito all’interno di quelle che possiamo definire comunità di pratiche di cura. 2) AVERE RISPETTO la cura sta in una relazione di co-dipendenza necessaria con il principio dell’aver rispetto per l’altro, nel senso che se non c’è rispetto non ci può essere una buona cura. Nella pratica di cura il rispetto non è un principio astratto il cui valore viene colto attraverso argomentazioni logiche, ma del rispetto si sente la necessità perché dell’altro si sa la vulnerabilità. L’altro chiede di ricevere cura, ossia di essere oggetto di una considerazione accogliente e facilitante, ma senza che questa accoglienza si tramuti in possesso, perché il volto dell’altro, proprio perché tutela la propria alterità, si sottrae al potere. Nella relazione di cura l’altro è colui che “resiste” e chi ha cura è colui che ha la responsabilità di coltivare una contestualità relazionale dove la resistenza attiva dell’altro non sia difensiva ma dialogica. 3) AGIRE IN MODO DONATIVO uno scambio d’essere. Impegnarsi in pratiche di cura significa dedicare ad altri tempo ed energia: fisiche, ma anche emotive e cognitive; e donare il tempo è donare l’essenza della vita. Le persone che praticano la cura nel senso del prendersi a cure dell’altro con premura sanno dov’è l’essenziale, sanno che il senso dell’esserci, il logos dell’esperienza, sta nel donare il tempo. Ciò che caratterizza una relazione che si costituisce sull’agire donativo è la libertà. Chi agisce si sente libero di dare secondo il proprio desiderio, perché a muovere l’agire donativo è il desiderio di facilitare esperienze che facciano bene e questo agire, nulla chiedendo in cambio, lascia all’altro la libertà di agire a partire da sé, magari anche rifiutando il dono. A generare la disponibilità all’agire donativo non è il sentirsi vincolati a un astratto dover essere, quanto, invece, il sapere dove sta l’essenziale. Dalle ricerche condotte risulta determinante il sapere il valore vitale di ciò che si fa, perché la visione della vita che fa da sfondo all’agire con cura ha il suo nucleo concettuale nell’idea che la cura è il lavoro che sostiene la vita.