Scarica Filosofia della Cura (Luigina Mortari) e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Antropologia Filosofica solo su Docsity! FILOSOFIA DELLA CURA Luigina Mortari Sommario RAGIONI ONTOLOGICHE DELLA CURA .......................................................................................... 1 L’ESSENZA DI UNA BUONA CURA ............................................................................................... 12 IL NOCCIOLO ETICO DELLA CURA ............................................................................................... 17 IL FARSI CONCRETO DELL’ESSENZA DELLA CURA ........................................................................ 23 RAGIONI ONTOLOGICHE DELLA CURA Primarietà della cura Nel campo dell’esperienza umana ci sono cose essenziali, irrinunciabili. Tuttavia, può accadere che questa essenzialità sfugga al lavoro del pensiero. Spesso ciò che è essenziale è ciò che ci è più vicino, parte strutturale e inevitabile dell’esperienza; ciò che è onticamente più prossimo può rimanere sconosciuto nel suo significato ontologico. Una fondamentale evidenza è il fenomeno della cura. Per la vita la cura è cosa essenziale e irrinunciabile, perché senza la vita non può fiorire. C’è necessità di bene e di difendersi dalla sofferenza: la cura è la risposta necessaria a questa necessità. Ha origini antiche: nel Fedro (Platone) si dice che la cura è tratto essenziale non solo dei mortali ma anche delle divinità, nel libro VII della Repubblica Socrate spiega a Glaucone che ai filosofi è giusto chiedere di avere cura e custodire gli altri cittadini. Quando si pensa alla nascita, al venire al mondo, si pensa la luce che si apre sull’essere. Secondo Heidegger ciò che illumina nella sua essenza l’essere umano è la cura; in quanto tale cura è tratto ontologico essenziale dell’esserci, e struttura d’essere dell’esserci. L’esserci infatti assume la propria esistenza avendone cura. Questo rapportarsi all’esistere avendone cura è un esistenziale che il tratto della necessità, l’essere umano si trova a doversi occupare di sé, degli altri e delle cose, ognuno è quello che fa e di cui si cura. Dire che noi diventiamo quello di cui noi abbiamo cura è che i modi della cura danno forma al nostro essere significa che se abbiamo cura di certe relazioni il nostro essere sarà costruito dalle cose che prenderanno forma in queste relazioni (abbiamo cura di certe idee la nostra struttura di pensiero sarà lavorata da questo lavoro, la nostra esperienza mentale poggerà su quelle che abbiamo coltivato). Della cura si può pertanto parlare nei termini di una fabbrica dell’essere. La cura è imposta dalla qualità del nostro esserci. Quando Hannah Arendt distingue le varie forme di attività umane, parla del lavoro come di quel fare che è un agire continuo per soddisfare i bisogni primari. La cura può essere definita lavoro del vivere dell’esistere. Proprio perché la debolezza dell’esserci, in quanto mancante d’essere, è costitutivo della condizione umana, il lavoro di cura non può non accompagnare la vita intera, è un lavoro che riempie ogni attimo del tempo. Anche nel più perfetto dei mondi sempre ci sarebbe bisogno di cura: in certe fasi della vita perché lo stato di fragilità e vulnerabilità rende fortemente dipendenti da altri, infanzia O malattia, inoltre da adulti perché pur disponendo di una certa autonomia e autosufficienza, tuttavia senza l’aiuto premuroso di altre persone non si riesce a far fiorire le proprie possibilità d’essere e si trova riparo dalla sofferenza. La cura è ontologicamente essenziale: protegge la vita e coltiva le possibilità di esistere. Una buona cura che nell’essere immerso nel buono, ed è questo il suono a dare forma la matrice generativa del nostro vivere. Nonostante la cura sia esperienza essenziale su di essa manca un sapere adeguatamente rigoroso perspicua. Accade che l’esperienza antologiche fondamentali, quelle che disegnano il tessuto del quotidiano, siano le cose vita umana è incerta e incompleta. Per avere cura di sé è necessario anche avere cura di quello che accade al proprio esserci indipendentemente da una ricerca intenzionale. Avere cura di sé per cercare la forma migliore del proprio poter essere significa cercare un orizzonte il radiante di senso. La cura di sé è un lavoro faticoso: che sei figli dell’esserci ma senza mai riuscire completamente nella realizzazione del suo progetto poiché all’essere umano risulta impossibile chiamare all’essere e tutto ciò che vede essenziale per disegnare una buona vita. Sia cura di sé per far fronte alla fragilità e vulnerabilità della condizione umana, senza mai poter ridimensionare questo essere intimamente fragili e vulnerabili nella carne nell’anima. La cura significa tra l’altro tendere a qualcosa (Heidegger): in questo tendere l’esserci che noi siamo tende verso qualcosa che ancora non ho, costruisce uno spazio vitale in cui potere dare completa realizzazione alle proprie possibilità esistentive. Con il mancare dell’essere pieno intero che caratterizza la vita umana e anche al suo tempo apertura all’essere, a ulteriori non predefinite possibilità esistentive. Il nostro essere è quello di trovarci sempre aperti e modi di essere possibili rispetto ai quali decidere il come del proprio essere attuale, significa rispondere all’appello a dare corpo alla possibilità dell’esserci. L’anima sente il bisogno di cercare un centro da cui attingere l’energia necessaria per camminare con gioia nel tempo. Aver cura dell’esistenza e fare della vita un’unità viva. Cogliere la possibilità di esistere progettare il proprio modo di esserci per portare ad attualizzazione il possibile e situarsi nel mondo secondo un progetto (esistenziale, cioè un modo di esistere). L’aver cura dell’esistenza come progetto in vista dell’attualizzazione del proprio poter essere possibile trova la sua radicale enunciazione nei dialoghi di Platone, dove troviamo Socrate impegnato a teorizzare la primarietà della cura di sé intesa come cura dell’anima. • Nel Lachete, Lismaco dà inizio al dialogo affermando che il compito degli adulti è di aver cura dei giovani e questo significa assumere il compito della loro educazione. • Nell’Alcibiade Primo Socrate spiega che per apprendere l’arte di esistere di deve apprendere ad aver cura di sé. • Nell’Apologia Socrate afferma che il compito dell’educatore è quello di sollecitare l’altro ad avere cura di sé. L’educazione è dunque una pratica di cura con cui chi-ha-cura promuove nell’altro la capacità di aver cura di sé e poiché il sé coincide con l’anima aver cura di sé significa aver cura dell’anima. Socrate parla di cura dell’anima e per nominare questo tipo di cura usa il termine epimelia2. Quando si è avuto esperienza di una cura che ha nutrito l’anima di energia vitale allora stesso stare di fronte all’angoscia senza che questa ci travolga. La luce calda della ragione seminale, il logos spermatikos degli stoici, qualsiasi spirituale che riscalda il tempo e feconda la vita di semi di possibilità. L’assenza di cure invece rende più deboli, più fragili, più pronti a essere nientificati dal dolore. Aver cura e togliere via per quanto possibile il peso della sofferenza. Essere necessario risulta anche un altro tipo di cura che ripara l’essere nei momenti di massima vulnerabilità e fragilità, quando il corpo l’anima si ammala: è la cura come terapia. La terapia e la cura chiamata a lenire la sofferenza, il corpo è una cosa massimamente vulnerabile, può incepparsi, e quando questo accade si esperienza della sofferenza nella carne. Non c’è solo il dolore del corpo ma anche quello dell’anima: nel dolore del corpo ci troviamo immersi mentre il dolore dell’anima sale dal profondo della vita interiore, ci sono sofferenze che assorbono l’energia vitale. Nella sofferenza avvertiamo in tutta la sua problematicità il nostro trovarsi costretti all’esserci. Quando la materia si ammala allora quella inconsistenza ontologica che la mente può momenti non pensare così da contenere il senso dell’angoscia, viene vissuta in tutta la sua pesantezza. Si sperimenta 2 Coltivare l’essere per farlo fiorire l’impossibilità di un’alternativa ontologica che genera l’angoscia. Bisogna arrivare a declinare il pensare come capacità di accettare. Accettare la nostra qualità ontologica senza ricorrere a fantasticherie immaginazioni sradicanti e da questo saper accettare prendere slancio per reinterpretare l’esistenza, chiede tutto un lavoro della mente e del cuore che parte essenziale dell’avere cura di sé. Una vita piena è una vita sentita in ogni istante, nel tempo buono ogni istante percepito prezioso, nel tempo della malattia cambia radicalmente il nostro modo di percepire l’esserci. Nella sofferenza il tempo cambia di qualità. Quando si sta bene la mente prende le distanze da ogni immagine negativa, quando si fa esperienza del dolore e altro quello che si impone alla mente ed è altro quello che si vorrebbe, si vorrebbe ancora una forma di sovranità del proprio esserci. Nel Fedone Platone parla del corpo come di un carcere dove l’anima, la sola parte nobile dell’essere umano, si troverebbe imprigionata. L’idea di un’anima che si libera dal gravami della vita materiale e che così alleggerita può accedere un altro ordine di realtà, dove nulla può procurare turbamento, non è un’invenzione assurda perché dà voce a quel desiderio profondamente umano di non avere il respiro spirituale mischiato la carne quando la carne fa male. È come se la materia corporea consumasse ogni energia spirituale. L’idea platonica di un’anima tenera e pura che sa andare oltre verso le cose perfette semplici, contemplandone in una luce pura, dà voce non solo il desiderio di verità che ciascuno sente di fermare nella mente manca il desiderio di una vita altra perché inaccessibile a certi sommovimenti dolorosi. Si tende a vedere nel pensiero platonico la radice del dualismo fra anima e corpo. Ragionare per universi distinti una semplificazione rischiosa, tuttavia il pensare all’anima come qualcosa che può trarsi fuori dal mondo della materia va considerato anche da un’altra prospettiva. Tale visione dà voce all’aspirazione umana di poter vivere una vita non minacciata da possibili ferite dell’esserci e non mischiate le cose che degenerano. La realtà è però diversa da quella che si vorrebbe: è quella per cui noi siamo corpo e anima insieme, un corpo un’anima da pensare inestricabilmente mischiate l’una con l’altra. Edit Stein va oltre perché per superare il dualismo non suggerisce una logica di tipo associativo, ma invita a pensare all’esserci come un tutt’uno composto di un corpo che vive di un respiro spirituale e di un’anima incarnata. Se concepiamo il corpo come materia spirituale e l’anima come una sostanza corporea allora non può non cambiare il nostro modo di stare in relazione con l’altro aver cura di un neonato significa occuparsi di un corpo che sente in modo spirituale il tocco di chi ha cura. Poiché l’anima vive nel corpo le azioni che con il corpo subiamo sono avvertite anche dall’anima. Quello che gli antichi sapevano della medicina moderna dimenticato: ho dimenticato che il corpo e anima sono un tutt’uno e quindi la cura chimica deve procedere integrata con quella spirituale. Nel Carmide, Platone spiega che il rimedio alla malattia non consiste solo nel farmaco biologico, ma anche nel farmaco fatto di logo, di buoni discorsi usati insieme. Sei un dolore che nasce nella carne è un dolore che viene dall’anima ma raramente rimangono disgiunti. Nell’oro accadere sono inscindibili, l’uno tra cima nell’altro contaminando i differenti piani dell’essere. Il dolore dell’anima quando non lavorato e perciò insostenibile trova nel corpo l’uomo deve manifestarsi. Quando nella vita si fa esperienza di buoni vissuti di cura, di quella che lo nutre l’anima di fiducia, allora stasera in presenza del dolore senza che questi si travolga. L’assenza di cure invece rende più deboli, più fragili, più pronti a essere nientificati dal dolore. La capacità di avere cura dell’altro e anche questo: esserci quando l’altro avverte tutta la fatica del mestiere del vivere, mostrando la disponibilità mettere in comune quello che sia per sostenere insieme il lavoro di tessitura dell’esistenza senza lasciare il senso di una fredda solitudine e spinga l’energia vitale. Non c’è esistenza senza cura di sé, ma la cura di sé necessità del nutrimento che viene da ricevere cure ad altri. Quando la cura come terapia si fa carico della persona nella sua interezza di mente e corpo, Allora non è solo riparazione di qualcosa che nel corpo si è inceppato ma in cura intera dell’essere. Il termine cura risulta poli semantico: 1. c’è una cura necessaria per continuare a vivere: lavoro del vivere per preservare l’ente che noi siamo 2. una cura necessaria all’esistere per dare corpo alla tensione alla trascendenza e nutrire l’esserci di senso: cura come arte dell’esistere per far fiorire l’esserci 3. una cura che ripara l’essere sia materiale sia spirituale quando il corpo l’anima si ammalano: cura come tecnica del rammendo per guarire le ferite dell’esserci. La cura nella sua essenza risponde a una necessità ontologica, la quale includa una necessità vitale, quella di continuare a essere, una necessità etica, quella di esserci con senso, e una necessità terapeutica per riparare l’essere. La consistenza relazionale dell’esserci Non possiamo sottrarsi al compito della cura della nostra esistenza, tale impiego è il limite di non passare perché noi siamo esseri relazionali e in quanto tali bisognosi degli altri. La vita non è un evento solipsistico poiché è sempre intimamente connessa la vita degli altri, per l’essere umano è sempre con-vivere. Nell’Etica Nicomachea Aristotele parla dell’essere umano come di un ente per natura politico cioè qualcuno che sta con i molti altri che danno vita alla città. La relazione con l’altro è la condizione primaria dell’esserci. Come spiega Donald Winnicott l’origine di tutto è la relazione con la madre. Per il neonato ha bisogno della madre e l’esigenza più gente in questa relazione comincia a costruire il suo essere. La relazione con la tua persona che mi accoglie e dunque la struttura ma risale dell’essere, ossia “io all’inizio sono un insieme a un altro essere umano non è ancora differenziato”. Studi recenti sul comportamento hanno rilevato un’elevata competenza relazionale già dei primi giorni di vita, questa competenza di valore primario per la vita. La relazione con altri e struttura ontologica dell’esserci, nel senso che il ci che segna il modo di essere di un ente è sempre l’esserci con altri. Il nostro ritrovarci dentro tessuti di relazione È riconducibile a una sola stagione perché il nostro sentire viene da lontano: è come una linfa che si nutre non solo delle relazioni presenti ma anche di quelle passate che pur dimenticate strutturano lo sfondo vitale dell’essere. E’ pensando a partire da questa dati tal fenomenica che si rende evidente la qualità-relazionale di certi orientamenti di pensiero. Si potrebbe dire che con il “con” a fare l’essere e non qualcosa che si aggiunge all’essere. Tanto insieme sostanziale è la relazione con l’altro che quando perdiamo qualcuno queste si prende via una parte di noi. Se il con e al cuore dell’essere, allora per tutti i discorsi che si misurano con questioni antologiche è necessario rovesciare il tradizionale ordine del discorso, che prevede che prima si parli dell’essere comunità in sé indifferenziata e solo dopo si affronti il con. Noi non siamo semplicemente circondati da essere da cose con cui saremo liberi di decidere se entrare in relazione, ma siamo intimamente relazionale poiché la matrice morfogenetica dell’essere di ciascuno è data dall’energia vitale che scaturisce dalla rete di relazioni entro il cui spazio ciascuno di noi diviene e che con il suo agire contribuisce a strutturare. Progettare l’esistere come co-esistere è la risposta necessitata dalla struttura intimamente relazionale dell’esserci. Secondo Nancy, anche Heidegger, partirebbe da un assunto a-relazionale perché del con-essere parla solo dopo aver indicato l’originaria età dell’esserci. Questa difficoltà a parlare dell’esserci in termini relazionali e l’indice della qualità complessa della condizione umana che noi intimamente sentiamo quando percepiamo che il nostro essere con gli altri sia strettamente connesso con quella solitudine esistenziale per la quale noi possiamo condividere con l’altro il nostro sentire. I concetti ontologici sono basilari, sono fra gli elementi strutturali di un paradigma di pensiero. Non solo Gia- esperienza non può essere pensata come il frutto del nostro volere, ma come qualcosa di imprevisto e di gratuito che si sottrae a ogni logica. Anche l’amore non è qualcosa che si progetti che si controlla, che ci si aspetta, ma è qualcosa che si fa e si vive, e per questo dipendiamo fortemente dall’altro. Socrate: l’amore quando ho vissuto anche di spiegarci passare in presenza del bene, viene da Penia (povertà, mancanza). Essere poveri essere mancante di qualcosa, noi siamo poveri perché mancante del bene e non dell’essere. È proprio lo stato di povertà che ci consente di fare esperienza delle cose degne d’amore. In questo senso va letta rifiuto di Ulisse dell’invito di Calipso a renderlo immortale perché solo lo stato di debolezza, mancanza e povertà consente poi di fare esperienza delle cose belle e buone. I beni di relazione, quelli del più alto valore, non sono solo trascendenti la nostra volontà ma anche massimamente delicati. Martha Nussbaum li definisce pur nera abili in maniera particolarmente profonda e pericolosa, perché esposti agli urti della realtà, altri eventi del mondo. Forte il dolore che si prova a venire meno di una relazione significativa. C’è un dolore che viene quando ci troviamo a sopportare il male, che colpisce la carne o l’anima. C’è un altro tipo di dolore che è quello di cui si fa esperienza quando viene a mancare il bene, è un dolore strano. E conseguente il sentire che qualcosa di essenziale viene meno, qualcosa di rinunciabile che rende la vita degna di essere vissuta. Il difficile della condizione umana e di dover investire laddove si situa il rischio della massima vulnerabilità. A caratterizzare l’esistenza la ricerca continua di un difficile equilibrio fra l’instaurare e mantenere legami con gli altri e il tentativo di sottrarsi alle sofferenze e i pericoli che tali legami possono comportare. Sul frontone del tempio di Delfi tre erano le scritte che si trovavano una delle quali sentenziava non legarti troppo. È necessario essere vulnerabili perché il nostro poter fiorire è intimamente connesso alla vulnerabilità. Siamo fragili poiché veniamo a essere indipendentemente da una nostra decisione, e una volta nel mondo veniamo a trovarci nel fluire del tempo, e questo essere nel tempo non sta sotto la nostra sovranità. Il nostro esserci non si pone da sé ma viene da un altrove, accade come un prorogarsi di momento in momento in virtù di una decisionalità a noi estranea. E’ questo a renderci fragili. Scoprire che io non dipendo da me e che da me non sono nulla fa sentire tutta la fragile inconsistenza del proprio essere. La fragilità del nostro essere ci coglie nella enigmaticità della nostra origine e della nostra fine, nei vuoti non conosciuti e nell’impossibilità di chiamare all’essere tutto ciò che vorremmo. “Noi siamo esseri gettati nel mondo” Heidegger. Non ci è dato di avere sovranità su ciò da cui dipende la realizzazione del compito esistenziale del divenire il proprio esserci, siamo un divenire continuo. No nostra cultura impariamo presto che vedi più grande la libertà, e per tutto il tempo della vita si va alla ricerca di modi dell’esserci che siano concrezione fenomenale 61 spirito libero. In questa ricerca si evidenzia la parità paradossale e drammatica della condizione umana poiché a fare la libertà è un ente che si trova nel mezzo della sua esistenza senza averlo deciso con un progetto che deve sempre fare i conti con la realtà pone. Gli attimi di libertà sono momenti privilegiati dell’esserci perché nutrono l’anima di quell’energia vitale che rende sostenibile il mestiere del vivere, quel nostro trovarti essere per tutto il tempo della vita costretti a misurarsi con eventi decisioni che non dipendono da noi si evidenzia la qualità condizionata della vita umana. Il nostro sguardo si trova continuamente diversi poiché ogni momento dell’essere di prima è passato per lasciare il posto all’essere di ora. Per il suo carattere di continuo influenza il mio essere multiforme, lo trovi lo vivo nell’istante presente, è proprio questo che rende possibile il mestiere dell’esistere, che consiste nel cercare di fabbricare la propria migliore forma. Il lavoro faticosa di dare forma al proprio essere possibile e quanto di più frasi che possa esserci, è un continuo fabbricare modi di esserci. Siamo chiamati a trovare i modi per conservare la vita e inventare un modo di esserci e che possa dare un senso al nostro esistere ma accade che poi, con poco ciò che costruiamo, poi dileguarsi come la rugiada al primo calore del mattino. L’esistenza come sottoposta un vento perenne, lavoriamo a costruire competenze, ma se non esercitate si perdono. Chi interpreta con responsabilità il compito di dare forma alla propria esistenza dedica molto del tempo dell’energia plasmare il proprio essere, a modellare posture cognitive, affettive, etiche e politiche. Ma per quanta dedizione ci metto niente di quanto acquisito ho la minima garanzia di permanenza. L’esistenza è un succedere puntiforme di attimi di attualizzazione del presente del nostro essere possibile solo nel presente si entra in contatto con l’essere e tutto si gioca nella breve durata degli attimi che si succedono senza sosta. L’essere temporale qualcosa che si trasforma immediatamente il non essere. Sapere che il nostro esserci limitato il presente e che passato e futuro non ci appartengono consegna la consapevolezza della fragilità del nostro essere, la qualità ontologica dell’essere umano è un continuo oscillare tra l’essere e il nulla, la nostra condizione è quella di un divenire che non diventa mai pienamente attuale. Questo esserci attimo per attimo però il carattere della continuità, nel senso che l’essere è già stato lasciato il presente qualcosa di sé e il non ancora del futuro già c’è nel presente come anticipazione che può condizionare l’essere attuale. Proprio questo riaccendersi di modi di essere già passati ci rende fragili rispetto all’esperienza. Il nostro fluire di atti che indica allo stesso tempo la debolezza antologica dell’essere e la pesantezza del nostro divenire. Che la debolezza antologica, il suo mancare di un pieno essere attuale, non sia leggerezza evidente se si considera che tutto ciò che noi a potenziale, e che come tale può trapassare in attualità, anche se non è certo il suo divenire tuttavia non è non-essere. E alla ragione che ci affidiamo per ridurre il tasso di fragilità. Il pensiero può tanto, a forza potere di fare, e noi possiamo alimentarlo, orientarlo, piegarla ai nostri obiettivi, ma neppure su di esso abbiamo sovranità. Il pensiero è limitato e può farci cadere in errore ma di colpo la razionalità faticosamente conquistata poi dileguarsi e lasciarsi in balia dell’altro che noi siamo. Anche la ragione è un potere della vita, quando la mente cerca la quiete, continua a sentire l’inesauribile fluire di pensieri emozioni che niente riesce a fermare. In greco la parola che indica l’anima indica anche la farfalla, che è metafora di quanto è più delicato e fragile. Considerato che l’essere umano manca di una forma finita e che per questo a caratterizzare il suo divenire chiamata a dare forma all’esserci, possibilmente una forma buona in cui l’anima possa toccare momenti di pieno, non possiamo non fare progetti per il divenire del nostro essere possibile. L’esperienza del bene che ti può venire da un gesto di cura rimane nell’anima nutrire quella fiducia del possibile che sola riesce a trovare l’energia necessaria a sostenere il lavoro di esistere. Fragilità e vulnerabilità danno debolezza ontologica. Mi sperimentiamo continuamente la fragilità e la vulnerabilità del nostro esserci: per continuare a vivere dobbiamo costruire un mondo in cui poter realizzare le nostre possibilità, ma qualsiasi artefatto umano ha una consistenza fragile Forner abile sia perché sposto le forze del mondo sia perché risente dei limiti ontogenetici del nostro esserci. C’è una vulnerabilità e fragilità del corpo e una dell’anima: la nostra sostanza immateriale fatti di pensieri e di emozioni, i pensieri buoni e le emozioni buone inoltrano la mente, quelle che lavorano al negativo procurano sofferenza. Quelle parole si costruiscono mondi entro i quali possiamo fare esperienza del piacere di esserci, ma le parole non sempre lavorano al positivo, possono fare male. Si dice che il dire e il pensare strutturano l’essere, e se assumiamo che il pensare allo stesso potere del fare, allora si può dire che il pronunciare parole se agli altri è un potere ontogenetico che mai deve essere sottostimato. La debolezza ontologica è conseguente al fatto che siamo esseri condizionati, poiché non solo ogni cosa con cui entriamo in contatto, ma ogni cosa che noi stessi costruiamo con il lavoro condiziona la nostra esistenza. Nel momento in cui si prende consapevolezza di non riuscire mai nell’attualizzazione piena del nostro poter essere, e che nonostante potrebbe accadere qualcosa che annulla ciò che si è costruito, un altro sentimento e poi dilagare nell’anima: l’angoscia di non poter divenire come si vorrebbe. Levinàs, che impegna una parte consistente delle sue riflessioni per tematizzare il sentire che nell’essere umano accompagna la consapevolezza del suo statuto ontologico, individua nell’angoscia è il sentimento che prende l’anima al pensiero della morte, parla di angoscia di fronte all’essere. Si fa esperienza dell’angoscia quando si prende coscienza di trovarsi in realtà chi è e diviene indifferentemente dei nostri progetti quasi sorda le nostre tensioni. Non c’è dato di esserci senza sentirci, il sentire muove e orienta il proprio divenire. È necessario aver cura finché le tonalità negative, dilagando nell’animo, non ti venga un ostacolo al lavoro di dare forma migliore al proprio esistere. Ma se l’inquietudine è qualcosa che ci accade di sentire indipendentemente da un atto del pensare, e se non fosse invade l’anima all’improvviso, quando si scopre essere mancanti il meditare radicalmente la nostra debolezza genera un altro sentimento: il dolore ontologico. È un sentire che si forma gradualmente nel tempo quando la mente si ferma meditare sull’esserci e radicalmente prende consapevolezza di tutta la nostra debolezza ontologica. Si fa esperienza quando si approfondisce la qualità della nostra condizione, per questo sapere è patire, perché significa imparare a vedere le cose per quello che sono, vederle da ogni lato. A venire in aiuto è proprio uno dei limiti della ragione umana: la tendenza che certi casi mostra distrarsi rispetto al reale e a sottrarsi dall’indagine in profondità di certe questioni. C’è come un inganno dentro la mente che ci fanno un vedere questo nostro intimo non-potere. L’emergere della coscienza della vita delle persone viene da uno strappo, lo strappo rispetto allo stare nell’aperto dell’essere. La consapevolezza della propria debolezza ontologica e cosa difficile da sopportare è come un macigno. Da lì il pensiero cerca di fuggire in tutti i modi, si inventa l’anima che sale in cielo oppure se cerca consolazione nella città del proprio essere ricordando che incombe su tutti la morte, equamente divisa tra buoni e cattivi. Ciò mette a tale prova l’animo umano più buona parte della filosofia antica dedica le sue riflessioni a trovare i modi per rendere tollerabile questa condizionatezza. Non è solo inutile ma anche dannoso quel sentire che vorrebbe opporsi all’ordine necessario delle cose perché si aggiungerebbe dolore a dolore. E saper accettare la qualità del proprio esserci e non ho niente da spartire con la rassegnazione. Il dolore negativo, il trovarsi condizionati da ciò che si può non controllare, e parte dell’udibile dell’esistenza. Ogni essere umano in quanto unico viene al mondo per incominciare e per questo il se la capacità di agire con l’azione con il pensiero. Per incominciare qualcosa di nuovo. E sapere che della condizione umana e proprio una certa inquietudine non vuol dire astenersi dal cercare momenti di quiete.sostenere il lavoro del vivere dedicare l’energia vitale a coltivare l’arte di esistere chiede di sapere resistere al dolore ontologico. Non è però per resistere che è un opporsi ma resistere che viene dal sapere accettare fino in fondo e drammatica qualità della propria immanenza nutrendo insieme il desiderio di trascendenza accettare ma continuando a coltivare il proprio desiderio, che è il desiderio di bene. Un’evidenza antologica è che tutti noi abbiamo necessità di cura, la cura è il primo fondamentale esistenziale. L’attività di pensiero trova la sua realtà nella formulazione di concetti. Arrivare a un’idea è un guadagno irrinunciabile ma proprio per la difficoltà di trovare idee capaci di dire tutto quanto l’essenziale di un fenomeno, può essere riduttivo e semplificante. Non si può evitare l’incompiutezza dei prodotti del pensare, accettare di stare nell’incerto significa stare nella misura della realtà. Riferimento essenziale per lo sviluppo del discorso che qui si va tessendo è la filosofia fenomenologica, sia nel suo nucleo specifico si è pensatori vicino a tale nucleo filosofico, sia perché conseguenza di un sentimento di un’inclinazione, sarebbe un’azione che emerge spontaneamente.ci sarebbero poi anche situazioni in cui l’azione di cura sarebbe lecito di una deliberazione pratica in cui interviene l’obbedienza ad un imperativo che la ragione riconosce essere in aggirabile, c’è un IO DEVO che non emerge spontaneamente. Chi fa il lavoro di cura mette in atto la cura etica che a tratti dell’agire mosso dal senso di dovere. L’aver cura generalmente a luogo in una relazione fra una persona che ha cura è un’altra che riceve cura, generalmente a simmetrica, cioè un polo della relazione si trova nella situazione di avere responsabilità e l’altro nella condizione di secondità, per questa ragione è una problematicità etica. Bisogna decidere se entrambe le tipologie di relazione possono essere definite cura: troviamo posizioni differenti c’è chi ritiene che la cura richiede una relazione faccia a faccia, in quanto sarebbe sempre specifica e relazionale, c’è invece chi sostiene che anche a distanza ci può essere cura ed estingue la cura in presenza parlando di caring for e cura a distanza come caring about. • Joan Tronto condivide l’opportunità di questa distinzione, il coinvolgimento diretto nella relazione di cura che definisce come prestare cura, care-giving, e prendersi cura di, caring for. Contesta anche la concettualizzazione di etica della relazione di cura perché sarebbe gravi dato un’interpretazione individualistica che impedisce alla cura di costruirsi come paradigma per la vita pubblica. Per lui la pura è una specie di attività che include ogni cosa che facciamo per conversare, continuare e riparare il nostro mondo in modo che possiamo vivere in essa nel modo migliore possibile. • Bowden sostiene che anche a distanza si possa attivare una cura qualitativamente uguale a quella in presenza. • Slote distingue tra communitarian care per indicare quella a distanza e personal care quella in presenza • Noddings: cura a distanza e presenza sono qualitativamente differenti: perché la cura che si attua in una relazione in carne ossa avrebbe una primarietà esperienziale in quanto l’impegno per una forma di cure in diretta viene considerata possibile se alla base c’è un’esperienza di cura diretta. Il meglio che ciascuna persona possa fare è impegnarsi su entrambi i versanti, aver cura direttamente di coloro che ci interpellano quando di fatto li incontriamo, e avere cura indirettamente per gli altri impegnandosi a realizzare quelle condizioni di contesto nelle quali la cura può fiorire. Pone il termine caring for avviene con le persone che fanno parte del micro-sistema ho vissuto in carne ossa come condizione per essere capaci di attuare un caring about con persone a distanza. • Heidegger: fa una distinzione tra prendersi cura e aver cura: il prendersi cura per oggetto le cose alla mano di cui ci occupiamo nella maniera dell’utilizzabile, l’aver cura è azione diretta agli esseri con il quale condividiamo l’esperienza del vivere. La cura è cosa che riguarda la vita, ha una consistenza temporale e può richiedere un tempo lungo, relativamente breve, di un istante. Proprio perché la cura a necessità di tempo si parla che di cura come accompagnamento. A mettere in moto un’azione di cura l’interesse per l’altro, avere preoccupazione per la sua condizione e a muovere ciò è il cogliere la sua situazione di necessità. Ciascuno di noi ha sempre bisogno dell’altro perché nessuna piena sovranità sull’essere perché sempre l’esserci dell’umano è vulnerabile. La preoccupazione per l’altro si esprime l’intensità diverse, si va dalla semplice disponibilità, al prendersi a cuore, si manifesta con diversi gradi di intensità che vanno dalla sollecitudine premura alla devozione. Winnicott parla di una madre normalmente devota per indicare quella capace di una buona cura per enucleare la specificità del lavoro di cura, Eva Kittay parla di devozione per il bene-essere degli altri. La devozione indica un atteggiamento di profonda dedizione all’altro, trova la sua ragione genere attiva nel pensare l’altro commento di valore. La deduzione è quel di più che può caratterizzare quelle situazioni in cui chi ha cura offre una disponibilità fuori dall’ordinario. Cura significa desiderare il bene di qualcuno e questo desiderio spinge un movimento verso l’altro. Rollo May suggerisce una connessione fra inclinazione e cura quando mette in relazione la cura con il tendere. C’è però un’inclinazione pericolosa un’inclinazione retta: quella pericolosa mette a rischio se e l’altro, è quella in cui si supera quell’angolo di sporgenza e metà rischio la nostra capacità di tornare su di noi, quella retta è quella in cui si tende verso l’altro senza mai perdere l’equilibrio. Il problema è sempre quello di trovare la giusta misura. Ti ho cura quando ci si occupa di qualcosa di essenziale, significa identificare rispondere ai bisogni. Nella relazione educativa si tratta di soddisfare i bisogni dove l’altro non è in grado di agire e allo stesso tempo di metterlo nelle condizioni di apprendere a soddisfarli in modo autonomo. Invece la relazione terapeutica chiede in genere a chi a cura di farsi carico totalmente delle azioni necessarie a soddisfare i bisogni del paziente. Identificare i bisogni non è però facile. • J. Tronto E afferma che il significato attribuito all’espressione soddisfare adeguatamente i bisogni dipende dalle circostanze culturali, tecnologiche storiche in cui viene messo in atto l’azione di cura. • Noddings ritiene che solo quando siano stati individuati i bisogni essenziali si pongono le premesse per una reale cultura della cura. Distingue fra bisogni espressi da chi chiede cura e da quelli inseriti da chi a cura. Sembrerebbe più facile agire in presenza di un bisogno esplicitato dal soggetto ma non è così poiché si verifica situazioni in cui il soggetto scambia per bisogni essenziali è qualcosa che tale non è. La questione rispetto ai bisogni non consiste nel distinguere quelli essenziali da quelli aggiuntivi ma di capire anche quando e come rispetta una situazione di bisogno dell’altro si realizza un’autenticazione di cura. Difficilmente individuare un criterio geometricamente preciso per orientare la pratica di cura è possibile, si è costretti a una valutazione contestuale. La cura e l’educazione non è solo accogliere facilitare la soddisfazione di bisogni oggettivi, ma decidere se qualcosa è un bisogno vitale e agire in modo da far percepire all’altro non solo l’esistenza ma anche l’irrinunciabilità. In generale il lavoro di cura è problematico, la pure educativa è sempre rischio che chiede all’educatore di sorvegliare criticamente ogni sua decisione. A caratterizzare l’agire dell’essere umano è l’intenzione e dal momento che la cura qui definita la pratica è fondamentale individuare l’intenzione che la muove. E’ necessario considerare ontologicamente l’esserci per capire se c’è una intenzionalità primaria che orienta l’essere umano. Ogni cosa tende al bene di stare sto, allora si può affermare che il movimento dell’esistere è mosso dall’intenzione di cercare il bene. Egli precisa che il bene di cui va in cerca l’essere umano è chiamato eudaimonia, cioè una condizione dell’anima secondo virtù trovarsi un tale condizione significa vivere facendo esperienza del bene. È il nostro essere mancanti ed essere che ci rende esseri che desiderano e temono. Che la cura sia relazione con la ricerca di ciò che rende buona la vita è la tesi sviluppata da Platone, il filosofo greco si occupa anche di individuare l’essenza della cura e la cura come arte di servire a qualcosa di preciso, questo qualcosa è il giovamento che produce chi è rivolta l’azione di cura.quando una persona ritiene di mettere in atto azioni di cura dovrebbe essere in grado di fornire sempre le ragioni che sono alla base del suo agire, tali ragioni devono essere tali da convincere il suo interlocutore a orientare il suo stare nella relazione con l’altro c’è l’intenzione di favorire il ben- essere-ci dell’altro. L’aver cura e pratica relazionale guidata dall’intenzione di procurare il benessere dell’altro. Se la cura e poi dimensione ontologica primaria è l’intenzionalità primaria dell’essere alla ricerca del bene, allora l’intenzione che guida una buona azione di cura non può che essere alla ricerca di ciò che fa bene al vivere, ciascuno di noi cerca il bene cioè una vita buona. La pratica di cura è guidata dall’intenzione di facilitare l’emergenza di una buona qualità di vita e tale ricerca non può essere inteso in senso solipsistico. Aristotele suggerisce di considerare non solo ricevere ma anche il fare il bene fra le cose piacevoli. La densità etica del lavoro di cura Cosa e come fare perché all’altro arrivi del bene? Cercare una risposta presuppone il meditare in profondità su cosa significhi procurare ciò che fa bene. Nel momento in cui definiamo la pratica di cura in questi termini essa acquisisce uno statuto di eticità. Promuovere il benessere, procurare beneficio, assumono saputo etico. Platone afferma l’idea del bene costituisce il sapere più importante perché solo attingendo a quesiti e si può capire quali sono le cose giuste, utili e giovevoli. L’idea di bene costituisce quel chiaro di cui c’è bisogno per sfuggire al rischio di ciò che fa più male all’esserci ovvero la cecità spirituale.la cura si attualizza in azioni fatte di parole o di gesti, il difficile sta nel trovare quelli giusti. A costituire un problema è però il fatto che, come afferma Socrate, la mente umana non è accessibile una idea chiara del bene. L’idea di bene è difficile da vedersi, nessuno è dato coglierla nella sua essenza, accedere alla misura definitiva. Il concetto di bene destinata essere sempre oltre la possibilità di una piena comprensione, mantenersi per la mente umana una zona di mistero. In questo ulteriore senso la vita è mancante poiché manca con certezza adesso sapere il primo di cui avrebbe bisogno. Con Senofane si può dire che “l’evidente verità del bene alla ragione umana non è accessibile, nessun uomo la vista e la conosce se ancora gli capitasse di dire verità compiuta in sommo grado, pure lui stesso non se ne avrebbe sapere”. Il bene si profila comuni dea che fai esaminata all’infinito. Ursula Wolf attribuisce a Kant e l’abbandono da parte della filosofia di questa domanda. A partire dalla tesi che alla domanda su cosa sia la vita buona non c’è la possibilità di trovare una risposta fondata, Kant stabilisce che la domanda etica accessibile il ragionamento umano debba essere più ristretta e la configura come domanda sulla retta convivenza. Il lavoro del pensiero sul bene non trova aiuto nella filosofia morale contemporanea poiché tende a concentrarsi sulla questione della giustizia piuttosto che a prendere l’esame l’idea di una buona qualità di vita. Nel dibattito contemporaneo suppone l’etica della cura l’etica della giustizia e definisce l’etica della cura qualcosa di debole che non può orientare la vita pubblica, ma evitare di occuparsene e come decidere di non fornirsi una mappa quando si entra in un territorio sconosciuto. È l’esperienza vissuta di chi si muove nel mondo con l’attenzione libertà dell’aver cura a rendere ineludibile la questione del bene che si pone non solo come essenziale ma anche come retoriche. In questo senso la filosofia della cura può dare nuova sostanza viva e creatrice di nuovi modi d’essere. +1 domanda importante per la vita più diventa difficile, meditare su cosa sia il bene risponde alla necessità di una vita piena di significato e il bisogno di trovare i criteri di orientamento pratico. Il bisogno per la vita di sapere in cosa consiste il bene è tale che non è possibile evitare di porre questa domanda, il problema consiste nel trovare il modo per stare consenso dentro la domanda. Quando Glaucone, consapevole di quanto ripida sia la domanda sul bene, azzarda l’ipotesi che pur sapendo il limite del proprio pensare ciascuno comunque posso dire ciò che pensa, Socrate garbatamente lo rimprovera dichiarando che le opinioni senza vera scienza sono tutte brutte. Quando si evita la fatica della ricerca rigorosa si possono vedere solo idee storte mentre solo la ricerca seria consente di udire cose luminose belle. La questione prima per la vita, e per l’etica che del senso della vita si stesso: c’è bisogno di altri e l’altro è bisogno di me.e lo scambio continuo di cura che rende possibile la vita, in tale senso la cura è una necessità dell’esserci.obbligarmi all’altro c’è la presa d’atto della sua vulnerabilità e fragilità qualcosa che innanzitutto sento dentro di me. Elena Pulcini parla di potenza della debolezza, perché nella debolezza dell’altro c’è un appello inconfutabile alla responsabilità. Sapere che tutti noi siamo deboli, sentire la propria debolezza e capire che l’altro nella mia stessa debolezza, perché solo sapendo che siamo tutti fragili parlerà male che si può avvertire l’attenzione per l’agire dell’altro, in questo senso il comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso” e non c’è la verità prima dell’etica. Cogliere la debolezza dell’altro è importante, tuttavia, la percezione della qualità ontologica dell’esistenza non basta generare una concreta responsività verso l’altro, la disposizione alla responsabilità si genera quando nell’altro si coglie una condizione di bisognosità. Nel momento in cui si assume tale condizione dell’altro come quel dato di realtà che chiama la responsabilità, è necessario fare attenzione a non pensare alla responsabilità solo in relazione alla situazione di difficoltà dell’altro. A generale la disposizione ad assumersi la responsabilità di esserci per l’altro un orientamento preciso alla vita della mente: la passione per il bene. Sapere la parità della situazione dell’altro non posso decidere di essere responsabili per l’altro, il sentirsi toccati dall’altro. Non basta un certo tipo di pensiero ontologicamente consapevole, esso deve essere anche esistenziale mente sensibile. Sentire la qualità del sentire dell’altro può prendere forma empatia o della compassione, quando il bisogno dell’altro è positivo prende la forma dell’empatia (bambino che sta imparando a leggere), quando un bisogno difficile prende la forma della compassione (immigrato senza casa e lavoro). La vulnerabilità dell’altro stimola il sentimento emotivo, mobilita il nostro lato emotivo, fornisce dunque un fondamento affettivo è una motivazione all’agire responsabile, la dove sono in gioco questioni dal forte valore etico evidente il ruolo giocato dai sentimenti nella vita della coscienza. • Per Jonas questa attenzione si spinge fino a fare dell’amore un importante sentimento morale, l’amore sarebbe fondamentale per l’etica familiare e per quella politica, perché sia la cura familiare sia la cura per il mondo sarebbero accomunati dall’amore per l’oggetto, l’amore per niente i miei per la comunità • Pulcini considera l’amore è un elemento costitutivo della cura dell’altro • Murdoch secondo la quale la filosofia morale può prendere consistenza solo se assume come centrale il concetto di amore Nella nostra cultura alla parola amore, tuttavia, viene attribuito un significato tale da non poter considerare il fenomeno che indica come qualcosa che sta in una relazione essenziale con l’essere. L’importanza della dimensione noetica5 non deve trascurare il lato affettivo, il sentire non è un qualcosa che si aggiunge a pensare ma una parte strutturante. La compassione emerge se alla base c’è l’idea di giustizia, E questa idea che mi consente di vedere la realtà in un certo modo e valutare se è buona o ingiusta, vedendo l’ingiustizia sento compassione. Sentire compassione possibile se guardo l’altro con uno sguardo impregnato dall’idea che l’altro è debole come me, è fragile e vulnerabile. Dove c’è il pensare c’è il sentire, così come la vita spirituale è intimamente connessa con quella corporea, così la vita del pensare un tutt’uno con il fluire della vita affettiva. L’indignazione non è un’emozione razionale ma è conseguente al valutare la situazione dell’altro come ingiusta implica il tenere in alta considerazione il suo benessere. Decisivo è saper non solo vedere nell’altro la sua debolezza ontologica ma sapere conoscere quel valore che lo rende sacro, inviolabile. Sì sentire e pensare solo un tutt’uno allora per sentire l’altro c’è necessità di un certo modo di pensare l’altro. Questa visione integrata dei diversi piani dell’esserci concorre a dare corpo una filosofia della cura sia sostenuta da un mondo differente di concepire la ragione, una ragione 5 Studio correlazioni dell’universo della mente, “sesto senso” che si tiene in contatto con la realtà immersa nella materialità della vita, che non teme di sentire perché sa di non poter pensare correttamente senza sentire la qualità delle cose. Per Levinàs la responsabilità salterebbe il passaggio di mediazione della ragione perché l’altro commento lo spazio vitale ti obbliga essere responsabile, questa obbligazione non sarebbe la conseguenza di una delezione azione razionale condotta in questo sentirsi immediatamente responsabili di fronte all’altro c’è un paradosso conseguente all’idea secondo la quale noi ci troveremo obbligati ad assumere la responsabilità senza che questo obbligo sia l’esito di una presa di posizione consapevole. Con tale concettualizzazione l’autore ci scombina il modo di intendere la responsabilità come un’apertura dell’esserci che sarebbe l’esito di un atto deliberativo. La radicalità della sua prospettiva consiste nel situare la responsabilità fuori dalla zona della coscienza. Anche Noddings parla di obbligazione alla responsabilità, intendendo con questo termine sentire nell’intimo un “TU DEVI” che è però risposta al bisogno di cura che si sente nell’altro. Maria Zambrano, e la filosofia spagnola, si invitano a considerare che la realtà non è solo quella con la ragione riesce a stare e analizzare, che c’è dell’altro e questo altro al modo ordinario di concepire la vita della coscienza risulta difficile da intercettare, ma quando viene adombrato mostra la coscienza come isola di luce in mezzo alle tenebre. Chiusi dentro questo sguardo razionalizzante si fatica ad accettare di pensare che nel reale ci sia dell’invisibile che non si vede che non si fa vedere, che però agisce sul nostro modo di esserci in maniera viva E intima. Quello che percepiamo non è tutto quello che accade, non esaurisce tutta la realtà, c’è dell’altro e questo altro segue modi non razionalizzate di muovere il nostro essere. Murdoch invita a mettere in discussione l’idea di un comportamento etico guidato sempre dalla razionalità, l’agire etico non è guidato da intenzioni cristalline capace di mettere in moto il ragionamento è chiaro che rigorosamente costruito. Zambrano riconosce che pur trovandosi spesso nella condizione di essere soggetti passivi di fronte una realtà che cede ogni sforzo razionalizzante; tuttavia, questo non significa che non ci sia un soggetto che pensa e che decide sulla base di attente valutazioni. È vero che le persone capaci di importanti gesti di cura, che sanno assumersi forme e livelli di responsabilità percepibili come fuori dall’ordinario, quando sono invitato a spiegare il loro agire forniscono risposte talmente semplice da far supporre che tutto accade secondo un ordine che rimane misterioso. Ma le risposte sintetiche, povere, se valutate secondo la misura del pensiero sistematico non indicano che non c’è pensiero, che non c’è riflessione, che tra l’obbligo del che l’altro comando è la mia risposta non c’è nulla se non la passività radicale all’ingiunzione dell’altro. Il pensiero c’è, ma è semplice. È semplice nel senso che è essenziale ed essenziale perché sa dove sta l’essenza delle cose. Tali persone sanno vedere nell’altro il bisogno, vedono e pensano la debolezza dell’altro, così come a preoccuparla in genere è il benessere dell’altro e di tutto questo sono pienamente consapevoli. La decisione eticamente orientata non ha bisogno di raffinate retoriche; invece, bisogno di una percezione raffinata della realtà, un discernimento giusto paziente è un’esplorazione di ciò che si trova di fronte. Un pensiero che si tiene la dove va nel senso dell’esserci, non è guidato da artisti sistemi filosofici ma dalla passione per il bene dell’altro. Nella cura ci confrontiamo con un pensiero essenziale, nel senso di un pensiero semplice che è tale perché si tiene all’essenza delle cose. Murdoch: non c’è solo un pensiero morale che funziona sulla base di sistemi, ma parla di un pensiero situazionale. Il pensare che nutre la cura diverso da quello che usa il filosofo. tenersi con il pensiero in una relazione intima con le cose nel loro accadere. Solo osservando quello che gli altri fanno ascoltando quello che dicono si può cogliere che c’è dell’altro oltre i nostri modi di concepire la vita. Ma non basta il pensiero, il sentirsi responsabile diventa un principio ad essere dinamico quando si sente la passione per il bene. A imporsi sulla mente non è il volto dell’altro ma il bisogno di bene che si sente nel suo sguardo, questa è la qualità di una ragione sensibile e vitale. Sentire sapere l’essenziale mi obbliga a rispondere alla chiamata esserci per l’altro. Nella cura l’azione etica risponde e nel senso buono dell’agire non sta nel movimento non vincolato ma in qualcosa di simile all’obbedienza: obbedire al reale nella sua essenziale necessità. Sono applicata dalla necessità non perché rinuncia alla libertà ma perché accetta di stare alla necessità e lo accetto perché ne so il valore. L’aver cura chiede di obbedire a una necessità, non è privazione della libertà ma espressione di un ordine diverso della libertà: stare alla necessità sapendo che lei è in gioco l’essenziale del bene. Quando si obbedisce e si dà senso e l’assenso è un atto della ragione, implica un atto cognitivo consapevole, sempre si pensa è inevitabile. Per Murdoch l’essenza dell’eticità sta proprio nel tenere lo sguardo sulla realtà. L’agire morale è in relazione con la coscienza ma la conoscenza del particolare che si fonda su una percezione raffinata di quello che accade all’altro e che è possibile solo a seguito di un’esplorazione attenta adesso spazio vitale, afferma il ruolo morale dell’attenzione alla realtà, questa è per Murdoch la virtù prima. Questo realismo è epistemologico e anche etico, non esaurisce l’eticità ma piuttosto la fonda. Se la teoretica è un agire che sta reale, allora si può ipotizzare che alla radice dell’eticità ci sia una virtù passiva, quella che sia attualizza come attenzione realistica in quanto accoglie la qualità del reale. Murdoch: sostiene che ciò che siamo in realtà sembra più simile a un oscuro sistema di energie da cui emergono tratti scelte e atti visibili, in modo espresso e poco chiari, afferma inoltre che la filosofia morale non può non affrontare la seguente domanda: è possibile individuare tecniche di purificazione e riorientamento di un’energia che naturalmente egoista, tecniche che siano in grado di farsi agire nel modo giusto allorché si presentano momenti di scelta? Si può ipotizzare che a dare consistenza al flusso cognitivo ci siano anche idee che, acquisite in riflessivamente, strutturano un sistema che agisce silenziosamente. Il tessuto di concetti eticamente rilevanti che fanno da sfondo ai processi deliberativi si costruisce con ragionamenti intenzionalmente sviluppati ma anche in modo irriflessivo. Una possibile risposta va cercata attraverso un’analisi dei vissuti esperienziali così come sono descritti da coloro che si possono definire testimoni di una buona pratica di cura. Quando questi raccontano del modo in cui hanno maturato la visione della vita che le orienta nell’agire quotidiano, generalmente attribuiscono una particolare rilevanza all’aver avuto esperienza diretta del modo di agire di persone impegnate nella pratica di cura. L’azione prende significato quando è accompagnata dal discorso che di essa diciassettenni scorso la forza di trasformare il reale attivando la coscienza di chi lo ascolta quando si declina secondo una modalità non assertiva ma quasi dubitativa. Simone Weil dice che generosità e compassione sono inseparabili. Agisco per l’altro quando so sentire la qualità del vissuto dell’altro, aver cura e dare il tempo perché il tempo è vita dare tempo e generosità. La cura che si prende a cuore l’altro esce dal perimetro del calcolo, del negoziabile. Sia cura per l’altro perché questo agire si sente la necessità, qui sta la qualità donativa della cura. Si può dire essere costitutivo della cura l’elemento di gratuità, perché l’aver cura per l’altro si concretizza nel produrre una forma di beneficio, il beneficio sta nel dare qualcosa un altro senza cercare dall’altro nulla per sé. Nella cultura cristiana il dono, il dare per migliorare la qualità della vita dell’altro è azione basilare. Nell’agire gratuito della cura non c’è perdita di qualcosa ma un guadagno di qualcosa di essenziale, un guadagno di senso, sta nel pensare di aver fatto ciò che è necessario fare. Questo sospendere il tempo per sedare il tempo agli altri accade però secondo la giusta misura: il fermarsi per aiutare l’altro comporta solo una pausa nel piatto, non metà rischio i progetti personali. L’agire donativo occupa momenti dell’esistenza, non è mai totalizzante. I propri limiti e da lì cercare la giusta misura dell’esserci porta a chiamare in causa un altro il coinvolgimento del terzo fa nascere la comunità. Il attualizzano alcune posture dell’esserci: l’assunzione di responsabilità verso l’essere dell’altro, che è orientata da premura per l’altro, il sentire reverenza per l’altro, il nutrire la disposizione a condividere l’essenziale e il coraggio nell’intraprendere iniziative. La ricettività dell’aver cura si esprime essenzialmente nell’attenzione, l’attenzione non è altro che la ricettività portata all’estremo nel senso che è un disporre la mente ricevere il massimo di realtà possibile. Per questo si attua come concentrazione deliberata intensiva sul fenomeno intenzionato perseguendo un modo limpido di vedere i segni della realtà. Per agire bene la relazione di cura necessario acquisire conoscenza di quello che accade e l’attenzione come concentrazione sull’esterno consente di acquisire conoscenza sulla realtà. Il coinvolgimento nel fare, spesso frenetico e faticoso, rende arduo trovare il tempo per prolungati momenti di attenzione; eppure, anche i frammenti sono importanti perché a condizione che non siano casuali ma frutto di una disciplina l’attenzione per l’altro. L’attenzione come gesto di cura non è un semplice guardare ma un’intensa concentrazione sull’altro. L’attenzione accompagna ogni momento della cura. L’attenzione si concretizza nella disposizione a cogliere la realtà nei suoi dettagli perché attraverso un analitico sguardo sulla cosa che si può cogliere la sua complessità.ma il prestare attenzione cosa faticosa, l’attenzione è una pensione, uno sforzo, perché per accadere come piena concentrazione sull’altro richiede la messa in parentesi dell’io. Il prestare attenzione è difficile anche perché, se è vero che agli esseri umani non è dato di sopportare troppa realtà, quando la realtà il volto del negativo, ad esempio alla sofferenza, la difficoltà del prestare attenzione aumenta esponenzialmente. Proprio per questa nostra non capacità di sopportare troppa realtà in certi momenti si cerca rifugio nell’immaginazione. Di fronte a una situazione in cui l’altro soffre un dolore che sembra non trovare una dimensione sostenibile non è facile continuare a prestare attenzione a quello che accade realmente tacitare la tendenza all’Evita mento e alla non resistenza. Tenere lo sguardo attento sul dolore richiede resistenza al cuore e lealtà alla mente, tuttavia, per dare un giusto orientamento all’attenzione e non basta tenere la mente nella realtà, c’è bisogno di tenere lo sguardo su ciò che costituisce il principio dell’ordine dell’essere ossia sull’idea di bene. Entrambi i piani del reale mettono in scacco l’attenzione: non solo come diceva Platone il mondo intelligibile non può essere contemplato allungo, ma neppure la realtà concreta che continuamente ci chiede di capire per prendere la giusta decisione. Platone parla di conversione dell’anima che si realizza nel distogliere lo sguardo dalle cose sensibili per porgerlo alla sola realtà da lui considerata degna di valore cioè quella delle cose intellegibili. Il prestare attenzione si attualizza non solo con lo sguardo ma anche con la parola. È un dato fenomenologicamente evidente che il nostro esserci in quanto relazionale è originariamente orientato secondo il modo dell’ascoltarsi l’un l’altro. L’ascoltare implica che l’altro prende la parola e l’ascolto diventa azione di cura quando sta restituire all’altro la considerazione per quanto sta dicendo noi. Ascoltare viene dal greco odo e percepisco, ma anche imparo e obbedisco. Ascoltando l’altro si impara, si impara dalla sua esperienza; quindi, il tempo adatto all’ascolto alla fine è un tempo carico di senso anche per sé poiché l’ascolto dell’altro provoca la postura della presenza riflessiva sui propri vissuti. Se assumiamo l’idea ontologica secondo la quale l’essere umano può essere definito come l’ente che è il linguaggio, allora il prendere parola e azione umanamente rilevante e poiché l’agire con cura nella sua essenza considerazione per l’altro, ascoltare il dire dell’altro significa comunicare la nostra considerazione per egli. Quando Heidegger afferma “linguaggio la possibilità d’essere dell’esserci” enuncia in un linguaggio filosofico ciò che ciascuno di noi sente nel vivo dell’esperienza: quando pronunciamo parole per dire qualcosa di essenziale sentiamo di esporsi al mondo e questo fa avvertire la necessità che l’altro presti un ascolto considerante al nostro dire che è un dirci. Dopo l’ascoltare il silenzio essere importante è il gesto della parola con cui chi a cura mostra di aver accolto il dire dell’altro interviene con parole di comunicazione con l’altro, e nelle parole che si fa presente l’essenza dell’esperienza. Dire che noi siamo un colloquio è diverso dal dire semplicemente che l’essere umano a un linguaggio, il colloquio non è il semplice pronunciare parole ma il dire parole fra due; dunque, parole che fecondano perché fecondate allora volta dallo stare relazione. L’insensibilità del nostro essere soggetti plurali e avere la parola per dirsi null’altro è qualità ontologica, già chiaramente iniziata da Aristotele. Ma come deve essere la parola che cura? Una parola semplice senza retorica, una parola che sta nell’ordine della verità, che dice le cose come stanno. La parola che pure quella capace di dare corpo un discorso ospitale, quello che sa sciogliersi da quei concetti che lo imprigionerebbe nelle logiche assertive. Ma il comunicare considerazione non sempre richiede la parola, in certi casi basta esserci stare lì, sensazione, ma starci. La comprensione che concorre ad utilizzare una buona azione di cura può declinarsi su due differenti livelli: può configurarsi come un atto teoretico che interpreta la situazione dell’altro per aiutarlo a comprendere se stesso ma può consistere anche nell’aiutare l’altro a progettarsi nelle sue possibilità più propria. Non è però facile acquisire conoscenza dell’altro, delle sue condizioni del suo modo di interpretare l’esperienza, non solo perché il cuore umano è un enigma ma anche perché l’altro non sempre sente di potere rilevarsi. Una buona conoscenza si fonda su un’onesta visione delle cose la quale richiede una forma di obbedienza alla realtà: la mente è capace di obbedienza alla realtà quando vicine fenomeni senza precomprensioni, con un’attenzione ricettiva rispetto alla forma con il quale il reale si rivela. Conoscere l’altro in modo adeguato richiede l’attivazione di atti cognitivi che sappiano seguire il profilo dell’essere dell’altro raccogliere la dati che il suo rilevarsi ci mostra senza deformarla. Non c’è comprensione se non c’è la capacità di sentire il sentire dell’altro, l’atto del comprendere sempre emozionalmente situato. Un’efficace responsività all’altro comporta la capacità di sintonizzazione emotiva che va oltre il mero riconoscimento razionale della situazione in cui l’altro si trova, sentire e avere sensibilità per l’altro. Secondo Levinàs la sensibilità esposizione all’altro, lo stare esposti indica una condizione di passività e anche di vulnerabilità. Per agire con cura indispensabile la capacità di sentire l’altro, e sentire il sentire dell’altro è empatia cioè la capacità di cogliere l’esperienza vissuta estranea. Essere empaticamente presente comporta entrare in uno stato di risonanza emotiva con l’altro, quella risonanza che mette l’altro nelle condizioni di sentirsi sentito. Per Stein l’empatia non è “unipatia”, cioè non provoca una situazione di fusione ontologica, non mi fa essere un tutt’uno con l’altro, piuttosto mi consente di situarmi presso l’altro. La sua visione che sostiene non essere possibile verificarsi di un perfetto ricoprimento dell’altro E cioè che i due io possono diventare uno solo. L’accadere di sconfinamenti reciproci da parte di soggetti in relazione restituisce una visione emotivamente sostenibile dell’empatia. L’empatia concepita comunque-sentire l’altro genera una situazione che si può definire di separatezza intimamente relazionale. Si può enfatizzare con il benessere ma anche con il malessere, con vissuti positivi come la gioia come cattivi come il dolore. Compassione sentire l’ingiustizia del dolore dell’altro, sentire qualcosa che fa male. Con compassione si traduce il termine greco eleos per il quale si usa anche il termine pietà, Aristotele dice che indica una forma di sofferenza di fronte alla visione di un male manifestamente rovinoso doloroso che ricade su una persona che non lo merita, o male che anche noi possiamo attenderci di subire e che sembra prossimo. Si può parlare di realismo della compassione perché sentire il sentire dell’altro aiuta a cogliere la qualità del reale. Il co-sentire non hai immersione nel mondo dell’altro ma capacità emotive e cognitive insieme di lasciar risuonare dentro di sé la qualità del suo vissuto. Il modo di esserci richiesto per stare in una relazione di cura non è uno stato di fusione con l’altro ma l’essere in contatto. Proprio per i rischi connessi alle situazioni di coinvolgimento emotivo, molti sono i dubbi che vengono manifestati nei confronti di una teoria che valorizza la vicinanza emozionale nelle relazioni di cura e in molti casi si preferisce pensare a una formazione è anaffettiva degli operatori, basando tale opzione sull’ipotesi che per operare correttamente convenga tacitare i sentimenti. Considerare la vita affettiva un ingombro significa però rimanere prigionieri del mito modernista e positivistico di una mente purificata da ogni sentire. La qualità emozionale di una relazione essenziale che è evidente fin dalla nascita le prime relazioni di cui si fa esperienza sono fondamentali nel senso che la qualità intima della nostra postura esistentiva viene da lì. E fiducia e saper accettare l’altro, cura riesce a comunicare fiducia e l’altro nel suo proprio esserci. Accettarsi per quello che si è concilia con la vita fa trovare all’anima un senso di rilassatezza interiore. Saper accettare non ho niente da spartire con la rassegnazione, non significa rinunciare ad altro ma realisticamente sapere che si deve partire da quello che si è. Avere cura significa rispondere positivamente ai bisogni dell’altro, uno di questi bisogni essere protetti da possibili situazioni rischiose. Secondo Noddings una delle qualità essenziali di una buona pratica di cura è l’impegno predisporre le condizioni con le quali l’individuo non arrivi a danneggiare se stesso. Certe azioni normalmente definite di cura possono essere dannose, Noddings parla di forme patologiche di cura. Anche in questo caso la questione consiste nel trovare la giusta misura dell’essere con e per l’altro. La responsività non va confusa con il sostituirsi all’altro, va intesa come il rendersi disponibile a mettere in atto tutti quei dispositivi cognitivi, emotivi e pratici che mettono l’altro nelle condizioni di occuparsi di sé. La vicinanza discreta è quella che fornisce tutto il sostegno possibile all’altro senza però ridurre lo spazio del suo libero movimento. Aver cura dell’altro implica dunque l’aver cura delle parole che si pronunciano perché nella relazione possono essere generativa gli spazi di respiro. La delicatezza può essere però un modo di porsi che tiene l’altro riguardato ma distanza, si fa invece fonte viva di cura quella delicatezza che espressione di tenerezza. Secondo Bubeck si può parlare di cura solo quando l’altro manifesta hai bisogno se non posso disfare da sé, in caso contrario quello che ci viene richiesto al servizio. Agire con fermezza significa saper dire di no quando lascia stare le richieste dell’altro. Ci possono essere anche lunghi periodi di tempo in cui chi riceve cura e rifiuta il nostro modo fermo ti sta relazione, in questi casi a chi a cura si richiede l’esercizio, oltre che del coraggio di prendere decisioni difficili, anche della virtù della pazienza. Il lavoro di cura è faticoso, chiede molte energie cognitive, emotive, in certi casi fisiche e organizzative. La ragione sta nel fatto che non solo rende maggiormente vulnerabili ma chiede di operare in un contesto di grande incertezza. Poiché gli effetti delle azioni umane, anche se orientati da una buona intenzione, sono imprevedibili in molti casi reversibili il lavoro di cura chiede di vigilare su quello che si fa, valutando attentamente cosa accade all’altro quando i nostri chakra se parole entra nel suo spazio vitale. Il difficile che l’agire con responsabilità è che la vigilanza dovrebbe essere continua. Proprio per la qualità imprevedibile dell’agire secondo H. Arendt È importante sapere che si può essere perdonati. Il trovarsi in una posizione a zero previdenziale necessità di una vigilanza continua sul proprio modo di stare nella relazione di cura che si attualizza nella forma di un’autoanalisi critica sia del proprio pensare che del proprio sentire.