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Filosofia della cura (Mortari) - riassunto primo capitolo, Sintesi del corso di Filosofia morale

Riassunto del primo capitolo del libro "Filosofia della cura" di Luigina Mortari

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 23/12/2022

AliceAyres
AliceAyres 🇮🇹

4.5

(63)

26 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Filosofia della cura (Mortari) - riassunto primo capitolo e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia morale solo su Docsity! LUIGINA MORTARI – FILOSOFIA DELLA CURA 1- RAGIONI ONTOLOGICHE DELLA CURA PRIMARIETÀ DELLA CURA La cura risulta ontologicamente essenziale per la vita, perché risponde alla necessità di bene e a quella di difendersi dalla sofferenza, protegge la vita e coltiva le possibilità di esistere. È l’esperienza di ciò che coltiviamo, di ciò di cui ci prendiamo cura, a strutturare il nostro essere. All’essere umano non è dato di vivere con la leggerezza del vento, poiché fin dalla nascita è appesantito dal compito della cura della vita, di sé e degli altri, che occupa la vita intera e riempie ogni attimo di tempo. Anche disponendo di tutte le risorse materiali necessarie alla vita, ci sarebbe bisogno di cura; in quanto mancanti, infatti, siamo strutturalmente dipendenti da altri. In quanto ne facciamo esperienza quotidiana, diamo la cura per cosa scontata, e così ad oggi risulta mancare un’adeguata e rigorosa analitica della cura. Per prima cosa si tratta di verificare se la condizione umana presenta qualità tali da rendere necessario il prendersi a cuore l’esistenza. Esseri mancanti d’essere A noi esseri umani non è dato di essere tutt’uno con il mondo, e questo stato di mancanza è testimoniato dal nostro trovarci a desiderare sempre una realtà piena che mai ci appartiene. La mancanza di essere si coglie nell’enigmaticità della nostra origine e della nostra fine, nel fatto che nasciamo senza una forma del nostro esserci e con il compito di modellarla nel tempo senza che ci sia chiaro come poterlo fare bene, si coglie nel nostro essere esposti alla possibilità di non realizzare il nostro essere possibile. Per questo in ogni attimo può aprirsi sotto di noi la voragine del nulla, il rischio di non venire ad essere. A differenza degli altri esseri viventi, noi questa esposizione al nulla e questa mancanza di sovranità sulla nostra vita la sentiamo pesantemente. Il venir meno delle cose buone, quando ne veniamo privati, nientifica il nostro essere ma senza liberarci dall’essere, costringendoci a sopportare tutto il dolore che ne consegue. È questo il paradosso dell’esistenza: sentire il proprio essere fragile, senza disporre di alcuna sovranità sul proprio divenire, e insieme trovarsi vincolati alla responsabilità di rispondere alla chiamata di dare forma al proprio essere. LE DIREZIONALITÀ DELLA CURA La cura che conserva la forza vitale L’inconsistenza ontologica rende bisognosi d’altro. La vita ha continuamente bisogno di qualcosa e senza questo qualcosa essa viene meno. Questo continuo dover procurarci cose costituisce una necessità inaggirabile. La cura della vita si manifesta dunque innanzitutto nella forma del procurare cose che alimentino e conservino il ciclo vitale. Tuttavia, può capitare che questa preoccupazione per la vita si traduca in un eccesso, in un accanimento nell’accumulare ciò che potrebbe essere utile per rispondere all’angoscia del sentirsi mancanti. Bisogna dunque trovare la giusta misura del nostro avere cura. La cura che fa fiorire l’essere Siamo irrevocabilmente chiamati al compito di dover divenire il proprio poter essere, rispondendo positivamente all’impegno di esistere e cercandone la migliore forma possibile. L’essere umano è un nucleo di potenzialità che per attualizzarsi chiedono di oltrepassare ciò che è già per aprirsi all’ulteriore, perché quella manchevolezza che caratterizza la vita umana è anche allo stesso tempo apertura all’essere, a modi di essere possibili rispetto ai quali decidere il come del proprio essere. Dunque, assumere l’obbligo della trascendenza significa prendersi a cuore il tempo della vita, consentire all’essere di nascere all’esistenza; ed altrettanto necessaria della cura che risponde a procurare i beni necessari per vivere, è la cura che è dedizione a cercare la migliore qualità di vita possibile. Aver cura di sé per cercare la forma migliore del proprio poter essere significa cercare un orizzonte di senso, fare della vita un’unità viva, vivere secondo un progetto. Il progettare è proprio dell’essere umano, il quale è pur consapevole della non sovranità sull’accadere del proprio divenire. Platone utilizza il termine epiméleia per indicare quell’aver cura che coltiva l’essere per farlo fiorire: non è risposta all’urgenza di sopravvivere, ma al desiderio di trascendenza. Quando si ha avuto esperienza di una cura che ha nutrito l’anima di energia vitale, allora si sa stare di fronte all’angoscia senza che questa ci travolga. L’assenza di cura, invece, rende più deboli, più fragili davanti all’annichilimento comportato dal dolore. Aver cura è togliere via per quanto è possibile il peso della sofferenza dell’altro e trovare un ritmo buono per camminare insieme nel tempo. Aver cura delle ferite dell’esserci La terapia è la cura chiamata a lenire la sofferenza, è il tipo di cura che ripara l’essere nei momenti di massima vulnerabilità, quando il corpo o l’anima si ammala. In inglese si usa cure quando ci si occupa del paziente solo dal punto di vista dell’organismo, care quando invece si prende in considerazione anche tutto il processo di elaborazione del significato della malattia per quel paziente. La malattia impone all’evidenza tutta la nostra drammatica debolezza ontologica. Se la salute, per quanto rimanga intrinsecamente arduo il lavoro dell’esistere, consente tuttavia di percepire l’essere come apertura di possibilità, nella malattia, invece, si percepisce l’essere come impossibilità di scelta, di sottrarsi, si fa esperienza di una radicale passività, cosa che genera angoscia. La malattia fa sentire la persona diventare una cosa in potere della vita biologica e degli altri che decidono per lei. Tuttavia, non si diviene un oggetto inerte, bensì intensamente sensibile. Se nei tempi buoni si aspira alla pienezza dell’esserci e all’intensità della propria vita, nei tempi difficili si vorrebbe sentirsi alleggeriti dall’essere per anestetizzare la propria sensibilità al reale, e così il senso della progettualità viene meno. L’immagine platonica dell’anima che si libera dalla prigione della corpo nell’iperuranio, dà voce a quel desiderio profondamente umano di non avere lo spirito legato alla carne quando essa si ammala o quando la vita materiale è troppo faticosa. La realtà però è diversa, e noi siamo corpo e anima insieme, da non pensare come sostanze distinte e solo temporaneamente allacciate né che vivono in parallelo, ma inestricabilmente mischiate l’una con l’altra. Se concepiamo il corpo come materia spirituale e l’anima come sostanza corporea, allora cambia il nostro modo di stare in relazione con l’altro, perché capiamo che l’intervento sull’altro non è solo sulla carne del corpo, ma va nel profondo della carne dell’anima. Cosa che gli antichi sapevano, ma che una certa medicina moderna ha dimenticato, considerando il malato come un corpo, quando, invece, è una persona che sente nell’anima la qualità della vita corporea, perché il nostro corpo ha una sostanza spirituale. Quando la cura come terapia si fa carico della persona nella sua interezza di mente e corpo, allora non è solo riparazione di qualcosa che nel corpo si è inceppato, ma è intera cura dell’essere. Dunque, 3 tipi di cura (necessità ontologica): -quella per garantire la sopravvivenza (necessità vitale) -quella per dare un senso all’esistenza (necessità etica) -quella per riparare l’essere in caso di malattia del corpo o dell’anima (necessità terapeutica).