Scarica FONTI: NOZIONI GENERALI e più Appunti in PDF di Diritto Costituzionale solo su Docsity! FONTI DI PRODUZIONE Nel linguaggio comune la parola fonte indica la sorgente inesauribile di determinate sostanze o situazioni. Nel linguaggio giuridico, la definizione tradizionale è la seguente: dicasi fonte del diritto, l’atto o il fatto abilitato dall’ordinamento giuridico a produrre norme giuridiche, cioè a innovare all’ordinamento giuridico stesso. Norme di riconoscimento. La stessa Costituzione indica gli atti che possono produrre il diritto, cioè le fonti: non tutte, perché in un ordinamento a struttura gerarchica, basta che la Costituzione indichi le fonti ad essa immediatamente inferiori, dette perciò fonti primarie, cioè le leggi e gli ad esse equiparati, perché saranno poi queste a regolare le fonti ancora inferiori (fonti secondarie). È considerato un compito tipico e necessario di ogni Costituzione regolare le fonti primarie: è proprio quello che fa la nostra Costituzione negli articoli 70 – 81. Le norme di un ordinamento giuridico che indicano le fonti abilitate a innovare l’ordinamento stesso si chiamano usualmente norme di riconoscimento oppure fonti sulla produzione delle norme. FONTI DI COGNIZIONE Tutt’altra cosa sono invece le fonti di cognizione. Queste non sono altro che gli strumenti attraverso i quali si viene a conoscere le fonti di produzione. In Italia vi sono fonti (di cognizione) ufficiali e fonti private. La più importante delle fonti ufficiali è la Gazzetta Ufficiale. Altre fonti ufficiali sono i bollettini ufficiali delle regioni e la Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea. La Gazzetta Ufficiale. Tutti gli atti normativi dello Stato devono essere pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e inseriti nella Raccolta Ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. Questa viene stampata annualmente, mentre la Gazzetta Ufficiale è pubblicata tutti i giorni non festivi, corredata da alcune serie speciali dedicate: Alle sentenze della Corte Costituzionale esce il mercoledì; Agli atti dell’Unione Europea esce il lunedì e il giovedì con funzione notiziale; Alle leggi regionali esce il sabato con funzione notiziale. La pubblicazione degli atti normativi è disciplinata dalla legge 839/1984, “Norme sulla Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana e sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana”. Pubblicazione ufficiale e entrata in vigore degli atti normativi. Che siano ufficiali ha ovviamente grande importanza, perché il testo in esse pubblicato è quello che entra in vigore, diviene cioè obbligatorio per tutti. Infatti tutti gli atti normativi devono essere pubblicati su una fonte ufficiale perché i cittadini e gli organi preposti all’applicazione del diritto lo possano conoscere. I nuovi atti non entrano in vigore immediatamente dopo la pubblicazione ma, se non è altrimenti disposto, soltanto dopo la cosiddetta vacatio legis, un periodo, di regola di 15 giorni, in cui gli effetti del nuovo atto sono sospesi. Trascorso questo periodo il nuovo è atto pienamente obbligatorio: vige la presunzione di conoscenza della legge (ignorantia legis non excusat) e l’obbligo del giudice di applicarla, senza bisogno che siano le parti a provarne l’esistenza (iura novit curia). FONTI NON UFFICIALI Le fonti non ufficiali possono essere fornite da soggetti pubblici o privati, ed essere cartacee o informatiche. Al contrario delle fonti ufficiali, le notizie che esse pubblicano non hanno valore legale, perché esse sono solo strumenti più o meno utili alla conoscenza delle norme in vigore, ma la pubblicazione in essi non incide sull’efficacia delle norme. Repertori e banche dati di legislazione. Poiché la produzione del diritto in Italia è frenetica, sono rare le fonti che seguono l’intera legislazione: tale ambizione hanno i sistemi informatici della Camera e della Cassazione, mentre ora anche la Gazzetta Ufficiale, la GUUE e i B.U.R sono consultabili attraverso i computer. FONTI – FATTO E FONTI – ATTO Le fonti di produzione si distinguono in due categorie: Le fonti atto (atti normativi) sono parte degli atti giuridici, che potremmo definire come i comportamenti consapevoli e volontari che danno luogo a effetti giuridici; Le fonti fatto (fatti normativi) sono una categoria residuale, cioè sono tutte le altre fonti che l’ordinamento riconosce e di cui ordina o consente l’applicazione, non perché prodotte dalla volontà di un determinato soggetto indicato dall’ordinamento, ma per il fatto di esistere. Rispetto alla categoria generale degli atti giuridici, gli atti normativi hanno 2 caratteristiche specifiche: 1. Quanto agli effetti giuridici, gli atti normativi hanno la capacità di porre norme vincolanti per tutti; 2. Quanto ai comportamenti, questi devono essere imputabili a soggetti cui lo stesso ordinamento riconosce il potere di porre in essere tali atti. Insomma, le fonti atto implicano non solo un agire volontario, ma l’agire volontario di un organo a ciò abilitato dall’ordinamento giuridico. Appartengono alla categoria dei fatti giuridici, cioè a quegli eventi naturali o sociali che producono conseguenze rilevanti per l’ordinamento. La differenza specifica è che da essi l’ordinamento fa dipendere il sorgere di norme vincolanti per tutti. Tipicità delle fonti – atto. Ogni atto normativo deve manifestarsi esteriormente nei modi specifici che lo stesso ordinamento determina per ciascun tipo di fonte. Ogni tipo di fonte ha una sua forma essenziale, che i singoli atti devono rispettare per essere riconoscibili come appartenenti a quella fonte. La forma tipica dell’atto è data da una serie di elementi quali l’intestazione all’autorità emanante, il nome proprio dell’atto (il nomen iuris), il procedimento di formazione dell’atto stesso. Per procedimento si intende quella sequenza di atti preordinata al risultato finale per le fonti atto, il risultato finale del procedimento è proprio l’emanazione dell’atto normativo. Nell’ordinamento italiano i procedimenti per la formazione delle fonti – atto variano a seconda del tipo di fonte. Dal punto di vista redazionale, l’atto è suddiviso in articoli, e questi in commi; gli articoli, spesso corredati da una rubrica che ne indica l’argomento possono essere raggruppati in capi, e questi in titoli e parti. diversi: per es. che accade se un cittadino italiano e una cittadina austriaca litigano per l’affidamento dei figli o per la successione nei beni immobili siti in Italia ma lasciati in eredità da un comune parente bulgaro? La soluzione a questi intricati rebus giuridici è data dalle disposizioni sull’applicazione della legge contenute, ancora, nelle “preleggi“, agli articoli 17-31, successivamente sostituiti dalla legge 31 maggio 1995/218 (riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato). Il giudice italiano in certi casi si può trovare da applicare le leggi di un altro paese, per esempio il codice civile austriaco o una legge bulgara delle successioni. Queste fonti, che sarebbero indubbiamente fonti-atto nel rispettivo ordinamento di appartenenza, sono invece fonti-fatto per il nostro. Che differenza fa? La differenza si può percepire se ci si pone dal punto di vista del giudice. Il principio della jura novit curia Il giudice ha il potere e il dovere di individuare e interpretare le fonti normative da applicare al giudizio con i propri mezzi, senza cioè gravare sulle parti o dipendere dal loro apporto: è il principio jura novit curia, che vale per tutte le fonti, siano esse “atti” o “fatti”. Oltre alla conoscenza dell’esistenza della fonte, il principio Jura novit curia comporta anche il potere-dovere del giudice di interpretare le disposizioni al fine di individuare la norma da applicare al caso. Ciò è ovvio per le fonti-atto. Quanto alle fonti-fatto, per le consuetudini il problema non si pone affatto, essendo esse norme prive di disposizione: non vi è nulla da interpretare, si tratta di accettare quale norma (non scritta) si si è imposta nella prassi. Per il diritto internazionale privato, l’art. 15 della nuova disciplina ci dice che la legge straniera “è applicata secondo i propri criteri di interpretazione e di applicazione nel tempo”: il nostro giudice dovrebbe quindi comportarsi come se fosse un giudice dell’altro ordinamento, sia usando i criteri interpretativi di questo, sia valutando gli effetti della successione delle leggi nel tempo (e quindi decidendo se una certa legge abbia ancora vigore o sia stata abrogata). Naturalmente se una delle parti non è convinta del lavoro interpretativo svolto dal giudice, ne deve impugnare la sentenza davanti al giudice (italiano) d’appello, che dovrà pronunciarsi sulla correttezza, rispetto all’ordinamento straniero, dei criteri interpretativi applicati dal collega di primo grado. Completamente diverso è il problema dell’interpretazione del diritto europeo. Qui infatti vige una riserva di interpretazione a favore del giudice comunitario, cioè della Corte di giustizia della UE : riserva che riguarda tanto le disposizioni del Trattato istitutivo dell’Unione che le fonti “derivate“ (cioè prodotte in forza dei poteri normativi attribuiti dal Trattato agli organi della UE). Per cui se il giudice italiano ha un dubbio sul significato di queste disposizioni, deve sospendere il suo giudizio e sottoporre la questione interpretativa alla Corte di giustizia. Ultimo versante su cui si pone il principio jura novit curia, il giudice deve valutare non solo che è una certa nomina esista, ma anche che sia valida. In particolare, una norma si dice valida quando è posta in conformità alle norme di rango superiore: Una fonte-atto si dice valida se presuppone una norma di riconoscimento che attribuisca a un determinato organo la competenza a produrre un certo tipo di norme, queste norme saranno valide solo se conformi alla norma di riconoscimento; se non sono valide, il giudice può provocarne la rimozione dall’ordinamento. E le fonti-fatto? La consuetudine pone pochi problemi: o essa si sviluppa praeter legem o secundum legem; se il comportamento sociale considerato fosse invece contra legem, non avremmo neppure una fonte del diritto, ma un comportamento illegittimo. Diritto internazionale privato: il giudice italiano può valutare se la legge straniera sia ancora in vigore, ma non agli strumenti per rilevarne gli eventuali “vizi“, cioè il contrasto con le fonti superiori dell’ordinamento cui essa appartiene. In conclusione: la distinzione tra fonti-atto e fonti-fatto è una distinzione importante, ma non del tutto soddisfacente: soprattutto perché la categoria delle fonti fatto è troppo disomogenea. TECNICHE DI RINVIO AD ALTRI ORDINAMENTI Definizioni Il “principio di esclusività“, che è espressione della sovranità dello Stato, attribuisce a questo il potere esclusivo di riconoscere le proprie fonti, cioè indicare i “fatti” e gli “atti“ che possono produrre norme nell’ordinamento. Le norme degli altri ordinamenti possono valere all’interno dell’ordinamento dello Stato soltanto se le disposizioni di questo lo consentono. Per consentire alle norme prodotte da fonti di altri ordinamenti di operare all’interno dell’ordinamento statale si opera attraverso la tecnica del rinvio. Il rinvio è dunque lo strumento con cui l’ordinamento di uno Stato rende applicabili al proprio interno norme di altri ordinamenti. Si distinguono di solito due tecniche di rinvio, il rinvio “fisso“ e il rinvio “mobile“. Il rinvio fisso (Detto anche rinvio materiale o recettizio ) è il meccanismo con cui una disposizione dell’ordinamento statale richiama un determinato atto in vigore in altro ordinamento, atto che di solito viene “allegato“. Il rinvio si dice fisso perché recepisce uno specifico e singolo atto, ordinando ai soggetti dell’applicazione del diritto (i giudici è l’amministrazione pubblica) di applicare le norme ricavabili da questo atto come norme interne. Le eventuali variazioni apportate all’atto cui si rinvia, cioè all’atto “recepito“, sono, di regola, indifferenti per il nostro ordinamento: cioè, se l’atto recepito subisce modifiche, queste non produrranno effetti nel nostro ordinamento senza un altro apposito atto di recepimento. Il rinvio mobile (Detto anche rinvio formale o non recettizio) è il meccanismo con cui una disposizione dell’ordinamento statale richiama non uno specifico atto di un altro ordinamento, ma una fonte di esso. Per questo motivo con il rinvio mobile dell’ordinamento statale si adegua automaticamente a tutte le modifiche che nell’altro ordinamento si producono nella normativa posta dalla fonte richiamata. Tipici esempi di rinvio “mobile“ sono le disposizioni del diritto internazionale privato. Tra le due tecniche di rinvio basta una notevole differenza pratica: - il rinvio fisso pone ai soggetti dell’applicazione solo il compito di interpretare il testo normativo richiamato come se fosse un atto interno (cosa comunque non sempre semplice, perché, provenendo l’atto da un altro ordinamento, è scritto nel linguaggio proprio ad esso: per esempio in una lingua straniera) - il rinvio mobile pone loro anche il compito di ricercare le disposizioni in vigore nell’ordinamento straniero, dovendo tenere conto di tutti i mutamenti che in esso si sono prodotti. LA FUNZIONE DELL’INTERPRETAZIONE L’atto normativo è un documento scritto attraverso cui il legislatore esprime la sua volontà di disciplinare una determinata materia. Come tutti i testi scritti, l’atto normativo è articolato in enunciati, che rappresentano l’unità linguistica minima portatrice di un significato completo: un enunciato è quasi espressione linguistica che ha una forma grammaticale compiuta. Per questa loro caratteristica “imperativa“, gli enunciati degli atti normativi si chiamano disposizioni. È un errore comune, una banalità pensare che gli enunciati scritti possono avere un significato preciso e univoco, dato dalla somma dei significati delle singole parole. Il linguaggio è una questione complessa, le stesse singole parole possono avere più significati e più sfumature di significato. Il compito di riportare a coerenza e univocità il sistema delle disposizioni è affidato all’interprete. Il primo passo da compiere è la distinzione tra interpretazione e applicazione del diritto. Si dice usualmente che l’applicazione del diritto consiste nell’applicazione di una norma generale e astratta a un caso particolare e concreto. La norma dice che, se compiuto da chiunque (generalità) e in qualsiasi circostanza (astrattezza), il comportamento X, deve esserci la conseguenza Y; Tizio tiene il comportamento X; Tizio ha la conseguenza Y. Questo è lo schema del sillogismo giudiziale: premessa maggiore (la norma); premessa minore (il fatto): conclusione (applicazione della norma al fatto). La norma è il frutto dell’interpretazione delle disposizioni, il loro significato, quello che esse ci possono dire in relazione al caso specifico; e anche il fatto è il frutto di interpretazione, va “costruito” qualificando i singoli eventi e comportamenti secondo le categorie normative. Il mito delle disposizioni chiare e univoche e, appunto, un mito. Non è colpa del legislatore, ma del linguaggio. Il legislatore può cercare di risolvere certi gravi dubbi interpretativi o di “forzare“ l’interpretazione dei giudici, aggiungendo nuove disposizioni alle vecchie, cercando di precisarne il significato: è la c.d. Interpretazione autentica. Non si tratta però di un’opera di interpretazione, di attribuzione di un senso ma di legislazione: si emana una disposizione con cui si dice che è un’altra disposizione va intesa in un determinato significato. Il legislatore però non può sostituirsi agli interpreti dal momento che glielo impedisce il principio di divisione dei poteri, il cui nucleo più rigido e più antico è proprio la contrapposizione tra legis-latio e legis- executio. disposizione che lo prescriva a (è il caso della c.d. “riviviscenza della norma abrogata“); la norma derogata non perde invece la sua efficacia, ma viene limitato il suo campo di applicazione: per cui, se dovesse essere abrogata la norma derogante, automaticamente riespande l’ambito di applicazione della regola generale. Simile alla deroga è la sospensione dell’applicazione di una norma, sospensione limitata ad un certo periodo e spesso a singole categorie o zone. L’esclusione dei cittadini calamitati dall’obbligo di pagare le tasse può essere costruita anche come sospensione della legge generale: passato il termine previsto, la norma generale riprende tutta la sua applicabilità. IL CRITERIO GERARCHICO E L’ANNULLAMENTO Il criterio gerarchico dice che in caso di contrasto tra due norme si deve preferire quella che nella gerarchia delle fonti occupa il posto più elevato (lex superior derogat legi inferiori). Quando la corte dispone che la Corte costituzionale giudica della “legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge“ (art. 134), disegna implicitamente una gerarchia, per cui in caso di contrasto la costituzione prevale sulla legge e sugli atti a questa equiparati. Analogamente, le “Preleggi” disegnano una gerarchia, ancora valida, tra la legge, i regolamenti e le consuetudini (art.1), dicendo che la legge prevale sul regolamento (art.4) e questo sulla consuetudine (art.8). La prevalenza della norma superiore su quella inferiore si esprime attraverso l’annullamento. L’annullamento è l’effetto di una dichiarazione di illegittimità che un giudice (non qualsiasi interprete) pronuncia nei confronti di un atto, di una disposizione o di una norma. A seguito della dichiarazione di legittimità, l’atto, la disposizione o la norma perdono validità. La validità è una figura generale del diritto e consiste nella conformità di un atto o di un negozio giuridico rispetto alle norme che lo disciplinano (la “validità“, essendo riferibile ai soli atti -normativi e non- è un concetto più ristretto di “legittimità”, che significa pur sempre conformità alle leggi, ma si riferisce a qualsiasi comportamento, e quindi anche ai fatti). l’atto invalido è un atto “viziato“: - l’abrogazione - espressione del carattere cronologico - opera nel ricambio fisiologico dell’ordinamento; - l’annullamento - espressione del criterio gerarchico - colpisce situazioni patologiche che si verificano in esso. I “vizi di legittimità” possono essere di due tipi: Vizi formali: Riguardano la “forma” dell’atto: per esempio, perché esso è emanato da un organo non competente oppure il procedimento seguito per la sua formazione non corrisponde a quanto prescritto dalle norme superiori. In questo caso sarà l’intero atto ad essere viziato. Vizi sostanziali: Riguardano i contenuti normativi di una disposizione, cioè le norme: la disposizione sarà viziata perché produce un’antinomia, un contrasto con norme tratte da disposizioni di rango superiore. Effetti dell’annullamento In linea generale, quando un giudice dichiara l’illegittimità di un atto normativo, questa dichiarazione effetti generali: in seguito ad essa l’atto annullato non può essere più applicato a nessun rapporto giuridico, anche se è sorto in precedenza all’annullamento. Al contrario all’abrogazione dunque, l’annullamento non opera solo per il futuro, ma anche per il passato. Gli effetti dell’annullamento però si avvertono solo per quei rapporti giuridici che l’interessato possa sottoporre a un giudice, che siano cioè ancora “azionabili“: poi si dicono “rapporti pendenti” (o aperti) che si contrappongono ai “rapporti esauriti” (o chiusi). I rapporti si chiudono con il decorso del tempo (estinzione del diritto per prescrizione; perdita la possibilità esercitare il diritto, cioè decadenza), oppure per volontà dell’interessato (acquiescenza), od ancora perché il rapporto è stato definito con una scadenza ormai non più impugnabile (giudicato). Rapporti tra criterio cronologico e criterio gerarchico Cosa accade se una norma posteriore di grado superiore contraddice una norma precedente di grado inferiore? In questo caso la risposta dipende dal fatto che le due norme siano “omogenee“ o meno. Due norme possono dirsi omogenee se sono entrambe “di principio“ o entrambe “di dettaglio“: se sono omogenee, si ritiene che prevalga il criterio cronologico, cioè che la norma successiva superiore abroghi direttamente quella precedente inferiore, senza bisogno che il giudice dichiari l’illegittimità di quest’ultima. Se invece sono disomogenee, la situazione è più complessa: c’è abrogazione nel caso in cui la norma successiva superiore sia di dettaglio (il che è però assai improbabile, perché in genere sono le norme inferiori a “concretizzare“ i principi posti da quelle superiori).Nel caso più normale in cui la norma successiva superiore sia di principio, non si ha abrogazione, ma dovrà intervenire il giudice dichiarando l’illegittimità della norma precedente, inferiore e di dettaglio (prevale di nuovo il criterio gerarchico su quello cronologico). PRINCIPIO VS. DETTAGLIO Il linea di massima, una norma di principio non è costruita attorno ad una fattispecie precisa (ossia non descrive un comportamento sociale a cui ricollega una conseguenza giuridica), ma dichiara in termini assoluti un favore per un determinato interessi o valore. D’altra parte, da una norma di dettaglio si può sempre ricavare, in via di interpretazione, il “principio“ (o la ratio) che le spira. IL CASO: la storica sentenza n 1 della Corte costituzionale. Nella prima sentenza della sua storia (sent. 1/1956), la Corte costituzionale ha dovuto affrontare questo problema: se le disposizioni di pubblica sicurezza, risalenti al fascismo, che sottoponevano a controllo amministrativo tutta una serie di attività di propaganda politica, fossero o meno state abrogate dall’art 21 della costituzione, che tutela la più ampia libertà di parola. In quegli anni era molto discusso se, nei frequentissimi casi in cui le leggi anteriori fossero in stridente contrasto con i principi costituzionali, il giudice potesse considerare abrogate le leggi o dovesse impugnarle di fronte alla corte: abrogazione o annullamento? La risposta della corte è che entrambe le ipotesi sono possibili, dipende da come si prospetta il contrasto. Nel caso specifico la corte ha ritenuto che c’era contrasto tra le nuove disposizioni costituzionali e le vecchie leggi, ma non sussistevano i requisiti dell’abrogazione; perciò ha dichiarato illegittime le disposizioni impugnate. IL CRITERIO DELLA SPECIALITÀ Il criterio della specialità dice che in caso di contrasto tra due norme si deve preferire la norma speciale a quella generale, anche se questa è successiva (lex specialis derogat legit generali; lex posterior generalis non derogat legi priori speciali). Questo criterio non è ben codificato, né sotto il profilo concettuale né sotto quello legislativo.perché questa difficoltà di “codificazione“? Anzitutto perché cosa sia “genere“ e cosa sia “specie“ è spesso questione di opinioni; in secondo luogo, non sono chiarissimi gli effetti dell’applicazione del criterio di specialità; in terzo luogo è complesso il rapporto tra il criterio di specialità e gli altri criteri. Effetti dell’applicazione del criterio di specialità La preferenza per la norma speciale non si esprime né con riferimento all’efficacia della norma (come per l’abrogazione), né con riferimento alla sua validità (come per l’annullamento). Le norme in conflitto rimangono entrambe efficaci e valide: l’interprete opera solamente una scelta circa quale norma deve essere applicata; l’altra norma semplicemente “non è applicata“. Rapporti tra il criterio di specialità e gli altri criteri Se la norma generale é successiva, e la norma generale e norma particolare hanno parità gerarchica: è preferita la norma speciale (deroga); se la norma generale è successiva, e la norma generale è superiore alla norma speciale: è preferita la norma generale superiore (illegittimità della norma speciale) Se la norma generale è successiva, e la norma generale è inferiore alla norma speciale: è preferita norma speciale superiore (illegittimità della norma generale) Se la norma speciale è successiva, e la norma generale e la norma particolare hanno parità gerarchica: è preferita la norma speciale (deroga) Se la norma speciale è successiva, e la norma generale è superiore alla norma speciale: è preferita la norma generale superiore (illegittimità della norma speciale) Se la norma speciale è successiva, e la norma generale è inferiore alla norma speciale: è preferita la norma speciale superiore (abrogazione o deroga della norma generale). a) le riserve a favore di atti diversi dalla legge sono rare. Si tratta di: -riserve a favore della legge costituzionale. l’Art. 138, traducendo in termini operativi il principio di rigidità costituzionale, introduce un particolare procedimento per la revisione costituzionale. Alle leggi formate con questo procedimento è riservata la disciplina di alcune materie, quali ad esempio l’approvazione degli statuti delle regioni ad autonomia differenziata (Art. 116),il mutamento delle circoscrizioni regionali (art.132.1), i giudizi di legittimità costituzionale e le garanzie di indipendenza dei giudici della Corte (Art. 137) -riserve a favore dei decreti di attuazione degli Statuti speciali b) la riserva di legge formale ordinaria impone che sulla “materia“ intervenga il solo atto legislativo prodotto attraverso il procedimento parlamentare, con esclusione quindi degli altri atti equiparati alla legge formale stessa. La ratio di questa riserva è semplice: sono riservate all’approvazione parlamentare tutte quelle leggi che rappresentano strumenti attraverso i quali il Parlamento controlla l’operato del Governo. Per evitare ogni possibilità di confusione tra controllore e controllato, la costituzione impiega in tutti questi casi l’espressione “le camere… Con legge“, individuando così non solo l’atto, ma anche l’organo a favore del quale opera la riserva. In altri casi, invece, la riserva di legge formale si evince dalla previsione di una maggioranza specifica o di un procedimento particolare per l’approvazione della legge. LEGGE, LEGGE FORMALE, LEGGE ORDINARIA. Quando la costituzione rinvia alla “legge“, non sempre impiega il termine in senso tecnico. Nello stesso linguaggio corrente, si usa spesso “legge“ come sinonimo di “diritto“. Così anche in Costituzione: per esempio, la “violazione di legge“ per cui è sempre ammesso ricorso in Cassazione (Art. 111.2) È la violazione di qualsiasi norma di diritto, e l’eguaglianza “davanti alla legge“ (Art 3.1 ) è eguaglianza davanti al diritto oggettivo, a prescindere dalla fonte che lo abbia prodotto. Quando il riferimento alla “legge“ è del tutto generico (sinonimo di diritto o di Repubblica) non fonda una “riserva di legge“. Anche quando si usa la parola “legge“ in senso tecnico, vi è qualche margine di ambiguità: infatti una cosa è la legge formale (che la legge approvata dal parlamento) un’altra legge ordinaria. Le semplici riserve di legge prescrivono che la materia da essere considerata sia disciplinata dalla legge ordinaria (includendo anche gli atti con forza di legge), escludendo o limitando l’intervento di atti di livello gerarchico inferiore alla legge, cioè dei regolamenti amministrativi. La ratio della riserva di legge è di assicurare che la disciplina di materie particolarmente delicate venga decisa con la garanzia tipica insita nel procedimento parlamentare: è vero che, operando la riserva a favore della legge ordinaria, essa ammette non solo legge formale ma anche gli atti con forza di legge; ma è anche vero che l’emanazione dell’atto con forza di legge da parte del governo è sempre preceduta o seguita da una legge formale. A seconda dei rapporti tra legge e regolamento si distinguono due tipi di riserve di legge: - la riserva assoluta esclude qualsiasi intervento di fonti sub-legislative dalla disciplina della materia, che, pertanto, dovrà essere integralmente regolata dalla legge formale ordinaria o da atti ad essa equiparata. Riserve di questo tipo si trovano soprattutto nella parte della Costituzione dedicata alle libertà fondamentali: l’esempio più tipico è dato dall’Art.13.2 , che consente che la libertà personale sia limitata “nei soli casi e modi previsti dalla legge“. La ratio è facilmente intuibile: le libertà fondamentali sono rivendicate contro il “potere“, contro lo Stato e il suo potere coercitivo, che è detenuto dal governo e dalle strutture dei pubblici poteri che dipendono da esso. Ecco perché le limitazioni di queste libertà devono essere decise con le garanzie della legge, e sono esclusi perciò i regolamenti dell’esecutivo. - la riserva relativa non esclude che alla disciplina della materia concorre anche il regolamento amministrativo, ma richiede che la legge disciplini preventivamente almeno i principi a cui il regolamento deve attenersi. Tipico esempio di riserva relativa è fornito dall’art. 97.1 (“i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge“). Sta alla legge decidere quanto strette debbano essere le maglie della sua disciplina, ma una legge deve esserci e non può limitarsi a conferire al governo un potere normativo in bianco. Ponendo la riserva relativa di legge, la Costituzione pone quindi contemporaneamente un vincolo al legislatore (che deve dettare almeno la disciplina generale della materia) e al potere esecutivo (i cui atti sono sottoposti, in forza della riserva relativa, al principio di legalità sostanziale ). RISERVA ASSOLUTA E RELATIVA: UNA QUESTIONE DI INTERPRETAZIONE Se la distinzione tra i due tipi di riserva di legge è netta in teoria, in pratica non sempre è facile decidere se il rinvio che la costituzione fa alla legge sia classificabile come una riserva assoluta o piuttosto come una riserva relativa. La costituzione non ci dà sempre indici sicuri che agevolino la classificazione, che resta quindi perlopiù una questione di interpretazione. Gli elementi utili all’interpretazione sono: -la “lettera“ della costituzione (“argomento letterale“): si può ritenere assoluta la riserva di legge quando la costituzione impiega espressioni (“nei soli casi e modi“, nei casi “tassativamente indicati dalla legge“ Utilizzate nell’articolo 13) che sembra voler restringere al massimo il potere discrezionale di chi è chiamato ad applicare la legge; mentre la riserva relativa può essere riconosciuta in quelle espressioni (“ secondo disposizioni di legge“; “Secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge“). -L’insieme dei meccanismi che la costituzione appronta per quello specifico argomento (argomento sistematico). -I precedenti storici (argomento storico): se la costituzione introduce una riserva di legge sulla materia (come l’organizzazione dei pubblici uffici) che in precedenza era “riservata“ al governo, è sostenibile che il vincolo interruttivo è il più terme, ma non è più intenso I risultati dell’interpretazione diversa (“argomento ab absurdo”). le riserve rinforzate sono un meccanismo con cui la costituzione non si limita a riservare la disciplina di una materia alla legge, ma pone ulteriori vincoli al legislatore. Si possono distinguere: - le riserve rinforzate per contenuto: si hanno in quei casi in cui la costituzione prevede che una determinata regolazione possa essere fatta dalla legge ordinaria soltanto con contenuti particolari. ( ad esempio l’art 14.3 consente al legislatore di dettare regole speciali, meno rigide, per le ispezioni domiciliari (e quindi derogatorie rispetto alla disciplina già trattata dall’art.14.2, ma soltanto per “motivi di sanità e di incolumità pubblica”, oppure per ” finieconomici e fiscali”. La ratio di queste riserve è di limitare il potere del legislatore, in modo che le eventuali leggi che intendessero comprimere la sfera di libertà degli individui potranno essere considerate legittime soltanto a condizione che siano razionalmente giustificabili in relazione ai fini indicati dalla Costituzione, oppure che non siano ispirate a intenti discriminatori. - le riserve rinforzate per procedimento prevedono invece che la disciplina di una determinata materia debba seguire un procedimento aggravato (o rinforzato) rispetto al normale procedimento legislativo ; ad esempio l’art.7 prevede che i rapporti tra Stato e chiesa cattolica, già regolati dal “concordato“, possono essere modificati solo previo accordo tra le due parti. Nel procedimento di formazione della legge, avremo perciò un “aggravamento“, nel senso che l’iniziativa legislativa sarà anticipata da un accordo stipulato tra il Governo e la Santa sede, e il Parlamento non potrà procedere a emendamenti senza che sia prima raggiunto l’accordo su di essi. La ratio di queste riserve di legge e di limitare il potere della maggioranza politica nei confronti delle minoranze, siano esse comunità religiose o comunità locali: la maggioranza può fare la legge solo al “costo” di ottenere il consenso dei soggetti che rappresentano la comunità minoritaria interessata.