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G.B. Conte Letteratura Latina, Schemi e mappe concettuali di Latino

compendio accurato del manuale

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2017/2018
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Scarica G.B. Conte Letteratura Latina e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Latino solo su Docsity! LETTERATURA LATINA AUTORI Gian Biagio Conte LIVIO ANDRONICO Vita Giunse a Roma probabilmente da Taranto, era a tutti gli effetti un greco. Due tappe fondamentali attestate: il 240, quando una sua opera fu il primo testo drammatico rappresentato a Roma; e il 207, quando compose un paternio (canto di fanciulle) in onore di Giunone, destinato all‟esecuzione in pubblico nel corso di cerimonie religiose. Opere Tutto quello che ci è giunto si limita a una sessantina di frammenti. Ci restano i titoli di otto tragedie: Achilles, Aegisthus, Equos Troianus, ecc., tutte legate al ciclo della guerra di Troia. Compose anche palliate. L‟opera più significativa di Andronico è per noi (a giudicare dai frammenti) la versione in saturni dell‟Odissea di Omero, il cui titolo doveva suonare Odusia: ce ne sono giunti 36 frammenti. Fonti Le informazioni sulla Vita da noi accolte si basano essenzialmente su Cicerone (Bru_ tus) e Livio. Nascita della tradizione poetica I grandi classici romani del I secolo concordavano nell‟indicare in Livio l‟iniziatore della letteratura latina. L‟iniziativa di tradurre in lingua latina e in metro italico (il saturnio) l‟Odissea di Omero ebbe una portata enorme. Si pensi che una cultura letteraria di somma raffinatezza e curiosità come quella greca non arrivò mai a concepire la traduzione di un‟opera letteraria da una lingua straniera; l‟operazione di Livio ebbe insieme finalità letterarie e finalità più genericamente culturali. Rese disponibile ai Romani un testo fondamentale della cultura greca. Naturalmente l‟élite romana ellenizzata già leggeva Omero nell‟originale: ma l‟Odusia ebbe fortuna come testo scolastico; Andronico stesso era maestro di scuola, e nel suo lavoro riuscì insieme a divulgare cultura greca a Roma e a far progredire la cultura letteraria in lingua latina. L‟importanza di Livio nella storia letteraria sta nell‟aver concepito la traduzione come operazione artistica: costruzione di un testo che stia accanto all‟originale, da un lato fruibile come opera autonoma, dall‟altro capace di conservare le qualità espressive del modello. Non avendo una tradizione epica alle spalle, Livio cercò per altre vie di dare solennità e intensità al suo linguaggio letterario. Forme come i genitivi in –as sono già arcaizzanti rispetto alla lingua in uso ai tempi di Andronico; così la lingua letteraria si stacca dal linguaggio quotidiano. Ecco quindi che si rivolge al formulario della tradizione religiosa, che dà elevatezza e profondità al suo linguaggio: e rende l‟omerica “Musa” con l‟antichissima Camena, divinità italica delle acque. Omero parla di un eroe “pari agli dei”, ma questa mozione non è accettabile alla mentalità romana: Andronico e traduce summus adprimus. Tipica della poesia romana, rispetto ai modelli greci, è la ricerca del pathos, della forza espressiva e della tensione drammatica. Questa capacità di “drammatizzare” il racconto ci fa pensare che Andronico fu anche un significativo drammaturgo. Anche i testi drammatici di Livio avevano precisi modelli greci: ma nel campo teatrale i Romani furono, sin dall‟inizio, più liberi nel trasformare i modelli. Per il rapido sviluppo letterario che seguì la sua opera, Andronico passò molto presto di moda: non solo Cicerone e Orazio trovano primitiva la sua arte, ma già Ennio sembra polemizzare contro il suo predecessore. La letteratura scolastica di Andronico durò probabilmente più della sua fortuna letteraria: di lui restava, per così dire, il “busto” di un progenitore. NEVIO Vita Gneo Nevio, cittadino romano di origine campana, sembra che fosse di origine ple_ bea: pochi nella Roma arcaica i letterati di tale origine. Morì, forse in esilio, nel 204 o nel 201, lasciando un diffusa fama letteraria. Opere Numerose tragedie (fra cui almeno due praetextate, il Romulus e il Clastidium) e commedie. La sua opera principale è il Bellum Poenicum ,in saturni: il poema doveva contenere 4000/5000 versi, ne restano appena una sessantina. Il poema narrava la storia di Enea che da Troia giunge nel Lazio e, nella sua parte principale, la storia della guerra punica, che Nevio aveva vissuto. Fonti Notizie occasionali ci vengono da Cicerone e da San Girolamo. Un indizio ci viene fornita da Plauto: nel Miles Gloriosus si parla di un poeta incarcerato e costretto al silenzio: Nevio?! 2 Tra mito e storia Nevio è il primo letterato latino di cittadinanza romana, e ci appare come letterato vivacemente inserito nelle vicende contemporanee Il forte impegno di Nevio della vita politica di Roma traspare dai caratteri originali della sua opera: il Bellum Poenicum è il primo testo epico latino che abbia un tema romano: ha caratteri di originali_ tà molto marcati, non solo la scelta di un tema storico quasi contemporaneo. Il suo racconto con un salto temporale, affondava nella preistoria di Roma: la fondazione di Roma si ricollegava alla caduta di Troia, e i viaggi per mare di Enea erano in qualche modo paralleli alle peregrinazioni di Odisseo. In questo fase Nevio doveva dare notevole spazio all‟intervento divino: gli dei dell‟Olimpo erano importantissimi nell‟epica omerica, ma ora – nel nuovo poema nazionale roma_ no – il tradizionale apparato divino assumeva anche una missione storica, e sanzionava la fondazio_ ne di Roma. Questa saldatura tra mito e storia innestava l‟ascesa di Roma in una specie di visuale cosmica, nutrita di cultura greca. Non conviene staccare troppo Nevio dalla tradizione letteraria greca: il Bellum Poenicum presup_ pone Omero, e presuppone anche la tradizione ellenistica del poema storico-celebrativo. L‟idea di intrecciare una storia di viaggi e una storia di guerra (il viaggio di Enea, la guerra romano-cartagi_ nese) sembra indicare un “incrocio” fra Iliade (la guerra di Troia) e Odissea (i viaggi di un eroe). Certi aspetti di stile rivelano un‟originale mescolanza di cultura poetica ellenistica e ispirazione nazionale. L‟importanza delle figure di suono: ripetizioni, allitterazioni, assonanze tendono a formare la struttura portante del verso, in particolare il saturnio trovava una sua armatura formale proprio nelle ripetizioni foniche. La sperimentazione si sviluppò in due direzioni principali. 1 la sezione “mitica” del poema impone_ va a Nevio una sfida del linguaggio poetico greco, con la sua inesauribile riserva di epiteti preziosi, Nevio sperimenta nuovi composti e nuove combinazioni sintattiche. 2 la sezione “storica” impone_ va altri problemi. Nevio adatta lo stile poetico a una lunga narrazione continua. Nel complesso, il Bellum Poenicum appare come un‟opera di forte sperimentalismo, in cui forse le diverse componenti stilistiche non trovano uno stabile equilibrio. Dopo il tramonto del saturnio, la fama del poema sarà sempre oscurata dagli Annales di Ennio. Quell‟ideologia eroica che nella storia di Roma verrà spesso rievocata, anche in forma distorta o insincera, trova nell‟opera di Nevio una delle espressioni più autentiche. Di gran lunga più importante la produzione comica, che fa di Nevio il più autorevole predecessore di Plauto, e che suggerisce un talento letterario molto versatile. PLAUTO Vita Plauto, come del resto quasi tutti i letterati latini di età repubblicana, non era di origine romana: certamente cittadino libero. La data di morte, il 184 a.C., è sicura; la data di nascita da una notizia di Cicerone: probabile una nascita tra il 255 e 250 a.C.. Opere e Plauto fu autore di enorme successo, immediato e postumo. Di Plauto furono fonti condotte vere “edizioni” ispirate ai criteri di filologia alessandrina: le commedie furono dotate di didascalie, di sigle dei personaggi; i versi scenici furono impaginati da competenti, in modo che ne fosse riconducibile la natura. La fase critica nella trasmissione del corpus dell‟opera pluatina fa segnata dell‟intervento di Varrone, il quale, nel De comoediis Plautinis, ritagliò nell‟imponente corpus un certo numero di commedie (21, quelle giunte fino a noi), sulla cui autenticità c‟era generale consenso. Queste sono opere da Varrone accettate totalmente e sicuramente genuine. La cronologia: alcune presuppongono vicende storiche: Casina allude chiaramente alla repressione dei Baccanali del 186. 1.Tipologia degli intrecci e dei personaggi Per unanime riconoscimento, la grande forza di Plauto sta nel comico che nasce dalle singole situazioni, prese a sé una dopo l‟altra, e dalla creatività verbale che ogni nuova situazione fa sprigionare. Una costante, come dato di fondo, la fortissima prevedibilità degli intrecci e dei “tipi umani” incarnati dai personaggi. Plauto desidera proprio questa prevedibilità: non vuole porre interrogativi problematici sul carattere dei suoi personaggi. I personaggi si possono ridurre a un numero limitato di “tipi”: il servo astuto, il vecchio, il giovane amatore, il lenone, il parassita, il soldato vantone. Questi tipi sono inquadrati fin dai prologhi e il pubblico ha così fin dall‟inizio una traccia su cui far scorrere la propria comprensione degli eventi scenici. 5 CECILIO STAZIO Vita Stazio era un libero di origine straniera. Veniva, pare da Milano, ed era perciò un Gallo Insubre. La data di nascita potrebbe essere tra il 230 e il 220. Morì nel 168. Opere Ci restano una quarantina di titoli, tutti di commedie palliate, e frammenti per quasi trecento versi. La commedia di gran lunga meglio conosciuta è il Plocium. Fonti Informazioni del Chronicon di S. Girolamo, che risalgono dal De Poetis di Varrone. Tra i giudizi: Cicerone; Orazio ; Gellio. Un grande commediografo Le ragioni per cui Cecilio Stazio è tratta o come un minore sono del tutto accidentali e dipendono dalla perdita dei suoi testi. Grandi intellettuali e letterati valutano Cecilio come un autore di primo rango, per niente inferiore a Plauto o Terenzio. La posizione storica di Cecilio suggerisce una sorta di intermediazione fra Plauto e Terenzio. Qualche indizio conferma questa posizione mediana. Gran parte dei frammenti che abbiamo si iscrive perfettamente nell‟atmosfera del teatro plautino: grande ricchezza di metri, vivace fantasia comica, sanguigno gusto per il farsesco. Rispetto a Plauto, però, Cecilio sembra in un certo senso più vincolato al modello della Commedia Nuova ateniese. Interesse per Menandro, più sorvegliata adesione al modello greco sono tratti che accostano Cecilio a Terenzio e lo staccano di Plauto. Non abbiamo invece prova alcuna che Cecilio anticipasse aspetti fondamentali tipici della nuova maniera terenziana, quali la rinuncia a certe varietà metriche, la riduzione degli effetti farseschi, l‟approfondimento psicologico. Del resto, sappiamo che Terenzio rimase un isolato nella tradizione della palliata. ENNIO Vita Quinto Ennio nacque nel 239 a.C. a Rudiae (presso Lecce). Svetonio definisce Ennio semigraecus, il poeta stesso amava sottolineare la sua natura “trilngue”, divisa tra il Latino, il Greco, e l‟Osco. Nel 189 accompagna il generale Marco Fulvio Nobiliore in Grecia, con l‟incombenza di illustrare con i suoi versi la campagna militare: l‟operazione propagandistica sarà duramente criticata da Catone. Sarà favorito dalla famiglia di Nobiliore e dagli Scipioni; riceverà tra l‟atro la cittadinanza romana. Nell‟ultima parte della sua vita si dedicò alla fatica degli Annales, il poema epico che gli darà fama perpetua a Roma. Opere Di tutti i suoi testi abbiamo solo frammenti di tradizione indiretta. Delle sue tragedie ci restano 200 frammenti, circa 400 versi. Ma il capolavoro di Ennio sono gli Annales, poema epico in esametri che, in 18 libri, narrava la storia di Roma: ce ne restano 437 frammenti per un totale di 600 versi. Fonti Per gran parte della storia letteraria romana Ennio è il più citato, ammirato, criticato e riesumato. Il dato più interessante è la probabilità che molte notizie riprese da autori più tardi siano autobiografiche. E‟ significativo che di lui esista una tradizione figurativa: statue e pitture che lo effigiavano. 1. Il teatro Ennio fu, nella produzione drammatica, essenzialmente poeta tragico: non a caso il modello preferito è Euripide, il più moderno dei grandi tragici ateniesi, il più aperto all‟introspezione psicologica e alle situazioni di maggiore passionalità. Da Euripide, Ennio tradusse molte tragedie, soprattutto del ciclo troiano. Il rapporto con i modelli greci non sembra puramente emulativo: il poeta non cerca il confronto con gli originali per mostrare la sua bravura, piuttosto il progetto stesso della traduzione, così come Ennio la pratica (ampliamento e intensificazione patetica, libera contaminazione di modelli diversi) è l‟impegno di un teatro “vivo”. Gli originali più famosi e più spesso rappresentati vennero così in gran parte riscritti, contaminati con nuovi brani o tratti da altre tragedie. La stessa nozione di “autentico” ancora non esisteva. Quell‟intensificazione patetica che sembra propria del vertere enniano non va attribuita al passionale gusto latino. Una retorica della commozione grandiosa che, e spesso non è nelle parole del modello, entra insistente nel testo enniano almeno come tratto di una langue drammatica greca: che riconosciamo soprattutto in espressioni ridondanti – più 6 esternazione stilizzata di sentimenti che vero contenuto informativo - . Tutto un vocabolario della teatralità greca di cui la scena enniana si appropria. Tale scelta risponde ad un‟esigenza teatrale ben precisa: quella di produrre interesse nel pubblico, di coinvolgerlo emotivamente, di suscitare processi psicologici di identificazione. Per questo in Ennio poteva comparire ancora il coro: la ricerca di un‟identificazione tra pubblico e personaggi, quel processo che ha nell‟essere anonimo e comune del coro il suo tramite più forte e convincente. Nasce di qui l‟effetto per cui gli spettatori possono vedere i quell‟assemblea lo specchio di se stessi, e così riconoscere l‟immagine di sé e dei propri capi nei personaggi rappresentati sulla scena. 2. Gli Annales: struttura e composizione Gli Annales sono il più famoso testo epico romano sino all‟età di Augusto, e una delle pochissime opere poetiche di età medio-repubblicana di cui possiamo farci un‟idea, frammentaria, ma ricca e articolata. Una funzione celebrativa doveva essere fondamentale in tutta l‟opera di Ennio: la pretesta Ambracia è dedicata alla campagna conto gli Etoli di Nobiliore. Poesia e panegirico si erano dunque saldati. Catone protestò contro questa iniziativa, vista come un atto di propaganda personale. Ennio vedeva la sua poesia come celebrazione di gesta eroiche: si rifaceva da un lato ad Omero, dall‟altro alla recente tradizione dell‟epica ellenistica, di argomento storico e di contenuto celebrativo. Nella parte tarda della sua carriera, Ennio si avvicinò al grandioso progetto di una celebrazione di tutta la storia di Roma, svolta in un unico poema epico. Il piano si sviluppò in 18 libri, molte migliaia di esametri: i frammenti che ci restano assommano a qualche centinaio di versi. Per ricchezza di struttura, il precedente più vicino era certamente il Bellum Poenicum neviano. Ennio decise di narrare senza stacchi e in ordine cronologico, anche se è chiaro che certe fasi storiche ebbero molto più risalto di altre. Un‟innovazione importante fu l‟articolazione del racconto in libri, concepiti come unità narrative accostate in un‟architettura complessiva: la poesia epica alessandrina era così strutturata, e lo stesso Omero, a partire dal III secolo a.C., circolava diviso in libri. Ennio recepì questa strategia poetica, che restò una dominante in tutto lo sviluppo della poesia latina, e poi nella tradizione europea. I-III dopo un proemio, si narrava la venuta di Enea in Italia, la storia della fondazione di Roma, e il periodo dei re. IV-VI le guerre con i popoli italici e la grande guerra contro Pirro. VII-X le guerre puniche. X-XII le campagne in Grecia, successive alla vittoria su Annibale. XIII-XVI le guerre in Siria, e nel XV, il trionfo di Nobiliore. XVI- XVIII le campagne militari più recenti, forse alla data della morte del poeta. Il titolo Annales fa riferimento agli Annales Maximi, le pubbliche registrazioni di eventi condotte anno per anno. Ennio è molto più selettivo di uno storico, e si occupa quasi esclusivamente di avvenimenti bellici: molto poco di politica interna. Gli Annales utilizzano ampiamente fonti storiografiche, ma di natura incerta, l‟unica deduzione sicura è che Ennio abbia conosciuto l‟opera storica di Fabio Pittore. Tra le fonti poetiche primeggia Omero. 3. Ennio e le muse: la poetica L‟opera rimane contraddistinta da due grandi proemi, al libro I e libro VII: sono i momenti in cui il poeta prende più direttamente la parola e svela l‟ispirazione e le ragioni del suo fare poesia. Nel primo proemio il poeta raccontava di un suo sogno – il motivo è di derivazione greca – : era consuetudine che il poeta derivasse il suo canto da un incontro con le Muse. Tuttavia Ennio immaginò che nel sogno appariva l‟ombra di Omero, e non solo gli faceva delle rivelazioni, ma addirittura gli garantiva di essersi reincarnato – secondo la dottrina pitagorica della metempsicosi, la reincarnazione ciclica e perpetua delle anime – proprio lui, nel poeta Ennio. Non si potrebbe indicare un simbolo più impressionante della volontà con cu i poeti romani si appropriano dei modelli greci, facendosi “incarnare” da essi! Nel proemio al libro VII, Ennio dava più spazio alle divinità simboliche di tutta la sua poesia, le Muse che con lui prendevano cittadinanza a Roma. Ennio è raffigurato come il primo poeta dicti studiosus, cioè il primo poeta filologo, cultore della parola; il primo che può stare alla pari con la raffinata cultura alessandrina e con la poesia contemporanea di lingua greca. Sicuramente Ennio poteva riferirsi all‟importanza di essere stato il primo ad adottare l‟esametro dattilico, il verso regolare della grande poesia greca. 4. Lo sperimentalismo enniano: lingua, stile e metrica 7 I frammenti che abbiamo documentano la fisionomia di un poeta profondamente e audacemente “sperimentale”: accolse nel suo testo numerosi grecismi, non solo parole, ma persino desinenze greche. Scrisse esametri con pause sintattiche praticamente in qualsiasi punto del verso. Ideò versi tutti allitteranti, e tutti allitteranti nello stesso fonema: o Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranne, tulisti (“o Tito Tazio, tiranno, tu ti attirasti <disgrazie> tanto grandi!”). L‟allitterazione e la distribuzione dei suoni nel verso è di particolare interesse. Lo stile allitterante era istituzionale, tipico dei carmina più antichi, nei proverbi, nelle leggi, nelle formule sacrali... Ennio lo importò nell‟esametro, sottoponendo così un verso greco agli effetti di uno stile tipicamente romano. Ma l‟esametro era per sua natura e struttura un verso molto uniforme e regolare; applicato all‟esametro lo stile allitterante suonava monotono e cadenzato. I poeti successivi faranno un uso più selettivo e misurato delle figure di suono nei loro esametri, cercando di motivarle, cioè di usarle solo con particolari finalità espressive. Virgilio ne farà un uso per far sentire nei suoi versi il codice di una poesia antica e tradizionale, ma ormai lontana. 5. Ennio e l’età delle conquiste La visione del mondo che Ennio comunica nel suo poema è, per quanto possiamo capire, il trionfo dell‟ideologia aristocratica. Gli Annales celebravano la storia di Roma come somma di imprese eroiche, dettate dalle virtus degli individui: individui eccellenti, i grandi nobili, i grandi magistrati. Ennio è dunque il più grande poeta di una cerchia aristocratica che “rilegge” la storia d Roma in funzione dei propri valori ed interessi. Tipica del periodo è la ricerca di una concezione colta e umanistica della virtus: Ennio non elogia solo le virtù guerriere, ma anche, soprattutto, le virtù di pace: saggezza, moderazione, saper pensare e saper parlare. Il grande ruolo che Ennio tributava alla letteratura è del tutto coerente con questa tendenza umanistica e grecizzante: è la poesia che deve portare incivilimento. Resta per molti secoli il poeta nazionale romano, raggiunto solo da Virgilio. Gli Annales non potevano già contenere una sintesi compiuta dell‟imperialismo romano, perché Ennio non visse abbastanza: morì un anno prima della tappa più importante di questo processo, la battaglia di Pidna (168 a.C.). Il primo vero bilancio dell‟imperialismo romano sarà tracciato da Polibio. CATONE Vita Marco Porcio Catone nacque nel 234 a.C. a Tusculum (vicino Frascati) da una famiglia plebea di agricoltori benestanti; combatté nella guerra contro Annibale, e nel 214 fu tribuno militare in Sicilia. Lucio Valerio Flacco lo aiutò nella carriera politica. Nel 195 L‟homo novus Catone fu console insieme a Valerio Flacco: nel 184 è censore insieme a Valerio Flacco; esercitò la carica presentandosi come campione delle antiche virtù romane contro la degenerazione dei costumi e il dilagare di tendenze individualistiche influenzate dalla cultura ellenistica. Parallelamente alla polemica contro il lusso dei privati, Catone esaltava la ricchezza e la potenza dello stato, che doveva risaltare agli occhi di tutti: promosse, perciò, un programma di edilizia pubblica. La censura di catone rimase celebre per l‟intransigenza con la quale egli esercitò la carica, dando sfogo al suo rigore moralistico. Si fece promotore della III guerra punica. Opere Orazioni: Cicerone conosceva più di 150 orazioni di Catone. Possediamo diversi frammenti. Origines: un‟opera storica in 7 libri composta in vecchiaia. Un trattato De agri cultura (conservato), il testo in prosa latina più antico che ci sia giunto intero. Fonti La Vita di Catone di Plutarco; La vita di Catone di Cornelio Nepote; il Cato Maior de Senectute di Cicerone; Tito Livio. 1. Gli inizi della storiografia senatoria Catone scrisse le Origines in vecchiaia, dando inizio alla storiografia in latino; per l‟annalistica romana in lingua greca, come quella di Aulo Postumio Albino, ostentava disprezzo. Il caso di Catone, cioè di un uomo politico di primo piano che scrive storia era destinato a restare un caso isolato nella cultura latina. L‟elaborazione ad opera di membri della classe dirigente conferisce alla nascente storiografia romana soprattutto un vigoroso impegno politico: nell‟epoca di Catone avevamo largo spazio le preoccupazione per la dilagante corruzione dei costumi, e la rievocazione di battaglie personal_ mente condotte, in nome della saldezza dello stato, contro l‟emergere 10 Menandro era stato modello anche per Plauto. Ma per Plauto la verosimiglianza non era un valore assoluto: nella palliata plautina il gioco scenico finisce facilmente per rispecchiare se stesso, mettendo in crisi l‟effetto di realtà dell‟intreccio scenico. Terenzio curò molto di più la coerenza e l‟impermeabilità dell‟illusione scenica. Lo sviluppo dell‟azione non prevede mai sviluppi “metateatrali”: in pratica, la palliata di Terenzio non apre al suo interno nessuno spazio di autocoscienza. Questi momenti di riflessione vengono tutti concentrati nello spazio del prologo. L‟importanza data al prologo come istituzione letteraria è la principale innovazione tecnica di Terenzio rispetto alla tradizione plautina. Nella tradizione risalente alla Commedia Nuova, il prologo era generalmente concepito come spazio espositivo, di informazione preliminare alla comprensione della trama (antefatti, anticipi dello sviluppo dello scioglimento della scena). Questo metteva il pubblico in posizione più attenta allo sviluppo dell‟azione. Terenzio rifiuta questa funzione informativa dei prologhi, anche a costo di qualche oscurità nella conduzione dell‟intreccio, Adopera, invece, i suoi prologhi come personali prese di posizione dell‟autore: chiarisce il rapporto con i modelli greci utilizzati, e risponde alle critiche dei suoi avversari su questioni di poetica. E‟ evidente che questo presuppone un pubblico più avanzato, attento a problemi di gusto e dei tecnica: senz‟altro più ristretto e selezionato. Il principale avversario, che Terenzio cita direttamente, ci è noto come poeta comico minore, Luscio di Lanuvio. Nel prologo dell‟Andria, ribatte l‟accusa di contaminare fabulas; e sottolinea che anche i rispettati Nevio, Plauto, Ennio non fecero diversamente con i loro modelli greci. Le affermazioni programmatiche di Terenzio sull‟uso dei modelli (adattamenti, contaminazioni…) sono per noi difficili da riscontrare, perché dei suoi originali non ci sono pervenuti che scarsi e casuali frammenti. Ciò che si riesce a distinguere, è che Terenzio se attiene piuttosto fedelmente alla linee degli intrecci menandrei, senza mai rinunciare ad approfondire gli interessi che più lo toccano: cioè, i caratteri ed i problemi di un‟umanità “borghese”. 4. Temi e fortuna dalle commedie di Terenzio Terenzio sacrificò, rispetto alla tradizione della palliata, la ricchezza dell‟inventiva verbale e delle trovate comiche estemporanee. La palliata latina era sempre stata, per sua natura, fortemente ancorata alle situazioni familiari: i suoi tipi fissi erano il giovane innamorato, e il vecchio padre ingannato ; ma in Terenzio questi rapporti diventano veramente rapporti umani, sentiti con maggiore serietà problematica. Questo approfondimento risente di una sincera adesione al modello di Menandro, e della circolazione di ideali “umanistici” di origine greca. A questo si deve l‟apparizione di un concetto-chiave come humanitas – influenzato dal greco philantropìa – che è in piena sintonia con la cultura dell‟età scipionica. Nel concetto (“ riconoscere e rispettare l‟uomo in ogni uomo” A. Traina) confluiscono vari filoni di pensieri greci, ma tipicamente romana è la sintesi, ispirato da pragmatismo attivo. Non è certamente un caso che la commedia terenziana di maggior successo immediato (l‟Eunuchus) –sia quella in cui meno si affacciano temi psicologici e umanistici. Si tratta del più riuscito tentativo di Terenzio in direzione della comicità plautina: la commedia inscena un romanzesca travestimento (un giovane si traveste da eunuco per avere in consegna l‟amata) e un burlesco personaggio di soldato fanfarone. Ma Terenzio continuò a tener la scena anche dopo la sua morte, ed ebbe sempre il favore dei critici più colti e sensibili, che apprezzarono la purezza della lingua e la raffinatezza dello stile. Cicerone attribuisce Terenzio un linguaggio scelto (lecto sermone) insieme a urbanità (come loquens) e a dolcezza del dire (omnia dulia dicens). Moderazione dei sentimenti, valori etici apprezzati anche dai cristiani (S. Agostino), purezza di lingua che facevano di Terenzio un modello di stile: sono le cause che introdussero le sue commedie nella scuola. LUCILIO Vita La data di morte 102 a.C. è sicura. Nato presumibilmente tra il167/168. Era i un distinta famiglia originaria della Campania settentrionale: la sua biografia giovanile è legata al “circolo scipionico”. E‟ il primo letterato di buona famiglia che conduce una vita da scrittore, volontariamente appartata dalla vita politica. Opere Trenta libri di satire, di cui abbiamo i frammenti per circa 1300 versi. L‟ordine era dato da un criterio metrico e non coincideva con quello cronologico di composizione. Così Lucilio si orientò progressivamente verso l‟esametro (segno di provocazione ironica, vista che era il “verso eroico”); e l‟esametro diventerà da Orazio in poi l‟unico verso prescritto per la satira. Non è affatto sicura che il termine Saturae risalga a Lucilio stesso, ma Orazio usa il termine per designare quel genere di poesia inaugurata da Lucilio. Fonti Numero citazioni di grammatici e commentatori tardi. Cospicue allusioni nelle opere di Orazio. Fu letto con interesse in età imperiale; l‟abbondanza di parole rarissime e difficili nella sua opera offrì molto materiale ai grammatici tra il II e il V sec. d.C. 11 Lucilio e la satira Le origini del termine del termine satura sono piuttosto incerte. Sicuro che la satura lanx indicasse un piatto misto di primizie che venivano offerta agli dei; di qui anche una specialità gastronomica, e un tipo di procedimento giuridico lex per saturam, quando si riunivano stralci di vari argomenti in un singolo provvedimento legislativo. Dunque, è probabile che il valore di “mescolanza e varietà” fosse quello originario. Per quanti apporti greci la satira abbia accolto, l‟impulso originario e specificamente romano Questo impulso si può riconoscere come la ricerca di un genere letterario disponibile ad esprimere una voce personale del poeta. Se consideriamo come riferimento l‟epoca di Ennio si nota che nessun dei generi canonici della poesia prevede uno spazio di espressione “diretta”, in cui il poeta possa rispecchiare il suon rapporto con se stesso e con la realtà contemporanea. Varietà, voce personale, impulso realistico, sono caratteri che in qualche modo discerniamo anche dai frammenti delle satire enniane. E‟ verosimile che i vari punti della tradizione biografica su Ennio derivino proprio dagli accenni autobiografici contenute nelle stesse sue satire. Anche per questo aspetto, Ennio ha un posto importante nello sviluppo di un‟ “autocoscienza” del poeta. Comunque sia, questa forma di poesia varia si offrì a Lucilio come ideale mezzo espressivo da perfezionare: la sua grande importanza storica sta nell‟essersi concentrato esclusivamente sul genere della satira. Lo sviluppo della satira significa anche la crescita di un nuovo pubblico, culturalmente avvertito, e desideroso di letteratura più aderente alla realtà contemporanea. Trenta libri: per quanto ne sappiamo Lucilio affrontò uno spettro molto ampio di argomenti. Il libro I conteneva un‟ampia composizione nota come Concilium deorum; attraverso una grande parodia dei concili divini, scena tipica dell‟epos, Lucilio riprendeva un certo tipo inviso agli Scipioni: gli dei lo facevano morire di indigestione. In più di una satira si fornivano precetti culinari (come nella satira 2,4 di Orazio). Nel XXX si descriveva un sordido banchetto; più in generale, accenni alla gastronomia connessi con il tema polemico del lusso a tavola ricorrono più libri. Nel libro XX era narrato un banchetto organizzato da un parvenu, antenato letterario dei più famosi Nasidieno (Orazio, Satire 2,8) e Trimalcione. Il libro XVI pare fosse dedicato alla donna amata: quindi Lucilio è anche un antesignano della poesia personale d‟amore, tendenza che ritroveremo sempre più centrale negli epigrammi catulliani e nell‟elegia augustea. E‟ chiara l‟esistenza di un programma letterario decisamente unitario e innovativo, sostenuto da una personalità di vivace anticonformismo. La sua poesia rifiuta un unico livello di stile, e si apre in tutte le direzioni: amalgama il linguaggio elevato dell‟epica, rivissuto come parodia, e i linguaggi specializzati che finora restavano esclusi dalla poesia latina: e forme di linguaggio di tutti i giorni, attinte ai diversi strati sociali. In questa prospettiva Lucilio è – con Petronio - quanto di più vicino al realismo moderno offre la letteratura latina. La disarmonia dello stile di Lucilio è certamente una scelta meditata, rivolta a un preciso programma espressivo, che fonde insieme vita e arte. Come voce personale del genere satirico, Lucilio resterà un modello per tutti i poeti satirici latini, da Varrone in poi. CATULLO Vita Gaio Valerio Catullo nasce a Verona da un famiglia agiata. La data di nascita, Svetonio, è nell‟87 a. C. A Roma conobbe e frequentò personaggi di spicco nell‟ambiente politico e letterario ed ebbe una relazione d‟amore con Clodia (la Lesbia dei suoi versi), quasi certamente sorella del tribuno P. Clodio Pulcro e moglie di Q. Cecilio Metello, console nel 60. Morì sui trent‟anni. Opere Di Catullo abbiamo 116 carmi (2300 versi) raccolti in un liber, diviso sommariamente su base metrica. Il gruppo primo (1-60) è costituito da componi_ menti di carattere leggero (le nugae “bagattelle”). Il secondo gruppo (61-68) abbraccia una seria di carmi di maggiore estensione e impegno stilistico: i cosiddetti carmina docta. La terza sezione (69-116) comprende carmi generalmente brevi in distici elegiaci, i cosiddetti “epigrammi”. I più credono che l‟ordinamento della raccolta (secondo un criterio, non cronologico, ma metrico: un criterio da filologi) sia opera di altri, dopo la morte del poeta, quando sarà approntata un‟edizione postuma dei suoi carmi (alcuni devono essere rimasti esclusi). Quindi, forse, il libellus dedicato a Catullo da Cornelio Nepote non corrisponde esattamente al liber rimastoci, ma ne costituisce solo una parte. Fonti Le notizie biografiche ci vengono soprattutto dai suoi carmi; sulle relazioni della famiglia con Cesare ci informa Svetonio. Che Lesbia fosse uno pseudonimo per Clodia la sappiamo da Apulieo; e sulla Clodia con cui abitualmente la si identifica molto ci dice Cicerone, che ne traccia un ritratto nella Pro Caelio, l‟orazione in difesa di Celio Rufo, ex amante della donna e da lei tardi tratto in giudizio per veneficio. 12 1. I carmi brevi Il nome e la poesia di Catullo sono tradizionalmente associati alla rivoluzione neoterica; ne sono anzi il documento più importante. Rivoluzione del gusto letterario, ma anche rivolta dei carattere etico: mentre si sgretolano, nell‟età della crisi della repubblica, gli antichi valori morali e politici della civitas, l‟otium individuale diventa alternativa seducente alla vita collettiva, lo spazio in cui dedicarsi alla cultura, alla poesia, alle amicizie, all‟amore. L‟attività letteraria non si rivolge più all‟epos o alla tragedia, bensì alla lirica, alla poesia individuale, introversa, adatta ad accogliere ed esprimere le piccole vicende della vita personale. A questo progetto risponde quella parte della produzione di Catullo che si suole indicare come “carmi brevi”: l‟insieme dei polimetri e degli epigrammi, in cui l‟esiguità dell‟estensione rivela già essa stessa la modestia dei contenuti, occasioni e avvenimenti della vita quotidiana e favorisce il paziente lavoro di cesello, la ricerca della perfezione formale. Affetti, amicizie, odi, aspetti minori o minimi dell‟esistenza, passioni, sono l‟oggetto della poesia di Catullo. Ne risulta un‟impressione di immediatezza, di vita riflessa, che ha dato luogo nella critica a un equivoco tenace,quello di una poesia ingenua e spontanea. In realtà è un‟apparenza ricercata e ottenuta grazie a un ricco patrimonio di dottrina. Non si dovrebbe dimenticare che il destinatario di ogni carme è per lo più rappresentante di una cerchia raffinata e colta: lui si attende un prodotto letterario che abbia veste stilistica e fattura formale di livello adeguato. Solide strutture formali costituiscono l‟ “ordito” su cui s‟ inscrive il gioco apparentemente tutto libero del poeta. Si può scoprire allora che un bilanciato gioco di antitesi o di richiami simmetrici si cela dietro quella parole che vogliono apparire dettate dalla passione più immediata: così nel più celebre fra i “carmi dei baci” (c. 5): Vivamus, mea lesbia, atque amemus, rumoresque senum severiorum omnes unius aestimemus assis. Soles uccidere et redire possunt: nobis, cum semel occidit brevis lux, nox est perpetua una dormienda. Da mi basia mille, deinde centum, deinde mille altera, dein seconda centum, deinde usque altera mille, deinde centum. Dein, cum milia multa fecerimus, conturbabimus illa, ne sciamus, aut nequis malus invidere possit, cun tantum sciat esse basiorum. La pausa riflessivo-sentenziosa dei vv. 4-6 costruisce il suo senso su di un contrasto, che ribadisce con suggestivi effetti fonosimbolici: vedi l‟opposizione brevis-perpetua, la collocazione a risalto dei due monosillabi assonanti lux-nox, una in clausola, l‟altro in incipit del verso. L‟analisi rivela l‟attenta costruzione di quel che appare espressione spontanea, incontrollata, di una rivolta esistenziale: anche la simmetricità dell‟alternanrsi deinde e dein – nei vv. 7-10 – mostra come nulla sia lasciato ad una disposizione casule degli effetti. Lo sfondo della poesia di Catullo è costituito dall‟ambiente letterario e mondano della capitale, di cui fa parte la cerchia degli amici neoterici, accomunati da un ideale di grazia brillantezza di spirito: lepos, venustas, urbanitas (grazia, eleganza, cortesia) sono i principi che fondano questo codice etico, che governa i rapporti reciproci ma ispira anche il gusto letterario. Su questo sfondo campeggia e risalta la figura di Lesbia, incarnazione della devastante potenza dell‟eros, protagonista della poesia catulliana. Lo pseudonimo, che rievoca Saffo, la poetessa di Lesbo, crea già un alone idealizzante: grazia e bellezza, ma soprattutto intelligenza, cultura, spirito brillante affascinano e alimentano la passione di Catullo. L‟eros diventa centro dell‟esistenza e valore primario, il solo in grado di risarcire la fugacità della vita, capace di riempirla e di darle senso. All‟amore e alla vita sentimentale Catullo trasferisce tutto il suo impegno, sottraendosi ai doveri agli propri del civis romano. Il rapporto con Lesbia, nato come adulterino, nel farsi impegno esclusivo dell‟impegno morale del poeta tende, paradossalmen_ te, a configurarsi nelle aspirazioni di Catullo come un vincolo nuziale. Le recriminazioni per il foedus d‟amore violato da Lesbia sono un motivo insistente, che ne accentua il carattere sacrale appellandosi a due valori fondanti, la fides, che garantisce il patto stipulato vincolando moralmente i contraenti, e la pietas, virtù propria di chi assolve ai suoi doveri nei confronti degli altri. Ma l‟offesa ripetuta del tradimento produce in lui una dolorosa dissociazione fra la componente sensuale (amare) e quella affettiva (bene velle): celebre esempio di questo conflitto è il c. 72, che analizza la scomparsa di ogni affetto e stima per quella donna che continua, però, ad accendere la passione dell‟innamorato (iniuria talis/ cogit amare magis, sed bene velle minus, 7 seg.). 15 bruscamente. Lucrezio potrebbe aver voluto contrapporre l‟ouverture e il finale come una sorta di “trionfo della vita” e di “trionfo della morte”, per mostrare come non esista alcuna conciliazione del contrasto eterno di queste due potenze. Prima del De rerum natura la letteratura latina non aveva mai prodotto opere di poesia didascalica di grande impegno. La tradizione latina non offriva dunque esempi di poesia didascalica di grande respiro; d‟altra parte, Lucrezio ambisce a descrivere, ma soprattutto a spiegare, ogni aspetto importante della vita del mondo e dell‟uomo, e di convincere il lettore della validità della dottrina epicurea. La tradizione ellenistica, che rivive nelle Georgiche di Virgilio, ricerca invece una sua ispirazione in argomenti tecnici e in gran parte sprovvisti di implicazioni filosofiche. La consapevolezza dell‟importanza della materia determina il tipo di rapporto che Lucrezio instaura con il lettore- discepolo, il quale viene esortato, affinché segua con diligenza il percorso formativo che l‟autore propone. L‟ethos del genere didattico ellenistico era stato un ethos puramente encomiastico: rendeva lode alle cose. Al contrario, in Lucrezio, non est mirandum e nec mirum sono le formule che spesso articolano l‟argomentazione: non c‟è da meravigliarsi davanti a questo o a quel fenomeno perché esso è connesso necessariamente con questa o quella regola oggettiva, e non può trarre stupore che abbia capito i principi delle cose. Alla “retorica del mirabile”, Lucrezio sostituisce la “retorica del necessario”; e così necesset est sarà un‟altra formula usata di frequente nelle argomentazione lucreziane. Il destinatario, fatto direttamente responsabile, con le sue reazioni all‟insegnamento, diventa consapevole della propria grandezza intellettuale: è questa la radice del sublime lucreziano. Il sublime diventa non solo una forma stilistica che rispecchia una forma di interpretazione del mondo; ma , anche, una forma di percezione delle cose. Il sublime coinvolgendo il lettore, gli suggerisce un bisogno morale. Il sublime funziona come un invito all‟azione: attraverso la rappresentazione del sublime il poeta esprime con ansia un‟esortazione al lettore: che scelga per sé, un modello di vita, anche forte. Nel progetto didascalico lucreziano il genere stesso diventa una forma problematica: il testo prevede un lettore antagonistico capace di fare di se stesso e delle proprie reazioni emotive un contenuto del poema. La nuova forma, che il genere didascalico assume in Lucrezio, trova il suo necessario corrispettivo nella creazione di un destinatario che sappia adeguarsi alla forza sublime di un‟esperienza sconvolgente. Forma sublime del testo e forma sublime del destinatario (l‟immagine che il testo si fa del suo lettore ideale) sono i segni della trasformazione che il genere didascalico ha dovuto accettare quando ha scelto di farsi mezzo per comunicare un iter morale. Quel che nel genere didascalico tradizionale è una cornice – rapporto docente-allievo – diventa nel De rerum natura un centro di tensione e un tema problematico. La traduzione del genere in discorso didascalico è continuamente inseguita dal dubbio della propria irrealizzabilità. Da questo discendono alcune caratteristiche del poema, prima fra tutte la rigorosa struttura argomentativi. Tra i procedimenti adottati il sillogismo, strumento principe dell‟argomentazione filosofica; l‟analogia, grazie alla quale si tende a ricondurre al noto, al visibile, ciò che è troppo lontano e piccolo per essere osservato direttamente. Il libro che più di ogni altro testimonia la perizia argomentativi di Lucrezio è il III, dedicato alla confutazione del timore della morte. La parte centrale divisa in due sezioni: prima si dimostra che l‟anima è materiale, composta di atomi e vuoto (vv. 94-416); si affronta poi il problema-chiave: se materiale, l‟anima dev‟essere anche mortale, come tutti corpi (vv. 417- 829). In questi 400 versi Lucrezio propone ben 29 diverse prove per sostenere il suo assunto: il loro accumularsi, il dispiego di strumenti retorici, creano un insieme di innegabile forza persuasiva. Ma Lucrezio si rende conto che questo non è sufficiente a distogliere l‟uomo dal dolore di dovere abbandonare la vita. Per convincerlo dà la parola, nel finale (vv. 830-1094) alla Natura stessa, che si rivolge direttamente all‟uomo: se la vita trascorse è stata colme di gioie questi può starsene come un convitato sazio dopo un banchetto; se, al contrario, è stata segnata da dolori e tristezze, perché desiderare che essa prosegua? Solo gli stulti vogliono continuare a vivere, anche se nulla nuovo li può attendere. 3. Studio della natura e serenità dell’uomo Lucrezio si rivolge al lettore invitandolo a riflettere su quanto crudele e veramente empia fosse la religio tradizionale. La religione è in grado di opprimere sotto il suo peso la vita degli uomini, turbare ogni loro gioia con la paura: ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c‟è che il nulla, se diventassero perciò insensibili alle minacce di pene eterne, smetterebbero di essere succubi della superstizione religiosa. A tal fine è necessaria una conoscenza sicura delle leggi che regolano l‟universo, e rivelano la natura materiale e mortale del mondo, dell‟uomo e dell‟anima stessa. Superstizione religiosa, timore della morte e necessità di speculazione scientifica: il suo messaggio sarà di fatto ignorato non solo per l‟intrinseca difficoltà dell‟opera, ma anche perché potenzialmente in grado di mettere in discussione i fondamenti culturali – e, indirettamente sociali e politici – dello stato romano, che della religio aveva fatto un essenziale elemento di coesione. Lucrezio resta fedele alle teorie di Epicuro in materia di religione. Il filosofo greco era stato il primo uomo che “osò levare gli occhi contro la religione che incombeva minacciosa dal cielo” (I 66); per questo egli può essere venerato quasi come 16 un dio: tranne il II e il IV tutti libri si aprono con una appassionata celebrazione dei meriti di Epicuro. Esclusa l‟ipotesi che l‟uomo fosse soggetto agli dei in un rapporto di dipendenza, che da essi, suoi padroni, egli potesse attendersi benefici o punizioni. Anche Lucrezio recupera questo senso intimo della religiosità, intesa come capacità di vivere serenamente e contemplare ogni cosa con mente sgombra da pregiudizi. Nell‟ambito del V libro una sezione è dedicata alla nascita del timore religioso, che sorge spontaneo per ignoranza delle leggi meccaniche che governano l‟universo. 4. Il corso della storia Lo sforzo di Lucrezio è di evitare che su argomenti di grande rilievo la mancanza di spiegazioni razionali in termini epicurei, riconduca il lettore ad accettare le spiegazioni tradizionali della mitologia e della superstizione. Lucrezio dedica un‟ampia parte dell‟opera alla storia del mondo , del quale era stata anzitutto chiarita la natura mortale, atomica. Tutta la seconda metà del libro V tratta invece dell‟origine della vita sulla terra e della storia dell‟uomo. Né gli animali né l‟uomo sono stati creati da un dio, ma si sono formati grazie a particolare circostanze: il terreno umido e il calore hanno spontaneamente generato i primi essere viventi. I primi uomini conducevano una vita agreste, al di fuori di ogni vincolo sociale: la natura forniva il poco di cui c‟era davvero bisogno. Fra le tappe del progresso umano che Lucrezio tratta in seguito, quelle positive – la scoperta del linguaggio, quella del fuoco e dei metalli, della tessitura e dell‟agricoltura – sono alternate ad altre di segno negativo come l‟inizio dell‟attività bellica o il sorgere del timore religioso. Comunque, caso e bisogno materiale sono i fattori di avanzamento della civiltà. E‟ evidente in tutta la trattazione il desiderio del poeta di contrapporsi alle visioni teleologiche del progresso umano diffuse nella cultura del tempo. Il progresso materiale, fin quando ispirato al soddisfacimento dei bisogni primari, è valutato positivamente, mentre le riserve si concentrano sull‟aspetto di decadenza morale che i progresso ha portato con sé: il sorgere della guerra, delle ambizioni e cupidigie personali ha corrotto la vita dell‟uomo. A questi problemi l‟epicureismo è in grado di fornire una risposta invitando a riscoprire che “di poche cose ha davvero bisogno la natura del corpo.” Epicuro aveva prescritto di evitare i desideri non naturali non necessari e di badare solo al soddisfacimento di quelli naturali e necessari: “Grida la carne: non aver fame non aver sete non aver freddo; che abbia queste cose e speri di averle in futuro, anche con Zeus può gareggiare in felicità”. Si comprende come l‟epicureismo sia stato spesso considerato già in antico, una forma di edonismo sfrenato, non cogliendo lo spirito dei suoi precetti fondamentali, tutti volti alla limitazione dei bisogni e alla ricerca di piaceri naturali e semplici. Il “progetto sociale” di Epicuro e Lucrezio è coerente con queste premesse: il saggio abbandoni le inutili ricercatezze, si allontani dalle tensioni della vita politica, si dedichi a coltivare lo studio della natura con gli amici più fidati, somma ricchezza della vita umana. 5. L’interpretazione dell’opera La confusione tra la figura storica dell‟autore e l‟immagine del “narratore” che prende la parola all‟interno del poema continua a nuocere alla lettura critica del De rerum natura: le due figure non devono essere sovrapposte meccanicamente. Anche solo per questo motivo non possono essere accettate le tesi di quanti hanno affannosamente cercato nell‟opera tracce di uno squilibrio mentale di Lucrezio, ora nella forma di crisi maniaco-depressive, ora come generica angoscia di vivere. Una lettura preconcetta induce a constatare che la tensione dell‟autore è sempre rivolta a conseguire il convincimento razionale del suo lettore, a trasmettergli i precetti di una dottrina di liberazione morale nella quale egli stesso profondamente crede. L‟accesa confutazione della tesi stoica di una natura provvidenziale, ad esempio, spiega perché Lucrezio insiste a lungo sull‟idea che la natura è del tutto incurante delle esigenze dell‟uomo. Quando ,nel finale del IV libro, si scaglia contro le insensatezze della passione amorosa, è probabil_ mente mosso dalla volontà di ribadire che il saggio epicureo deve tenersi lontano da una passione irrazionale che non ha alcuna giustificazione nei dettami della natura. I questo caso avranno agito anche stimoli culturali diversi, quali la volontà di contrapporsi all‟ideologia erotica dei neoterici. Il problema del pessimismo di Lucrezio non manca di occupare tuttavia un ruolo centrale in una buona parte della critica, e si deve ammettere che non è facile giungere ad una valutazione equilibrata. Lucrezio ripete spesso che la ratio da lui esposta è foriera di serenità e libertà interiori, che traggono origine dalla comprensione dei meccanismi di vita e di morte. Offre al lettore la possibilità di guardare tutt‟intorno con occhio indifeso e invita all‟accettazione consapevole di ogni cosa in quanto esistente. Ma questo razionalismo, a tratti, mostra i suoi limiti. Sull‟angoscia dell‟uomo di fronte all‟idea che la sua vita deve avere un termine Lucrezio si irrigidisce: se la vita trascorsa è stata piacevole, nulla di diverso può essere esperito in futuro, conviene semmai allontanarsi come un convitato sazio; in caso contrario, meglio comunque concludere un‟esperienza ricca solo di dolore. Proprio questa rigidità, il supporre che il non essere mai nati non sarebbe stato un male per l‟uomo, 17 l‟insistere sull‟idea che la prolungare la vita non sottrae neppure un giorno alla morte che ci attende, l‟invito epicureo al carpe diem (V 957), contrastano con la precisa descrizione dell‟uomo in preda all‟angoscia irrazionale che Lucrezio stesso ci offre verso la fine del libro. 6. Lingua e stile di Lucrezio Cicerone (vedi la vita) ammirava in Lucrezio non solo l‟acutezza del pensatore, ma anche grandi capacità di elaborazione artistica. La critica moderna ha lungo esitato a sottoscrivere la seconda delle affermazioni, giudicando lo stile del poeta troppo rude e legato all‟uso arcaico, a tratti prosaico e ripetitivo, ma da qualche tempo gli studiosi hanno modificato questa prospettiva, ricollocando Lucrezio e Virgilio nella loro giusta dimensione storica. Anche lo stile, come l‟organizzazione complessiva della materia, doveva piegarsi al fine di persuadere il lettore. Si spiegano in questa luce le frequenti ripetizioni. Anche l‟invito all‟attenzione del lettore doveva essere reiterato spesso; e alcuni termini tecnici della fisica epicurea, nonché i nessi logici di grande uso (le formule di transizione tra argomenti diversi: quod, paeterea, denique) dovevano restare il più possibile fissi per consentire la lettore di familiarizzare con un linguaggio non certo facile. Alla lingua latina mancava la possibilità di esprimere certi concetti filosofici e Lucrezio si trovò costretto quindi a ricorre a perifrasi nuove (quali primordia o corpora prima per designare gli atomi), a coniazioni, talvolta a calchi diretti dal greco. La povertà della lingua non si estendeva però al di fuori del lessico strettamente tecnico: Lucrezio sfrutta una gran mole di vocaboli poetici della tradizione arcaica (soprattutto enniana): trae le più caratteristiche forme dell‟espressione: un intensissimo uso di allitterazioni, di assonanze, di costrutti arcaici propri del gusto espressivo-patetico dei più antichi poeti di Roma. In campo grammaticale i due fenomeni più vistosi sono il gran numero di infiniti passivi in –ier (più arcaico di –i), ed il prevalere della desinenza bisillabica –ai bel genitivo singolare della prima declinazione (anziché –ae), esclusa ormai ai tempi di Lucrezio dalla lingua d‟uso. L‟esametro lucreziano si differenzia nettamente da quello arcaico di Ennio, rispetto al quale predilige l‟incipit dattilico che sarà usuale nella poesia augustea. Un segno di scarsa capacità di sfruttamento della possibilità espressive dell‟ordine delle parole è stato spesso visto nella tendenza a comporre il verso in due parti quasi sempre equivalenti, o a ricercare un ordine chiastico ( del tipo ab-ba) ,molto diffusi in Virgilio ed Ovidio. Ma certamente il tratto distintivo dello stile lucreziano vi individuato nella concretezza dell‟espressione. Evidenza e vivacità descrittiva, visibilità e percettibilità degli oggetti intorno a cui si ragiona, “corporalità” dell‟immaginario: effetti obbligati da una mancanza di un linguaggio astratto già pronto. Ma le immagini così evocate per spiegare pensieri ed idee, non restano solo mezzi atti ad illustrare l‟argomentazione astratta: diventano il risvolto emozionale di un discorso intellettuale che sceglie di farsi soprattutto descrizione di grande efficacia. Anche se i livelli di stile sono molto diversi, il registro che li unifica è uno solo e continuo: è il registro dell‟enthusiasmòs poetico al servizio di una missione didattica vissuta con ardore eccezionale. 7. La fortuna di Lucrezio E‟ sicuramente strana la completa assenza del poeta dalle opere filosofiche di Cicerone, dove pure la confutazione dell‟epicureismo ha larga parte: forse volontà di ignorare il De rerum natura e sminuirne così il valore? Gli autori cristiani leggono Lucrezio e ne criticano apertamente le posizioni. Nel 1418 Poggio Bracciolini scopre in Alsazia un manoscritto nel De rerum natura e lo invia a Firenze perché sia copiato: è l‟inizio della rinnovata fortuna dell‟opera in epoca moderna; prima edizione a stampa a Brescia 1473. Nel 500 compaiono le prime “confutazioni di Lucrezio”, opere che riprendono da vicino la lingua e lo stile latino dell‟autore per propugnare però tesi opposte. La prima traduzione italiana dell‟opera è di Alessandro Manzoni, pubblicata a Londra nel 1717 dopo il divieto ricevuto in patria. Non certa una lettura integrale di Lucrezio da parte di Giacomo Leopardi, ma citazioni dirette ( i vv. 111-114 della Ginestra: “Nobil natura è quella/ che a solevar s‟ardisce/ gli occhi mortali al comun fato”, riprendono forse I, 65-66 Graius homo mortali tollere contra/ est oculo ausus primusque obsistere contra). Nel 1850 l‟edizione critica del De rerum natura di Karl Lachmann, banco di prova del moderno metodo filologico. CICERONE Vita Marco Tullio Cicerone nasce ad Arpino nel 106 a. C. da agiata famiglia equestre; compie ottimi studi di retorica e filosofia a Roma. Nell‟89 presta servizio militare nella guerra sociale, agli ordini di Pompeo Strabone, padre del Grande. Nel 81 debutta come avvocato. Nel 69 è edile; nel 66 pretore; nel 70 20 Quasi tutte le opere retoriche sono state scritte dopo il ritorno dall‟esilio; esse nascono dal bisogno di una risposta politica e culturale alla crisi. Il De oratore venne composto nel 55; in forma di dialogo,è ambientato nel 91, e ci prendono parte alcuni tra i più insigni oratori dell‟epoca, fra i quali Marco Antonio, nonno del triumviro, e Lucio Licinio Crasso (sostanzialmente il portavoce dello stesso Cicerone). Nel libro I Crasso sostiene, per l‟oratore, la necessità di una vasta formazione culturale. Antonio gli contrappone l‟ideale di un oratore più istintivo e autodidatta, la cui arte si fondi sulla fiducia nelle proprie doti naturali, sulla pratica del foro e sull‟esempio degli oratori precedenti. I libri II e III passano alla trattazione di questioni più analitiche. La scelta del 91 ha un significato preciso: precede di poco lo scoppio della guerra sociale e di lunghi conflitti civili tra Mario e Silla. La crisi dello stato è un‟ossessione incombente su tutti i partecipanti al dialogo. Cicerone si è sforzato di ricreare l‟atmosfera degli ultimi giorni di pace dell‟antica repubblica. Il modello a cui si ispira è sostanzialmente quello del dialogo platonico: Cicerone ha saputo creare un‟opera viva e interessante, che, per quanto basata su una perfetta conoscenza della letteratura specialistica greca, si nutre dell‟esperienza romana e conserva uno stretto rapporto con la pratica forense. A sintetizzare le tesi principale dell‟opera potrebbe valere un‟espressione di Sulpicio, uno dei partecipanti al dialogo: “non l‟eloquenza è nata dalla teoria retorica, ma la teoria retorica dalla eloquenza” (I. 146). In quest‟ottica, il talento, la tecnica della parola e del gesto e la conoscenza delle regole retoriche non possono ritenersi bastevoli per la formazione dell‟oratore: si richiede, invece, una vasta formazione culturale. Crasso insiste perché probitas e prudentia siano saldamente radicate nell‟animo di che dovrà apprendere l‟arte della parola. La formazione dell‟oratore viene in tal modo a coincidere con quella dell‟uomo politico della classe dirigente: un uomo di cultura non specialistica, ma di vasta cultura generale, capace di padroneggiare l‟arte della parola e di persuade_ re i propri ascoltatori. Nel 46 Cicerone riprese le tematiche del De Oratore in un trattato più esile, l‟Orator; disegnando il ritratto dell‟oratore ideale, l‟autore sottolinea i tre fini ai quali l‟arte deve indirizzarsi: probare (prospettare la tesi con argomenti validi), delectare (produrre con le parole una piacevole impressione estetica), flectere (muovere le emozioni attraverso il pathos). Ai tre fini corrispondo i tre registri stilistici che l‟oratore dovrà sapere alternare: umile, medio e elevato o “patetico”. La rivendicazione della capacità di muovere gli affetti come compito sommo dell‟oratore nasceva dalla polemica nei confronti della tendenza “atticista”, i cui sostenitori rimproveravano a Cicerone di non aver preso le distanze sufficienti dell‟ “asianesimo”: le accuse si riferivano alla ridondanze del suo stile oratorio, al frequente uso di “figure”… Sul contrasto Cicerone prese posizione nel dialogo Brutus, dedicata Marca Bruto, uno dei principali esponenti delle tendenze atticistiche. Nel Brutus Cicerone, assumendosi il ruolo di principale interlocutore, disegna una storia dell‟eloquenza greca e romana, dimostrando doti di storico della cultura e fine critico letterario. Dato il carattere fondamentalmente autoapologetico del Brutus, si comprende come la storia dell‟eloquenza culmini in una rievocazione delle tappe della carriera oratoria di Cicerone. L‟ottica con cui guarda al passato dell‟oratoria è quella di una rottura degli schemi tradizionali che contrapponevano i generi di stile cui asiani ed atticisti erano tenacemente attaccati: il successo dell‟oratore di fronte all‟uditorio è il criterio fondamentale in base al quale valutare la riuscita stilistica. Gli atticisti sono criticati per il carattere troppo freddo e intellettualistico della loro eloquenza: essi ignorano l‟arte di trascinare gli ascoltatori. La grande oratoria “senza schemi” ha il suo modello in Demostene: in lui si riconosce il più perfetto modello dell‟eloquenza attica. 4. Un progetto di stato Il modello del dialogo platonico ritorna con maggiore evidenza nel De re publica. Non cercò di costruire a tavolino uno stato ideale, come Platone fece nella Repubblica: Cicerone si proiettò nel passato, per identificare la migliore forma di stato nella costituzione romana del tempo degli Scipioni. Il dialogo si svolge nel 129, nella villa di Scipione Emiliano che con l‟amico Lelio è una dei principale interlocutori. La ricostruzione è ipotetica per le condizioni frammentarie conci il dialogo ci è stato conservato: una parte cospicua venne ritrovata, agli inizi dell‟800, dal futuro cardinale Angelo Mai. Nel I libro Scipione parte dalla dottrina aristotelica delle tre forme fondamentali di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) e della loro necessaria degenerazione nelle forme estrema, rispettivamente tirannide, oligarchia e oclocrazia (governo della “feccia” del popolo). Riprendendo una tesi d Polibio, Scipione mostra come lo stato romano dei maiores si salvasse da quella necessaria degenerazione per il fatto di aver saputo contemperare le tre forme fondamentali: l‟elemento monarchico si rispecchia nel consolato, l‟elemento aristocratico nel senato, l‟elemento democratico nell‟istituzione dei comizi. 21 La teoria del regime “misto” risaliva, attraverso Polibio allo stesso Aristotele. Nella versione di Scipione, il contemperamento delle tre forme fondamentali non avviene tuttavia in proporzioni paritetiche. All‟elemento democratico Scipione guarda con evidente antipatia, la considera una “valvola di sicurezza” per scaricare e sfogare le passioni irrazionali del popolo. Non è facile precisare in che modo veniva delineata la figura del princeps, ma alcuni punti sono assodati: il singolare si riferisce al “tipo” dell‟uomo politico eminente, non alla sua unicità; Cicerone sembra pensare a una elìte di personaggi eminenti che si ponga alla guida del senato e dei boni. Ciò significa che Cicerone non prefigura esiti “augustei”, ma intende mantenere il ruolo del princeps all‟interno dei limiti della forma statale repubblicana: pensa alla coagulazione del consenso politico intorno a leader prestigiosi. L‟autorità del princeps no è alternativa a quello del senato, ma ne è il sostegno necessario per salvare la res publica. Perché la sua autorità non ecceda, il princeps dovrà armare il proprio animo contro tutte le passioni egoistiche – il desiderio di potere e il desiderio di ricchezza - . cicerone disegna così l‟immagine di un dominatore-asceta, rappresentante in terra della volontà divina, rinsaldato nella dedizione al servizio dello stato dalla sua despicientia verso le passioni umane. Ispirandosi a Platone, che alla Repubblica aveva fatto seguire le Leggi, Cicerone completò il dialogo sullo stato con De legibus, iniziato nel 52. Nel I libro Cicerone espone la tesi storica secondo la quale la legge non è sorta per convenzione, ma si basa sulla ragione innata in tutti gli uomini ed è perciò data da dio. Nel II l‟esposizione delle leggi che dovrebbero essere in vigore nel migliore degli stati si basa – qui la differenza con Platone – non su una legislazione utopistica, ma sulla tradizione legislativa romana, che ha i suoi punti di riferimento nel diritto pontificio e sacrale. 5. Una morale per la società romana E‟ nel 45 che i lavori filosofici si infittiscono in maniera incredibile, e ciò in coincidenza con eventi dolorosissimi nella vita di Cicerone: la morte della figlia, ma anche la dittatura di Cesare che lo aveva privato di una qualunque ingerenza negli affari pubblici. Divenuto quasi indifferente alle vicende politiche, vive in solitudine, e si tuffa completamente nella composizione di opere filosofiche. Lo sforzo di Cicerone si muove in generale, nel senso di ripensare tutto il corpus di metodi, teorie, cresciuto entro le scuole filosofiche ellenistiche per ricomporlo in un blocco di senso comune: egli intende così offrire un punto di riferimento alla classe dirigente romana, nella prospettiva di ristabilirne l‟egemonia sulla società. Ma originale in Cicerone è nella scelta dei temi, nel taglio degli argomenti, perché nuovi sono i problemi che la società pone, e nuovi gli interrogativi che egli pone ad essa: ricucire le membra lacerate del pensiero ellenistico, per trarne fuori una struttura ideologica efficacemente operativa nei confronti della società romana. Il suo metodo: esporre le diverse opinioni possibili e metterle a confronto per vedere se alcune siano più coerenti e probabili di altre. L‟eclettismo filosofico di Cicerone obbedisce alle esigenze di metodo rigoroso, che si sforza di stabilire fra le diverse dottrine un dialogo dal quale sia bandito ogni spirito polemico. La stessa ideologia della humanitas, alla cui elaborazione Cicerone dette un contributo notevolissimo, invitava a un atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza. Lo spuntarsi della vis polemica, la rinuncia a qualsiasi asprezza nel contraddittorio , la tendenza a presentare le proprie tesi solo come opinioni personali, l‟uso insistito di formule di cortesia: sono tutti tratti rivelatori dei costumi di una cerchia sociale elitaria, preoccupata di elaborare un proprio codice di “buone maniere”. Ma l‟eclettismo ciceroniano mostra una chiusura radicale verso l‟epicureismo. I motivi dell‟avversione sono soprattutto due, fra loro connessi:la filosofia epicurea conduce al disinteresse per la politica, mentre dovere dei boni è l‟attiva partecipazione alla vita pubblica; inoltre, l‟epicureismo esclude la funzione provvidenziale della divinità e indebolisce così i legami della religione tradizionale, che per Cicerone rimane la base fondamentale dell‟etica. Il confronto tra i diversi sistemi filosofici trova uno particolarmente esteso nel De finibus bonorum et malorum. Cicerone riconosceva che lo stoicismo forniva la base morale più solida all‟impegno dei cittadini verso la collettività; ma da uno stoico intransigente come Catone, o da un accademico della morale rigorosa come Bruto, si sentiva lontano per cultura e per gusti: il loro rigore etico gli appariva anacronistico. L‟eclettismo ciceroniano significa anche apertura e simpatia verso filosofie moderatamente aperte al piacere; e il probabilismo accademico forniva la base teoretica al suo tentativo di conciliare tendenze diverse. Un posto particolare occupano i due brevi dialoghi Cato maior de senectute e Laelius de amicizia, composti nel 44. Nel primo, nel personaggio di Catone, che sceglie come portavoce, Cicerone trasfigura l‟amarezza per una vecchiaia la quale sembra soprattutto temere la perdita della possibilità di intervento politico. Nella sua vecchiaia si armonizzano in maniera perfetta il gusto per l‟otium e la tenacia dell‟impegno politico, due opposte esigenze che Cicerone ha invano cercato di conciliare nell‟arco della vita. 22 Nel secondo, Lelio ha modo di intrattenere i propri interlocutori sulla natura e sul valore dell‟amicizia stessa. Amicitia, per i romani, era soprattutto la creazione di legami personali a scopo politico. La novità consiste nello sforzo di allargare la base sociale delle amicizie al di là della cerchia ristretta della noblitas. La fiducia in un rinnovato sistema di valori, in cui l‟amicizia occupi un ruolo centrale, deve servire a cementare la coesione dei boni,; ma l‟amicizia propagandata dal Lelius non è solo politica: si avverte, in tutta l‟opera, un disperato bisogno di rapporti sinceri, quali Cicerone, preso nel vortice delle convenienze della prassi politica, poté provare solo con poche persone. Rimane aperto, tuttavia, uno iato fra una concezione elevata della morale e della virtù e l‟imprescindibile realtà della prassi politica: l‟amicitia rivela alcune ambiguità, nel mostrarsi insieme come ideale di vita allietata da affetti fraterni, e come proposta di forme più o meno velate di convivenza fra sostenitori dell‟ordine sociale. La virtù fondamentale era costituita, per Panezio, dalla socialità, in cui alla tradizionale virtù cardinale della giustizia si affiancava la beneficenza. La beneficenza teorizzata di Panezio corrispondeva perfettamente allo stile di vita degli aristocratici romani, che – attraverso gli officia e l‟elargizione nei confronti dei concittadini – sapevano procurarsi un seguito politico capace di innalzarli alle più alte cariche dello stato; naturalmente ciò, gia per Panezio, poneva seri problemi, e di maggiori al tempo di Cicerone: troppe volte si era visto come la largitio, o in generale la corruzione della masse mediante proposte demagogiche, potesse essere un mezzo pericolosissimo nelle mani di individui senza scrupoli, decisi a fare dello stato un loro possesso privato. Perciò Cicerone sottolinea chela beneficenza non deve essere posta al servizio delle ambizioni personali. Alla virtù cardinale della fortezza Panezio aveva sostituito la magnanimità (“grandezza d‟animo”), una virtù signorile che scaturisce da un naturale istinto a primeggiare sugli altri, e risplende nella capacità di imporre il proprio dominio di cui da tempo il popolo romano ha dato prova di fronte al mondo. A fondamento della magnitudo animi il De offciis pone un disprezzo quasi ascetico per tutti i beni terreni, come gli onori, la ricchezza, il potere; il conquistare vantaggi agli amici o allo stato ha come presupposto, in chi li conquista, un energico controllo del desiderio personale. In ciò è evidente la volontà di sottoporre a forti vincoli una virtù che, può divenire la passione specifica della tirannide: mentre Cicerone scriveva, l‟esempio di Cesare era ancora sotto gli occhi. Compito della ragione è di controllare gli istinti, di trasformarli in virtù, svuotandoli di quanto essi c‟è di egoistico e prevaricatorio; una volta trasformato in virtù, l‟istinto può mettersi al servizio dello stato e della collettività; se la trasformazione non avviene, è aperta la strada all‟anarchia e alla tirannide. Nel sistema etico del De offciis, il regolatore generale degli istinti e delle virtù è costituito dall‟ultima virtù , la temperanza: all‟esterno, agli occhi degli altri, essa si manifesta come in un apparenza di appropriata armonia dei pensieri, dei gesti, delle parole, che assume il nome di decorum. Ciò significa un ideale di aequabilitas, quasi uniformità, possibile solo per chi abbia saputo sottomettere i propri istinti al saldo controllo della ragione. Una delle novità interessanti nel modello etico proposto nel De officiis è il fatto che il concetto di decorum permette di fondare anche la possibilità di una pluralità di scelte di vita. L‟appropriatezza delle azioni e dei comportamenti che si pretende dell‟individuo, ha infatti le sue radici nelle qualità personali, nelle disposizioni intellettuali di ognuno. Come gli attori del teatro, ognuno dovrà recitare nella vita la parte che meglio si addice al proprio talento: di qui la legittimazione di scelte di vita anche diverse da quelle tradizionale del perseguimento delle cariche pubbliche, purché chi le intraprenda non dimentichi i suoi doveri verso la collettività. Si fa trasparente l‟improponibilità ormai consolidata del modello aristocratico arcaico, che vedeva nel politica e nel servizio verso lo stato l‟unica vera attività veramente degna di un Romano. 6. Cicerone prosatore: lingua e stile Come quella di Lucrezio, l‟opzione di Cicerone era fondamentalmente “puristica”: evitare il grecismo. Di qui una costante e accanita sperimentazione lessicale nella traduzione dei termini greci. Risultato fu l‟introduzione di molte nuove parole; Cicerone gettò in tal modo le basi di quel lessico astratto destinato a divenire patrimonio della tradizione culturale europea: per esempio qualitas, essentia e così via. Il contributo più notevole all‟evoluzione della prosa europea fu nella creazione di un tipo di periodo complesso e armonioso, fondato sul perfetto equilibrio e rispondenza delle parti, il cui modello egli trovò in Demostene. La creazione di un simile periodo comportava l‟eliminazione delle incoerenze nella costruzione, degli anacoluti, delle “costruzioni a senso” e delle altre forme di incongruenze che la prosa arcaica latina aveva ereditato dal linguaggio colloquiale. Veniva poi l‟organizzazione delle frasi in ampie unità che manifestassero un‟accurata ed esplicita subordinazione delle varie parti rispetto al concetto principale: sostituzione della paratassi (coordinazione) con quella l‟ipotassi (subordinazione). L‟aspetto che più colpisce il lettore è sicuramente la varietà dei toni e dei registri stilistici che entrano in gioco con grande mobilità di effetti. Ad ogni livello di stile (vedi par. 3), ad ogni diverso registro espressivo corrisponde una collocazione della parole adeguata. Va detto che la disposizione verbale è sempre accuratamente tale da realizzare il numerus. Nella pratica, il numerus agisce da sistema di regole metriche adatte alla prosa, in modo che i pensieri gravi trovino un 25 Quintilliano nell‟ottica di una satira tota nostra ignorava ogni precedente greco, ma le nostre testimonianze non mancano di denunciare il rapporto di imitazione ed emulazione che lega Varrone a Menippo. Il più importante fattore di identità sembra affidato alla tecnica del prosimetro, quell‟irregolare successione di prosa e verso all‟interno della narrazione che è del tutto abnorme alla pratica consueta. Ciò che soprattutto distingue la menippea da altre forme prosimetriche è la sostanziale integrazione del verso nel contesto narrativo della fabula: l‟episodio metrico, insomma non si limita di solito a commentare “liricamente” lo svolgersi degli eventi raccontati. Se la satira di Seneca dà tutta l‟impressione di un fondo colloquiale più costante, appare veramente vario e irriducibile l‟impasto linguistico di Varrone. Il virtuosismo varroniano si traduce in un‟inesauribile creatività verbale di stampo plautino. Ma l‟autentico segnale di genere è i ricorso ad una folla di stilemi greci, che connotano convenzionalmente la forma di un apparente parlato estemporaneo. Nella ricerca comica della menippea sta inscritto anche un continuo effetto metaletterario: il testo satirico, con consapevolezza e con distaccata malizia, guarda ironico ai modelli della poesia “grande” e alle regole secondo cui sono costruiti. Della sterminata produzione di Varrone poco ci è rimasto Incontrò durante tuta l‟antichità una fortuna incredibilmente vasta e continua, tale da essere paragonata a quella di Cicerone e Virgilio. Quanto agli eruditi successivi, il loro debito verso Varrone è eccezionalmente vasto. Il trionfo del Cristianesimo dette nuovo lustro alla fama di Varrone: fu lui il bersaglio polemico di Girolamo ed Agostino, lui il teorizzatore più perfetto della religione pagana, doveva essere conosciuto a fondo per essere meglio combattuto. Petrarca lo definirà “il terzo grande lume romano”, dopo Cicerone e Virgilio; al sommo oratore e al sommo poeta è accostato il sommo erudito. CORNELIO NEPOTE Vita Cornelio Nepote nacque nella Gallia Cisalpina, probabilmente intorno al 100 a. C. Si stabilì a Roma dove si diede a una vita di studi. Prima dl 32 Nepote pubblicò la prima edizione della sua opera principale, il De viris illustribus. Morì forse dopo il 27. Opere Si è conservata una parte dell‟opera più vasta di Nepote il De viris illustribus, una raccolta di biografie che doveva abbracciare almeno 16 libri; ci rimangono il libro sui comandanti militari stranieri; e le biografie di Catone e Attico, tratte dal libro sugli storici latini. Fonti La data di nascita si ricava da alcune notizie indirette, dalla Cronaca di Girolamo. Per la data di morte ci si affida a Plinio il Vecchio, il quale afferma che Nepote morì “sotto i principato di augusto”. Quanto ci rimane del De viris illustribus è solo una piccola parte di quella che doveva essere l‟impresa più vasta e ambiziosa di Nepote: una grande raccolta di biografie costruita con l‟intento di fare di questo genere letterario il veicolo di confronto sistematico fra la civiltà greca e romana. Cornelio Nepote raggruppava i suoi personaggi secondo categorie “professionali” (re, condottieri, filosofi, storici, oratori...); il raffronto sistematico fra romani e stranieri sembra costituire il non trascurabile apporto originale di Nepote. il progetto di Nepote è sintomatico di un‟epoca di cui i Romani incominciano ad interrogarsi sui “caratteri originali” della loro civiltà, e contemporaneamente ad aprirsi all‟apprezzamento dei valori di tradizioni diverse. Addirittura di una forma di “relativismo culturale” si può parlare a proposito della praefatio ai libri sui generali stranieri. I concetti di “moralmente onorevole” e “moralmente turpe”, egli precisa, non sono gli stessi presso i greci e presso i romani: la distinzione dipende dai maiorum instituta (le tradizioni nazionali) di ciascun popolo. Comunque le diversità dei singoli popoli serve a dare ragione di costumanze divergenti, non a propagandare un‟incondizionata adesione agli usi stranieri. Cornelio Nepote resta, nel complesso, uno scrittore mediocre: la qualità dell‟esecuzione non può dirsi alla pari alla novità del progetto. Il suo merito maggiore è certo quello di avere influenzato la Vite Parallele di Plutarco. La più originale, e probabilmente riuscita fra le biografie di Nepote, è senza dubbio quella che egli dedicò al suo amico e prottettore Attico. Narrando la vicenda umana di Attico, Nepote ha voluto indicare ai propri lettori l‟esempio di una felice quanto difficile conciliazione fra virtù arcaiche e valori modernizzanti., fra esigenze di fedeltà alla tradizione romana e ricerca della tranquillità personale. Creando il “personaggio” di Attico, Nepote addita un nuovo modello etico il quale si sforza di conferire dignità a scelte di vita non più imperniate sulla partecipazione all‟attività politica. CESARE 26 Vita Gaio Giulio Cesare nacque a Roma nel Luglio del 100 a. C. da una famiglia patrizia di antichissima nobiltà. Fu questore nel 68, edile nel 65, pretore nel 62, pretore nella Spagna Ulteriore nel 61. Nel 60 stipulò con Pompeo e Crasso l‟accordo segreto cosiddetto “I triumviato”, in vista ella spartizione del potere. Nel 59 rivestì il consolato. Dall‟anno successivo intraprese l‟opera di sottomissione dell‟intero mondo celtico; la conquista delle Gallie si protrasse per 7 anni e con essa Cesare si procurò la essa di un vastissimo potere personale. Cesare invase l‟Italia alla testa delle sue legioni (gennaio 49), dando inizio alla guerra civile. Nel 48 sconfisse a Farsalo l‟esercito senatorio di Pompeo. Divenuto padrone assoluto di Roma, aveva ricoperto. talora contemporaneamente, la dittatura e il consolato. Il 15 marzo del 44 veniva assassinato da un gruppo di aristocratici di salda fede repubblicana. Opere Opere conservate: Commentarii de bello Gallico, in 7 libri; Commentarii de bello civili, in 3 libri; De analogia, frammenti. Opere spurie: oltre al libro ottavo del De bello Gallico; le ultime 3 opere del cosiddetto Corpus Caesarianum, e cioè Bellum Alexandrinum; Bellum Africanum, Bellum Hispaniense. Fonti Le opere autentiche e spurie dello stesso Cesare; la Vita di Cesare di Svetonio e quella di Plutarco; orazioni e lettere di Cicerone; Appiano Bellum Civile; Cassio Dione. 1. Il commentarius come genere storiografico Il termine commentarius, un calco greco, indicava un tipo di narrazione a mezzo fra la raccolta dei materiali grezzi (appunti personali, rapporti al senato, e così via) e la loro rielaborazione nella forma artistica – cioè arricchita degli ornamenti stilistici e retorici - tipica della vera e propria storiografia. Uomini politici importanti, come Scauro o Silla; ed anche Cicerone composero commentarii. Cesare intendeva senza dubbio inserirsi in questa tradizione: opere composte per offrire ad altri storici il materiale sul quale impiantare la propria narrazione. In realtà sotto la veste dimessa, il commentarius, come Cesare lo concepiva e lo praticava, andava probabilmente avvicinandosi alla historia. Cesare usa una ammirabile sobrietà nel conferire al proprio racconto efficacia drammatica, evitando effetti grossolani e plateali e soprattutto i pesanti fronzoli retorici: in questa direzione va anche l‟uso della terza persona che distacca il protagonista dall‟emozionalità dell‟ego e lo pone come personaggio autonomo nel teatro della storia. 4. La veridicità di Cesare e il problema della “deformazione storica” Lo stile scarno dei Commentarii cesariani, il rifiuto degli abbellimenti retorici tipici della historia, la forte riduzione del linguaggio valutativo, contribuiscono al tono apparentemente oggettivo della narrazione cesariana. Ma la critica moderna ha creduto di scoprire interpretazioni tendenziose e deformazioni degli avvenimenti a fini di propaganda politica; indubbia è la connessione dei Commentarii con la lotta politica. La presenza di procedimenti di deformazione è innegabile: non si tratta mai di falsificazioni vistose; ma di omissioni più o meno rilevanti, di un certo modo di presentare i rapporti tra i fatti. Cesare insinua, ricorre ad anticipazioni o posticipazioni, dispone le argomentazioni in modo da giustificare i propri insuccessi. Coerentemente con queste tendenze della narrazione, nel De bello Gallico Cesare mette in rilievo le esigenze difensive che lo hanno spinto a intraprendere una guerra; era del resto consuetudine consolidata dell‟imperialismo romano presentare le guerre di conquista come necessarie a proteggere la stato romano e i suoi alleati da pericoli provenienti da oltre il confine.Nel De bello civili Cesare sottolinea come la sua azione si sia sempre mossa nel solco delle leggi, si presenta come un politico moderato. In ambedue le opere, egli mette in luce le proprie capacità di azione militare e politica, ma non alimenta l‟alone carismatico intorno alla propria figura. La fortuna non viene presentata come una divinità protettrice, piuttosto serve a spiegare cambiamenti repentini di situazioni. Cesare cerca infatti di spiegare gli avvenimenti secondo cause umane e naturali. di coglierne la logica interna; e non fa praticamente mai ricorso all‟intervento divino. 6. Teorie linguistiche di Cesare La perdita delle orazioni di Cesare è uno dei più gravi danni subiti dalla letteratura latina, così dai giudizi di quelli che poterono leggerle, come Quintilliano, Tacito, ecc. Probabilmente lo stile oratorio di Cesare avrà evitato i “gonfiori” (livores) e in colori troppo sgargianti, ma l‟uso accorto degli ornamenta lo avrà salvato degli estremismi di uno stile scarno caro agli atticisti più spinti. Lo stesso Cicerone comunque è pronto a riconoscere che Cesare agì da purificatore della lingua latina. Espose le proprie teorie linguistiche nei 3 libri De analogia; i pochi frammenti rimasti mostrano come Cesare ponesse a base dell‟eloquenza l‟accorta scelta delle parole, per la quale il criterio fondamentale è la “analogia”, la selezione razionale e 27 sistematica, contrapposta all‟ “anomalia”, l‟accettazione di ciò che diviene man mano consueto nel sermo cotidianus. La selezione deve limitarsi ai verba usitata, le parole già nell‟uso; Cesare consigliava di fuggire le parole strane e inusitate. L‟analogismo di Cesare è cura della semplicità, dell‟ordine, soprattutto della chiarezza alla quale talora egli arriva a sacrificare la grazia. 7. Fortuna di Cesare scrittore Cicerone (Brutus 262): “Ha scritto dei commentari veramente degni di elogio…”. Lo scrittore più asciutto della latinità, lo stilista cui l‟economia espressiva e l‟essenzialità della scrittura parevano gli unici mezzi di parlare oggettivamente. Già Quintilliano lodava il Cesare oratore, non lo scrittore di storia. Cartesio, Manzoni daranno un giudizio di elogio. SALLUSTIO Vita Gaio Sallustio Crispo nacque in Sabina, nell‟86 a. C. da una famiglia facoltosa. Una volta sconfitti i pompeiani in Africa, Cesare lo nominò governatore della provincia di Africa Nova, ma Sallustio diede prova malgoverno e rapacità; per evitargli il processo Cesare lo consigliò di ritirarsi dalla vita politica. Fu da questo momento in poi che si dedicò alla storiografia. Morì nel 35 o nel 34, facendo sì che restasse incompiuta la sua opera maggiore, le Historiae. Opere Due monografie storiche: Bellum Catilinae e Bellum Iugurthinum, composte e pubblicate nel 44-43. un‟opera di più vasto respiro, le Historiae, iniziate nel 39 e rimasta incompiuta al libro V: l‟opera comprendeva il periodo fra il 78 e il 67 (dalla morte di Silla alla guerra di Pompeo contro i pirati), ne restano numerosi frammenti anche di vaste dimensioni. Fonti La nascita si basa sulla Cronaca di Girolamo. Cenni sparsi sulla vita politica in Cassio Dione. Per il ritiro dalla vita politica lo stesso Sallustio in Bellum Catilinae. 1. La monografia come genere letterario Ad ambedue le monografie Sallustio antepone proemi di una certa estensione che rispondono all‟esigenza profonda di dare conto della propria attività intellettuale di fronte ad un pubblico come quello romano, fedele alla tradizione per cui fare storia è compito più importante che scriverne.Per Sallustio la storiografia resta infatti strettamente legata alla prassi politica e la sua maggiore funzione è individuata nel contributo alla formazione dell‟uomo politico. Sallustio – e in ciò è evidente il contrasto fra la pagina scritta e quanto sappiamo della sua vita – denuncia l‟avidità di ricchezza e di potere come i mali che avvelenano la vita politica romana. La cosa più importante è chela stessa storiografia sallustiana tende a configurarsi come indagine sulla crisi. Così il Bellum Catilinae illumina il punto più acuto della crisi, il delinearsi di un pericolo sovversivo di tipo finora ignoto allo stato romano; il Bellum Iugurthinum affronta direttamente, attraverso una vicenda paradigmatica, il nodo costituito dall‟incapacità della nobilitas corrotta a difendere lo stato. La scelta della monografia portò Sallustio ad elaborare un nuovo stile storiografico. 2. La congiura di Catilina e il timore dei ceti subalterni Dopo il proemio, Sallustio fa un ritratto di Catilina: la personalità di questo aristocratico corrotto è messa a fuoco sullo sfondo generale della decadenza dei costumi romani. Insieme a Manlio, suo complice, raduna Fiesole un esercito. Catilina sconfitto alle elezioni consolari, attenta alla vita di Cicerone, il quale ottiene dal senato pieni poteri per soffocare la ribellione. Il senato dichiara Catilina e Manlio nemici pubblici. Sallustio introduce un excursus sui motivi della degenerazione della vita politica e sulle condizioni che hanno favorito l‟attività di Catilina. Oltre Sallustio introduce un parallelo tra Catone e Cesare, due personaggi dalle virtù opposte e complementari, i soli due grandi uomini del tempo.Si conclude con la resa dei conti presso Pistoia dove Catilina trova la morte. Alla malattia di cui soffriva la società romana Sallustio, interrompendo la narrazione, dedica un ampio excursus. Si tratta della cosiddetta “archeologia”, che traccia una rapida storia dell‟ascesa e della decadenza di Roma. Il punto di svolta è individuato nella distruzione di Cartagine, a partire dalla quale – con la cessazione del metus hostilis – Sallustio fa cominciare il deterioramento della moralità romana. Un secondo excursus denuncia la degenerazione della vita politica nel periodo che va dalla dominazione di Silla alla guerra civile fra cesare e Pompeo: la condanna coinvolge in pari modo le due parti in lotta, i populares e i fautori del senato. La condanna del “regime dei partiti” è coerente con le aspettative che Sallustio ripone in Cesare; da parte di quest‟ultimo, lo storico auspicava forse l‟attuazione di una politica per certi aspetti non diversa da quella che Cicerone si 30 allegorico: dietro a tutte le figure del mondo pastorale, interpreti antichi e moderni, hanno visto una ridda di allusioni storiche. Ma ciò che importa, è cogliere l‟originalità di ispirazione con cui Virgilio “legge” attraverso il linguaggio bucolico l‟epoca delle guerre civili. Come nella celebre IX egloga. Come annuncia l‟esordio (paulo malora canamus) il poeta si solleva oltre la sfera pastorale per cantare un grande evento. Chi e il puer che con il suo avvento riporta l‟età dell‟oro sul mondo in crisi? L‟identificazione tardoantica del puer con Gesù Cristo è solo la più coraggiosa delle tante congetture avanzate. L‟egloga si inserisce nelle aspettative di rigenerazione tipiche dell‟età di crisi fra Filippi e Azio, ed ha un chiaro parallelo nell‟epodo XVI di Orazio. Due sono i filoni culturali che nutrono questa poesia visionaria: le poesie in onore di nozze e di nascite; Virgilio poi ha attinto anche da fonti non poetiche, dove si mescolano influssi filosofici e presenza di dottrine messianiche, aspettative di una salvatore. L‟egloga è datata al consolato di Asinio Pollione, 40 a. C. L‟ipotesi migliore è che il bambino fosse atteso in quell‟anno, ma non sia mai nato. In quell‟anno molte speranze seguivano il patto di potere fra Ottaviano e Antonio; Antonio prendeva in moglie la sorella del primo. Il matrimonio durò poco e non vi furono figli maschi. Nella Egloga X Cornelio Gallo è presentato come poeta d‟amore, ma si tratta di un componimento bucolico. Tipicamente bucolico è lo scenario dell‟Arcadia, così come l‟idea che la poesia possa medicare le ferite d‟amore avvicinando l‟uomo alla natura. Ma Virgilio non rinuncia ad allargare l‟orizzonte; Gallo è rappresentato come l‟incarnazione di un‟altra poesia: il canto elegiaco, che è anche una scelta di vita. Gallo provato dall‟amore infelice cerca rifugio nella poesia dell‟amico. Nel complesso, le Bucoliche rivelano il maturare delle scelte di vita dell‟autore. La poesia è vissuta come un rifugio contro i drammi dell‟esistenza; la vita ritirata dei pastori accoglie stemperate tonalità epicuree. 3. Le Georgiche Nel 38 le Bucoliche sono ormai completate, e già Virgilio ha un nuovo influente protettore: Mecenate. Quest‟ultimo non chiede nessuna partecipazione diretta alle fortune del partito di Ottaviano, ma la sua influenza è evidente in una nuova generazione di opere poetiche, come le Georgiche di Virgilio. La composizione gli costò quasi 10 anni di lavoro; nel 29 a. C. il poema era giunto ad uno stadio definitivo. L‟opera presuppone una straordinaria ricchezza di letture: grande poesia greca (Omero, gli alessandrini, i tragici), e romana (Lucrezio, Catullo…), anche fonti tecniche in prosa, e trattati filosofici d‟ogni tipo. Un lungo processo compositivo denunciato anche dalla scalatura delle allusioni storiche disseminate nell‟opera. Il finale del I libro evoca un‟Italia in preda alle guerre civili, in cui l‟ascesa di Ottaviano è solo una speranza insidiata da molti pericoli; in molti altri luoghi del libro il poema mostra già il principe trionfatore dell‟universo pacificato. Virgilio ha voluto inglobare nel suo poema, accanto alla vittoria del nuovo ordine, anche le lacerazioni che lo hanno preparato. Come già per le Bucoliche (ma in maniera meno intensa), Virgilio parte da un aggancio immediato con la poesia greca ellenistica, di autori (Arato) vissuti fra III e II secolo, che avevano compiuto una svolta di gusto e di poetica entro la tradizione del genere didascalico. Spesso questi poeti usano come falsariga dei trattatici scientifici in prosa: chi fosse interessato ai contenuti, teorici o pratici, poteva rivolgersi direttamente a queste fonti tecniche. Questi poeti non pretendono di insegnare a un destinatario; anzi la figura stessa dal destinatario è più che altro una sopravvivenza formale. Prevalente è ormai la passione di scrivere. La raffinatezza della ricerca formale, il virtuosismo del fare versi, sbilanciano queste opere sul versante della forma: operazioni svolte quasi contro i contenuti stessi dell‟opera. Il rigore formale di questa poesia è per Virgilio una lezione da meditare. Ma le Georgiche risulteranno ben altro che la “messa in poesia epica” di trattazioni tecniche. La tradizione della poesia didascalica si era spezzata, e nuovamente rivoluzionata, in ambito romano, sotto il forte impulso di Lucrezio. Nella sua stessa epoca, la tradizione didascalica “aratea” aveva trovato interpreti come Cicerone giovane; ma Lucrezio se ne era distaccato decisamente, ritrovando per un‟altra via il filone di Parmenide, di Empedocle, veicolo di espressione per un messaggio individuale rivolta ad una larga comunità, orientato a ben precisi scope di trasformazione della vita, di liberazione della vita, di liberazione, di rifondazione della saggezza. Più alessandrino (e neoterico) di Lucrezio, Virgilio si sente più vicino a Lucrezio che agli alessandrini. Certamente non gli è estraneo il gusto delle cose tenui, lo sforzo per trasformare in poesia dettegli fisici e realtà minute, in apparenza refrattarie alla dizione poetica. Le Georgiche, non a caso, devono parte del loro fascino a immagini come queste: il comportamento delle api ammalate, la consistenza della terra sbriciolata fra le dita. In tenui labor è un programma poetico che deve molto alla ricerca formale alessandrina e alla poetica di Callimaco. Tuttavia, l‟impulso di fondo delle Georgiche è partito da un dialogo con Lucrezio. “…nulla sa delle leggi del ferro, dei deliri del foro, dei pubblici archivi” ( II 490-502). Un nuovo messaggio di salvazione e di saggezza: non coincide, né si oppone direttamente, con la dottrina di Lucrezio, ma si misura rispetto ad essa; vi sono chiare analogie: la saggezza del contadino, che media la fatica del lavoro e la spontaneità della terra, conduce ad una forma di autosufficienza, materiale e spirituale. Un‟autarchia che risponde all‟incombere della crisi sociale e culturale della repubblica. Vi sono delle nette differenze. Lo spazio georgico di Virgilio accoglie più largamente la religiosità tradizionale, fa corpo con essa. Si ha 31 l‟impressione che Lucrezio guardi alle cause naturali con retroscena della cultura umana; Virgilio sembra appigliarsi pazientemente a tutto ciò che incivilisce e umanizza la natura. Lo spazio georgico del poema ha una sua cintura protettiva. Il giovane Ottaviano si profila come l‟unico che può salvare il mondo civilizzato dalla decadenza e dalla guerra civile (I 500 segg.): siamo prima di Azio, nell‟incertezza che nasce dalla morte di Cesare e da Filippi. Altrove appare già come vincitore e portatore di pace. Il nuovo principe assicura le condizioni di sicurezza e prosperità entro cui il mondo dei contadini può ritrovare la sua continuità di vita. Per questo tipo di cornice ideologica, le Georgiche si possono considerare il primo vero documento della letteratura latina nell‟età del principato. Il principe Augusto, e accanto a lui il suo consigliere Mecenate, sono accolti nell‟opera non solo come illustri dedicatari, ma anche come veri e propri ispiratori. Il ruolo di destinatari della comunicazione didattica è assegnato invece alla figura collettiva dell‟agricola. Dietro a questo destinatario ideale, si profila invece il destinatario reale dell‟opera: un pubblico che conosce la vita della città e la sua crisi. E‟ abbastanza difficile credere che le Georgiche siano direttamente ispirate da un “programma augusteo” di risanamento del mondo agricolo. L‟immagine dell‟economia rurale che traspare dal poema è una idealizzata costruzione regressiva, inadeguata alla realtà dell‟epoca. L‟ “eroe” del poema è il piccolo proprietario agricolo, il coltivatore diretto: Virgilio ha al massimo pallidi accenni per le grandi trasformazioni in corso. Più notevole ancora è la mancanza di un qualsiasi accenno al lavoro schiavile, vero cardine dell‟economia agricola. L‟idealizzazione del colonus, ha evidentemente un puro significato morale. Più facile è cogliere, a questo livello, precise convergenze tra Virgilio e la propaganda ideologica augustea. Come l‟esaltazione delle tradizioni dell‟Italia contadina e guerriera, ha come sfondo il clima di guerra contro Antonio. I temi dei quattro libri sono, rispettivamente, il lavoro dei campi, l‟arbicultura, l‟allevamento del bestiame, l‟apicultura: sono quattro delle attività fondamentali del contadino. L‟ordine con cui questi lavori sono collocati descrive una curva, per cui l‟apporto della fatica umana diviene sempre meno accentuato, e la natura è sempre più protagonista; la struttura del libro, inoltre sembra orientata dal grande al piccolo. Ogni libro delle Georgiche è dotato di una “digressione” conclusiva, di estensione piuttosto regolare: le guerre civili; la lode della vita agreste; la peste animale nel Norico, la storia di Aristeo e delle sue api. Hanno chiaro valore di cerniera i proemi: due volte lunghi ed esorbitanti rispetto al tema dei libri (I,III); due volte brevi e strettamente introduttivi (II, IV). Il I e il III libro sono così accoppiati, e lo sono anche nelle grandi digressioni finali: guerre civili e pestilenza degli animali si richiamano quasi a specchio, e gli orrori della storia corrispondono ai disastri della natura. Rispetto a questi finali, rasserenante è l‟effetto delle altre digressioni: l‟elogio della vita campestre si oppone alla minacci della guerra,e la rinascita delle api replica allo sterminio della peste. Queste grandi polarità fra i temi della vita e della morte danno un senso all‟architettura formale. La digressione finale del IV libro, a differenza delle altre, ha carattere narrativo. E‟ introdotta come àition alla maniera alessandrina: “origine”, e spiegazione, di un fatto mirabolante, la bugonia: proprietà delle api che possono nascere dalla corruzione di una carcassa bovina. Aristeo – personaggio mitico, grande civilizzatore e scopritore di tecniche – ha perso la sue api per una epidemia. Senza volerlo aveva causato la morte di Euridice, la sposa di Orfeo. Con un sacrificio di buoi viene placata la maledizione; e dalle vittime del sacrificio, miracolosamente, si sviluppa la vita di nuove api. Virgilio ha collegato due miti abbastanza diversi tra loro, ripensandoli entrambi e disponendoli in una struttura a cornice. In questo pesa molto la tradizione della poesia alessandrina e neoterica, quella dei racconti ad incastro. Alcuni temi fondamentali del poema si ritrovano ora sotto mutata veste, cioè sotto specie non più didattica ma narrativa. La figura di Orfeo fonde insieme le grandi possibilità dell‟uomo, che col suo canto arriva persino a dominare la natura, e il suo sacco, l‟impossibilità di vincere le leggi naturale della morte. Aristeo, invece, indica una diversa strada: la paziente lotta contro la natura è sostenuta da una tenace obbedienza ai precetti divini e conduce fino alla rigenerazione delle api. 5. L’Eneide L‟aspettativa di un nuovo epos era forte nella cultura augustea. Il poeta che nelle Bucoliche rifiutava di cantare reges et proelia accetta ora di affrontare questo peso. La tradizione “enniana” avversata dai neoterici non si era mai estinta del tutto, ma l‟epica serviva per lo più alla celebrazione di imprese contemporanee. In realtà la nuova epica non si proponeva di continuare Ennio ma di “sostituirlo”: perciò era inevitabile un confronto diretto con Omero. Secondo i grammatici antichi l‟intenzione dell‟Eneide sarebbe duplice: imitare Omero e lodare Augusto “partendo dai suoi antenati”. Un primo sguardo mostra che si tratta di una semplificazione: i 12 libri sono concepiti come una risposta ai 48 dei due poemi omerici. 32 Eneide I-VI racconta il travagliato viaggio di Enea da Cartagine alle sponde del Lazio, con una retrospettiva sulle vicende che avevano portato Enea da Troia a Cartagine. Dal VII comincia la narrazione di una guerra che si concluderà solo con la morte di Turno all‟ultimo verso del libro XII. Perciò si usa parlare di una metà “odissiaca” dell‟Enedie (I-VI) e di una metà “iliadica” (VII-XII). L‟Iliade narra le vicende che portano alla distruzione di una città; l‟Odissea narra, facendo seguito a questa guerra, il ritorno a casa di uno dei distruttori. Queste due storie epiche, queste fabulae, si presentano in Virgilio in sequenza rovesciata: prima i viaggi, poi la guerra; ma questo comporta anche un‟inversione dei contenuti. Il viaggio di Enea non è un ritorno a casa come quella di Odisseo; è fondamentalmente un viaggio verso l‟ignoto. La guerra di Enea non serve a distruggere una città, ma a costruirne un nuova (l‟antenata di Roma). Questa complessa trasformazione non ha precedenti nella poesia antica. Si potrebbero distinguere i diversi livelli nel rapporto di trasformazione. L‟Eneide è innanzitutto una particolare contaminazione dei due poemi omerici. In secondo luogo, vi è anche una continuazione di Omero. Infatti le imprese di Enea fanno seguito all‟Iliade – il libro II di Virgilio racconta l‟ultima notte di Troia che nell‟Iliade veniva solo profeticamente intravista – si riallacciano all‟Odissea - nel III libro Enea segue in parte la traccia delle avventure di Odisseo, affrontando pericolo che l‟eroe greco ha già attraversato. Virgilio riprende l‟esperienza dell‟epos ciclico: la catena di narrazioni epiche che “integravano” la poesia di Omero in una sorta di continuum. In terzo luogo, l‟Eneide racchiude in sé una sorta di ripetizione di Omero. La guerra nel Lazio è spesso vista come una ripetizione della guerra di Troia; alla fine però, nella nuova Iliade i Troiani sono vincitori ed Enea uccide il capo avversario, Turno, come Achille uccide Ettore. Ma si vede bene che la ripetizione è anche superamento di Omero. La guerra porta alla costruzione di una nuova unità. Alla fine, Enea riassume in sé l‟immagine di Achille vincitore e, soprattutto quella di Odisseo che dopo tante prove conquista la patria restaurando la pace. Questo ci riporta all‟altra intenzione di Virgilio: “lodare Augusto partendo dai suoi antenati”. Il poema si stacca dal presente per una distanza quasi siderale: gli antiche ponevano un intervallo di 400 anni fra la distruzione di Troia e la fondazione di Roma. Gli eventi dell‟Eneide sono trattati come “storici”, ma non si tratta, tecnicamente parlando di storia romana. Questo spostamento permette a Virgilio di guardare il mondo di Augusto da lontano; l‟Eneide è attraversata da scorci profetici che conferiscono alla storia un orientamento “augusteo”, ma non cessa di essere omerica. Infatti sono omeriche le tecniche narrativa che permettono Virgilio di guardare da lontano la Roma augustea. Nell‟Iliade Zeus profetizza il destino degli eroi e la distruzione di Troia; nell‟Eneide Giove profetizza non solo il destino di Enea ma anche la futura grandezza di Augusto che riporterà finalmente l’età dell’oro. Nell‟Odissea Odisseo scende verso l‟Ade e ottiene uno scorcio sul suo destino, nell‟Eneide Enea impara dal regno dei morti non solo il suo personale futura, ma anche i grandi momenti critici dello sviluppo di Roma. Si sperimenta così un difficile equilibrio fra la tradizione dell‟epos eroico e il bisogno di un‟epica storico-celebrativa. Il momento di sintesi fra dimensione omerica e dimensione augustea fu dato da Virgilio da una vecchia leggenda. L‟Italia conosceva una serie di “leggende di fondazione” collegate alla guerra di Troia; fra queste storie acquistò particolare peso la leggenda di Enea. Da scoperte archeologiche recenti, il culto di Enea è attestato a Lavinium, a sud di Roma, sin dal IV secolo a. C. Tra il II e il I secolo la sua figura acquistò crescente fortuna, e per ragioni politiche. Il mito dell‟origine troiana dei Romani ne traeva sostegno: il più nobile eroe troiano sopravvissuto sarebbe stato connesso, per via genealogica, a Romolo. Questo permetteva alla cultura romane di rivendicare una sorta di autonoma parità con i Greci, nel tempo i cui Roma egemonizzava il Mediterraneo greco. I Troiani erano consacrati dal mito omerico come grandi antagonisti dei Greci; da Roma sarebbe nata la loro rivincita (anche Cartagine venne opportunamente ricollegata alla leggenda di Enea tramite la regina Didone). Così Roma legittimava il suo nuovo potere attraverso uno sfondo storico profondissimo. Inoltre, attraverso la figura del figlio di Enea Ascanio/Iulio, una nobile casata romana, la gens Iulia, rivendicava per sé nobilissime origini. Qui venne a saldarsi il cerchio tra Virgilio Augusto e l‟epica eroica. L‟Eneide svolge la leggenda di Enea dall‟ultimo giorno di Troia sino alla vittoria di Enea e alla fusione di Troiani e Latini in un unico popolo. La guerra è stata rappresentata da Virgilio come scontro fra Troiani e Latini; coalizzati questi ultimi con numerosi popoli italici: i primi invece con gli Etruschi e con una piccola popolazione greca stanziata nel Lazio. Nessun popolo è radicalmente escluso da una contributo positivo alla genesi di Roma; persino i greci, tradizionale nemici dei Troiani, forniscono un decisivo alleato, l‟arcade Pallante; e soprattutto si prestano come la più nobile preistoria di Roma. L‟Eneide è perciò un‟opera di denso significato storico e politico; non è però un poema storico. Il taglio dei contenuti è dettato da una selezione “drammaturgia” dal materiale, che ricorda più Omero che Ennio. La più nuova e grande qualità dello stile epico virgiliano sta nel conciliare il massimo di libertà con il massimo di ordine. Virgilio ha lavorato sul verso epico, l‟esametro, portandolo insieme al massimo di regolarità e al massimo di flessibilità. La ricerca neoterica aveva affermato dure restrizioni nell‟usare le cesure, nell‟alternanza tra dattili e spondei, nel rapporto tra sintassi e metro. 35 Lucilio era quindi identificato come colui che aveva fissato i tratti costitutivi della poesia satirica. A lui risaliva un elemento fondante: la scelta dell‟esametro come forma di metrica della satira. Ma soprattutto Lucilio aveva praticato questo genere letterario come strumento dell‟aggressione personale, della critica mordace. Lucilio organizzava dunque la rappresentazione della società contemporanea, soprattutto del ceto dirigente. Nella sua poesia aveva però posto una grande varietà di temi e di interessi; più importante di tutti era però l‟elemento autobiografico: la satira luculliana conteneva fatti, personaggi e osservazioni connesse alla vita personale. Anche in questo Orazio sarà consapevole di raccogliere l‟eredità del maestro. Orazio stesso non sottovalutava le differenze che lo separavano dall‟inventor del genere: egli però sottolineava principalmente quelle relative allo stile, criticando in Lucilio la sciatta e abbondante facilità. Al piacere gratuito dell‟aggressione (un tratto “aristofanesco” vivace in Lucilio) Orazio sostituisce l‟esigenza di analizzare i vizi mediante l‟osservazione critica e la rappresentazione comica delle persone. Lucilio attaccava con virulenza i cittadini eminenti, avversari di cui condivideva la condizione. Ciò non sarebbe stato possibile al figlio di un liberto:ma, quel che più conta, per trarre insegnamento dalla condotta dei propri simili criticandone gli errori non era necessario scegliere bersagli di elevato livello sociale. Come gli aveva insegnato suo padre, impara da chi gli sta vicino, da quelli che incontra per strada. La morale oraziana ha radici nell‟educazione, nel buon senso tradizionale, ma è costruita con elaborati dalle filosofie ellenistiche, che giungono ad Orazio anche attraverso il filtro della diàtriba (la tradizione di letteratura filosofica popolare, illustrata da dialoghi ed aneddoti). Gli obiettivi fondamentali della ricerca di Orazio sono l‟autàrkeia (l‟autosufficienza interiore) e la metriòtes (la moderazione, il giusto mezzo). Nessuno di questi concetti appartiene ad una setta specifica, ma l‟epicureismo è la tradizione filosofica che ha un peso maggiore nella satira di Orazio. L‟affinità intellettuale, l‟indulgenza, la dedizione, la comunanza di vita, la compattezza nei confronti dell‟esterno: tutto ciò risente delle teorie epicuree. La ricerca morale non caratterizza soltanto le satire che si potrebbero chiamare “diatribiche”, quelle cioè in cui si è sviluppata, alla maniera della diàriba , una discussione (con argomenti, obiezioni, esempi) su uno specifico problema (come 1,1; 1,2; 1,3), ma anche quelle in cui il poeta –sul modello del Lucilio “autobiografico” – rappresenta una scena, racconta un episodio. In questi casi, l‟interesse morale non è separabile dalla rappresentazione stessa: è come una lente attraverso cui il poeta osserva gatti e personaggi. Il meccanismo fondamentale del genere satirico nella prima raccolta consisteva nel confronto fra un modello positivo (l‟obiettivo della ricerca morale) e tanti modelli negativi (i “tipi” della società romana). Nel libro II, invece, registriamo innanzitutto un regresso della componente rappresentativo-autobiografica; nelle satire argomentative risulta poi dominante la forma di dialogo e per di più il ruolo dominante non spetta al poeta, bensì all‟interlocutore. La coincidenza tra il poeta e la “voce satirica” (quella che argomenta e confuta) aveva assicurato un punto di riferimento alla ricerca morale del I libro. Ora che il poeta si ritira in secondo piano non c‟è più la possibilità di estrarre un senso unitario dalle contraddizioni della società: tutti gli interlocutori sono depositari di una loro verità, anche se non tutte equivalenti. La satira, dice Orazio, non è vera poesia: per essere poeta ci vuole ispirazione divina e una voce capace di trasmettere suoni sublimi (1,4). La satira è dunque letteratura più vicina alla prosa, distinta da questa solo per il vincolo del metro. Ma non va preso troppo alla lettera e soprattutto non se ne deve dedurre che lo stile delle Satire sia frutto di facile improvvisazione. Il linguaggio della conversazione colta che egli si propone di riprodurre richiede cure raffinate e pazienti, non meno faticose di più apprezzati livelli della produzione letteraria. Mobilità e varietà sono le caratteristi_ che prime dello stile delle Satire, che di volta in volta si modella docilmente sui soggetti. 3. Le Odi La lirica oraziana non può essere intesa a prescindere dal rapporto organico con la tradizione greca. Se negli Epodi Orazio si dichiarava erede di Archiloco, per quel che riguarda la produzione lirica egli rivendica orgogliosamente il titolo di Alceo romano (Carmina 1). Ma simili dichiarazioni possono essere fraintese facilmente dal lettore moderno: esse rimandano in realtà a un rapporto di imitatio che significa soprattutto obbedienza alla lex operis (le regole che organizzano il genere letterario in cui il poeta vuole operare) e quindi del decorum letterario. L‟imitazione, com‟è intesa da un poeta latino, è una componente del linguaggio poetico e non un ostacolo all‟originalità della creazione. Il rapporto con Alceo: Orazio è orgoglioso di averne divulgato per primo i modi: per ciò egli ha diritto all‟apprezzamento che spetta a colui che apre vie sconosciute. Nel richiamarsi ad Alceo, Orazio approfittava dell‟auctoritas del suo modello per avvalorare la coniugazione di componenti diverse nel suo mondo lirico: l‟attenzione alle vicende della comunità e un canto più legato alla sfera privata. 36 Alceo come sappiamo dai rinvenimenti papiracei, era stato anche poeta gnomico: a lui è dunque naturale collegare la forte componente moraleggiante della lirica oraziana. Un tratto caratteristico del modo in cui Orazio intende il rapporto con la lirica greca arcaica, e con Alceo, è la ripresa evidente ( a volte quasi un citazione che serve da motto): poi però il poeta procede in maniera sua propria e il modello viene quasi dimenticato. Ma i versi di Alceo erano espressione degli amori e degli odi di un aristocratico, impegnato in prima persona nelle aspre lotte politiche della sua città. In Orazio invece l‟interesse per la res publica è vivace, ma è quello di un intellettuale che dopo un effimero coinvolgimento nelle tempeste civili, vive al riparo dei potenti signori di Roma. Per Orazio la poesia come ristoro dall‟impegno, come pausa in mezzo alle battaglie, era poco più che un‟immagine letteraria. L‟altro grande rappresentante della lirica eolica, Saffo, ha lasciato una traccia minore nella poesia di Orazio. Un ruolo notevole è svolto anche dalla lirica corale, è in particolar modo fra i lirici corali Pindaro. La ricerca oraziana del sublime, soprattutto nella poesia di argomento civile, sembra nutrirsi di suggestioni provenienti da Pindaro: periodi ampi, di andamento impetuoso, solenne gravità della gnome ( la sentenza breve e concettosa di valore morale). Il richiamarsi di Orazio alla lirica greca arcaica aveva indubbiamente le caratteristiche di una precisa scelta programmatica ed esprimeva la volontà consapevole di distinguersi dall‟alessandrino dei neoterici. Ciò non significa naturalmente che Orazio non sia poeta “moderno” e che la sua lirica prescinda dall‟esperienza ellenistica. Da qui viene un vasto repertorio di temi, immagini, situazioni. Ma, come l‟esempio di Alceo poeta civile incontrava in Orazio una esigenza attuale di attenzione appassionata per le vicende della res publica, così neanche la poesia alessandrina è pura suggestione letteraria: essa è la “forma” della vita quotidiana di Roma metropoli ellenizzata: una mondanità fatta di amori, feste, danze, poesia. E‟ consolidata l‟immagine di Orazio poeta dell‟equilibrio sereno, del distacco dalle passioni, della moderazione; ci fa intuire il ruolo centrale che nella lirica oraziana è svolto dalla meditazione e dalla cultura filosofica. A nozioni elementari Orazio ha saputo dare una formulazione tanto nitida e incisiva da consegnarle all‟eredità europea, che spesso ha attinto alla sua poesia come a un tesoro di massime. Il punto centrale è la coscienza dalla brevità della vita, che comporta la necessità di appropriarsi delle gioie del momento, senza perdersi nell‟inutile gioco delle speranze, dei progetti o delle paure. La più famosa è l‟esortazione a Leocone(1,11.6 segg.): …Dum loquimur fugerit invida aetas : carpe diem, quam minum credula postero. (“… Mentre parliamo sarà già fuggita la vita invidiosa: cogli il giorno, e non credere al domani.”). Il carpe diem non va frainteso come un banale invito al godimento: in Orazio (come in Epicuro) l‟invito al piacere non è separato dalla consapevolezza acuta che quel piacere stesso è caduco, come caduca la vita dell‟uomo. Questa meditazione può talvolta tradursi in un canto della propria serenità: la felicità dell‟autàrkeia, la condizione del poeta-saggio, libero dai tormenti della follia umana benedetto dalla benedizione dagli dei. E tuttavia saggezza, equilibrio, l‟aurea mediocritas di chi sa fuggire tutti gli eccessi e adattarsi a tutte le fortune non sono un possesso sicuro, acquisto una volta per sempre. Orazio non ignora la forza attraente delle passioni, conosce le debolezze dell‟animo. La saggezza si scontra con i dati immutabili della condizione umana: la fugacità del tempo, la vecchiaia, la morte; nessuna saggezza ha la capacità di annullare tanto peso negativo. L‟altro polo della lirica oraziona, la poesia impegnata sui temi civili e nazionali, risulta per molti versi lontano dai temi “privati”; pur se in Orazio, a differenza della lirica neoterica, tutta la sfera privata aspira sempre a una validità generale, ad esprimere la condizione complessiva dell‟uomo. Orazio ha saputo innestare spunti nazionali, suggestioni provenienti dall‟epica e dalla storiografia. La lirica civile conosce la celebrazione, l‟encomio, l‟ufficialità, ma non può essere liquidata come propaganda in versi. Anzitutto perché sa approfittare dell‟ampiezza e della flessibilità di quella stessa ideologia per evitare chiusure dogmatiche ed esaltare il sublime della magnanimità: ad esempio l‟ammirazione per la virtus anche nel più odioso dei nemici (Cleopatra che affronta la morte impavidamente). Anche la lode del principe in genere sfugge alle movenze cortigiane dell‟encomio ellenistico, per dar voce alla sincera ansiosa gratitudine nei confronti del pacificatore dell‟Impero. Dell‟ideologia augustea, la lirica civile oraziana condivide, l‟impostazione moralistica: la crisi era derivata dalla decadenza dei costumi, dall‟abbandono di quel coerente sistema di antichi valori etico-politici e religiosi che aveva fatto la grandezza di Roma. Questa poesia moralistica può incontrare a tratti la ricerca morale “oraziana”: nella critica del lusso, di stravaganze e follie, nell‟ammirazione per l‟autosufficienza della virtus. La polarità è naturalmente una semplificazione, che finisce per oscurare la varietà della poesia lirica di Orazio: varietà che corrisponde alle diverse categorie in cui si articolava la lirica greca. Abbiamo così i carmi conviviali (che rimandano a quelli di Alceo): inviti, descrizioni dei preparativi, con il tradizionale apparato del simposio ellenistico-romano (vino, fiori, 37 musica). Quasi un quarto delle Odi possono essere classificate come “erotiche”: ma l‟amore viene analizzato come un rituale il cui canovaccio è piuttosto scontato. Ma non sempre però è facile collocare un‟ode oraziana in un tipo ben definito, perché il poeta ama contaminare, in uno stesso componimento, categorie liriche diverse: ad esempio un propemptikon (carme di buon viaggio) e un carme mitologico (3,27). Esistono poi temi ricorrenti che attraversano i carmi. La campagna è di solito stilizzata secondo il modulo del locus amoenus, un gradevole paesaggio italico, che ospita il convito, il riposo, la semplice vita rustica. Ma i luoghi più propriamente orazioni sono quelli individuati dallo spazio limitato e racchiuso del piccolo podere personale: caro perché noto e sicuro, inattaccabile perché appartato e modesto. L‟angulus trova in Orazio nuove funzioni, diventa il nucleo generativo di molta poesia in quanto si associa ad altri due temi: al tema della morte soprattutto al tema dell‟amicizia. L‟amicizia nella Odi ha un ruolo fondamentale. Importante è anche il motivo della vocazione poetica: il vates si sente in rapporto con le Muse e le altre divinità ispiratrici (Bacco, Apollo). La perfezione dello stile è uno dei marchi caratteristici della lirica oraziana, debitrice della lezione di Callimaco. La semplicità e l‟essenzialità guida anche la scelta dell‟aggettivazione, il moderato impiego delle figure di suono, la cautela delle metafore e delle similitudini. La sintassi ama le ellissi, l‟iperbato, l‟enjambement. Collocare accortamente le parole nel verso vuol dire seguire una strategia che, mentre lega le parole nella tessitura della frase, alcune le accosta, altre le allontana e lascia che si richiamino fa distanza; sicché parole usuali, ricevendo una propria evidenza, vengono percepita come se fossero “nuove”. Un aggettivo, staccato dal proprio sostantivo dislocato in un punto della sequenza metrico-ritmica che lo metta in rilievo trova una sua risonanza originaria. Orazio stesso, teorizzando, ricordava tra i procedimenti più efficaci questo semplice artificio della callida iunctura. La massima economia di inventiva per avere il massimo di espressività. 4. Le Epistole: progetto culturale e anacoresi filosofica Orazio ritorna all‟esametro della conversazione. Dovette essere difficile per gli antichi commentatori orazioni inventare una formula critica che sapesse distinguere le Epistole dalle due raccolte di Satire. Non era forse il poeta, in fondo, a chiamare sermones entrambe le opere, accomunate così da una stesso registro stilistico? Il giudizio antico, mentre riconosce, sapientemente anche la vocazione mimico-drammatica delle Satire, sottolinea la specifica configurazione epistolare dell‟opera più tarda. Del carattere di queste epistole nessuno crede naturalmente a una vera funzione privata. Ad ogni modo, la componente epistolare assicura al sermo oraziano una intonazione più personale, nonché la varietà di modi e atteggiamenti che è richiesta dall‟attenzione nei confronti del destinatario. Dal punto di vista formale le Epistole erano quasi certamente una novità. Erano ben note trattazioni filosofiche sotto forma di epistole in prosa. Ma una raccolta sistematica di lettere in versi come quella di Orazio è probabilmente sperimentazione originale. La satira era appartenuta essenzialmente ad un ambiente cittadino, che corrispondeva ai bisogni sociali del genere in quanto apriva all‟opera spazi di circolazione fra ceti colti. Tutte le orazioni, al contrario, presuppongono lo spostamento verso una periferia rustica che risuona di memorie filosofiche. Ripropone il traguardo del De rerum natura lucreziano: l‟angulus trascrive nel lessico oraziano l‟esperienza dei sapientum templa serena proposta da Lucrezio ai suoi lettori. La raccolta elabora un discorso didascalico che rinnova il poema lucreziano mutuandone tratti significativi. Il rapporto autore-lettore, vivo e drammatico nel De rerum natura, viene imposto dall‟evidenza di un impianto educativo tutto rivolto verso l‟ingiunzione e l‟esortazione. Ecco che così il rapporto autore-lettore diventa esso stesso tema del discorso fino ad assumere le forme della consapevolezza metaletteraria. Le differenze dalle Satire: manca ad esempio alle Epistole quell‟aggressività comica che, ancora per Orazio, era la marca evidente del genere satirico. La riflessione morale non procede ora attraverso una osservazione critica della società contemporanea, ma anzi sembra prendere coscienza sempre più netta delle proprie debolezze e contraddizioni: l‟equilibrio fra autàrkeia e metriòtes appare ormai irrecuperabile. Al tempo stesso, Orazio non sembra più in grado di costruire un modello di vita soddisfacente. La rinuncia alla vita sociale e all‟ottimismo etico è simboleggiata dalla fuga da Roma verso il raccoglimento della campagna sabina. Alle aporie della ricerca morale sembra da collegare lo spazio notevole ora raccordato al tema diatribico dell‟insoddisfazione di sé , dell‟incostanza, della noi angosciosa e impaziente. L‟inquietudine è presentata come una specie di male del secolo (Epistole 1,11,27 segg.): caelum non animu mutant qui trans mare currunt. Strenua nos exercent inertia : navibus atque Quadrigis petimus bene vivere. Quod petis, hic est, Est Ulubris, animus si te non deficit aequus. 40 Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis, contactum nullis ante cupidinibus (I 1,1 segg.) (“Cinzia per prima mi ha preso, infelice, coi suoi occhi / nessuna passione mi aveva prima toccato”). Egli si presenta come prigioniero dalla passione per lei, e irrimediabilmente destinato, a causa sua, a una vita dissipata. Cinzia è una donna ricca di cultura letteraria e musicale, che vive da cortigiana negli ambienti mondani, frequentati da uomini politici e letterati. Legarsi a un tale donna significa per Properzio compromettersi socialmente, contravvenire al codice di rispettabilità cui un uomo della sua condizione è tenuto. Properzio porta all‟estremo e coerentemente “teorizza” quella che era già stata la rivolta di Catullo, il rifiuto del mos maiorum, del primato dei valori della civitas, per un‟esistenza totalmente dedita all‟amore. Un‟esistenza dedita all‟otium, al servitium nei confronti della donna amata, fa tutt‟uno con l‟attività letteraria dal poeta- amante, che della sua vita fa materia di poesia. Eppure l‟amore di Properzio, il tipo di relazione che idealmente persegue, non è l‟amore libertino, la disinvolta commedia delle avventure galanti che sarà l‟arte del dongiovanni ovidiano: egli sogna per sé e per Cinzia i grandi amori del mito, le passioni esclusive ed eterne, fin oltre la morte. Per Cinzia vorrebbe configurare l‟amore con lei come un foedus garantito dagli dei e sostanziato di castitas, pudor , fides, i capisaldi dell‟etica matronale. La realtà, naturalmente è ben altra, e il poeta elegiaco si lacera nella contraddizione di cui è prigioniero: è sedotto dal fascino, dall‟eleganza mondana della donna amata, e al tempo stesso cerca in lei semplicità, fedeltà, dedizione assoluta. Il successo del primo libellus sollecitò l‟interesse di Mecenate, che cerca di orientare Properzio verso forme poetiche nuove, di guadagnarlo alla politica culturale del regime. Ma il libro II si apre con un recusatio, un elegante ma fermo rifiuto (di tradizione callimachea) d parte del poeta che si dichiara impari ad affrontare la Musa sublime del poema epico- storico, e ribadisce l‟unità di poetica e stile di vita. Eppure Properzio, nel II libro, appare più complesso: si acuisce il senso di disagio per la vita di nequizia, e dall‟atro si fa più sofferto il rapporto con Cinzia. Tale processo raggiunge uno stadio più avanzato nel III libro: le elegie amorose sono meno frequenti, e soprattutto l‟atteggiamento del poeta è meno appassionato: guarda a se steso con maggiore distacco. Il libro si chiude, emblematicamente, con il definitivo discidium, l‟addio a Cinzia, concludendo il ciclo che nel nome di lei si era aperto. Gli eventi esterni, le pressioni di mecenate e forse di Augusto stesso, insieme alla crisi che ha intimamente disgregato la precaria coesione dell‟elegia erotica, spingono Properzio a un diverso tipo di poesia. Egli non rinnega il callimachismo, non si piega alla poesia epico-storica, ma svincola l‟elegia dall‟eros, ne fa un genere autonomo. Properzio sarà il “Callimaco romano”: studierà e canterà appunto le “origini” dei nomi , dei miti, dei culti di Roma. Il IV libro nasce sotto la spinta di un impegno nuovo, ma la poesia civile di Properzio non avrà generalmente la pesantezza, la gravitas. La Roma arcaica, il mondo del mito, sono per lo più interpretati secondo il gusto callimacheo, che dà spazio alla grazia, all‟ironia. Properzio ha fama di poeta difficile, talvolta oscuro: il suo stile si caratterizza per la concentrazione, la densità metaforica, la sperimentazione costante di nuove possibilità espressive. Il procedere per movimenti improvvisi, per scatti, immagini e concetti senza esplicitare i collegamenti: sono le ragioni principali del fascino esercitato dalla poesia di Properzio sul gusto dei lettori moderni. OVIDIO Vita Publio Ovidio Nasone nasce a Sulmona, nel marzo del 43 a. C. Frequenta a Roma le migliori scuole di retorica, completa gli studi in Grecia. Entra nel circolo letteraria di Messala Corvino e stringe i rapporti con i maggiori poeti di Roma. All‟apice del successo lo coglie, nell‟8 a. C., l‟improvviso provvedimento punitivo di Augusto che relega il poeta nel mar Nero, a Tomi. Le cause: dietro l‟accusa ufficiale di immoralità, si voleva colpire un suo coinvolgimento nello scandalo dell‟adulterio di Giulia Minore, la nipote di Augusto, con Silano. Muore nel 17 d C. Opere Gli Amores comprendono 49 elegie: il metro è quello tipico del genere, cioè il distico elegiaco. Allo stesso periodo risale la composizione delle Heroides, almeno la i serie di epistole: il metro è il distico elegiaco. Tra l‟1 a. C. e l‟1 d. C. si colloca la pubblicazione dell‟Ars amatoria e dei Remedia amoris: per ambedue il metro è il distico elegiaco. Tra il 2 e l‟8 risale la composizione delle Metamorfosi, poema epico in 15 libri, per un totale di 12000 esametri. Delle cosiddette “opere dell‟esilio”, tutte in distici elegiaci, i Tristia comprendono 5 libri. 1. Una poesia “moderna” 41 Nell‟accostarsi ad Ovidio si resta colpiti dalla vastità della sua produzione e dalla varietà dei generi poetici trattati. E‟ un indizio di un diverso atteggiamento di fronte a scelte letterarie che riflettono anche scelte esistenziali. L‟adesione a un genere come l‟elegia erotica non significa per Ovidio, al contrario che per i suoi predecessori, una scelta di vita assoluta, incentrata sull‟amore; e soprattutto non vuole delimitare un orizzonte poetico. Il tratto più significativo della sua poesia, soprattutto giovanile, è l‟accettazione convinta , spesso entusiastica, delle nuove forme di vita nella Roma dei suoi tempi. Ultimo dei grandi poeti Augustei, Ovidio resta sostanzialmente estraneo alla sanguinosa stagione delle guerre civili: quando entra nella scena letteraria quello spettro è ormai lontano, la pace consolidata e cresce l‟aspirazione a forme di vita più rilassate, agli agi e alle raffinatezze del mondo orientale. Di queste aspirazioni Ovidio si fa interprete ed elabora un tipo di poesia che corrisponde in maniera sensibile al gusto, allo stile di vita dominato dal cultus. Ciò avviene non solo sul piano dei contenuti ma anche, e non di meno, su quello formale. Anzitutto la concezione che Ovidio ripetutamente manifesta si caratterizza come essenzialmente antimimetica, antinaturalistica, fortemente innovatrice rispetto alla tradizione classica, alla linea aristotelico-oraziana (la poesia ovidiana si dice autonoma dalla realtà e dichiara piuttosto la sua natura letteraria, allude ai suoi modelli). Il compiaciuto estetismo, la scettica eleganza dei questa poesia sono anche l‟espressione di un gusto che fa della letteratura un ornamento della vita. 2. Gli Amores L‟esordio poetico di Ovidio è costituito da una raccolta di elegie di soggetto amoroso, gli Amores, che mostra ancora ben visibili le tracce dei grandi modelli e maestri dell‟elegia erotica, Tibullo e soprattutto Properzio. Da voce, in prima persona, ai temi tradizionali del genere elegiaco: soprattutto avventure d‟amore, incontri fugaci, serenate notturne baruffe con l‟amata, scenate di gelosia… Ma già si avvertono i tratti nuovi dell‟elegia ovidiana. Anzitutto manca una figura femminile attorno a cui si raccolgono le varie esperienze amorose, che costituisca il centro unificante dell‟opera e insieme della vita del poeta: Corinna, la donna evocata qua e là da Ovidio, è una figura tenue, dalla presenza intermittente e limitata; il poeta stesso dichiara a più riprese di non sapersi accontentare di un unico amore, di preferire due donne. Anche il pathos che aveva caratterizzato le voci della grande poesia d‟amore latina con Ovidio si stempera e si banalizza: diventa poco più di un lusus, e l‟esperienza dell‟eros è analizzata dal poeta con il filtro dell‟ironia e del distacco intellettuale. Acquista anche peso, rispetto alla poesia elegiaca precedente, la coscienza letteraria del poeta, che si manifesta nell‟insistenza sulla poesia come strumento di immortalità e come autonoma creazione, svincolata dall‟obbligo di rispecchiare il reale. 2. La poesia erotico-didascalica La concezione, il progetto di scrivere un‟opera come l’Ars amatoria (e i suoi corollari) in cui impartire una precettistica sull‟amore, sembra l‟esito naturale, e insieme estremo, della concezione dell‟eros delineata negli Amores. Un aggancio importante fra le due opere è costituito dall‟elegia I,8 degli Amores, dove il poeta rielabora un motivo già tradizionale nella poesia elegiaca, quello della vecchia lena, l‟astuta ed esperta mezzana che impartisce consigli di seduzione a una giovane donna. Quella figura tanto deprecata dalla tradizione elegiaca appare sotto una luce sostanzialmente positiva; la lena è progenitrice del poeta didascalico, del maestro d‟amore, perché analoga è la concezione dell‟eros che le due opere presuppongono. La relazione d‟amore, perduto agli occhi di Ovidio il suo carattere di passione devastante, costituisce ormai un gioco intellettuale, divertimento galante, soggetto ad un corpus di regole sue proprie, a un codice estetico che è ricavabile dall‟elegia erotica latina. L‟Ars amatoria è un‟opera in 3 libri, in metro elegiaco, che impartisce consigli sui modi di conquistare le donne (I), ed conservarne l‟amore (II); il III libro, aggiunto più tardi per risarcire scherzosamente le donne dal danno procurato coi primi due, fornisce viceversa insegnamenti su come sedurre gli uomini. La figura del perfetto amante delineata da Ovidio si caratterizza ovviamente per i suoi tratti di disinvolta spregiudicatezza, di insofferenza e impertinente aggressività nei confronti della morale tradizionale. In realtà il carattere libertino e spregiudicato dell‟Ars non ne costituisce più che la sua veste scintillante: l‟eros ovidiano perde ogni impegno etico, ogni velleità di ribellione contro la morale dominante. 42 L‟elegia ovidiana coltiva piuttosto ambizioni di segno contrario: nel negare l‟impegno totalizzante della precedente poesia d‟amore,nel neutralizzarne le spinte aggressive, Ovidio cerca una riconciliazione della poesia elegiaca con la società, e suo modo cerca di sciogliere, una vistosa contraddizione dell‟elegia, che nel suo orgoglioso contrapporsi al sistema tradizionale dei valori sociali e culturali non aveva saputo elaborare modelli etici alternativi. A questo atteggiamento contraddittorio, e tendenzialmente arcaizzante, della poesia elegiaca Ovidio contrappone i valori della modernità, un‟accettazione entusiastica dello stile di vita della scintillante Roma augustea. All‟esalazione del cultus , degli agi e delle raffinatezze, risponde anche il poemetto Medicamina faciei femineae che si oppone la tradizionale rifiuto della cosmesi e illustra la tecnica di preparazione di alcune ricette di bellezza. Il ciclo didascalico è concluso dai Remedia amoris, l‟opera che insegna come liberarsi dall‟amore. 4. Le Heroides Se l‟eros è il tema unificante della produzione giovanile ovidiana, l‟altra grande fonte della sua poesia è il mito; l‟opera che più di esso si alimenta sono le Heroides. Con questo titolo si designa una raccolta di lettere poetiche: la prima serie è scritta da donne famose, eroine del mito greco ai loro amanti o mariti lontani: Penelope a Ulisse, Fedra a Ippolito, Arianna a Teseo, Medea a Giasone, ecc. La seconda è costituita dalle lettere di tre innamorati accompagnate dalla risposta delle rispettive donne: tra cui Paride ad Elena. Dell‟originalità di quest‟opera, con cui crea un nuovo genere letterario, Ovidio si dice orgoglioso.se personaggi e situazione appartengono al grande patrimonio del mito, molti elementi sono mutuati dalla tradizione elegiaca latina, dove sono ricorrenti motivi come la sofferenza per la lontananza della persona amata, recriminazioni,lamenti, suppliche, sospetti di infedeltà. Tra le epistole che risentono di più del modello elegiaco, c‟è quella di Fedra e Ippolito, in cui l‟eroina euripidea perde i suoi tratti di nobile dignità tragica per assimilarsi a una dama spregiudicata della società galante, tesa a sedurre il figliastro con le lusinghe di un facile furtivs amor. Nelle Heroides il modello elegiaco fa da filtro attraverso cui passano i materiali narrativi dell‟epos, della tragedia, del mito. E‟ un‟ottica ristretta, convenzionale, che porta le eroine ovidiane ad imporre tagli “elegiaci” sul materiale narrativo dell‟epos, della tragedia, del mito; è un processo di deformazione, di sistematica reinterpretazione, di riscrittura coerente. Così, nella epistola 7, Didone seleziona nel modello virgiliano gli elementi funzionali alla sua interpretazione persuasiva; così si spiega l‟insistenza su un‟ipotesi come quella della gravidanza, che rovescia la formulazione nell‟Eneide, dove si trattava di una speranza delusa. Ovidio introduce il lettore in un universo letterario nuovo, né epico o mitico né elegiaco, ma fondato sulla compresenza di codici e valori, sulla loro interazione. Certo la scelta della forma epistolare imponeva vincoli precisi al poeta, soprattutto la I serie, che si configurano come monologhi costruiti prevalentemente su una situazione-modello, il “lamento della donna abbandonata”. La struttura della lettera non permetteva molte variazione: data per nota la lettore colto la situazione di partenza, l‟andamento fonologico è solo interrotto qua e là da qualche flash- back. C‟è ancora un aspetto da sottolineare. Le Heroides propriamente sono poesia del lamento, sono l‟espressione della condizione infelice della donna, lasciata sola o abbandonata dallo sposo-amante lontano. Ma se a causare la sofferenza è per lo più questo ritrovarsi abbandonate dall‟amato, non mancano altre cause di infelicità per le figure femminili delle: le eroine soffrono in quanto donne. Nelle Heroides il genere elegiaco sembra così tornare alla proprie origini di poesia del dolore e del lamento. Nell‟operazione di “riscrittura” messa in atto, Ovidio rielabora i testi della tradizione spostando la prospettiva e dando voce alla donna e alle sue ragioni. Nell‟approfondimento della psicologia femminile (forte l‟influsso del modello euripideo) è anzi proprio uno degli aspetti più notevoli delle Heroides. 5. Le Metamorfosi Dopo Virgilio, che con l‟Eneide aveva realizzato il grandioso progetto di un poema epico di tipo omerico, di un epos nazionale, Ovidio segue un‟altra direzione. La veste formale sarà quella dell‟epos (l‟esametro sarà il marchio distintivo), e così le grandi dimensioni (15 libri), ma il modello è quello dei un “poema collettivo”, che raggruppi cioè una serie di storie indipendenti accomunate da uno stesso tema. Al tempo stesso però proprio mentre opera questa scelta di poetica alessandrina (nei contenuti e nella forma), Ovidio rivela anche l‟intenzione di comporre un poema epico, che la poetica callimachea aveva notoriamente messo al bando. Ne dà conferma lo stesso impianto cronologico del poema, illimitato (dalle origini del mondo ai giorni di Ovidio). Ciò riavvicinava il poeta agli orientamenti del principato e di rispondere, anzi, alle esigenze nazionali ed augustee. 45 soprattutto la visione unitaria del Mediterraneo e dei legami fra Roma e i regni ellenistici.; sporadica l‟utilizzo delle Origines di Catone. Livio non sembra procedere ad un attento vaglio critico delle proprie fonti: in certi casi, la facilità di accesso e di reperibilità sembra essere stato il criterio di scelta determinante; Livio fa uso estremamente scarso della documentazione contenuta in manoscritti e antiche iscrizioni, come pure dei risultati delle ricerche scrupolose degli antiquari della precedente generazione, come Varrone. Di conseguenza si è visto in lui soprattutto un exornator rerum, principalmente preoccupato di amplificare e adornare la traccia che trovava nella propria fonte. Su questa strada si è voluto escludere Livio dallo sviluppo della maggiore storiografia latina da Sallustio a Tacito, cioè dalla grande storiografia senatoria: quindi non lo storico senatore, che la politica mette in grado di formarsi un giudizio personale e approfondito, e che ha accesso a documentazione come gli Acta Senatus; ma lo storico letterato che lavora soprattutto di seconda mano sulla narrazione di storici precedenti. Ma ciò non significa che Livio non sia uno storico “onesto”, e nemmeno che scriva in una gioiosa esaltazione del regime augusteo, non incrinata da alcun dubbio. 2. Il nuovo regime e le tendenze della storiografia liviana A quanto pare, il regime augusteo non operò, nei confronti della storiografia, un tentativo di egemonia paragonabile a quello attuato nei confronti della poesia. Sappiamo da Quintiliano che Asinio Pollione coglieva in Livio tracce di Patavinitas, di provincialismo padovano. Difficile da dire se si rispecchiasse una determinata posizione politico-culturale, un legame particolarmente stretto con le tradizioni repubblicane, fortemente sentite in una città dove ancora era vivo e vegeto il mos maiorum. Più esplicito Tacito, secondo il quale Augusto avrebbe affibbiato allo storico l‟epiteto di “pompeiano”, per la nostalgica simpatia verso gli ideali repubblicani. Un atteggiamento del genere non destava, in età augustea particolari fastidi: Augusto, soprattutto dopo la riforma costituzionale del 27, era più desideroso di presentarsi come il restauratore che come l‟erede di Cesare; di conseguenza tollerava, e in qualche maniera utilizzava, il culto dei martiri della res publica. Tuttavia il consenso liviano verso il regime non si traduceva in una esaltazione incondizionata; infatti, dalla praefatio traspare una consapevolezza della crisi che Roma ha appena attraversato; Livio resta estraneo a tutta quella parte dell‟ideologia augustea che insite sul valore “carismatico” del principato, presentandolo come la realizzazione della nuova età dell‟oro. Più volte Livio accenna al fatto cha la narrazione del glorioso passato di Roma è per lui un rifugio rispetto alla cura che gli apporta la narrazione degli eventi più recenti e contemporanei: un atteggiamento implicitamente polemico nei confronti della storiografia sallustiana, che aveva posto la crisi di Roma centro della propria indagine. Il pessimismo liviano, che pure esiste, non è altrettanto lucido; pur riconoscendo il carattere “epocale” e non episodico della crisi, Livio rifiuta di concentrare l‟interesse su di essa, sforzandosi invece di non considerarla separatamente dal quadro generale della storia di Roma. Dalle parti conservate dell‟opera emerge la giustificazione dell‟Impero di Roma, alla cui edificazione hanno cooperato una fortuna sostanzialmente non diversa dalla provvidenza divina, e la virtus del popolo romano. Quando Livio rivolge il suo sguardo a quel percorso di oltre sette secoli, egli mostra reverenza quasi sgomento, davanti a tanto spazio di tempo e di fatti. Nella rievocazione le immagini del passato agiscono come modelli di comportamento sociale e individuale, sia positivi che negativi. La mitologia del passato, non solo ha senso per gli uomini presenti, ma anche dà senso al loro agire. 3. Lo stile della narrazione liviana Nel gusto stilistico, Livio oppose nettamente alla tendenza di Sallustio, avvicinandosi, piuttosto alla stile che Cicerone aveva vagheggiato per la storiografia romana. Quintilliano, che riconosceva la superiorità di Sallustio come storico, contrapponeva alla sua brevitas austera e sentenziosa la lactea ubertas di Livio: uno stile ampio fluido e luminoso, senza artifici ne restrizioni, che evita ogni asperitas.La coloritura poetica del racconto è cospicua e frequente. Ereditando una tendenza già presente, Livio lascia largo spazio alla drammatizzazione del racconto. Certo, la passione moralistica che contraddistingue la concezione liviana della storia ( non studio politico che spieghi atteggiamenti ed eventi, bensì la narrazione da condurre in termini di singole personalità rappresentative), risente parecchio della tradizione storiografica ellenistica, quello stile storiografico che si usa definire “tragico”. Cosi la historia , più che ricerca della verità, poteva diventare attività retorica, rientrare nella categoria del letterario. Il suo scopo era di mostrare che qualità mentali e morali hanno un impatto decisivo sugli avvenimenti: l‟atmosfera di una città agiata, i sentimenti di un popolo,i pensieri e desideri di un personaggio, tutto questo non è “obbiettività”, non è il distacco impersonale che ogni teorico pretenderebbe da uno storico serio. 46 La “pateticità” di Livio non ha nulla a che sia paragonabile al pathos acceso di Sallustio; è piuttosto un discorso arioso di rappresentare e di narrare: un modo “sentimentale” (c‟è più ethos che pathos), che ottiene l‟effetto di aggiungere una suggestione di maestà epica. Il modello di stile storiografico elaborato da Livio divenne rapidamente un classico, e rivaleggio con l‟altro modello, Sallustio, il quale esercitò nell‟antichità un influsso predominante. Livio oppositore di Sallustio, e seguace di Cicerone, dunque. Ma è pur vero che il periodare di Livio, confrontato con quello del modello, risulta spesso carico, affollato; insomma, se il periodo ciceroniano è fatto per essere ascoltato, quello liviano si attende di essere letto. 4. La fortuna La fortuna di Livio, nonostante il modello Sallustio, è stata molto grande. L‟enorme mole dell‟opera fece sì che presto se ne allestissero delle “epitomi”, redazioni concise e abbreviate. Dante lo collocò fra i grandi prosatori nel De vulgari eloquentia. Machiavelli compose in volgare i Discorsi intorno alla prima deca, la primo riflessione moderna sulle vicende di Roma, che si sforza di trarre da esse insegnamenti storici di validità perenne. SENECA Vita Lucio Anneo Seneca nacque in Spagna, Cordova, da ricca famiglia equestre, forse nel 4 a. C. Venne presto a Roma, dove fu educato nelle scuole retoriche, e filosofiche. Iniziò l‟attività forense e la carriera politica, così fortunata che Caligola, geloso, lo condannò a morte, ma fu salvato da un‟amante dell‟imperatore. Non si salvò dalla relegazione che, nel 41, gli comminò Claudio, con l‟accusa di coinvolgimento nell‟adulterio di Giulia Livella. Dalla Corsica, tornò nel 49, per intervento di Agrippina, che lo scelse come tutore del figlio di primo letto, il futuro imperatore Nerone. In questo modo accompagnò l‟ascesa al trono del giovane Nerone (54 d. C.) e da allora resse la guida dello stato: è il celebre periodo di buon governo; fino al matricidio compiuto da Nerone (59 d. C.), che costrinse il filosofo a gravi compromessi. Viene coinvolto nella celebre “congiura di Pisone”: condannato a morte da Nerone, si suicidò nello stesso 65 d. C. Opere Della vasta produzione senecana, quelle di carattere filosofico occupano lo spazio maggiore. Alcune di queste raccolte, dopo la morte, in 12 libri di Dialogi: sono trattati, per lo più brevi, su questioni etiche e psicologiche. Altre opere filosofiche tramandateci autonomamente, sono i 7 libri De beneficiis, il De clementia, indirizzato a Nerone e 20 libri comprendenti le 124 Epistulae morales ad Lucilium. Di carattere propriamente scientifico la Naturales Quaestiones, in 7 libri. Abbiamo 9 tragedie cothurnatae, cioè di argomento greco e il Ludus de morte Claudii (o Apokolokyntosis), una satira menippea sulla singolare apoteosi dell‟imperatore Claudio. Fonti Molte notizie da Seneca stesso; importanti i libri XII-XV degli Annales di Tacito; Cassio Dione; Svetonio. 1. I Dialogi e la saggezza stoica Consolatio ad Marciam indirizzata alla figlia dello storico Cremuzio Sordo per consolarla della perdita del figlio. Il genere della consolazione, già coltivato nella tradizione filosofica greca, si costituisce attorno a un repertorio di temi morali (la fugacità del tempo, la precarietà della vita, la morte come destino ineluttabile…) che saranno parte della riflessione filosofica di Seneca. Le singole opere dei Dialogi costituiscono trattazioni autonome di aspetti o problemi particolari dell‟etica stoica, il quadro generale in cui l‟intera produzione filosofica senecana si iscrive (uno stoicismo, comunque, che ha stemperato l‟antico rigore dottrinale). Il De vita beata affronta il problema della felicità e del ruolo che nel perseguimento di essa possono svolgere gli agi e le ricchezze. In realtà, dietro il problema generale, Seneca sembra voler fronteggiare le accuse di incoerenza tra i principi professati e la concreta condotta di vita che lo aveva portato ad accumulare un patrimonio sterminato. Saggezza e ricchezza non sono necessariamente antitetiche (nemo sapientiam paupertate damnavit, 23); Seneca resta generalmente estraneo al fascino del modello cinico, avvertito come pericolosamente asociale: che aspira alla sapientia dovrà saper “sopportare” gli agi e il benessere che le circostanze delle vita gli hanno procurato, senza lasciare invischiarsene. La “trilogia” dedicata all‟amico Sereno, che abbandona le sue convinzioni epicuree per accostarsi all‟etica stoica, è composta da: De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi. Il primo esalta le qualità del saggio stoico, forte della sua interiore fermezza. Il terzo affronta il tema della partecipazione del saggio alla vita politica: Seneca cerca una 47 mediazione fra i due estremi dell‟otium contemplativo e dell‟impegno proprio del civis romano. La scelta di una vita appartata è invece chiara nel De otio: una scelta forzata, resa necessaria dalla situazione politica difficile. Nel De providentia affronta il problema della contraddizione fra il progetto provvidenziale che secondo la dottrina stoica presiede alle vicende umane (in polemica con la tesi epicurea dell‟indifferenza divina) e la sconcertante constatazione di una sorte che sembra spesso premiare i malvagi e punire gli onesti. La risposta di Seneca è che l‟avversità che colpiscono chi non li merita non contraddicono tale disegno provvidenziale, ma attestano la volontà divina di mettere alla prova gli onesti. 2. Filosofia e potere I 7 libri De beneficiis: vi si tratta della natura e delle varie modalità degli atti di beneficenza, del legame benefattore- beneficato. L‟opera che analizza il beneficio come elemento coesivo dei rapporti sociali, sembra trasferire sul piano morale individuale il progetto di una società equilibrata e concorde utopica. L‟appello, rivolto soprattutto alle classi privilegiate, ai dovere di filantropia e di liberalità,è nell‟intento di instaurare rapporti sociali più umani. L‟opera in cui Seneca aveva esposto più compiutamente la sua concezione del potere è il De clementia, dedicato al giovane imperatore Nerone. Non mette in discussione la legittimità costituzionale del principato: il potere unico era il più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico governato dal logos, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l‟ideale di un universo cosmopolita; vincolo e simbolo unificante dell‟impero. Il problema, piuttosto, è quello di avere un sovrano assoluto, privo di forme di controllo esterno, l‟unico freno sul sovrano sarà la sua stessa coscienza. La clemenza è la virtù che dovrà informare i suoi rapporti coi sudditi: con essa potrà ottenere il consenso. E‟ evidente in questa concezione l‟importanza che acquista l‟educazione del princeps e più in generale la funzione della filosofia come garante e ispiratrice della direzione politica dello stato. 3. La pratica quotidiana della filosofia: le Epistole a Lucillio L‟opera principale della sua produzione tarda, e la più celebre in assoluto, sono le Epistulae ad Lucilium, una raccolta di lettere di vario argomento. Se si tratti di un epistolario reale o fittizio è questione di cui si continua a discutere. L‟opera ci è giunta incompleta; costituisce, comunque, un unicum nel panorama letterario d filosofico antico. Lo spunto a comporre lettere a carattere filosofico sarà venuta da Platone, e soprattutto Epicuro; egli mostra piena consapevolezza di introdurre un genere nuovo, distinto dalla comune pratica epistolare. Il modello è appunto Epicuro, colui che nelle lettere agli amici ha saputo perfettamente realizzare quel rapporto di formazione e di educazione spirituale che Seneca istituisce con Lucilio. Le sue lettere vogliono essere uno strumento di crescita morale. Riprendendo un topos comune nella epistolografia antica , Seneca insiste sul fatto che lo scambio di lettere permette di istituire un colloquium con l‟amico, di creare con lui un‟intimità quotidiana. Più degli altri generi di letteratura filosofica, la lettera, vicina alla realtà della vita vissuta, si presta perfettamente alla pratica quotidiana della filosofia. Non meno importante dell‟aspetto teorico è nella lettera quello parenetico: essa tende non solo e non tanto a dimostrare una verità quanto ad esortare, ad invitare al bene. Oltre a essere funzionale a una fase specifica del processo di direzione spirituale, il genere epistolare si rivela anche appropriato ad accogliere un tipo di filosofia, come quella senecana, priva di sistematicità e inclina a trattare aspetti parziali o singoli temi etici. Gli argomenti delle lettere, sono svariati, ma vengono generalmente ricondotti alla tematiche della tradizione diatribica: vertono sulle norme cui saggio informa la sua vita, sulla sua autàrkeyas, sul suo disprezzo per le opinioni correnti. La considerazione della condizione umana che accomuna tutti i viventi ha fatto pensare al sentimento di carità cristiana: in realtà l‟etica senecana resta profondamente aristocratica, e il sapiens stoico che esprime la sua simpatia per gli schiavi maltrattati manifesta apertamente anche il suo irrevocabile disprezzo per le masse popolari abbruttite dagli spettacoli del circo. La conquista della libertà interiore (resasi necessaria la rinuncia alle rivendicazioni sul terreno politico) è l‟estremo obbiettivo che il saggio stoico si pone. 4. Lo stile “drammatico” La prosa filosofica senecana è divenuta quasi l‟emblema di uno stile elaborato, teso e complesso, caratterizzato dalla ricerca dell‟effetto e dell‟espressione concisamente epigrammatica. Seneca rifiuta la compatta architettura classica del periodo ciceroniano e da vita ad un genere eminentemente paratattico, che frantuma l‟impianto del pensiero in un susseguirsi di frasi aguzze e sentenziose, il ci collegamento è affidato all‟antitese e alla ripetizione. Questa prosa affonda le sue radici nella retorica asiana e nella predicazione dei filosofi cinici. Uno stile aguzzo e penetrante che riflette emblematicamente le spinte che animano la filosofia senecana, tesa fra la ricerca della libertà dell‟io e la liberazione dell‟umanità. 50 perpetrato un inganno, coprendo con un velo di mistificazioni la fine delle libertà romana e la trasformazione dell‟antica res publica in tirannide. Lucano sembra prefiggersi il compito di smascherare l‟inganno, di scrivere un poema che non giustifichi il potere del principe ricorrendo ad antiche favole religiose, ma mostri, invece, come il regime sia nata dalle ceneri della libera res publica. La via che Lucano sceglie per sconfessare Virgilio è in primo luogo il mutamento dell‟oggetto: non rielaborazione di racconti mitici, ma un scelta programmatica i fedeltà al “vero” storico. 3. L’elogio di Nerone e l’evoluzione della poetica lucanea E‟ abbastanza probabile che il pessimismo lucaneo sia andato maturando progressivamente nel corso della stesura del poema: in una fase iniziale, Lucano avrà condiviso le speranze di palingenesi politico-sociale suscitate dall‟avvento al potere di Nerone. Nell‟epos virgiliano, il tema storico delle guerra civili si affacciava qua e là nel testo, ma solo adombrato nel remoto conflitto tra Troiani e Latini (destinati a fondersi); Lucano vuole invece riproporlo in tutta la sua ineludibile realtà storica. L‟elogio di Nerone riprende da Virgilio tutta una serie di motivi rivolti alla glorificazione del principe. Agli occhi di Lucano Nerone, e non Augusto, è la vera realizzazione delle promesse del Giove virgiliano. Questa interpretazione presuppone la “sincerità” dell‟elogio di Nerone,non univocamente condivisa dagli studiosi moderni. Già alcuni scoli antichi avevano visto, negli esuberanti tumores dell‟elogio, il segno di una sorta di ironia “cifrata” nei confronti dell‟imperatore. Maggiori elementi di plausibilità ha una seconda linea interpretativa, che presuppone in Lucano un‟evoluzione sotto certi aspetti non dissimile da quella di Seneca. Un relativo mutamento di giudizio di Pompeo era implicito nella stessa struttura della Pharsalia, in cui il personaggio si muove verso la conquista della progressiva saggezza; quanto a Cesare, l‟avversione nei suoi confronti è costante fin dall‟ inizio del poema Resta il fatto che, all‟interno della Pharsalia, l‟elogio a Nerone suona come una nota stridente: nel progetto stesso del poema era insita la contraddizione fra la visione pessimistica dell‟ultimo secolo di storia romana, che Lucano andava maturando, e la aspettative suscitate dal uovo principe. 4. Lucano e l’anti-mito di Roma Nel seguito del poema il pessimismo di Lucano si fa più radicale, e approda a una concezione coerentemente priva di luci: un vero e proprio “anti-mito” di Roma, il mito del suo tracollo, della inarrestabile decadenza, che si contrappone a quello virgiliano dell‟ascesa della città da umili origini. Come l‟Eneide, la Pharsalia si articola intorno a una serie di profezie che rivelano non le future glorie di Roma, ma la rovina che l‟attende. La più importante è costituita senza dubbio dalla nekyomantèia (“negromanzia”) del libro VI. Introducendo il mondo dell‟oltretomba, Lucano mostra l‟evidente volontà di creare un pezzo che posa fare da pendant alla catabasi (“discesa agli Inferi”) di Enea. Lucano rovescia il modello virgiliano fin nei minimi particolari. La scelta di Pompeo a destinatario della rivelazione si spiega col fatto che Luciano ha inteso collegare la stirpe di Pompeo al mito della rovina di Roma, come Virgilio aveva collegato la gens Iulia a quello della sua ascesa gloriosa. Per di più sesto Pompeo, figlio degenere ed empio, rappresenta per molti aspetti un rovesciamento del pio Enea. 5. I personaggi del poema La Pharsalia non ha, come l‟Eneide, un personaggio principale: l‟azione del poema ruota attorno soprattutto a Cesare e Pompeo e Catone. Cesare domina a lungo la scena con la sua malefica grandezza: egli assurge a incarnazione del furor che un‟entità ostile, la Fortuna, scatena contro l‟antica potenza di Roma. Il furor, l‟ira, l‟impatientia sono le passioni che agitano il suo personaggio; sono anche i tratti tipici della rappresentazione del tiranno. Alla frenetica energia di cesare si contrappone una relativa passività da parte di Pompeo: un personaggio in declino, affetto da una sorta di senilità politica e militare. L‟intento di Lucano è quello di farne una sorta di Enea cui il destino si mostra avverso: così egli diviene una figura “tragica”, l‟unica che, all‟interno dell‟opera, subisca una evoluzione psicologica. Alla progressiva perdita di autorevolezza in campo politico fa riscontro, in Pompeo, un ripiegamento nella sfera del privato; va incontro ad una sorta di “purificazione”: diviene consapevole della malvagità dei fati, comprende che la morte in nome di una causa giusta costituisce l‟unica via di riscatto morale. Questa consapevolezza costituisce invece per Catone un solido possesso fino dalla sua prima apparizione nel poema. Lo sfondo filosofico della Pharsalia è indubbiamente di tipo stoico: ma nel personaggio di Catone si consuma la crisi 51 dello stoicismo di stampo tradizionale, che garantiva il dominio della ragione nel cosmo e, quindi, la provvidenza divina nella storia. Di fronte alla consapevolezza della malvagità di un fato che cerca unicamente la distruzione di Roma, diviene impossibile, per Catone, l‟adesione volontaria alla volontà del destino (o degli dei) che lo stoicismo pretendeva dal saggio. Matura così la convinzione che il criterio della giustizia è ormai da ricercarsi altrove che nel volere del cielo. Catone si impegna nella guerra civile, con piena consapevolezza della sconfitta alla quale va incontro, e della conseguente necessità di darsi la morte, l‟unico modo che gli resta per continuare ad affermare il diritto e la libertà. 6. Lo stile Ardens et concitatus : così Quintilliano ebbe a definire Lucano e voleva probabilmente riferirsi anche all‟incalzante ritmo narrativo dei periodi, che si susseguono senza freno e lasciano debordare parti della frasi oltre i confini dello schema esametrico. Per la spinta continua al pathos e al sublime, lo stile di Lucano ha molti punti di contatto con quello delle tragedie di Seneca: si è potuto parlare di “Barocco” e di “manierismo”. E‟ uno stile che di rado conosce dominio e misura, ma è anche uno stile che non è solo il frutto dell‟adesione alle mode letterarie del tempo, né intende solo compiacere il gusto delle sale di declamazione; la tensione espressiva dell‟epica lucanea si alimenta dell‟impegno e della passione con le quali il giovane poeta ha vissuto la crisi della sua cultura. La rappresentazione di una catastrofe come la guerra civile poteva ancora a nutrirsi di una forma tradizionale qual era quella che il genere epico offriva? Nell‟immaginario dell‟epica eroica la coscienza e l‟orgoglio di un popolo avevano trovato forme adeguate a “trasfigurare” gli eventi del proprio passato. Ma a questo compito l‟epos non può far fronte ora che lo sviluppo degli eventi ha tradito quel mondo ideale e ha tolto credito alle forme letterarie che lo raccontavano. Lucano non ha la forza di sbarazzarsi di una forma letteraria che pure senti insufficiente ai suoi bisogni, così egli cerca un rimedio di compenso nell‟ardore ideologico con cui denuncia la crisi. Ma così la presenza di un‟ideologia politico-moralistica si fa in lui ossessiva, invade il suo linguaggio e si riduce a retorica. 7. La fortuna Dante la colloca quarto fra gli “spiriti magni” dopo Omero, Orazio e Ovidio (Inf. IV); al Catone lucaneo è largamente ispirato quello che Dante incontra nel Purgatorio. Goethe, nel Faust, prese spunto dalla descrizione dei riti della maga Erìttone. Foscolo derivò da Lucano alcuni accenni dei Sepolcri. Gli spunti “titanistici” e “antiteistici” della Pharsalia alimenteranno anche la poesia di G. Leopardi: il Bruto Minore è sotto certi aspetti la poesia più “lucanea” che sia stata scritta. PETRONIO Vita Se l‟autore è il personaggio rappresentato da Tacito negli Annales XVI (cosa che oggi appare altamente probabile) si tratta di T. Petronius Niger, console verso il 62, suicida per volontà di Nerone nel 66. Il cognome Arbiter, attestato nella tradizione manoscritta del Satyricon sarà da collegarsi alla definizione riportata da Tacito, elegantiae arbiter, anche se la connessione tra questi dati è discussa. Nominato pochissime volte e a partire dal III secolo; oltre Tacito qualche menzione in Plinio. Opere Un lunghissimo frammento in prosa; titolo Satyrica, che sembra formato da due grecismi: Satyri ( i Satiri) più il suffisso di derivazione greca –icus (-ikòs), lo stesso che serve alla formazione di titoli come Georgica (neutro plurale). Secondo altri il titolo risente della parola latina satura. (Si noti che il titolo usuale Satyricon non è esatto; si tratta di un genitivo plurale neutro, retto da libri). La parte che abbiamo copre parte dei libri 14 e 16 e la totalità del libro 15; è verosimile che quest‟ultimo coincidesse in gran parte con la “Cena di Trimalcione”. Non sappiamo di quanti libri fosse composto il romanzo. Il testo ebbe un destino capriccioso e complesso; fu mutilato e antologizzato in età tardo-antica. Di questa riduzione una sezione – la Cena Trimalchionis – ricompare soltanto nel XVII secolo, in un codice ritrovato in Dalmazia. Pregiudizi moralistici inibirono a lungo la diffusione di Petronio, soprattutto nelle scuole. Ma lo sviluppo del romanzo europeo fu profondamente influenzato dal Satyricon. Flaubert e Joyce sono debitori di questo esperimento narrativo. 1. Il Satyricon 52 Del Satyricon sono incerti l‟autore, la date di composizione, il titolo e il suo significato, l‟estensione originaria, oltre a questioni quali il genere letterario in cui si inserisce e le motivazioni per cui quest‟opera venne concepita e pubblicata. Nessun autore antico ci dice chi fosse il misterioso Petronius Niger Arbiter, autore secondo la tradizione manoscritta del Satyricon. Tacito non parla dell‟opera, ma ci presenta nel XVI libro degli Annali uno straordinario ritratto di un cortigiano di Nerone, di nome Petronio, e considerato da Nerone il giudice per eccellenza dello chic e della raffinatezza: il suo elgantiae arbiter. L‟identità di questo Petronio con l‟autore del Satyricon è oggi accettata dalla stragrande maggioranza degli interpreti, anche se non poggia su nessuna testimonianza. Tacito delinea un personaggio paradossale: valido uomo di potere; proconsole di Bitinia; ma la qualità che lo rendeva prezioso a Nerone era la raffinatezza, il gusto estetico. Fu spinto al suicidio nel 66: nessuna ostentazione di severità stoica, anzi il suo suicida sembra essere stato concepito come una parodia del teatrale suicidio tipico di certi oppositori politici. Incidendosi le vene, e poi rallentando ad arte il momento della fine, Petronio passò le ultime ore a banchetto, occupandosi di poesia. E‟ chiaro che il ritratto deve molto all‟arte di Tacito; tuttavia, a molti lettori le somiglianze con l‟atmosfera del romanzo sono apparse troppo belle per essere false. Spregiudicatezza, acuto sguardo critico, disillusione, senso della mistificazione, cultura letteraria sono tutte qualità che l‟autore del Satyricon divide con il Petronio letterario. E‟ legittimo interrogarsi su certi aspetti del testo, cercando dei punti di contatto con l‟atmosfera della corte neroniana. Si è pensato che il gusto di Petronio per i bassi fondi abbia una sottile complicità con i gusti dell‟imperatore; gli storici anitneroniani attribuiscono a Nerone un‟intensa vita notturna, condotta in incognito, frequentando bettole e postriboli, mescolandosi a risse. Tutti gli elementi di datazione interni, cioè desunti dal testo stesso, concordano con una datazione non oltre il principato di Nerone. Lo stile del romanzo ha dato più lavoro ai critici: il linguaggio parlato da alcune figure del romanzo – i liberti del convito in casa di Trimalcione- è profondamente diverso dal latino letterario che ci è familiare. Abbiamo qui una preziosa fonte di informazione sulla lingua d‟uso popolare, che si può combinare con attestazioni di tipo sub-letterario, come i graffiti di Pompei, glosse e con quelle tracce di lingua d‟uso che recuperiamo, spesso a fatica, da poeti quali Plauto o Catullo. Ma in sintesi, diremo che i volgarismi sono spie non di uno stato “tardo”, storicamente tardo, della lingua, ma di uno strato “basso”. Il modo in cui si è formato il testo è assai problematico. Siamo di fronte a un frammento di narrazione che deve aver subito qua e là dei tagli, forse anche delle interpolazioni e degli spostamenti di sezioni narrative. La parte più integra è il famoso episodio della Cena di Trimalcione. Di sicuro, questi era preceduto da un lunghissimo antefatto (14 libri ?!) e seguito da una parte di lunghezza per noi imprecisabile. La storia è narrata in prima persona dal protagonista Encolpio, che compare in tutti gli episodi. Encolpio attraversa un successione indiavolata di peripezie. Da principio il protagonista, un giovane di buona cultura, che ha a che fare con un maestro di retorica. Apprendiamo poi che viaggia in compagnia di un avventuriero dal passato burrascoso, Ascilto, e di un bel giovinetto, Gitone; fra questi personaggi corre un triangolo amoroso. Entra in sena una matrona, Quartilla, che coinvolge i tre in un rito in onore del dio Priàpo: si rivela un pretesto per abusare sessualmente dei giovani. Poi i tre vengono scritturati per un banchetto in casa di Trimalcione, un ricchissimo liberto di sconvolgente rozzezza. Descrizione minuziosa della cena, una teatrale esibizione di lusso e kitsch; la scena è dominata dagli amici liberti di Trimalcione e dalla loro rozzezza. Seguono altre avventure di Encolpio. Nessuno dei termini che usiamo per definire la narrativa di invenzione (novella, romanzo,ecc.) ha una tradizione classica, ne reali corrispettivi nel mondo antico. Gli antichi applicavano a queste opere narrative termini molto generici (historia, fabula). Per questa classe di testi non abbiamo trattazioni teoriche; sospettiamo che di narrativa si facesse un grande consumo, ma pochi letterati antichi si occupano del fenomeno. I critici moderni chiamano in genere “romanzi” un gruppo ristretto di opere che cadono in queste due tipologie molto differenti: a) due testi latini, tra l‟altro reciprocamente indipendenti e poco simili fra loro: il Satyricon e le Metamorfosi di Apuleio; b) una serie di testi greci, databili fra il I secolo d.C. e il IV. Al contrario dei romanzi latini, questa serie di opere greche è unita da una notevole omogeneità e permanenza di tratti distintivi. Soprattutto, la trama è quasi invariabile: si tratta di traversie di una coppia di innamorati che vengono separati dalle avversità,e primi di riunirsi e coronare il loro amore, superano mille avventure e pericoli. L‟amore è trattato con pudicizia, come una passione seria e esclusiva: molta suspense della storia sta nei modi avventurosi con cui l‟eroina serba fino in fondo la sua castità. 55 GIOVENALE Vita Poche e incerte le notizia sulla vita di Giovenale, ricavabili in parte dai rari accenni autobiografici presenti nelle sue satire. Decimo Giunio Giovenale sarebbe nato nel Lazio, ad Aquino, tra il 50 e il 60, da famiglia benestante. All‟attività poetica arrivò in età matura; visse, come l‟amico Marziale, all‟ombra dei potenti, nella disagiata condizione di cliente, privo di autonomia economica. Morì sicuramente dopo il 127. Opere La sua produzione poetica è costituita da 16 satire, in esametri (per 3869 versi), suddivise in 5 libri forse dall‟autore stesso. Tra il 100 e il 127 la loro pubblicazione. La letteratura del tempo, col suo dilettarsi dei trite leggende mitologiche, è ridicolmente lontana, agli occhi di Giovenale, dal clima morale corrotto, dalla profonda abiezione in cui versa la società romana. Di fronte all‟inarrestabile dilagare del vizio sarà l‟indignazione la musa del poeta, e la satira il genere obbligato. Così nella I satira, Giovenale enuncia le ragioni della sua poetica e la centralità che in essa occupa la indignatio. Al contrario di Orazio, non crede che la poesia possa influire sul comportamento degli uomini, giudicati prede irrimediabili della corruzione. Giovenale rifiuta di uniformarsi alla tradizione satirica precedente, razionalistica e riflessiva, ma il suo rifiuto investe le forme stesse del ragionamento e del giudizio morale, gli schemi del pensiero moralistico romano. Questo, com‟è noto, si costituisce grazie a un‟operazione di adattamento alla società romana del grande patrimonio di topoi della diatriba cinico-stoica, e informa nelle maniere più varie la riflessione sui problemi di etica personale e di morale sociale, fornendone gli schemi di impostazione e i tipi di soluzione. Sono appunto le risposte della morale diatribica che Giovenale rifiuta, di quella morale che insegna a restare indifferenti di fronte al mondo delle cose concrete, esteriori, e a coltivare l‟apàtheia e l‟autarkeia del saggio. Rigetta e demistifica col rancore dell‟emarginato, di chi si vede escluso dai benefici che la società elargisce ai corrotti e costretto all‟umiliante condizione del cliente. L‟astio sociale, il risentimento per la mancata integrazione,è una componente importante della satira “indignata” di Giovenale; al suo sguardo deformato di moralista, la società romana appare irrimediabilmente perversa. La sua furia aggressiva non risparmia nessuno, accanendosi soprattutto sulle figure più emblematiche della società e del costume della capitale. Bersaglio privilegiato sono le donne, le donne emancipate e libere, che per il loro disinvolto muoversi nella vita sociale personificano agli occhi del poeta lo scempio stesso del pudore. Questa radicale avversione al suo tempo, e la rabbiosa protesta conto l‟oppressione la miseria in cui versano gli umili e i reietti, hanno fatto parlare di un atteggiamento “democratico” di Giovenale, ma è una prospettiva illusoria: il suo atteggiamento verso il volgo, gli indotti, è di profondo e irrevocabile disprezzo. Un marcato cambiamento di toni si avverte nella seconda parte dell‟opera di Giovenale, negli ultimi due libri, in cui il poeta rinuncia alla violenta ripulsa dell‟indignatio assume un atteggiamento più distaccato, mirante all‟apàtheia degli stoici, riavvicinandosi a quella tradizione diatribica della satira da cui si era distaccato bruscamente. Mentre, nella tradizione precedente, proprio l‟avere come oggetto la realtà quotidiana aveva fatto sì che la satira adottasse un livello stilistico umile, un tono familiare e senza pretese (il sermo), adesso che questa realtà ha assunto caratteri eccezionali, che il vizio l‟ha popolata di mostri, anche la satira dovrà farvi corrispondere caratteri grandiosi. Non più stile dimesso, ma simile a quello dell‟epica e soprattutto della tragedia. Giovenale trasforma quindi profondamente il codice formale del genere satirico, recidendo il legame con la commedia e accostando la satira alla tragedia, sul terreno dei contenuti e dello stile, analogamente “sublime”. Un procedimento usuale è il ricorso alla solenni movenze epico-tragiche proprio in coincidenza con i contenuti più bassi e volgari. Il suo realismo ha naturalmente una forte spinta deformante, che si esplica soprattutto nel tratteggiare figure e quadri di violenta crudezza. La fama di Giovenale fiorisce nel IV secolo. Conosciuto da Dante e Petrarca e dagli umanisti, conoscerà grande fortuna soprattutto nella tradizione satirico-moralistica europea, da Ariosto a Parini, da Alfieri a Hugo a Carducci. STAZIO Vita Publio Papirio Stazio nasce a Napoli fra il 40 e il 50. A Roma ebbe il giovane poeta successi nelle gare poetiche. Protetto da Domiziano; rientrò a Napoli, morì nel 96. Opere Silvae, 5 libri in versi in vario metro, editi a partire dal 92. Due testi epici in esametri. Thèbais, in 12 libri (oltre 10000 versi), pubblicata nel 92; Achillèis, lasciato incompiuto: rimane solo il libro I e l‟inizio del II. 1. Le Silvae 56 Da una trattazione che guardi insieme a tutti i poemi epici di età flavia, esorbitano le Silvae, opera non epica con caratteri legati al gusto contemporaneo. Stazio è un letterato professionale, che vive della sua opera. Il titolo dell‟opera vuole indicare forse una raccolta di “schizzi”, ma queste poesie sono un preziosissimo documento sulla società dell‟epoca. I “committenti” delle varie poesie si rispecchiano in molte di esse, rivelandoci mentalità e atteggiamenti di ceto colto e benestante. I valori che guidano questo sistema sociale: il ripiegamento sulla vita privata e l‟ideologia del “pubblico servizio” nelle strutture dell‟impero. Altrettanto importanti storicamente le poesie cortigiane rivolte a Domiziano, che ci illustrano lo sviluppo del culto imperiale, i cerimoniali, le manifestazioni pubbliche. Gli artifici della poesia si adattano bene a mimare l‟artificiosa architettura delle ville e dei giardini, dove le realtà naturale è amabilmente trasformata in spettacolo. Il poeta si mostra perfettamente inserito in una società gerarchica, entro una rete di autorevoli protettori che ha il suo centro immobile nel simulacro divinizzato del principe. Il poeta delle Silvae si atteggia a cantore orfico integrato nella comunità; la poesia funge ora da ornamentazione, costruisce una ovattatura su cui si sono deposti, come preziosi, gli oggetti, e i gesti del quotidiano. Questa futilità “leggera” è però l‟erede di una poesia grande e vigorosa; ne eredita i modi e giunture espressive, valori ed elaborazione formale. Ma la nuova funzione di questa poesia si può definire estetizzante, nel senso che deve rendere belli e gradevoli oggetti, uomini e gesti, ma solo a patto di distanziarsene: le ekphràseis (cioè le digressioni) di Stazio più che descrizioni sono encomi,più che mostrare qualcosa al lettore vogliono lasciarlo contento e soddisfatto. Per il loro carattere d poesia colta, tradizionale e riflessa, hanno spesso faticato a trovare estimatori. La sua capacità di “improvvisare”, la sua velocità nel comporre è il gesto retorico di una poetica dell‟opera “minore” o “minima”, che raccoglie l‟originaria spinta proveniente dalla tradizione epigrammistica. La tenera poesia “sentimentale” di Stazio, benpensante e conciliativa, aspira a essere il ritratto della buona società imperiale. Ma il gusto e la poetica del sentimento rispondono ad un‟ampia politica di direzione e controllo della pubblica emotività. L‟età neroniana aveva inaugurato la moda di pubbliche gare di poesia: consolidatasi, ora serve piuttosto a un programma di restaurazione civile e morale, all‟esaltazione dei valori e delle forme letterarie tradizionali. Il carattere spettacolare che ispira gli agoni poetici destinati a compiacere le masse eterogenee della metropoli, si accorda bene con la straordinaria fortuna che forme di spettacolo come il mimo presso il pubblico romano. Lo spettacolo del mimo, suscitatore di facili e sensuose emozioni, si incontra con la “teatralizzazione” quotidiana del mito imperiale. 2. La Tebaide Se Lucano aveva cantato “guerre più che civili”, il tema di Stazio sono addirittura fraternae acies. Contro Lucano Stazio sceglie un tema mitologico, dotato di un complesso apparato divino: ma la sostanza del contenuto riporta irresistibilmente verso il Bellum civile. Libro I – Il vecchio Edipo chiama le Furie dell‟oltretomba a perseguitare la Casa di Tebe. I due figli di Edipo, Eteocle e Polinice, si preparano a spezzare il patto di governo, per cui a turno, di anno in anno, uno regnava e l‟altro lasciava Tebe. Libro II – L‟oltretomba si apre e torna sulla terra Laio, che convince Eteocle a tradire il patto col fratello e a tenere tutto il potere per sé. Libro XI – I due fratelli rivali si danno la morte reciproca in singolar tenzone. Suicidio di Giocasta, cacciata di Edipo da Tebe. Il nuovo re è Creonte. Libro XII – Creonte vieta la sepoltura ai cadaveri nemici. Il re di Atene, Teseo, interviene e ristabilisce giustizia e pietà. Uniti sul rogo funebre, i due fratelli sono ancora in lotta: due fiamme nemiche e divise. Nell‟epilogo Stazio dichiara di avere l‟Eneide come modello, che la Tebaide dovrà seguire a distanza. Il piano dell‟opera è in 12 libri, divisi in due esadi; la seconda è tutta una storia di guerra, come la “metà illiadica” dell‟Eneide; la prima più variata, ha funzione di lunga preparazione, e insieme contiene tratti “odissiaci” (il viaggio), come la prima metà dell‟Eneide. Posto sotto questa costellazione di influssi, l‟opera non manca affatto di unità. Il difetto più tipico della Tebaide è piuttosto l‟ossessiva ricorsività di motivi e atmosfere. Tutta la storia è dominata da una ferrea necessità: la casa di Edipo è schiacciata non tanto da una maledizione di vendette famigliari quanto da una ferrea Necessità universale. La scelta ideologica è chiaramente virgiliana: salvare l‟apparato divino dell‟epica, ma rendendolo più “moderno” con l‟approfondire la funzione del Fato. Ma un tema così negativo porta Stazio molto vicino alla posizione di Lucano. Il risultato è un compromesso che avrà grande influsso sulla storia dell‟epica occidentale. Le divinità epiche tradizionali appaiono come svuotate o appiattite: le forza divine più vitali sono invece personificazioni di idee astratte, con tonalità persino allegoriche. Schiacciate dalle leggi del cosmo e della predestinazione, le figure umane sono a loro volta appiattite. Stazio concede molto poco alle sfumature psicologiche. 57 La grande quantità di eroi comportava una trama complessa, e soprattutto l‟assenza di un protagonista. I pericoli di dispersione sono controllati con energia. Le similitudini, ad esempio, sono pensate in sequenze omogenee, con un effetto a volte ossessivo: le immagini della natura rispecchiano di continuo gli eventi umani. E‟ la concezione stoica della sympàtheia che già Seneca aveva saputo trasformare in tema letterario. L‟assenza di riferimenti diretti all‟attualità non costringe Stazio a eludere gli incubi propri della sua epoca. Una guerra civile vista come scontro fra tiranni specularmene uguali; la degenerazione di una famiglia regnante in dispotismo fanatico; il problema etico di “vivere sotto i tiranni” rispettando comunque una regola morale. L‟episodio più spettacolare della fortuna di Stazio è la sua comparsa nel Purgatorio di Dante, basata sulla falsa convinzione che il poeta si fosse convertito al Cristianesimo – da vero discepolo di Virgilio, che il medioevo considera precursore e profeta dell‟avvento di Gesù. Ma in generale Dante fa un notevole uso del modello epico di Stazio. VALERIO FLACCO Vita Praticamente ignota. Non fa accenni autobiografici. Da Quintilliano si ricava che morì poco prima del 92. Opere Argonautica, in 8 libri di esametri (5600 versi). Poema epico incompiuto, probabilmente per la sua morte. 1. Gli Argonautica Del poema restano una seria di vicende che corrisponde, all‟incirca, del racconto sviluppato da Apollonio Rodio nei 4 libri dell‟Argonatica. Pur riprendendo quasi tutti gli episodi principali del modello greco, Valerio mira ad una riscrittura del tema argonautico in gran parte autonoma, e non si limita ad una “romanizzazione” del testo. Vi sono abbreviamenti , aggiunte, modifiche importanti nella psicologia dei personaggi, nel modo di concepire l‟intervento divino. Nei punti in cui Valerio segue da vicino il testo greco la sua rielaborazione appare guidata dalla ricerca dell‟effetto: accentuazione del pathos e drammatizzazione del modello. La formazione stessa del testo di Apollonio – imitatore di Omero, imitato da Virgilio – si colloca al centro di una rete di rapporti che tengono insieme una vasta tradizione epica. Così l‟autore non può esimersi dal trarre opportuni riferimenti dai modelli, in particolare da Ovidio, ma anche Seneca tragico e Lucano. Sicché questa poesia riflessa ed elaborata rischia a volte di disperdersi sotto le spinte in una troppo vasta molteplicità di modelli. Il fondamentale influsso di Virgilio spinge Valerio ad una poetica “reazionaria”: il tema è mitologico, l‟apparato divino onnipresente, l‟impostazione morale del racconto senza dubbio edificante. Mentre Apollonio aveva fatto di Giasone un eroe problematico e chiaroscurale – quasi un antieroe – Valerio riporta il suo protagonista ad una scala di grandezza epica. La narrazione di Valerio Flacco esaspera la propensione virgiliana allo stile soggettivo, a rendere cioè situazioni e avvenimenti attraverso il punto di vista e le sensazioni dei vari personaggi. Ma la tendenza, ovviamente, comporta una continua psicologizzazione del racconto, a scapito della narrazione degli eventi: ne risulta un testo assai difficile e dotto; infatti, a volte il lettore non trova tutte le informazioni necessarie, ma per comprendere deve essere già a conoscenza degli avvenimenti, e del testo di riferimento di Apollonio. Il radicamento del poema nella cultura contemporanea sembra nel complesso scarso. In qualche aggiunta di Valerio rispetto al modello greco si colgono però i momenti di sensibilità più attualizzata. Le vicende politiche nel regno di Colchide sono più sviluppate e ripresentano il tema della guerra civile tra fratelli, tipico dell‟immaginazione e della cultura flavia. Questa situazione permette di manifestare una curiosità più aggiornata sulle popolazioni barbariche. E‟ tipico dell‟età flavia il crescere di interessi etnografici per i popolo di confine. Una pallida esigenza di riferimenti attuali si coglie anche nell‟impianto complessivo dell‟opera. Argo, la prima nave, deve aprire i mari perché possano svilupparsi le civiltà: così il potere mondiale passerà dall‟Asia alla Grecia, e da questa a un‟altra civiltà ancora da nascere… Valerio è confinato a tema davvero preistorico: anteriori agli eventi narrati da Virgilio,e addirittura da Omero, si compiono le imprese dei suoi eroi. SILIO ITALICO Vita Tiberio Cazio Asconio Silio Italico, nato attorno al 26. Avvocato, politicamente legato a Nerone. Ritirato a vita privata, si dedicò ad un ampio poema storico. Muore nel 101. Opere Punica i 17 libri di esametri (oltre 12000 versi); secondo una parte della critica è incompiuto. 1. I Punica 60 Vita Marco Valerio Marziale, nacque nella Spagna Tarragonese tra il 38 e il 41. Venne a Roma trovando appoggio dalla famiglia spagnola più in vista nella capitale, quella di Seneca, che lo introdusse nella buona società: conobbe Calpurnio Pisone e gli ambienti dell‟opposizione senatoria a Nerone. Dall‟ 84, comincia a pubblicare regolarmente i suoi componimenti: il successo gli arrise, e sotto Domiziano ricoprì cariche onorifiche (ottenne il rango equestre), venendo a contatto con personalità eminenti (il futuro imperatore Nerva, scrittori quali Silio Italico, Quinilliano, Giovenale), ma non ne conseguirono consistenti benefici economici. Nel 98 torna definitivamente in patria dove morirà verso il 104. Opere Di Marziale ci resta una raccolta di Epigrammi distribuiti in 12 libri. Tale corpo centrale è preceduto da un altro libro a sé di 30 epigrammi (Epigrammaton liber),e seguito da altri due libri (noti come XIII e XIV) dal titolo Xenia e Apophoreta: brevissime iscrizioni, ognuna di un solo distico, per accompagnare doni di varia natura in occasione della festa dei Saturnali, e omaggi offerti nei banchetti ai convitati. I metri sono vari, ma prevalente è il distico elegiaco. Varie anche le dimensioni dei componimenti: dall‟epigramma di un solo distico a quelli di 10 versi e più, fino ad alcune decine. Gli epigrammi sono in totale più di 1500. 1. L’epigramma come poesia realistica Un aspetto importante della cultura letteraria dell‟età dei Flavi, nel clima di restaurazione morale che la caratterizza, è la tendenza al recupero del genere poetico più alto, l‟epica, ma si assiste anche alla diffusione e al cospicuo successo di genere come l‟epigramma che è considerato il più umile di tutti. A Roma l‟epigramma non aveva una grande tradizione, su tutti Catullo. L‟origine dell‟epigramma risale all‟età greca arcaica, dove la sua funzione (come il nome stesso attesta: “iscrizione”) era essenzialmente commemorativo: inciso su pietre tombali, o su offerte votive. In età ellenistica però l‟epigramma, per conservando la sua caratteristica brevità, mostra di essersi emancipato dalla forma epigrafica e dalla destinazione pratica: è un tipo di componimento adatto alla poesia d‟occasione, a fissare l‟impressione di un momento, di un piccolo avvenimento. I temi sono di tipo leggero: erotico, simposiaco, satirico-parodistico, accanto a quelli tradizionali di carattere funebre. Nell‟ambito della poesia latina, l‟epigramma non aveva una grande tradizione, e di essa ci è rimasto poco: con l‟eccezione di Catullo, quasi nulla sappiamo dei poeti che Marziale indicava come suoi auctores. Di fatto è solo con lui che l‟epigramma trova riconoscimento artistico. A Roma, Catullo valorizza la forma breve (già in sé privilegiata dalla poesia callimachea) come la più idonea a esprimere sentimenti, gusti, passioni, nonché a farsi strumento di vivace aggressione polemica. Marziale farà dell‟epigramma il suo genere esclusivo, apprezzandone la duttilità, la facilità ad aderire ai molteplici aspetti del reale: pregi che Marziale polemicamente contrappone ai generi illustri (epica, e tragedia). E‟ proprio il realismo, l‟aderenza alla vita concreta, che Marziale rivendica come tratto qualificante della propria poesia. Nei suoi epigrammi il pubblico poteva trovare la concisa rievocazione di un evento spettacolare, o lo spunto per accompagnare con un bon mot un dono agli amici o ai convitati, oppure la commemorazione di fatti concreti, ecc. Marziale osserva lo spettacolo della realtà e dei vari personaggi che ne occupano la scena con uno sguardo deformante che ne accentua i tratti grotteschi e li riconduce a tipologie ricorrenti: deformazione e grottesco sono il frutto di una tecnica di rappresentazione molto ravvicinata, un effetto ottico che focalizza i singoli personaggi e tratti isolati negando uno sfondo, un contorno. L‟atteggiamento del poeta è però quello di osservatore attento ma per lo più distaccato, che raramente si impegna nel giudizio morale e nella condanna: una satira sociale priva di asprezza, che preferisce il sorriso all‟indignazione risentita. 2. Il meccanismo dell’arguzia I temi degli epigrammi di Marziale sono vari, e investono l‟intera esperienza umana: accanto a quelli più radicati nella tradizione, altri riguardano più da vicino le vicende personali del poeta o il costume sociale dell‟epoca. In generale l‟epigramma di Marziale sviluppa fortemente l‟aspetto comico-satirico: in ciò prosegue un processo avviato già da un precedente autore di epigrammi, il poeta greco di età neroniana Lucilio, che si inserisce nella tradizione satirica romana, attenta all‟analisi del costume sociale e pronta a tratteggiare i tipi più rappresentativi. Ma da Lucilio Marziale mutua anche alcuni procedimenti formali, ad esempio la tecnica della trovata finale, della battuta che chiude in maniera brillante il breve giro di pensiero. Così l‟epigramma acquista una fisionomia e una forma tipica, diventa un meccanismo comico costruito appunto in funzione del fulmen in clausola, della stoccato finale. Le forme compositive generalmente si riconducono ad una modalità ricorrente che ha indotto i critici a fissare uno schema-tipo: una prima parte, che descrive la situazione, l‟oggetto, il personaggio, suscitando nel lettore una tensione di attesa, e la parte finale che – con effetto sorprendete (aprosdòketon) – scarica quella tensione in un paradosso. 61 Una tale scelta poetica comporta naturalmente un linguaggio e uno stile conformi, aperti alla vivacità dei modi colloquiali e alla ricchezza del lessico quotidiano. Accanto ai termini che designano una realtà umile e ordinaria, Marziale si compiace di introdurre altri drasticamente osceni. Ma un poeta duttile come lui sa alternare forma espressive molto varie: notevole il ricorso in funzione parodistica di moduli solenni della poesia illustre. Una ricchezza di modalità espressive che corrisponde alla molteplicità dei temi e alla varietà del reale di cui l‟epigramma intende farsi interprete. QUINTILIANO Vita Marco Fabio Quintiliano nacque in Spagna intorno al 35: suo padre era maestro di retorica. Fu richiamato a Roma, da Galba, nel 68, ed incominciò la sua attività di maestro di retorica, senza interrompere l‟avvocatura. La sua attività di insegnamento ebbe grande successo (fra i suoi allievi Plinio il Giovane e probabilmente Tacito), tanto che nel 78 Vespasiano gli affidò la prima cattedra statale. Domiziano lo incaricò dell‟educazione dei suoi nipoti, cosa che fece ottenere a Quintiliano gli ornamenta consularia. Morì nel 95. Opere E‟ andato perduto un trattato De causis corruptae eloquentiae. Pure perduti i due libri Artis rethoricae, sorta di dispense che gli allievi di Quinitiliano trassero dalle sue lezioni e che pubblicarono contro la sua volontà. Si è conservata l‟opera principale, in 12 libri, la Institutio oratoria, pubblicata nel 96. Sotto il nome di Quintiliano i manoscritti ci tramandano due raccolte di declamazioni, è ormai accettato dalla critica di considerare spuri questi libri. Fonti Alcune notizie autobiografiche nel suo Insitutio oratoria; altre dalla Cronaca di Girolamo; cenni in Marziale e Giovenale. 1. I rimedi alla corruzione dell’eloquenza Il problema della corruzione dell‟eloquenza investiva contemporaneamente questioni morali e di gusto letterario: il primo aspetto era evidente nel diffuso malcostume della delazione, che spesso asserviva l‟eloquenza ai fini del ricatto materiale e morale; inoltre nelle scuole erano diffuse figure di insegnanti corrotti e a loro volta corruttori della moralità degli allievi. Un secondo risvolto del problema era quello relativo alle scelte letterarie: nei vizi e nelle virtù dello stile taluni vedevano vizi e virtù del carattere. In epoca flavia fu particolarmente acceso il dibattito fra i diversi orientamenti dell‟oratoria: l‟arcaizzante, il modernizzante, il ciceroniano. Quintiliano fu il vessillifero dei una reazione classicistica nei confronti dello stile corrotto e degenerato di cui egli vedeva in Seneca il principale esponente e insieme il maggior responsabile. Quintiliano vede in termini moralistici il problema della degenerazione dell‟eloquenza, ma ai suoi occhi ha anche cause tecniche, che egli ravvisa nel decadimento delle scuole. A una rinnovata serietà dell‟insegnamento egli affida il compito di ovviare al problema. L’Institutio oratoria delinea pertanto un programma complessivo di formazione culturale e morale, che il futuro oratore deve seguire scrupolosamente. La Institutio oratoria si compone di 12 libri. I primi due sono propriamente didattici e pedagogici: trattano dell‟insegnamento elementare e delle basi di quello retorico. I libri III-IX si addentrano in un trattazione specifica che esamina analiticamente le diverse sezioni della retorica. Il libro X spiega i modi di acquisire la facilitas, cioè la disinvoltura nell‟espressione; prendendo in esame gli autori da leggere e imitare. Il libro XI si occupa delle tecniche di memorizzazione. Scopo dichiarato fu quello di riprendere, adattandola ai propri tempi, l‟eredità di Cicerone. Nel ritorno di Cicerone si esprime l‟esigenza di ritrovare una sanità di espressione che sia sintomo della saldezza dei costumi. Intorno al 90 il Nuovo Stile di Seneca contava ancora seguaci e ammiratori. Ma già solo pochi anni dopo, ai tempi dell‟Institutio, la situazione pare alquanto mutata:il nuovo classicismo è un movimento che va affermandosi, ed è praticamente vinta la battaglia di Quinitliano, suo leader culturale. Ma resta ancora da condannare tratti della stravaganza modernista: il libro VIII conserva una viva polemica contro le sententiae della maniera senecana. Originariamente -dice Quintiliano- sententia voleva dire semplicemente “giudizio”, “opinione”; succede invece che ora si indicano così i “tratti brillanti del discorso, soprattutto quelli collocati alla fine del periodo”. Le sententiae sono diventate un artificio per rendere vivace il discorso: lo scintillare continuo di piccole sentenze spezzano il discorso e lo rendono discontinuo e imprevedibile. Di questi artifici si alimenta appunto lo stile sconnesse spezzettato di Seneca, il suo scrivere “ad effetto”. Quintiliano, in ultima analisi, riteneva che l‟elocuzione dovesse svolgersi anzitutto in funzione della “sostanza delle cose”, laddove Seneca mirava all‟ascoltatore, all‟esigenza di catturarne l‟interesse. 62 2. Il programma educativo di Quintiliano Il tipo di oratore ideale che Quintliano delinea si avvicina a quello ciceroniano per la vastità della formazione culturale richiesta, ma dove la filosofia sembra aver perduto terreno rispetto alla retorica e alla cultura letteraria, di cui Quintiliano rivendica il primato. Nel suo programma le letture degli autori più diversi hanno lo scopo precipuo di formare lo stile dell‟oratore. Ma a quest‟ultimo viene additato soprattutto il modello ciceroniano; reinterpretato ai fini di una ideale equidistanza fra asciuttezza e ampollosità. In realtà Quintiliano era altrettanto avverso all‟arcaismo, e all‟eccessivo “modernismo” dell‟asianesimo senecano, la corrupta oratio del periodare a volte turgido, più spesso lambiccato e lezioso. Ciò nonostante, lo stile stesso di Quintiliano no è armoniosamente ampio e simmetrico come quello di Cicerone; in qualche modo, esso appare aver subito il condizionamento esercitato dalla prosa di Seneca. 3. L’oratore e il principe Un problema pone il XII libro della Institutio, dove Quintiliano accenna alla questione dei rapporti fra oratore e principe. Probabilmente si schierava fra quegli intellettuali che, come farà Tacito, accettavano il principato come una necessità. Nei limiti di questa situazione precostituita, il suo sforzo fu di ottenere per l‟oratore il massimo di “professionalità” insieme a un alto grado di dignità. L‟oratore quintilianeo non pone certo in discussione il regime, ma le doti morali che deve possedere sono utili, prima che al principe, alla società in generale Resta però vero che l‟ideale propugnato da Quintiliano di un oratore che sia ancora, secondo l‟antico modello catoniano, vir bonus dicendi peritus, guida al senato e al popolo romano, è un‟illusione del tutto infondata, quasi una negazione fatta alla realtà storica dell‟Impero: un giudizio ben altrimenti fondato, realistico, della posizione che tocca all‟oratore, ci è conservato da Tacito, fortemente marcato dalla coscienza di un ruolo decaduto, dalla disincantata denuncia di una irreversibile impotenza politica. PLINIO IL GIOVANE Vita Gaio Cecilio Secondo nacque a Como nel 61; alla morte del padre venne adottato da Plinio, suo zio materno, di cui assunse il nome. A Roma studiò retorica sotto Quinitliano; iniziò presto l‟attività forense e il cursus honorum: nel 100 fu nominato conusl suffectus. Traiano lo nominò legato in Bitinia. Morì probabilmente nel 113. Opere Panegyricus, versione ampliata del discorso di ringraziamento tenuto in senato in occasione della nomina di console; una raccolta di Epistulae in 10 libri, dalle quali ci provengono la maggior parte delle notizie biografiche. 1. Plinio e Traiano Nel Panegyricus, la gratiarum actio di fronte al senato trapassa in un encomio dell‟imperatore: Plinio enumera ed esalta le virtù dell‟ optimus princeps Traiano, che ha reintrodotto la libertà di parola e di pensiero; auspicando, dopo la fosca tirannide di Domiziano,un periodo di rinnovata collaborazione fra l‟imperatore e il senato, si sforza di delineare un modello di comportamento per i principi futuri: fondato sulla concordia fra imperatore e ceto aristocratico, e sulla intesa politica, e integrazione sociale fra quest‟ultimo e il ceto equestre. Non senza qualche ingenuità, Plinio sembra rivendicare una funzione “pedagogica” nei confronti del principe: traspare il tentativo di esercitare una blanda forma di controllo sull‟imperatore. Ma i reali rapporti fra Plinio e Traiano emergono chiaramente dall‟epistolario intercorso fra i due, conservato nel libro X della Epistulae. Plinio si comporta come funzionario scrupoloso e leale, ma anche alquanto indeciso, che informa Traiano di tutti i problemi che sorgono e da lui si attende consigli e direttive. Dalle risposte di Traiano traspare talora un lieve senso di fastidio per continui quesiti che gli sottopone. Famoso l‟atteggiamento di assunto dall‟imperatore a proposito della questione dei Cristiani: in mancanza di una legislazione in materia, dà istruzione a Plinio di non procedere se non in caso di denunzie non anonime. 2. Plinio e la società del suo tempo Nelle Epistulae è probabile che Plinio segua soprattutto un criterio di alternanza di argomenti e motivi, in modo da evitare al lettore la monotonia. Le lettere sono infatti solitamente dedicate ciascuna a un singolo tema, sempre trattato con cura attenta dell‟eleganza: questa è una delle differenze che separa questo epistolario, concepito per la 65 5. Le radici del principato Nemmeno nell‟ultima fase della sua attività Tacito mantenne il proposito di narrare la storia dei principati di Nerva e Traiano. Terminate le Historiae, negli Annales, la sua indagine si rivolse ancora più indietro,intraprese il racconto della più antica storia del principato , dalla morte di Augusto a quella di Nerone. I libri I-V seguono in parallelo le vicende interne ed esterne di Roma: nella capitale il manifestarsi del carattere chiuso, sospettoso di Tiberio, il dilagare dei processi di lesa maestà,, il degenerare del regime, fino alla morte di Tiberio. All‟esterno i successi di Germanico, i suoi contrasti con Pisone, la morte in Oriente, per avvelenamento. I libri XI-XII narrano gli anni dal 47 al 54, la seconda metà del principato di Claudio, presentato come un imbelle in balia dei liberti e della seconda moglie Agrippina, che lo fa avvelenare per mettere sul trono il figlio di primo letto Nerone. Nei libri XIII-XVI è narrato il regno di Nerone. Negli Annales, Tacito mantiene al tesi della necessità del principato; ma il suo orizzonte sembra essersi incupito: mentre ribadisce che Augusto ha garantito la pace dopo lunghi anni di guerre civili, lo storico sottolinea anche come da allora i vincoli si siano fatti più duri. La storia del principato è anche la storia del tramonto della libertà politica dell‟aristocrazia senatoria, del resto coinvolta in un processo di corruzione che la rende vogliosa di un servile compenso nei confronti del principe. Scarsa simpatia dimostra anche verso coloro che scelgono la via del martirio, sostanzialmente inutile allo stato. Si è detto che Tacito è soprattutto un grande artista drammatico, sottovalutando le sue specifiche doti di storico. Ma è vero che la storiografia tragica – una storiografia ricca di elementi drammatici, che si rifaceva a Sisenna – giuoca negli Annales un ruolo di primo piano. La tragedie di Tacito, i drammi di anime che mette in scena non sono tuttavia tanto stimolati dal desiderio di attizzare le emozioni, quanto nutriti dalla riflessione pessimistica che ha radici importanti nella tradizione storiografica latina, soprattutto in Sallustio. Alla forte componente tragica Tacito assegna la funzione di scavare nelle pieghe dei personaggi per sondarli in profondità e portare alla luce le ambiguità. Negli Annales si perfeziona ulteriormente l‟arte del ritratto, già sapientemente messa a frutto nelle Historiae. Il vertice è stato individuato nel ritratto di Tiberio, del tipo cosiddetto “indiretto”: lo storico non dà cioè il ritratto una volte per tutte, ma fa sì che esso si delinei progressivamente; il ritratto dell‟imperatore è dipinto in tutta la gamma delle gradazioni. Un certo spazio ha anche il ritratto del tipo “paradossale”: l‟esempio più notevole è Petronio (XVI 18). Il fascino del personaggio sta proprio nei suoi aspetti contraddittori: Petronio si è assicurato con la ignavia la fama che gli altri hanno conquistato con infaticabile operosità; ma la mollezza della sua vita contrasta con l‟energia e la competenza dimostrate quando ha ricoperto importanti cariche pubbliche. Su tutta la sua esistenza spira un‟aria di sovrana nonchalanche, una negligentia che ne esalta la raffinatezza. Lo stile degli Annales è per certi aspetti mutato rispetto a quello delle Historiae: si registra una evoluzione che va in direzione del crescente allontanamento dalla norma e dalla convenzione. Una ricerca di “straniamento” che si esprime nella predilezione per forme inusitate, per un lessico arcaico e solenne. Si accentua il gusto per la incoccinnitas, ottenuto soprattutto attraverso la variatio, cioè allineando a un‟espressione un‟altra che ci si attenderebbe parallela, ed è invece diversamente strutturata. 6. Le fonti di Tacito Il problema delle fonti delle quali si è avvalso Tacito è stato a lungo dibattuto; coinvolge la questione di rapporti con il resto della tradizione storiografica (Svetonio, Cassio Dione, Plutarco) che ci ha trasmesso la narrazione degli eventi dello stesso periodo. Tacito poté consultare la documentazione ufficiale: gli acta senatus, e gli acta diurna populi Romani (contenevano gli atti del governo e notizie su quanto avveniva a corte e a Roma). Inoltre aveva a disposizione raccolte di discorsi di alcuni imperatori, come Tiberio e Claudio. L‟accuratezza degli storici antiche nell‟uso dei documenti non era in genere pari a quella dei moderni: ma Tacito fu senz‟altro fra i più scrupolosi. Menziona del resto alcune fra le proprie fonti: Plinio il Vecchio, che aveva scritto Bella Germaniae. Tacito poté inoltre servirsi di letteratura epistolografia e memorialistica, e certo attinse a quel vasto genere letterario che va sotto il nome di Exitus illustrium virorum: una libellistica di opposizione che narrava il sacrificio dei martiri della libertà, soprattutto di coloro che avevano affrontato il suicidio ispirandosi alla dottrine stoiche. Di questa letteratura Tacito si servì per esempio per narrare la morte di Seneca: soprattutto per conferire colorito drammatico al proprio racconto, non perché approvasse questo genere di suicidio il quale gli appariva viziato da una forma di ambiziosa ostentazione. 7. La fortuna Nel primo Rinascimento a Tacito venne spesso preferito a Livio; ma già Guicciardini indicò in lui il maestro che insegnava fondare le tirannidi. Su questa, nell‟epoca della Controriforma e delle monarche assolute prese piede il 66 fenomeno del “tacitismo”, che vide nell‟opera di Tacito un complesso di regole e di principi direttivi dell‟agire politico di tutti tempi. Così Tacito venne talora usato, dai teorici della ragione di stato, come pretesto alla formulazione di una teoria dell‟ideale imperiale. Ma le generazioni dell‟Illuminsimo sentirono Tacito soprattutto come l‟oppositore della tirannide. In campo letterario, alcuni tragici, come Corbeille, Racine e l‟Alfieri, trassero da “drammi” tacitiani materia e ispirazione per i loro tormentati personaggi. SVETONIO Vita Di Gaio Svetonio Tranquillo non conosciamo esattamente la data di nascita né quella di morte. Per un po‟ dovette svolgere l‟attività forense, poi entrò a corte in qualità di funzionario: fu prima preposto, da Traiano, alla cura delle biblioteche pubbliche; poi, sotto Adriano, fu addetto all‟archivio imperiale e alla corrispondenza dello stesso principe. La sua carriera si interrompe bruscamente nel 122, quando cadde in disgrazia presso l‟imperatore; dopodiché si perdono le tracce. Opere Di una copiosa produzione,in greco e in latino, di opere erudite abbiamo solo notizie, e miseri frammenti. De viris illustribus si intitolava una raccolta di biografie di letterati suddivisa per “generi”. A noi ne resta solo una sezione, De grammaticis et rhetoribus; delle altre sezioni abbiamo solo materiale sparso giuntoci per tradizione indiretta. Il De vita Ceasarum, una raccolta di 12 biografie (dei primi Cesari) in 8 libri, ci resta invece completo. 1. La biografia di Svetonio Quello biografico era un genere letterario di tradizione greca che, a Roma, era stato coltivato e collaudato soprattutto da Varrone e Cornelio Nepote: avevano tracciato i profili di personaggi famosi sulla base dello steso schema che inspirerà il De viris illustribus svetoniano. Brevi informazioni su origini e luogo di nascita, sull‟insegnamento esercitato, sugli interessi principali e le opere composte, sul carattere: questo grosso modo, è il modello su cui si non impostati i succinti ritratti di grammatici e retori delineati da Svetonio. Uno schema non dissimile sembra essere alla base anche dell‟altra opera biografica di Svetonio, cioè la Vite dei Cesari. L‟aspetto più rilevante nell‟organizzazione del materiale biografica è la rinuncia a una disposizione cronologica che accompagni lo sviluppo della personalità analizzata: è la stesso autore, in un passo della Vita di Augusto, a rendere conto di tale criterio espositivo che procede non per tempora sed per species, secondo una serie di categorie, di rubriche, che trattano separatamente i vari aspetti della personalità del principe. Gli studiosi hanno maturato la convinzione che egli abbia “indebitamente” esteso ai Cesari il modello biografico già sperimentato nel De viris illustribus: questo modello – secondo tale tesi – era stato elaborato alessandrino, per illustrare le figure degli uomini di cultura, e costituiva un tipo di biografia destinata alla cerchia degli eruditi e priva di ambizioni artistiche, nella quale naturalmente la narrazione cronologica (trattandosi di vite “private”) non aveva una funzione rilevante come in un opera che volesse tratteggiare la personalità di uno statista o di un condottiero. Per questo secondo tipo di biografia la cultura greca aveva elaborato un altro modello, il tipo “plutarcheo” (perché Plutarco, più o meno negli stessi anni di Svetonio, ne avrebbe dato l‟esempio più insigne nelle Vite Parallele), adatto, in virtù della disposizione cronologica degli eventi narrati, a far luce sullo sviluppo di personalità di carattere eminentemente pubblico; il tipo di biografia cioè che Svetonio avrebbe dovuto adottare per le Vite dei Cesari. Nella rinuncia alla schema annalistico, che la cultura senatoria aveva ancorato al succedersi delle magistrature repubblicane, si vede quindi la realistica presa di coscienza che quelle magistrature, pur se formalmente ancora vigenti, sono ormai una parvenza fittizia, e che solo la durata del regno di ogni singolo principe può scandire il succedersi di un periodo all‟altro. Insieme, prevale ormai la tendenza a ravvisare tratti specificamente romani proprio laddove prima si supponeva più forte l‟influenza dell‟eredità alessandrina: la tradizione degli elogia e delle lauadationes funebres, che elencavano le imprese civili e militari, le benemerenze, sembra rivelare la sua influenza sul modo in cui Svetonio seleziona e dispone il materiale. Le Res Gestae di Augusto ci danno un esempio significativo della spinta che tale tradizione eminentemente romana poteva esercitare sulla esposizione per species nelle Vite. E nella tendenza, tanto deplorata come deteriore gusto del pettegolezzo, a insistere sulla vita privata degli imperatori descrivendone eccessi e intemperanze, sui particolari futili o scandalistici (che ha alimentato la fortuna dell‟opera, letta come manuale di perversioni regali), si inclina oggi a vedere la manifestazione di una volontà obiettiva e demistificante, dell‟intenzione di mostrare un ritratto integrale del personaggio. Ne risulta un tipo di “storiografia minore” (rispetto, ad esempio, a quella tacitiana, rispondente ai canoni della cultura storiografica aristocratica), che attinge alle fonti più varie e che delinea anche, in qualche modo, i tratti del suo destinatario, da identificare nell‟ordine equestre al quale lo stesso Svetonio appartiene e che costituisce il punto di vista 67 attraverso cui le singole vicende sono osservate e valutate. Senza assurgere al livello della grande storiografia, le Vite dei Cesari costituiscono tuttavia un documento eccezionalmente ricco di notizie e informazioni per la ricostruzione storica del primo periodo imperiale. 2. La fortuna Con Svetonio la biografia prende forma in un assetto che sarebbe risultato definitivo, e che sarebbe stato assunto a modello delle biografie imperiali raccolte (nel IV secolo) sotto il titolo di Historia Augusta, proiettando nel futuro la fortuna del genere storiografico. Senza interruzioni, la fortuna di Svetonio si protrae per tutto il Medioevo fino all‟Umanesimo e alle letterature moderne. APULEIO Vita Nel completo silenzio dei contemporanei, le notizie sulla sua vita sono ricavate dalle opere stesse. Lucius Apuleius nasce in Africa in una zona tra la Getulia e la Numidia verso il 12, fu di estrazione agiata e gli permise di studiare a Cartagine e ad Atene. Nel 158,Apuleio si trovò a dover sostenere un processo intentatogli dai parenti della moglie, sotto l‟accusa di magia: ne abbiamo testimonianza nell‟Apologia. Le nostre notizie su di lui non oltrepassano il 170. Opere Opere a noi pervenute: Metamorphoseon Libri, romanzo in 11 libri, noto fin dall‟antichità col titolo di Asinus aureus; l‟Apologia (nei codici che ce la tramandano il titolo è De Magia); la Flòrida, raccolta di 23 brani oratori; i trattati filosofici De Platone et eius dogmate, De deo Socratis e De mundo. 1. Una figura complessa di oratore, scienziato, filosofo Quella di filosofo platonico (del cosiddetto platonismo medio, dal I secolo a.C. a Plotino) doveva costituire in certo modo la qualifica ufficiale e probabilmente quella favorita da Apuleio. Rappresentante della temperie che va sotto il nome di “seconda sofistica”, che vede moltiplicarsi le esibizioni di retori famosi, accanto ad una penetrazione massiccia dell‟irrazionale nelle scelte religiose. Apuleio condivide i vari aspetti di tale fenomeno culturale: la curiosità per il mondo della natura,l‟inquietudine e le tensione verso occulto (la cui esplorazione è sentita ormai necessaria per una soddisfacente comprensione del mondo), l‟iniziazione ai culti misterici, e infine la pratica brillante di conferenziere itinerante. Apuleio è talmente impregnato di cultura popolare, oltre che di dottrine scolastiche e accademiche, che si possono riconoscere in lui i riflessi non solo del pensiero platonico, e filosofico in generale, ma anche alla religiosità ebraica e persino gnostica. Non mancano tracce significative di dottrine accettate a più basso livello culturale, quali la fisiognomica o l‟arte di interpretare i sogni. Parte della produzione si compone dei 3 trattati De deo Socratis, De Platone et eius dogmate, De mundo, sulla cui autenticità non sussistano più dubbi, e che vengono in genere considerati frutto della studiosa giovinezza di Apuleio. Ma il più importante di questi scritti è sicuramente il De deo Socratis, la trattazione più sistematica della dottrina dei demoni a noi giunta dall‟antichità. L‟impianto è tripartito: alla sezione I, che esamina i mondi separati degli dei e degli uomini, segue la parte dedicata alla posizione dei dèmoni nella gerarchia degli esseri razionali e la loro funzione interna fra due mondi (che li rende garanti del compiersi di un progetto provvidenziale nella storia del mondo); la conclusione è tutta sul dèmone di Socrate, la voce interiore che, sentita come tramite di un ordine divino, costringeva il filosofo a proseguire la ricerca del vero. Dell‟aspetto più appariscente comune ai letterati della seconda sofistica – l‟attività degli oratori itineranti – Apuleio ci ha lasciato ampia documentazione. I Florida, una raccolta di 23 brani oratori su diversi temi e di diversa estensione, stralciati del testo di conferenze e pubbliche letture tenute in Africa. Del compilatore ci è ignota l‟identità, ma si può intuire i criteri di scelta: antologizzò in pezzi di più insistita bravura retorica, prescindendo dai contenuti (ci resta un‟immagine di conferenziere duttile: l‟oratore dei discorsi politici ufficiali, il panegirista religioso, l‟erudito, il letterato, il moralista, ecc.). Si tratta di eccezionali esempi di virtuosismo retorico, di cui si può ammirare la duttilità di una prosa vivace e brillante. La lunga orazione che costituisce il testo dell‟Apologia è invece un‟orazione giudiziaria, l‟unica a noi pervenuta di età imperiale. Già per il fatto che , qualora fosse stata recitata nella forma attuale, sarebbe durata certo molte ore, e per il fatto poi che essa manchi di un taglio realmente processuale il lettore è indotto a sospettare che anche quest‟opera abbia invece una natura e una destinazione fortemente letteraria. Il famoso retore è qui impegnato nello sforzo di consegnare alla posterità un‟immagine ben modellata di sé: quella di un brillante e geniale philosophus platonicus.