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Geografia Umana. Un approccio visuale. Riassunto, Schemi e mappe concettuali di Geografia

Riassunto del manuale per l'esame di Geografia Sociale e Culturale con il prof. Fabio Amato

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2021/2022

Caricato il 25/05/2023

SaraGallo20
SaraGallo20 🇮🇹

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Scarica Geografia Umana. Un approccio visuale. Riassunto e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Geografia solo su Docsity! Geografia umana Un approccio visuale 1 1. CHE COS’È LA GEOGRAFIA UMANA? 1.1 Introduzione alla geografia umana La globalizzazione, secondo alcuni, ha reso il mondo più piccolo, più accessibile e quindi più facile da conoscere e da capire. Ma per provare a capire le conseguenze nei diversi paesi del cambiamento climatico globale sulla produzione agricola o sulle popolazioni costiere, ad esempio, è necessaria una prospettiva geografica. La globalizzazione ha messo la geografia al centro della scena. Contemporaneamente, le innovazioni tecnologiche hanno fornito ai geografi strumenti che permettono di raccogliere dati relativi alla Terra utilizzando ricevitori GPS sempre più precisi, immagini satellitari ad alta risoluzione, etc. Il termine geografia proviene da due parole greche (geo + graphia), che affiancate significano scrittura della Terra e sottende tutto ciò che è possibile osservare sulla superficie terrestre. Si distingue in geografia fisica che studia gli ambienti e le componenti naturali e in geografia umana che studia come le popolazioni, le culture, le società e le economie, con le loro manifestazioni materiali (città, strade, fabbriche) si diversificano nello spazio terrestre, in relazione al variare delle condizioni ambientali e storiche. La prima utilizza i metodi delle scienze naturali, mentre la seconda si rifà alle scienze umane e sociali. La geografia umana non può ignorare la geografia fisica, in quanto tutte le attività umane hanno qualche rapporto con gli ambienti naturali e non possono essere comprese, interpretate e valutate senza tener conto di ciò che direttamente o indirettamente ci lega al clima, al suolo, alle acque, alle forme del rilievo e agli altri organismi viventi. La reazione al determinismo ambientale ha portato, all'inizio del XX secolo, alla nascita del possibilismo, ad opera della scuola del geografo francese Vidal de la Blache (1843-1918). L’idea che ne sta alla base è che i singoli e le collettività possono usare la propria creatività per reagire alle condizioni o alle costrizioni di un particolare ambiente naturale. È importante in questo caso utilizzare il termine costrizioni, per indicare il fatto che l'ambiente viene visto come una limitazione delle scelte e delle possibilità che le persone hanno a disposizione. I possibilisti non rifiutano completamente l’idea di un condizionamento da parte dell'ambiente naturale, ma nello stesso tempo non pensano che esso sia l'unica o la principale forza che plasma le società e le culture. Ad esempio il deserto, che appare come uno degli ambienti naturali più costrittivi, ha offerto storicamente una certa gamma di possibilità, da cui sono derivate società dedite all'allevamento delle pecore, altre dei cammelli o ai trasporti di mercanzie, mentre ora in pieno deserto, attorno ai pozzi petroliferi, sorgono città come Hassi-Messaoud (Algeria). Il possibilismo geografico ritiene che ogni ambiente naturale offra una gamma di alternative più o meno vasta e che in uno stesso ambiente naturale società e culture possano modellarsi in modi diversi a seconda delle loro scelte, basate sulle conoscenze e sulle capacita tecniche di cui dispongono. Le teorie del possibilismo ambientale hanno contribuito a diffondere la consapevolezza del ruolo dell’azione umana nei cambiamenti dell’ambiente a partire dall'osservazione di come nel tempo tale azione ha modificato i paesaggi naturali, trasformandoli in paesaggi culturali. Il geografo tedesco Carl Ritter (1779-1859), che esercitò anche una notevole influenza sulle idee del filosofo Hegel, vedeva la Terra come il campo in cui i popoli civili si sarebbero progressivamente affrancati dalla soggezione alla natura. Un grande geografo italiano, Lucio Gambi (1920-2006) affermava che l'uomo usa la natura«per riplasmare e rifoggiare la Terra in termini umani, quasi a ricrearne una sua». Si pensi agli spazi urbani. Purtroppo però nei due secoli scorsi il nuovo Prometeo si è comportato come se non ci fosse limite alla sua capacità trasformatrice, mentre contemporaneamente si formava una visione della natura come costruzione sociale, ovvero un costrutto mentale che deriva da percezioni e modi di pensare condivisi. Questa prospettiva riconosce che l'uomo tende a modificare l'ambiente naturale a partire dall'idea che si fa della natura e di come andrebbe trasformata. Un buon esempio è dato dall’evoluzione, negli StatiUniti, del concetto di wilderness che, applicato in origine in senso negativo agli spazi improduttivi e quindi privi di valore, venne poi identificandosi con i valori estetici della natura selvaggia, idea da cui derivarono i parchi nazionali. 2 vengono coinvolti. Un esempio è dato dagli spazi del commercio. Affinché avvengano degli scambi commerciali tra due paesi, ciascuno di essi deve essere in grado di offrire al partner commerciale i prodotti dei quali questo necessita, entrando a far parte di un accordo reciproco. La contingenza del commercio, quindi, dipende in buona parte dalla capacità dei paesi di continuare ad offrire prodotti richiesti dal mercato e di mantenere relazioni diplomatiche favorevoli. Quando due paesi avviano degli scambi commerciali, creano uno spazio relazionale di tipo commerciale, che esiste fino a quando vengono soddisfatte queste condizioni contingenti. Un altro esempio di spazio relazionale è offerto dai social network. Come dimostrano questi esempi, gli scambi commerciali, le interazioni politiche ed economiche - come anche quelle sociali - possono incidere sulla produzione di spazi relativi, i quali si possono definire, di conseguenza, come costruzioni sociali. (3) Lo spazio geografico è sempre uno spazio relativo e relazionale, in quanto le sue proprietà dipendono dalle relazioni e dalle interazioni che sussistono tra i soggetti e gli oggetti che ogni geografia mette, per cosi dire, in scena. Infatti una descrizione geografica è sempre il risultato di una scelta, coerente con gli scopi della descrizione stessa. Ogni geografia è la costruzione mentale di uno spazio relazionale, che non è arbitraria, ma risponde all'esigenza sociale di conoscere la posizione di certi oggetti e soggetti e le relazioni che li legano tra loro. Dire che la geografia descrive gli spazi terrestri significa dire che essa si occupa potenzialmente di tutte le possibili relazioni che intercorrono tra tutto ciò che è localizzato sulla superficie terrestre. Di fatto poi ogni geografia sceglie un numero limitato di oggetti, di soggetti e quindi di relazioni che soddisfano certi interessi cognitivi e pratici del pubblico a cui si rivolge. Nella realtà questi diversi spazi si sovrappongono. Adottare una prospettiva spaziale significa prestare particolare attenzione alle differenze tra un luogo e l’altro, tra uno spazio e l’altro, nelle dinamiche della società e nei rapporti tra ambiente e società. La variazione spaziale e la correlazione spaziale sono altri concetti chiave utilizzati dai geografi, entrambi basati sullo studio della distribuzione spaziale dei fenomeni. Distribuzione spaziale: disposizione dei fenomeni sulla superficie terrestre. Variazione spaziale: cambiamenti nella distribuzione di un fenomeno da un luogo all'altro. Correlazione spaziale: il grado in cui due o più fenomeni condividono una stessa distribuzione e variazione spaziale. DIFFUSIONE SPAZIALE Diffusione spaziale: movimento di persone, idee, mode, malattie etc. da un luogo all’altro con tempi e modalità differenti a seconda del fenomeno considerato. La diffusione spaziale è un fenomeno nel quale il movimento - e quindi la variabile tempo - rappresenta una dimensione essenziale. I geografi identificano quattro diversi tipi di diffusione: per rilocalizzazione, per contagio, gerarchica e per stimolo. Le migrazioni sono la tipologia più diffusa di diffusione per rilocalizzazione. La diffusione per contagio, si verifica quando un fenomeno si diffonde tra persone che vengono a contatto tra loro. Al contrario, la diffusione gerarchica avviene dall’alto verso il basso (top-down), secondo una successione ordinata per rango. La diffusione per stimolo, infine, si verifica quando la diffusione di un’idea, una pratica o un altro fenomeno contribuisce a generare una nuova idea. La diffusione per stimolo influenza in modo significativo la produzione e la commercializzazione dei beni, come si può vedere nell'industria dell'automobile o nei fast-food:l'idea alla base di un prodotto di successo spesso stimola nuove modalità di applicazione dello stesso principio. Numerose ricerche dimostrano che la diffusione spaziale spesso è data da un misto delle diverse tipologie. Non solo i diversi tipi di diffusione spesso agiscono contemporaneamente sullo stesso fenomeno, ma il ritmo e la direzione della diffusione spaziale sono influenzati anche dalla presenza di barriere assorbenti - fisiche, legali, o di altro genere, che fermano la diffusione - o di barriere permeabili che soltanto la rallentano. INTERAZIONE SPAZIALE E GLOBALIZZAZIONE Globalizzazione: in senso generale si ha quando certi fenomeni naturali o umani, come le rotte aeree e navali o come le comunicazioni virtuali, coprono l’intero globo terrestre, permettendo a tutti i luoghi della Terra di interagire tra loro. In senso più stretto si intende il dominio che le relazioni di mercato a scala mondiale hanno su tutte le altre attività ed espressioni sociali e culturali. 5 Interazione spaziale: relazione tra due o più soggetti nel corso della quale essi si scambiano idee, merci, servizi e modificano le loro azioni in relazione alle idee e ai comportamenti reciproci. La globalizzazione, ovvero la crescente interconnessione e interdipendenza tra persone e luoghi in tutto il mondo, è il risultato del dilatarsi progressivo a tutto il pianeta dell’interazione spaziale. Per interazione spaziale si intende l’insieme delle relazioni che si sviluppano reciprocamente tra soggetti che occupano luoghi e regioni sia vicine, sia lontane tra loro, come risultato del movimento di persone, beni ed informazioni. Si parla di globalizzazione solo negli ultimi decenni, cioè dopo che informatica, telecomunicazioni e connessioni aeree intercontinentali hanno permesso una circolazione di persone, merci, denaro e informazioni estesa ormai ad ogni località del pianeta. La forza trainante di tale unificazione mondiale è stata l'economia capitalistica di mercato, che ha innescato e favorito indirettamente un processo analogo per quanto riguarda la cultura, le relazioni internazionali e la capacità delle grandi potenze di intervenire militarmente in ogni parte del globo. Parziale è invece tuttora la globalizzazione del mercato del lavoro, che riguarda solo poche categorie molto qualificate; ancora assente è poi la globalizzazione legislativa, specie per quanto riguarda i diritti umani e la possibilità di regolamentare i mercati finanziari allo scopo di evitare le crisi economiche globali. L'interazione spaziale è influenzata da tre fattori: la complementarietà, la trasferibilità e l'intervento di opportunità alternative. La complementarietà si verifica quando un luogo o una regione trovano altrove una risposta alla propria esigenza di beni e servizi, creando un'interazione spaziale che si sviluppa su distanze più o meno lunghe. È la complementarietà a creare le basi per il commercio. Ad esempio i grandi paesi produttori di caffè, come il Brasile, la Colombia e l'Indonesia, contribuiscono a soddisfare la domanda dei principali consumatori, come il nord America e l'Europa occidentale. Oltre che con il mercato, si può avere complementarietà anche con la cooperazione. Ad esempio si hanno scambi di opere d'arte tra musei, di risultati di ricerche tra università ecc. Infine si può parlare di complementarietà anche tra città e regioni. La complementarietà è frutto della variazione spaziale, la quale a sua volta si lega alla disponibilità di risorse naturali o a condizioni economiche, sociali e culturali specifiche. Ad esempio in campo economico i paesi con una scarsa dotazione di risorse carbonifere fanno affidamento sui paesi ricchi di carbone per soddisfare le proprie esigenze. Le condizioni economiche associate alla variazione spaziale, che determinano la complementarietà, includono i bassi costi di produzione e le economie di scala. Un basso costo del lavoro o dei trasporti, per esempio, può rendere la produzione di un bene meno costosa in un luogo, rispetto ad un altro, fornendo al primo un vantaggio dal punto di vista economico, detto vantaggio competitivo. Un secondo fattore che influenza l’interazione spaziale è Ia trasferibilità, che è inversamente proporzionale all'energia necessaria (e quindi al costo) per lo spostamento di un bene. Oggi, grazie a internet, il bene più trasferibile è l’informazione, che comprende anche le transazioni finanziarie, cioè il denaro e i titoli di credito (azioni, obbligazioni).Tra i beni tangibili hanno un alto livello di trasferibilità quelli di valore elevato, che non siano troppo voluminosi e possano essere spostati con facilità, come per esempio i gioielli. La trasferibilità è influenzata dall'attrito della distanza, ovvero il modo in cui la distanza può ostacolare gli spostamenti da un luogo all'altro o l'interazione tra luoghi diversi. Il terzo fattore che influenza l'interazione spaziale e rappresentato dall'opportunità alternativa, ovvero l'esistenza di un luogo che, a parità di costi di trasferimento, possa offrire un bene richiesto a condizioni più vantaggiose. Come l'attrito della distanza, anche le opportunità alternative possono incidere sull'interazione spaziale tra luoghi: se decidi di fare rifornimento in una stazione di servizio diversa da quella in cui ti servi abitualmente, perché ti sei accorto che offre dei prezzi pia bassi, trai vantaggio da un'opportunità alternativa. Questo concetto è importante, perché contribuisce a ridefinire i flussi e le relazioni tra luoghi. Le opportunità alternative rendono evidente l’importanza dell’accessibilità, ovvero della facilità di accesso ad un luogo, che viene espressa solitamente in termini di tempi o costi di viaggio (minore è il tempo impiegato per aggiungere un determinato luogo, maggiore è la sua accessibilità). La distanza è il fattore più importante dell’accessibilità di un luogo. L’intensità dell’interazione spaziale, quando richiede contatto fisico tra le persone, di regola diminuisce con la distanza. È massima nelle aree centrali delle grandi città e decresce con la densità demografica man mio che ci si allontana da esse, fino a diventare problematica alle aree rurali più remote e poco abitate. L’effetto decrescente della distanza quindi, può rappresentare un’impotente variabile nelle decisioni relative alla localizzazione di un’impresa i di un servizio pubblico. 6 Le innovazioni tecnologiche nei trasporti e nelle comunicazioni hanno reso possibile ridurre l’attrito della distanza facendo sembrare i luoghi più vicini l’uno all’altro. Questo processo, detto compressione spazio-temporale, mette in luce l’importanza della distanza relativa, misurata in termini di tempo, costo o altre modalità. Infatti la globalizzazione non modifica la distanza assoluta tra i luoghi, ma può cambiare la loro accessibilità e renderli più interagenti tra loro. TERRITORIO Territorio: spazio delle interazioni tra soggetti correlato con l’insieme delle interazioni tra gli stessi soggetti e l’ambiente esterno. Si concretizzano nello spazio geografico antropizzato e nella varietà dei suoi paesaggi. Nel suo significato più ampio il territorio è lo spazio delle interazioni tra esseri viventi. Nella geografia umana il suo significato si restringe alle relazioni spaziali che fanno capo agli esseri umani, intesi come soggetti singoli o collettivi (comunità locali, imprese, stati, etc.). i due significati originari di territorio (terrere: terrorizzare, spaventare e tenere: arare) non si escludono ma si legano tra loro. Il motivo per cui si difende un territorio è che esso fornisce delle risorse che assicura sopravvivenza e indipendenza a un gruppo umano. Ciò ha una duplice conseguenza: le relazioni tra soggetti non sono solo quelle di esclusione e difesa, ma anche quelle pacifiche di cooperazione, scambio e reciprocità che permettono l’utilizzo delle risorse territoriali; qualsiasi relazione sociale ha sempre un legame con i rapporti che intratteniamo col territorio come fonte primaria di quanto può soddisfare i nostri bisogni sia quelli materiali (abitare, nutrirsi), sia quelli più spirituali (fruire dei beni culturali, visitare luoghi sacri). SCALA CARTOGRAFICA E SCALA GEOGRAFICA Nell’uso geografico si hanno due tipi di scale: la scala cartografica e la scala d’osservazione o scala geografica. La scala cartografica esprime il rapporto tra le distanze sulla carta e le distanze reali sulla superficie terrestre; i geografi distinguono tra carte a grande scala e carte a piccola scala. Trattandosi di un rapporto aritmetico, cioè di una frazione in cui la distanza metrica misurata sul terreno è al denominatore, più è grande lo spazio rappresentato, più è piccola la scala e viceversa. La scala geografica indica invece il livello di analisi utilizzato per un determinato studio o progetto, ad esempio la casa, un quartiere, una città, una regione, uno stato, etc. Quando i geografi parlano di una scala d’osservazione variabile, intendono dire che questa può estendersi da un livello circoscritto, ovvero piccola scala (come lo spazio della vita quotidiana di una famiglia), ad uno più ampio, a grande scala (ad esempio il territorio di uno stato, o di un continente). In questo caso la definizione di scala grande o piccola segue una logica opposta a quella relativa alle mappe: la scala d’osservazione è piccola quanto più lo spazio esaminato è ristretto e il livello d’analisi dettagliato. 1.3 Gli strumenti della geografia In geografia vi è una varietà di di strumenti diversi che si possono utilizzare nella ricerca sul campo. Tra questi ci sono apparecchi tecnologici come il GPS, le immagini satellitari, i sistemi informativi geografici (GIS), le mappe interattive, e anche strumenti più tradizionali come le carte, la documentazione geografica, le fonti d’archivio. Le carte sono gli strumenti più comunemente associati alla geografia. Prima di andare avanti è necessario saper distinguere tra tecniche e strumenti: le prime sono il prodotto delle nostre conoscenze e capacità operative, mentre i secondi sono attrezzi che utilizziamo per migliorare alcune nostre procedure e metodologie, come ad esempio la raccolta di dati e la loro visualizzazione. LE CARTE GEOGRAFICHE Le carte geografiche sono rappresentazioni della Terra o di sue parti in dimensioni ridotte. Esse sono anche dette simboliche perché i diversi oggetti sono rappresentati da simboli; infine sono approssimate, non soltanto perché è impossibile rappresentar esattamente in piano la superficie curva della Terra, ma anche perché vengono riprodotti solo alcuni oggetti che, a seconda degli scopi a cui è destinata la carta, vengono ritenuti più importanti. 7 2. AMBIENTE, SOCIETÀ, TERRITORIO 2.1 Gli ecosistemi Anche se è pratica diffusa limitare l'utilizzo della parola ambiente al contesto naturale, geografi e scienziati dell'ambiente assumono di solito un punto di vista più ampio in riferimento a questo concetto. Secondo questi studiosi, l'ambiente si riferisce a ciò che circonda un soggetto, cioè a tutti quei fattori biotici (viventi) e abiotici (non viventi) con i quali persone, animali e altri organismi coesistono e interagiscono. Da quasi ottant'anni gli studiosi usano il concetto di ecosistema per studiare le interazioni tra le diverse componenti dell'ambiente, con riferimento a diverse scale. La Terra per esempio è un ecosistema; così come gli oceani, i deserti, le foreste pluviali, le praterie e persino l'estuario di un fiume. Ecosistema: un insieme di organismi viventi, delle interazioni tra di essi e con l'ambiente fisico in cui vivono, dei flussi di energia e nutrienti che li attraversano. Gli studiosi concordano nel ritenere che la complessità di un ecosistema derivi dalla sua biodiversità, cioè dalla varietà delle specie contenute in esso. Biodiversità: la quantità di specie presenti in un ecosistema. Tutti gli ecosistemi sono interconnessi e la totalità di queste relazioni costituisce la biosfera, ovvero quella zona della Terra che permette la vita di piante e animali e si estende dalla crosta terrestre fino alle parti più basse dell’atmosfera, comprendendo tutti gli ecosistemi del pianeta. Biosfera: l’insieme degli ecosistemi della Terra, che interagiscono su scala globale. I CONCETTI CHIAVE DELL’ECOLOGIA Per mettere in evidenza i complessi rapporti che intercorrono tra l'ambiente naturale e le società umane è stato introdotto il concetto di capitale naturale. Mentre la concezione tradizionale di capitale si riferisce a beni posseduti, il capitale naturale comprende i beni e i servizi offerti dalla natura ed è composto da quattro elementi fondamentali: (1) le risorse rinnovabili; (2) le risorse non rinnovabili; (3) la biodiversità terrestre; (4)i “servizi” resi dagli ecosistemi. Le prime tre costituiscono i beni o le riserve di risorse naturali, mentre la quarta componente si riferisce all'opera attiva dei processi naturali nell'offrire i servizi come il ciclo nutritivo degli ecosistemi, la fotosintesi clorofilliana, l'impollinazione degli alberi da frutta e cosi via. Senza il capitale naturale non ci sarebbe vita sulla Terra, né sarebbe possibile il funzionamento dell’economia, che è possibile solo partendo dalle risorse e dai servizi naturali.Le risorse naturali si suddividono in rinnovabili e non rinnovabili, anche se, contrariamente a quanto comunemente si pensa, tutte possono essere esaurite. Le risorse non rinnovabili vengono considerate esaurite quando vengono meno le condizioni per la loro rigenerazione, oppure questa necessiti di tempi troppo lunghi. Le risorse rinnovabili invece si rigenerano in tempi ragionevoli, sia naturalmente, sia con l'intervento umano, ad esempio attraverso la riforestazione. Le quantità di risorse non rinnovabili sono fisse e quindi soggette a esaurimento se totalmente prelevate e consumate. Solitamente però l'esaurimento totale delle risorse viene preceduto dal loro esaurimento economico, che si verifica quando il costo per l'estrazione della risorsa supera il valore economico della stessa, in base alla previsione dei ricavi futuri. Il concetto di esaurimento economico può essere applicato anche alle risorse rinnovabili, sebbene gli studiosi tendano a preferire il concetto di rendimento sostenibile ovvero la massima quantità di una risorsa che può essere sfruttata e utilizzata senza mettere in pericolo la sua capacità di rinnovarsi e rigenerare se stessa. Tuttavia un punto debole di questo concetto è che esso viene frequentemente applicato ad una singola specie naturale, senza considerare gli effetti che il suo sfruttamento potrebbe avere sull’ecosistema. La produzione di una particolare risorsa, ritenuta sostenibile, ad esempio, potrebbe nuocere al funzionamento dell'intero ecosistema. Per questo motivo, diversi studiosi preferiscono usare il termine rendimento ecologicamente sostenibile, cioè tale da preservare le risorse per le generazioni future. 10 IL DEGRADO AMBIENTALE Degradare qualcosa significa danneggiare una o più delle sue proprietà fisiche. Il drenaggio di minerali o nutrienti dal suolo causate dalla pioggia. per esempio, è una forma di degrado naturale. Solitamente però ci si riferisce soprattutto al degrado ambientale antropogenico, cioè causato da attività umane. Il degrado ambientale dovuto alle attività umane può essere diretto o indiretto: l'estrazione del petrolio sulla terraferma o in mare, per esempio costituisce un rischio diretto per le persone e la natura, dovuto alle sostanze tossiche che potrebbero essere rilasciate; la costruzione di strade in zone montuose o collinari può causare l'instabilità dei versanti e le politiche governative che promuovono queste infrastrutture senza considerane gli impatti ambientali sono cause indirette di degrado ambientale. Riflettendo sul degrado secondo la prospettiva della sostenibilità e del rendimento ecologicamente sostenibile, è possibile offrire una definizione più ampia di questo termine, legata e tre condizioni principali. In quest'ottica vi è degrado ambientale quando si verificano una o più delle seguenti condizioni: (1) quando una risorsa viene sfruttata a ritmi più rapidi di quelli della sua rigenerazione; (2) quando le attività umane danneggiano la produttività a lungo termine o la biodiversità di un luogo; (3) quando le concentrazioni di sostanze inquinanti superano il massimo livello consentito da leggi che tutelano la salute. Un limite di questa definizione di degrado ambientale è che non riconosce come alcune attività umane siano benefiche per l’ambiente. Perciò si e affermata una nuova visione di questo problema, secondo la quale una più completa valutazione del degrado ambientale dovrebbe mettere insieme tutti i processi degradanti, sia naturali che umani, e successivamente sottrarre da questo totale la rigenerazione naturale e tutti i modi in cui le attività umane hanno contribuito a ripristinare l’ambiente. LE RISORSE DI PROPRIETÀ COMUNE Le risorse di proprietà comune, dette anche beni comuni naturali, includono foreste, pascoli, acque. Persone che non possiedono personalmente della terra dipendono dai beni naturali comuni per ottenere le risorse necessarie, come la legna da ardere, i beni alimentari e i pascoli per il bestiame. Le risorse di comune proprietà differiscono dalle risorse a libero accesso come l’aria, i mari, l'energia solare, i parchi nazionali. In alcuni casi, il controllo e l’utilizzo di queste risorse sono sottoposti a reale ben precise, mentre in alti l’accesso ad esse è del tutto libero. Risorse di proprietà comune: risorse naturali, attrezzature o strutture condivise da una comunità di utilizzatori chiaramente identificabile. Risorse di libero accesso: beni sui quali nessun singolo individuo ha pretese di esclusività e che sono disponibili a chiunque. Un argomento che a lungo ha affascinato i ricercatori riguarda la relazione tra i beni comuni, il libero mercato e il degrado ambientale. Al riguardo un saggio famoso è “The tragedy of the commons”, scritto nel 1968 da Garrett Hardin, dove egli si domanda: il perseguimento dell'interesse individuale contribuisce al bene comune? Per rispondere Hardin ha usato l'esempio di un pascolo comune aperto a tutti, i cui costi di mantenimento sono suddivisi tra i vari pastori mentre i profitti, ricavati ad esempio dalla vendita di un animale, sono a vantaggio solo dei singoli pastori. Ne deriva che l'interesse di ogni pastore sia massimizzare il pascolo, ma se esso venisse perseguito da tutti coloro che lo utilizzano, il pascolo verrebbe distrutto dal sovra-sfruttamento. La tragedia, secondo Hardin, è che «la libertà di scelta individuale su un terreno comune, porta tutti alla rovina». Hardin afferma che la proprietà privata provvede solo in parte alla soluzione del problema della “tragedia dei beni comuni”, in quanto questa può prevenire il degrado ambientale dei terreni, ma non serve ad esempio a risolvere il problema dell'inquinamento dell'aria, in quanto questa non può certo essere divisa in lotti privati. Per Hardin questo significava che le politiche governative, incluse le tasse e le regolamentazioni, sono indispensabili per prevenire la tragedia dei beni comuni. Come dimostrò poi Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia, nel saggio “Governare i beni collettivi” (1990), basato sull'analisi di migliaia di casi, il limite più evidente nel lavoro di Hardin consiste nell'errata supposizione che le proprietà comuni siano prive di regole che ne governino l'utilizzo e che siano quindi equiparabili alle risorse a libero accesso. Esse sono invece utilizzate e gestite in accordo alle leggi o alle pratiche tradizionali all'interno delle singole comunità di utilizzatori, che sono inoltre chiare e ben definite, distinguendo ulteriormente questi beni dalle 11 risorse a libero accesso. I diritti di uso garantiti ai singoli individui possono variare anche all'interno delle comunità di utilizzatori, ad esempio in base all'età, al sesso e/o allo stato sociale. Solo di recente tra gli studiosi ha iniziato a diffondersi la consapevolezza che la conoscenza tradizionale locale gioca un ruolo rilevante nella gestione delle risorse di comune proprietà. I pescatori dello stretto di Torres nel nord dell'Australia, per esempio, interrompono la pesca quando notano che il volume del pescato diminuisce, mentre in Canada, i Cree non cacciano gli uccelli acquatici durante il periodo della riproduzione. Queste e altre pratiche servono come controlli per prevenire la distruzione dei beni in comune. In Italia un esempio di questo tipo è offerto dalla Comunità della val di Fiemme, in Trentino Alto- Adige. Si tratta un'istituzione della quale fanno parte 11 comuni, i cui abitanti hanno il diritto di utilizzare il territorio come pascolo, per cacciare e pescare, di sfruttare la produzione di legno ed altri prodotti del bosco, di sfruttare comunque il territorio ma secondo regolamenti che seguono il principio del rendimento ecologicamente sostenibile. 2.2 Le risorse energetiche non rinnovabili Le risorse energetiche non rinnovabili comprendono i combustibili fossili e l'uranio. I combustibili fossili derivano dai residui sepolti di piante e animali vissuti migliaia di anni fa. Nel tempo sabbia e altre sedimentazioni hanno ricoperto questi depositi mentre il calore e la pressione li hanno gradualmente trasformati in carbone, petrolio o gas naturale. Tra le energie rinnovabili vi sono invece l'energia solare, quella eolica, l'idroelettrica, la geotermica e le biomasse. Il consumo mondiale di energia dipende massicciamente da fonti energetiche non rinnovabili: 33% petrolio, 30% carbone, 24% gas naturale. IL PETROLIO Sebbene non rinnovabile, il petrolio è una fonte di energia versatile per quei paesi industrializzati che hanno le infrastrutture necessarie per poterlo estrarre, raffinare e trasportare. Il petrolio può essere bruciato come carburante per il riscaldamento di edifici e per generare elettricità oppure raffinato e trasformato in benzina, cherosene o gasolio, inoltre, la maggior parte delle materie plastiche derivano dal petrolio. Nell'ambito delle risorse non rinnovabili, le riserve certe sono costituite dalla quantità stimata di una risorsa che potrebbe essere estratta in futuro, in base alle attuali condizioni finanziarie, tecnologiche e geologiche. L'ammontare delle riserve considerate certe non è fisso, ma varia in base all'evoluzione dei consumi, alla scoperta di nuovi giacimenti o all'evoluzione delle tecnologie estrattive. Dal 1998, per esempio, le riserve globali stimate di petrolio sono aumentate del 4% ma nello stesso periodo le riserve certe degli Stati Uniti sono diminuite di almeno il 4%. Nonostante gli avanzamenti in campo tecnologico, non c’è modo di sapere con certezza quanto petrolio contenga la Terra e anche se riuscissimo a calcolarlo, non c'è alcuna certezza del fatto che saremmo in grado di estrarlo. Una stima di quanto dureranno ancora le riserve attuali di petrolio viene espressa attraverso il rapporto riserve/produzione (o rapporto R/P), ottenuto dalla divisione delle riserve totali rimanenti nel globo per la percentuale annuale della produzione di petrolio. Secondo diversi esperti dell'industria petrolifera, un altro tema di cui preoccuparsi è quello di stabilire quando verrà raggiunto e superato il picco di produzione di petrolio nel mondo, concetto sviluppato per primo dall’ecologista M.King Hubbert, il quale affermò che l'estrazione del greggio tende a seguire una curva a campana sulla quale la produzione si innalza nel breve periodo, raggiungendo un picco, per poi declinare rapidamente, a causa dell'aumento dei costi dell'estrazione. Il lavoro di Hubbert è importante perché focalizza l'attenzione su una prevedibile transizione energetica. In altre parole, egli segnalò che la produzione di petrolio sarebbe scemata e che ciò avrebbe costretto la popolazione ad usare differenti fonti di energia, con serie conseguenze per l'economia globale, qualora non ci si fosse preparati in anticipo ad affrontare questa transizione. Si può considerare l'aumento nell'utilizzo di fonti rinnovabili, di bus elettrici e veicoli ibridi gas- elettrici come un segnale dell'inizio di questa transizione energetica. I maggiori produttori di petrolio a scala globale sono i paesi del Golfo Persico, che ospitano enormi riserve di greggio e che appartengono all'OPEC (Organizzazione dei Paesi Esportatori di 12 in maniera massiccia per produrre energia commerciale è infatti l'acqua, che genera energia idroelettrica. La maggior parte dell’energia prodotta dall'idroelettrico deriva da impianti di grandi dimensioni, dighe e bacini di raccolta enormi, come ad esempio la Diga delle Tre Gole in Cina. Oggi comunque è chiaro il grande impatto ambientale di queste enormi strutture. Perciò esse vengono considerate a parte, rispetto alle altre fonti energetiche rinnovabili, che includono invece le biomasse, l'energia marina, il solare, l'eolico, il geotermico e l'idroelettrico di piccola scala. L’ENERGIA DA BIOMASSA Biomassa: l’insieme del materiale organico non fossile di un ecosistema, che comprende la massa animale e vegetale, i suoi scarti e i suoi residui. La biomassa, ovvero il materiale organico di un ecosistema, è un'importante risorsa energetica in tutto il mondo. Le più comuni fonti per le biomasse - animali o vegetali - includono legno, carbone, residui di colture (steli di piante, gusci di cocco ecc.) e letame bovino. A differenza dei combustibili fossili, l'energia da biomasse può invece essere considerata rinnovabile, fino a quando la risorsa che la genera viene gestita in maniera sostenibile. Esistono due maniere per ottenere energia dalle biomasse: una diretta e una indiretta. Quella diretta consiste nel bruciare il materiale non trattato e usare l'energia per il riscaldamento. Il metodo indiretto invece comporta la conversione della biomassa in gas (biogas) o combustibile liquido (biocarburante) con l'ausilio di microbi esistenti in natura. Il gas metano cosi prodotto può essere usato per cucinare, riscaldare o illuminare. Il biodiesel, ad esempio, può essere ottenuto da oli vegetali e anche oli saturi da cucina. La biomassa è il principale tipo di risorsa rinnovabile utilizzata nel mondo. Alcune statistiche mostrano come la legna da ardere rappresenti ancora la fonte dominante per la produzione d'energia in più del 90% delle zone rurali dell'Africa sub sahariana. Un grosso problema associato alla dipendenza dalla legna, è che essa può intensificare lo sfruttamento esercitato sulle foreste locali e alimenta in modo consistente l'immissione di anidride carbonica nell'atmosfera. Oltretutto, bruciare legna è spesso una delle cause di tubercolosi, malattie polmonari, cataratta e altri disturbi: nei paesi in via di sviluppo, la tossicità dell'aria domestica è la maggiore minaccia alla salute di donne e bambine. Una delle principali tecnologie che consentono di utilizzare le biomasse, di solito letame e materiale vegetale, è costituita dai fermentatori di biogas o metano, strumenti abbastanza facili da costruire, che possono essere usati, in aree urbane e rurali per fornire energia su scala domestica o industriale. L’ENERGIA IDROELETTRICA L'energia idroelettrica è sfruttata a livello globale per meno di un terzo del suo potenziale, concentrato prevalentemente in aree come la Cina, la Russia, l’America Meridionale, l'Himalaya, il Canada e le Alpi. Su base procapite, il Nepal ha uno dei maggiori potenziali idroelettrici del mondo. L'idroelettrico si afferma come la terza risorsa per la produzione di elettricità, dietro al carbone e ai gas naturali. Nei paesi maggiormente industrializzati, l'uso dell'idroelettrico per produrre energia costituisce una minima parte della produzione energetica totale, anche se in diversi paesi tra cui Norvegia, Brasile e Argentina, esso costituisce la fonte prevalente. Le grandi dighe nonostante abbiano apportato numerosi benefici, tra cui la possibilità di irrigare i campi per tutto il corso dell'anno, non risolsero il problema delle disparità economiche e generarono anzi diversi problemi ambientali. Infatti interrompono il corso dei fiumi, alterando così l'ecosistema dei fondali. Oggi le piccole strutture idroelettriche (PSI) vengono preferite ai grandi impianti, ai quali rappresentano un'alternativa più sostenibile. Queste piccole centrali riforniscono di energia le comunità locali o singole unità domestiche e possono anche riversare nelle reti nazionali il sovrappiù prodotto. Come per le biomasse, lo sviluppo del microidroelettrico promette di essere un altro strumento attraverso il quale aumentare la diffusione dell'energia elettrica nei paesi in via di sviluppo. L’ENERGIA SOLARE ED EOLICA L'energia del sole può essere sfruttata in due modi: passivamente e attivamente. L'accumulo passivo di energia solare sfrutta la forma e l'esposizione di un edificio e i materiali con i quali viene costruito per catturare la luce del sole. Per esempio, nell'emisfero nord del globo, le finestre rivolte verso sud sono vantaggiose per l'accumulo passivo di energia solare. 15 L'accumulo attivo fa uso invece di diversi strumenti, tra i quali i pannelli solari, gli specchi e le celle fotovoltaiche che catturano, immagazzinano e/o utilizzano l'energia del sole. Le celle fotovoltaiche permettono la conversione della luce solare direttamente in elettricità, mentre altri sistemi utilizzano il calore del sole per riscaldare l'acqua. Le barriere tecnologiche ed economiche hanno limitato la capacità di massimizzare l'uso di questa fonte di energia rinnovabile; nonostante ciò, la crescita del settore dell'energia solare negli ultimi anni è stata molto rapida, in particolare per quanto riguarda l'installazione di celle fotovoltaiche, anche grazie ai sussidi governativi che aiutano ad affrontare i costi. Come nel caso dell’idroelettrico, uno dei maggiori vantaggi del solare e dell'eolico è che si tratta di tecnologie a zero emissioni. Il sole può essere considerato anche la fonte dell'energia eolica: i venti infatti sono generati dal riscaldamento irregolare della superficie terrestre proprio da parte del sole. Le turbine eoliche sfruttano l'energia prodotta dallo spostamento delle masse d'aria, convertendola in elettricità. L'elettricità può essere creata con l'utilizzo di una o più pale eoliche, ma per essere sfruttato a fini commerciali, l'eolico prevede la costruzione dei cosiddetti parchi eolici, che concentrano numerose pale in un'area particolarmente adatta. E ciò può generare problemi per quanto riguarda la tutela dei paesaggi. Attualmente l'energia eolica contribuisce solo in minima parte alla produzione globale d'energia. La Danimarca rappresenta un'importante eccezione, avendo affidato all'eolico il 20% della propria energia negli ultimi anni. Tuttavia l'industria dell'energia eolica sta crescendo rapidamente e i fattori che influiscono maggiormente sono la sicurezza energetica e la dipendenza dall'importazione di petrolio, nonché le diffuse preoccupazioni per i cambiamenti climatici. I principali paesi per produzione di energia eolica sono Cina, Stati Uniti, Germania, Spagna e India. L’ENERGIA GEOTERMICA L'energia geotermica deriva dall'interno della Terra. Alte pressioni combinate al lento decadimento radioattivo di elementi nel nucleo del pianeta, producono enormi quantità di calore, che vengono assorbite dai materiali rocciosi circostanti. L'energia geotermica viene sfruttata scavando pozzi in profondità, al fine di raggiungere le riserve sotterranee di acqua riscaldata. Quest'acqua può essere usata come fonte diretta di calore per le case o altri edifici. Se l'acqua calda viene convertita in vapore, può essere usata per azionare turbine e generare energia elettrica; il geotermico costituisce il 25% della produzione energetica dell'Islanda, molto più di qualsiasi altro paese. Un tipo di energia geotermica è anche quello utilizzato dalle pompe di calore, congegni più o meno sofisticati in grado di sfruttare piccole differenze di temperature tra il sottosuolo o le acque sotterranee e l'esterno, per accumulare energia termica, destinata di solito al riscaldamento domestico o al condizionamento dell'aria. 2.4 Le interazioni tra società e ambiente L’EFFETTO SERRA E IL SURRISCALDAMENTO GLOBALE Effetto serra: processo naturale in cui alcuni gas dell’atmosfera lasciano passare le radiazioni a onde corta dal Sole alla Terra e assorbono le radiazioni a onda lunga riemesse dalla superficie terrestre, provocandone il riscaldamento. Il risultato dell’effetto serra è di trattenere il calore solare. L’atmosfera (il sottile strato gassoso che circonda la terra, composto da azoto al 78%, ossigeno 21% e una combinazione di altri gas) funziona in modo che è questo 1% di altri gas, formato da vapore acqueo, anidride carbonica, metano, protossido d'azoto e idrofluorocarburi a causare l'effetto serra. L'effetto serra è un processo che avviene naturalmente e che permette l'esistenza della vita sul nostro pianeta, perché in sua assenza le temperature sulla Terra sarebbero molto inferiori. Le preoccupazioni riguardo all'effetto serra riguardano l'innalzamento delle concentrazioni di gas serra nell'atmosfera a causa delle attività umane. La concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, rilasciata dalla combustione di materiali fossili e vegetali, è aumentata a dismisura dopo la Rivoluzione industriale. Come per l'anidride carbonica (CO2), anche le concentrazioni di metano e protossido d'azoto (N2O) nell’aria sono aumentate a causa di fattori umani. 16 L'attività umana che più contribuisce al rilascio di metano nell'aria è l'allevamento di bestiame, si calcola infatti che di tutto il metano prodotto a causa dell'opera umana, il 30% derivi proprio dall'allevamento di bestiame. Un altro importante fattore nell'emissione di metano nell'atmosfera è la coltivazione del riso, a causa dei processi anaerobici di decomposizione che avvengono nei campi allagati. Tra le principali fonti antropogeniche di protossido d'azoto c'è l’agricoltura, e a seguire i veicoli aa motore e le centrali a carbone. A differenza degli altri gas serra, gli idrofluorocarburi non si formano tramite processi naturali, ma vengono prodotti tramite processi di sintesi per determinati utilizzi umani, prevalentemente come refrigeranti nei condizionatori e nei frigoriferi. Le attività umane hanno amplificato l'effetto serra contribuendo cosi al surriscaldamento globale (:aumento della temperatura globale attribuito almeno in parte alle attività umane, chetano incrementato la concentrazione dei gas serra nell’atmosfera). Il surriscaldamento globale potenzialmente può interessare gli strati continentali di ghiaccio in Groenlandia e nell'Antartide occidentale, il cui spessore è tale che se si dovessero sciogliere causerebbero un sensibile innalzamento del livello dei mari, e ciò significherebbe che le basse aree costiere nel mondo verrebbero inondate o sarebbero a rischio di mareggiate e di erosione. Il crescente aumento delle temperature ha gravi conseguenze anche per gli ecosistemi. Diverse specie animali e vegetali potrebbero essere messe a rischio da temperature più calde. I modelli climatici, inoltre, indicano che anche le frequenze delle precipitazioni sarebbero interessate dal surriscaldamento globale, facendo sorgere in tal modo preoccupazioni riguardo ai possibili impatti sull’agricoltura. Inoltre il surriscaldamento globale pone numerose questioni sia ambientali che etiche: le isole del Pacifico, per esempio, contribuiscono, a meno dell'1% all'emissione di anidride carbonica, ma sarebbero le prime ad essere colpite dai cambiamenti climatici e dovrebbero affrontare inondazioni ed erosioni causate dall'innalzamento del livello del mare. Su scala mondiale, la geografia delle emissioni di anidride carbonica è altamente irregolare. I più ricchi e industrializzati paesi della Terra contribuiscono a quasi metà delle emissioni di anidride carbonica, mentre i paesi dell'Africa subsahariana generano meno del 3% delle emissioni totali di questo gas. I maggiori produttori del principale gas serra sono Cina e Stati Uniti. L’IMPRONTA DI CARBONIO L'anidride carbonica è uno dei principali fattori presi in considerazione dagli studi sul surriscaldamento globale. Negli ultimi anni si è diffuso il concetto di impronta di carbonio (carbon footprint) ovvero la quantità di anidride carbonica emessa dalle attività umane, che rende evidente ad esempio come le emissioni totali di paesi come la Cina e l'India sovrastino quelle dei paesi meno sviluppati. Gli scienziati riconoscono che un altro fattore d’impatto sul clima globale è rappresentato dai cambiamenti nell'uso e nella copertura del suolo. Ad esempio la conversione di zone boschive in campi coltivati, la bonifica di zone umide, l'espansione delle città e delle aree asfaltate o la desertificazione causata dall'eccessivo sfruttamento dei terreni. Non tutti questi cambiamenti, comunque, sono direttamente indotti dalle attività umane. La siccità o altri stress naturali, per esempio, possono influenzare la capacità della vegetazione di rigenerarsi e alterare le biodiversità locali o regionali. In certi casi, le attività umane e le naturali fluttuazioni del clima sommano i propri effetti, intensificando il cambiamento nell'uso dei suoli. Le implicazioni di questi fenomeni non riguardano solo le condizioni ambientali a scala locale, nazionale e globale, ma anche la sostenibilità in generale, in un'ottica che riporta alla corrente tradizionale del pensiero geografico che concepisce la Terra come un sistema dinamico e integrato (vedi Capitolo 1). Nelle foreste pluviali dell'Amazzonia brasiliana, per esempio, la deforestazione è stata uno degli aspetti principali dei cambiamenti nell'uso del suoło, in particolar modo a partire dagli anni ’80. La deforestazione spesso determina temperature più calde e condizioni climatiche più secche perché meno acqua evapora dalla vegetazione all'atmosfera, condizioni che hanno importanti conseguenze sulla formazione delle nubi e di conseguenza sui cicli delle piogge. L’OBIETTIVO DELLA RIDUZIONE DEI GAS SERRA Per più di 150 anni i paesi sviluppati hanno contribuito in modo sproporzionato alla concentrazione atmosferica di anidride carbonica e diversi altri gas serra di natura antropogenica. Per questo, molti ritengono che questi stessi paesi siano obbligati a riconoscere il loro ruolo storico nell'aumento dei gas serra e ad attuare misure finalizzate a stabilizzare, o meglio ridurre, le proprie emissioni. 17 Il tasso di fecondità totale della Francia (2,0 figli per donna), per esempio, è in linea con la media mondiale, ma è più elevato di quello degli altri paesi europei, grazie anche a politiche nataliste a sostegno delle famiglie, che promuovono l’uguaglianza di genere e permettono il lavoro delle giovani coppie di genitori. Si tratta di interventi come sgravi fiscali per le coppie con più di due figli, sostegno agli asili, facilitazione dei permessi di lavoro per i genitori e protezione dell'occupazione delle donne in maternità. La Cina, invece, rappresenta probabilmente l’esempio più noto di paese che ha applicato rigide politiche anti-nataliste. La preoccupazione per la crescita esplosiva della popolazione, che avrebbe potuto mettere a rischio lo sviluppo del paese, ha portato il governo cinese, già molti decenni fa, ad incentivare la riduzione della dimensione media delle famiglie, riuscendo a ridurre il tasso di fecondità al di sotto dei tre figli per donna, già nel 1979. Secondo i responsabili di governo, però, questo importante risultato non era sufficiente e, a partire da quell'anno, è stata avviata la cosiddetta “politica del figlio unico” applicata solo in alcune parti del territorio cinese. Alle famiglie che appartengono ad alcune minoranze etniche, per esempio, è consentito avere fino a tre figlie e alle coppie che vivono nelle aree rurali è concesso un secondo figlio, a patto che il primo sia una femmina e che tra le due nascite trascorrano almeno cinque anni. Queste politiche hanno portato il tasso di fecondità cinese a scendere al di sotto del livello di sostituzione delle generazioni, con la conseguenza che nei prossimi decenni ci sarà un numero crescente di anziani a carico della popolazione più giovane e questo ha indotto le autorità cinesi ad allentare la stretta anti-natalista. LA MORTALITÀ Accanto alla fertilità, uno dei principali fattori che influenzano le dinamiche demografiche è la mortalità, calcolata con il tasso di mortalità: rapporto tra il numero delle morti in una certa popolazione in un dato periodo di tempo (di solito un anno) e l'ammontare medio della popolazione nello stesso periodo. Tasso di mortalità: numero annuo di morti ogni 1000 abitanti. I tassi di mortalità più bassi nel mondo sono stati registrati negli stati mediorientali del Qatar e del Kuwait, con meno di 2 decessi all'anno ogni 1000 abitanti, mentre i tassi più elevati sono quelli di paesi africani come il Lesotho (23 morti ogni 1000 ab.) e la Sierra Leone (20 morti ogni 1000 ab.), caratterizzati da un'elevata mortalità infantile e una grande diffusione di malattie come l'Aids a fronte di servizi sanitari insufficienti. Anche la mortalità ha una grande variabilità geografica che dipende da fattori sia naturali sia sociali.Tra i primi si annoverano i disastri naturali, che possono portare ad un improvviso incremento del numero di decessi. Un fattore naturale di variabilità spazio-temporale della mortalità che nel passato ha giocato un ruolo preponderante è rappresentato dalle epidemie (peste, colera, malaria ecc.), oggi molto contenute dalle misure sanitarie adottate su scala nazionale e internazionale. Tra i fattori politico-sociali che incidono sui tassi di mortalità di un determinato territorio ci sono le guerre e le guerriglie locali, presenti tuttora in molti paesi. Una forte variabilità deriva dalle caratteristiche dei sistemi sanitari nazionali. In particolare nei paesi più poveri spesso non sono disponibili medici, ospedali, vaccinazioni o medicine che potrebbero prevenire o guarire molte malattie. Anche se spesso i tassi di mortalità più elevati si riscontrano nei paesi più poveri, non si tratta di una caratteristica unicamente collegata ai livelli di sviluppo economico, poiché deriva anche da altri fattori, tra i quali la presenza o assenza di politiche sociali e l'età media della popolazione. In Danimarca, ad esempio, il tasso di mortalità annuo è di 10 decessi ogni 1000 abitanti, una cifra decisamente superiore a quella dell’Honduras (5/1000 ab.), paese meno ricco, ma con una popolazione mediamente più giovane. È importante ricordare, quindi, che i tassi di mortalità non sono indicatori della qualità della vita o della salute della popolazione di un paese, per indagare le quali i demografi preferiscono ricorrere a dati come la speranza di vita o i tassi di mortalità infantile. LA SPERANZA DI VITA E LA MORTALITÀ INFANTILE La speranza di vita indica la lunghezza media della vita delle persone, in base ai tassi di mortalità correnti nel paese dove vivono. Nel mondo la speranza di vita media sommando quella degli uomini e quella (leggermente superiore) delle dome, è cresciuta molto nell’ultimo secolo, passando dai 29 anni del 1900 ai 67 anni di oggi. La speranza di vita può variare molto, in seguito, per esempio, ad una crescita della povertà o allo scoppio di guerre o rivolte in un paese, come è accaduto in Russia, negli anni successivi al crollo 20 dell'Unione Sovietica, quando la speranza di vita, per gli uomini, è scesa dai 64 anni del 1990, ai 59 del 2000, per risalire poi ai 67 del 2011. I geografi che si occupano di demografia hanno messo in luce le variazioni spaziali, su scala globale, dell'impatto dell'Aids sulla vita media: se nei paesi più ricchi un migliore accesso alle cure mediche e ai farmaci ha contributo ad elevare la speranza di vita delle persone sieropositive ad un livello analogo a quello del resto della popolazione, in altre parti del mondo l'epidemia di Aids ha ridotto la vita media di oltre 20 anni, come accade in Lesotho e Botswana, stati dell'Africa meridionale con una speranza di vita rispettivamente di 40 e 49 anni. Un secondo importante indicatore della qualità della vita di una popolazione è il tasso di mortalità infantile, ovvero il numero di nati, ogni mille, che muoiono prima di compiere un anno di età. Alti tassi di mortalità infantile sono segno di cure sanitarie inadeguate nei confronti delle donne in gravidanza e dei neonati. 3.2 La composizione della popolazione e i suoi cambiamenti LA PIRAMIDE DELLE ETÀ Ogni popolazione è caratterizzata da una specifica composizione, data dalle caratteristiche dei gruppi che la compongono. Di una popolazione si possono calcolare delle percentuali di soggetti, creando una rappresentazione delle caratteristiche e delle variazioni demografiche di questo specifico gruppo di persone. L'analisi della composizione di una popolazione fornisce anche strumenti utili per prevedere in che modo questa potrà variare nel futuro. Uno degli strumenti più diffusi per rappresentare la composizione di una popolazione è la piramide delle età. Piramide delle età: istogramma che rappresenta la composizione di una popolazione divisa per classi di età e per genere (M e F). L'asse verticale di una piramide delle età raffigura le classi d'età (o coorti) della popolazione rappresentata, ovvero la percentuale di persone nate in un determinato periodo di tempo (solitamente le classi sono di cinque anni ciascuna), a partire dalla coorte più giovane, rappresentata dai bambini fino a quattro anni di età. La piramide suddivide la componente maschile e quella femminile di ciascuna classe di età, collocando solitamente la prima sulla sinistra dell'asse verticale e la seconda alla sua destra. L’asse orizzontale indica invece la percentuale con la quale ciascuna classe di età contribuisce al totale della popolazione. Si possono individuare tre categorie di piramidi della popolazione, alle quali corrispondono popolazioni a forte crescita, popolazioni a crescita lenta e popolazioni in declino. L’INDICE DI DIPENDENZA Indice di dipendenza: rapporto tra la popolazione in età lavorativa e la popolazione con meno di 15 e più di 65 anni. I demografi osservano con particolare attenzione la popolazione di età inferiore ai 15 anni o superiore ai 65, composta da persone che vengono definite dipendenti, in quanto non essendo in età lavorativa, non è in grado di procurarsi i mezzi di sussistenza. L'indice di dipendenza permette di fare previsioni sui cambiamenti ai quali la società di un paese andrà in contro nel futuro, in base alla sua evoluzione demografica. Gli stati con una popolazione giovane, ad esempio, si preoccupano di avere abbastanza strutture scolastiche e abbastanza posti di lavoro disponibili per i prossimi anni. Al contrario un'elevata percentuale di anziani, oltre ai servizi specifici ad essi dedicati (cure mediche, assistenza a domicilio, case di riposo ecc.) può far prevedere la necessità di incrementare l'immigrazione da altri paesi per far fronte all'offerta di lavoro delle imprese. L'indice di dipendenza si calcola dividendo il numero delle persone con meno di 15 anni o più di 65 per quello di chi è in età lavorativa e moltiplicando il risultato per 100. La piramide dell'età delle Filippine mostra come il 39% della popolazione del paese sia nell'età della dipendenza, mentre il 61% in età lavorativa, con un indice di dipendenza di 63/100, ovvero 63 persone dipendenti su 100 lavoratori tra i 15 e i 64 anni. L'alto indice di dipendenza delle Filippine deriva dalla bassa età media della popolazione. Diversamente, l'indice di dipendenza in Giappone è pari a 60/100, in ragione dell'alta percentuale di persone anziane; più ci si avvicina a 100, più alto diventa l'indice di dipendenza. Un indice di dipendenza di 100 indica che il numero dei lavoratori e quello delle persone troppo giovani o troppo vecchie per lavorare sono identici. 21 IL TASSO DI CRESCITA NATURALE Tasso di crescita naturale: percentuale annua di crescita di una popolazione, senza considerare i flussi migratori. Una popolazione ha un tasso di crescita naturale quando il numero delle nascite è superiore al numero delle morti. I demografi calcolano il tasso di crescita naturale sottraendo il tasso di mortalità al tasso di natalità e convertendo il risultato in percentuale. Il tasso di natalità globale del 2012, ad esempio, è stato di 20 nati ogni mille abitanti e il tasso di mortalità di 8 morti ogni 1000 abitanti; la differenza è di 12/1000, che trasformata in percentuale dà un tasso di crescita naturale dell’1,2%. Il tasso di crescita naturale può essere pari a zero o anche negativo, quando il tasso di mortalità è superiore a quello di natalità. Spesso i demografi si servono dei tassi di crescita naturale per calcolare il tempo di raddoppio della popolazione, ovvero il numero di anni necessario affinché questa duplichi le proprie dimensioni, che consente di mettere in relazione le attuali tendenze demografiche di una certa popolazione con la sua effettiva consistenza futura. IL MODELLO DELLA TRANSIZIONE DEMOGRAFICA Transizione demografica: passaggio di un paese, nel corso del tempo, da tassi di natalità e mortalità elevati, a valori molto inferiori. Il modello della transizione demografica mette in relazione i cambiamenti nel tasso di crescita naturale della popolazione con i cambiamenti sociali derivati dai progressi della medicina, dall’urbanizzazione e dall'industrializzazione. Questo modello descrive il percorso che porta un paese a passare, nel corso del tempo, da tassi di natalità e mortalità elevati, a valori molto inferiori. Il modello della transizione demografica, inoltre, ha il grosso limite di non prendere in considerazione le migrazioni, offrendo perciò una rappresentazione solo parziale dei cambiamenti demografici.Esso funziona abbastanza bene per il passato, ma non fornisce sempre previsioni attendibili. Da decenni, ormai, i demografi e i geografi hanno osservato che, quando un paese entra nella transizione demografica, si verifica un cambiamento nella tipologia di malattie che determinano la mortalità della popolazione. Questa transizione epidemiologica, è caratterizzata dal passaggio dalla massiccia diffusione di malattie infettive a quella di malattie croniche, in seguito ai cambiamenti nello stile di vita dovuti all'urbanizzazione e all’industrializzazione. Le malattie infettive si diffondono da una persona all'altra attraverso la trasmissione di agenti patogeni (principalmente batteri e virus), come accade nel caso dell'influenza, causata da un virus, o della tubercolosi, causata da un batterio. Le malattie croniche, invece, sono quelle che portano ad un deterioramento del corpo nel lungo periodo, come l'artrosi o patologie direttamente legate ad uno stile di vita urbano, tra le quali le malattie cardiache e il diabete. 3.3 Le differenze di sesso e genere SESSUALITÀ, IDENTITÀ E SPAZIO Sessualità: elemento fondamentale dell'identità sociale e individuale, che deriva da orientamenti, attitudini, desideri e pratiche di tipo sessuale. Genere: caratteristiche culturali o sociali che nel pensare comune di una società vengono attribuite all'appartenenza al sesso maschile o femminile. II concetto di ruolo di genere indica le aspettative sociali, le responsabilità o i diritti che spesso vengono associati all'essere femmina o maschio, secondo un discorso dominante nella società, che tende ad enfatizzare la dicotomia tra sessi o generi.In altre parole, la società si aspetta che una femmina si comporti in modo da rafforzare e riflettere il proprio ruolo di genere e la propria identità femminile. L'identità sessuale di una persona, però, può anche non essere legata al suo assetto cromosomico, come di mostra chi si definisce transgender, rifiutando il genere che gli o le è stato assegnato alla nascita. La nostra identità di individui viene plasmata non solo dal nostro sesso, ma anche dal nostro genere, cosi come dall'etnia alla quale apparteniamo, dalle nostre origini familiari e da altri dettagli 22 La distribuzione geografica della povertà, che, secondo la FAO nel 2014 interessa 850 milioni persone, cioè il 52%della popolazione mondiale, mette in evidenza forti squilibri, tra i paesi ricchi dell'Europa e dell'America settentrionale e quelli dell'Africa sub-sahariana e l'Asia meridionale, e in genere la maggioranza dei paesi del Sud del mondo. La più grave conseguenza della povertà è la fame, che può essere legata a forme di denutrizione o di malnutrizione. Benché a partire dal 1970 la disponibilità mondiale di alimenti sia nel complesso aumentata, grazie soprattutto al miglioramento delle tecniche agricole e alle nuove varietà di cereali con alte rese per ettaro introdotti dalla “rivoluzione verde” (vedi capitolo 7), in alcuni paesi, in particolare africani, la situazione di sotto alimentazione è peggiorata. Su scala mondiale, quindi, la sovrapproduzione agricola coesiste di fatto con la denutrizione. Fame e malnutrizione sono presenti per tre ordini di motivi: 1) in ambiente rurale molti contadini vivono ancora di agricoltura di sussistenza, ma non producono abbastanza per i loro bisogni o per cause naturali (siccità, terreni poco fertili) o per scarsità di terreni coltivabili, o per l'uso di tecniche arretrate; 2) in ambiente cittadino vi sono persone troppo povere per acquistare gli alimenti, anche se questi sono disponibili; 3) circa 40 milioni di persone soffrono di fame e carestie a causa delle guerre; queste persone per sopravvivere dipendono dagli aiuti internazionali. Il problema delle fame è attentamente studiato dalla FAO, che attraverso il programma “Millenium Development” si prefigge alcuni obiettivi da raggiungere entro il 2015. Uno di questi obiettivi è quello di ridurre alla metà il numero delle persone sottoalimentate. 3.5 Le migrazioni Altro fondamentale fattore di cambiamento demografico sono le migrazioni, concetto che indica uno spostamento permanente e perciò va distinto da quello di circolazione delle persone che comprende anche le migrazioni temporanee e i movimenti pendolari. Ogni migrazione prevede un'emigrazione, la partenza da un luogo, e un'immigrazione, l'arrivo in un altro luogo. Il calcolo del saldo migratorio netto considera i cambiamenti nella popolazione di un determinato luogo (es. uno stato, una regione o una città) in seguito alle immigrazioni e alle emigrazioni: saldo migratorio netto = numero di immigrati - numero di emigrati. Il cambiamento demografico di un territorio, quindi, può essere calcolato attraverso l'equazione demografica, che considera la crescita naturale di una popolazione e il suo saldo migratorio in un determinato periodo di tempo. MIGRAZIONI VOLONTARIE E MIGRAZIONI FORZATE Migrazione: spostamento permanente o di lungo termine di un individuo o di un gruppo di persone dal proprio luogo d’origine a un altro luogo. Circolazione: spostamento temporaneo, spesso ciclico, di un individuo odi un gruppo di persone dal proprio luogo d'origine a un altro luogo.Comprende le migrazioni temporanee e i movimenti pendolari. La maggior parte delle migrazioni può essere attribuita a due categorie: le migrazioni forzate e le migrazioni volontarie. Le prime si verificano quando una persona, un gruppo sociale, un governo o altro costringono un altro individuo o un gruppo di persone a cambiare luogo di residenza, senza che questi ultimi abbiano alcuna voce in capitolo relativamente alla destinazione, ai tempi della migrazioni o a qualunque sua altra caratteristica. La Germania, ad esempio, alla fine degli anni Novanta, rimpatriò forzatamente migliaia di rifugiati, emigrati dall'ex Jugoslavia e dalla Bosnia in occasione delle guerre nei Balcani; ma l’esempio più noto di migrazione forzata è probabilmente quello della tratta degli schiavi africani attraverso l'Atlantico, in seguito alla quale oltre 12 milioni di africani furono portati a forza nel continente americano, tra il 1450 e il 1900. Le migrazioni volontarie sono invece trasferimenti dilunga durata, o permanenti, effettuati in seguito ad una scelta, anche se spesso questa è dovuta a situazioni particolarmente difficili in patria, che offrono una possibilità di scelta molto limitata. La maggior parte delle migrazioni appartiene a quest'ultima categoria e possiede alcune caratteristiche comuni, come il movimento da paesi poveri e soggetti a guerre e a regimi dispotici verso paesi ricchi e sicuri, i flussi dalle 25 campagne alle città e la maggior propensione degli uomini, rispetto alle donne, a lasciare il proprio paese per destinazioni lontane. FATTORI DI SPINTA E DI ATTRAZIONE La decisione di emigrare dipende dal concorso di molti fattori, come le opportunità offerte dal luogo di destinazione, le difficoltà di vivere e lavorare lontano dalla propria terra d'origine e dalla propria comunità, i costi, le modalità, i rischi e i tempi del viaggio. Tutti i migranti volontari si confrontano con un insieme di fattori di spinta (push factors) e fattori di attrazione (pull factors), che contribuiscono alla scelta di emigrare, determinata dalla percezione che ciascun individuo ha di queste variabili complesse e dai mezzi di cui egli dispone per realizzarle. In generale tra le migrazioni volontarie occorre distinguere quelle in cui la scelta è necessitata da condizioni di estrema povertà e di insicurezza e quelle in cui la scelta dipende dal desiderio e dalle opportunità di migliorare condizioni di vita normali. La migrazione interna consiste nel movimento di persone tra regioni di uno stesso paese. Tre sono i fattori che incidono maggiormente sulla scelta migratoria interna: l'età, la ricerca di un'occupazione o di migliori caratteristiche naturali e ambientali. L'età è un elemento determinante. Il tasso di migrazione è molto elevato tra le famiglie con figli pre-adolescenti, mentre diminuisce tra le famiglie con figli adolescenti. I giovani tra i 20 e i 34 anni sono i più propensi a migrare. La ricerca di un'opportunità di lavoro, magari meglio retribuita, costituisce il più rilevante fattore di spinta che diventa determinante all'aumentare della distanza dello spostamento. Le persone che si muovono dalle aree rurali si spostano verso altre aree rurali oppure verso zone urbanizzate. Nelle regioni del mondo in via di sviluppo, lo spostamento verso zone rurali resta la più consistente forma di migrazione. Spesso, le persone si muovono per cercare lavori stagionali legati alla silvicoltura, alla pesca o all’agricoltura. Altre volte la migrazione è determinata dall’eccessiva densità della popolazione, dalla scarsità di terre o dal loro impoverimento. Su scala globale, il movimento dalle campagne alle città ha contraddistinto il XX secolo e, in particolare, gli anni tra il 1950 e il 1975. Da un'analisi più precisa, tuttavia, tra una regione del mondo e l'altra emergono rilevanti differenze legate alla transizione demografica. In Cina, il fenomeno è piuttosto recente. Tra il 1979 e il 2010, 440 milioni di cinesi si sono trasferiti in aree urbanizzate, la più grande migrazione della storia. Per molti anni, rigide politiche governative hanno limitato i movimenti interni. La Cina non è l'unico stato ad avere un simile sistema di controllo. L'aumento della popolazione urbana, infatti, rischia di aumentare i problemi delle metropoli. Secondo gli esperti, tuttavia, la migrazione verso le città è inevitabile e non sempre negativa, poiché volta ad aumentare il proprio reddito e accedere a migliori servizi e assistenza sanitaria. Alcune persone si muovono dalle città per raggiungere altre città, altre si trasferiscono dalle città verso zone rurali. Nel primo caso, lo spostamento avviene da una città ad un'altra, da una città all'area metropolitana circostante o da un quartiere periferico ad un altro. Più una regione è urbanizzata, maggiori sono gli spostamenti da una città ad un’altra. TENDENZE GLOBALI DELLE MIGRAZIONI Si parla di migrazione internazionale quando un individuo si trasferisce in maniera permanente o per un lungo periodo di tempo in uno stato diverso da quello d’origine. Oggi, i migranti internazionali sono circa 214 milioni, pari al 3% della popolazione complessiva del pianeta. I numeri delle migrazioni interne sono di gran lunga più elevati. Una delle ragioni sta nel fatto che le migrazioni internazionali sono molto più difficili da organizzare e portare a termine con successo rispetto a quelle nazionali, sia per quanto riguarda i costi, sia perle formalità legate ai passaporti e ai visti di ingresso e permanenza nel nuovo paese. Le migrazioni internazionali assumono dimensioni globali quando si svolgono tra diversi continenti come è accaduto sempre più spesso negli ultimi cento anni, inseguito alla colonizzazione europea, alla decolonizzazione e poi alla globalizzazione. L'Europa ha vissuto la più grande emigrazione di massa della propria popolazione a cavallo tra il XIX e il XX secolo, in seguito a guerre, carestie e altri fattori sociali, politici ed economici: si calcola che, tra il 1880 ed il 1914, circa 30 milioni di europei abbiano attraversato l'Oceano Atlantico in cerca di una vita migliore. Su scala globale, si da particolare importanza alla migrazione di persone dai paesi in via di sviluppo ai paesi industrializzati. In effetti, circa il 35% dei migranti internazionali si sposta verso paesi più sviluppati. Da una prospettiva regionale, in Asia, Africa, America Latina e nella maggior parte delle isole del Pacifico sono più numerose le persone che partono rispetto a quelle che 26 arrivano. Si parla in tal caso di emigrazione netta. Al contrario, nord America, Europa, Australia e Nuova Zelanda sono regioni ad immigrazione netta, dove fanno ingresso più persone di quante ne partano ogni anno. Per avere una visione globale dei flussi migratori si fa riferimento ai corridoi migratori, ovvero i percorsi dei migranti dal punto di partenza a quello di arrivo. Il corridoio tra l'Afghanistan e l'Iran, già attivo nel 1800, ha registrato numerosi passaggi a seguito dell'invasione sovietica dell'Afghanistan nel 1979. Nei dieci anni successivi circa 3 milioni di afgani sono fuggiti in Iran, rendendo l'Iran uno dei paesi che ospita più rifugiati al mondo e gli afgani la più grande popolazione di rifugiati. Il governo iraniano inizialmente ha concesso l'asilo, ma dai primi anni del 2000 ha incentivato le espulsioni verso l’Afghanistan, rendendo anche più difficoltoso l’accesso al proprio territorio. Gli spostamenti dei rifugiati tendono ad essere interregionali o regionali. Ad esempio, la guerra civile in Siria dal 2011 ha determinato l'esodo di circa 5milioni di rifugiati prima verso la Turchia, il Libano e laGiordania e poi anche verso l'Europa. Anche se i conflitti armati rimangono la causa principale di fuga, insieme alla persecuzione delle minoranze, rifugiati e profughi interni fuggono anche da disastri ambientali, siccità e carenza di cibo. I PROFUGHI AMBIENTALI Vengono definiti profughi ambientali, quanti lasciano i loro paesi perché eventi legati ai cambiamenti climatici del pianeta, quali siccità e desertificazione, innalzamento del livello marino, inondazioni, cicloni hanno reso invivibili le loro terre. La pericolosità di tali eventi è aumentata dal fatto che, a causa dell'aumento della popolazione mondiale, sono molto popolate anche zone a rischio, quali le terre dei delta di molti fiumi, isole con un'altitudine di poco superiore al livello del mare, terre ai margini dei deserti ecc. Le migrazioni ambientali si presentano problematiche perché si risolvono sempre più spesso nello sradicamento definitivo di milioni di persone dalle loro terre. Questa massa di migranti premerà sempre più sulle frontiere dei paesi confinanti e che sono ritenuti più sicuri dal punto di vista ambientale, con effetti destabilizzanti per l'ordine pubblico e le relazioni mondiali, creando situazioni di emergenza e conflitti. L'Italia, per la sua posizione a cavallo tra un continente particolarmente vulnerabile quale l'Africa e l’Europa mediterranea anch'essa a rischio siccità, è particolarmente coinvolta nel problema, anche a causa del grande sviluppo delle sue coste che rappresentano un facile approdo. In questa situazione non è sufficiente l'intervento umanitario dei singoli paesi coinvolti, ma è l’intera comunità mondiale che deve farsi carico del problema. Gli Stati Uniti e il Canada erano, nel secolo scorso, le principali destinazioni migratorie del mondo. Oggi essi provengono in gran parte dall'Asia e dall'America Latina, a differenza di quanto accadeva tra il 1750 e il 1950, quando la maggior parte degli immigrati in America settentrionale proveniva dall'Europa. Il numero massimo di immigrati si ebbe negli Stati Uniti tra il 1995 e il 2000, per poi ridursi costantemente, in concomitanza con la crisi mondiale. Sia gli Stati Uniti che il Canada, come del resto la maggior parte degli altri paesi del mondo, fissano delle quote massime al numero di immigrati che possono essere accolti ogni anno. Fino al 1965, quando questo sistema venne abolito da alcuni emendamenti all'Immigration and Nationality Act, queste quote erano tarate in base al paese di provenienza, con una netta preferenza nei confronti dei migranti di origine europea, mentre oggi le quote sono basate sulle categorie di migranti, rappresentate ad esempio dai migranti lavoratori o dai chi si trasferisce per un ricongiungimento familiare. Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso l’America Latina era una delle principali destinazioni dell'immigrazione, proveniente prevalentemente da Spagna, Portogallo e Italia, ma anche da Giappone, Germania, Russia e altri paesi. Dopo di allora la tendenza si inverti soprattutto a causa dell'instabilità economica e politica e l’America Latina è ora una delle maggiori regioni di provenienza di migranti diretti verso regioni più ricche. II principale paese d'origine degli immigrati negli Stati Uniti, fino ai primi anni del XXI secolo, era_il Messico, che, pur alimentando ancora tale emigrazione, sta ora diventando una meta di immigrazione per i latino-americani, soprattutto a causa della crisi economica degli USA e il conseguente aumento della disoccupazione. 27 fondamentali dell'identità di un migrante c'è il transnazionalismo, il cui sviluppo è favorito dalla globalizzazione e dalla crescente interconnessione tra i luoghi. Il transnazionalismo implica un sistema di circolazione nel quale i flussi migratori non sono semplicemente uni-direzionali, ma mettono in moto sempre dei contro-flussi in senso opposto. La testimonianza più evidente di questi contro flussi ci viene data dalle rimesse dei migranti, ovvero denaro, beni e servizi che questi inviano nei propri paesi d'origine. 30 4. LINGUE, RAZZE, ETNIE E RELIGIONI 4.1 Le lingue del mondo Linguaggio: sistema di comunicazione basato su simboli ai quali vengono attribuiti significati condivisi. Dialetto: varietà linguistica (o idioma) usata tra di loro da abitanti originari di una ristretta area geografica, in aggiunta alla lingua ufficiale. Lingua: idioma che si è imposto sugli altri in un'area più o meno vasta per motivi letterari, sociali o politici. Lingua minoritaria: lingua tradizionalmente usata nel territorio di una lingua ufficiale da un gruppo di persone meno numeroso del resto della popolazione. L'interconnessione e l'interazione tra chi vive in una stessa regione o in diverse regioni del mondo dipende in buona parte dalla capacità di comunicare. Ciascuno di noi, infatti, usa il linguaggio continuamente nel corso della propria vita, importante per il funzionamento della società e per definire la nostra identità. Le lingue si distribuiscono sul pianeta per regioni omogenee, caratterizzate dal fatto che in ciascuna di esse la maggioranza degli uomini e delle donne comunicano tra loro in una determinata lingua. Quando due o più persone parlano la stessa lingua si innesca un processo di interazione comunicativa fondato sul fatto che i parlanti sanno quali significati attribuire ai simboli rappresentati dalle parole e come utilizzarli per costruire concetti complessi. Ogni lingua presenta poi al suo interno varianti geografiche e sociali dette dialetti. In genere le lingue sono dei dialetti che si sono imposti sugli altri in un area più vasta di quella originaria, per motivi letterari (avere una forma scritta e una letteratura), sociali (l'adozione da parte delle classi colte) e politiche (diventare la lingua ufficiale di uno stato). Diverse ancora dai dialetti sono le lingue minoritarie: lingue tradizionalmente usate all'interno di un dato territorio di una nazione, da cittadini che formano un gruppo numericamente meno numeroso del resto della popolazione, che parla lingue differenti da quella ufficiale dello stato. Non includono né i dialetti delle lingue ufficiali, né le lingue dei migranti. Un'ulteriore distinzione è quella tra le lingue naturali che sono nate e si sono evolute nel corso della storia delle comunità umane, e le lingue artificiali, inventate intenzionalmente dall'uomo per la comunicazione internazionale o anche nazionale (come nel caso delI’Indonesia), o come lingue di mondi di finzione, come nel caso della lingua degli elfi, inventata da J.R.R.Tolkien. Alcune lingue artificiali sono state ideate con il proposito di creare una lingua universale, che potesse essere compresa e parlata in tutto il mondo, come nel noto caso dell'esperanto, inventato da un medico polacco alla fine del XIX secolo. Il fatto però che l'esperanto non si sia imposto come lingua dell'umanità è una prova di come i linguaggi non possano essere facilmente separati dalle culture. Si calcola che nel mondo esistano oggi circa 6.900 lingue diverse. Se proviamo a raggrupparle in categorie costruite in base al numero di parlanti di ognuna, ci si accorge di come siano moltissime le lingue parlate da un numero esiguo di persone, mentre si contano sulle dita di una mano quelle che possono essere considerate lingue di grande diffusione. In una prospettiva storica la grande diffusione di queste lingue è un evento abbastanza recente, che evidenzia un importante cambiamento nella geografia linguistica del mondo, tale da spingere alcuni geografi a chiedersi se le lingue più piccole saranno in grado di sopravvivere. LE FAMIGLIE LINGUISTICHE Famiglia linguistica: insieme di lingue che condivide un'origine comune. Per i geografi e i linguisti è importante considerare le lingue dal punto di vista delle relazioni storiche che ciascuna ha con tutte le altre, a partire da una questione fondamentale: le lingue del mondo hanno un'origine comune o si sono sviluppate indipendentemente l'una dall'altra? Molto di quello che conosciamo riguardo all'evoluzione del linguaggio e delle lingue deriva da manufatti storici o da testi scritti sopravvissuti finora e, per questo, esistono molti punti oscuri nella ricostruzione storica del loro percorso, dal momento che molte lingue primitive non furono mai messe per iscritto. Nonostante sia difficile ottenere un quadro completo, gli studiosi continuano ad occuparsi dell'evoluzione del linguaggio e della relazione tra le diverse lingue, 31 poiché la conoscenza di una lingua e della sua evoluzione ci consente di saperne di più sulle società del passato, sulle relazioni che ebbero tra di loro e sui percorsi delle migrazioni umane. Espressioni come famiglia linguistica, o gruppo linguistico, esprimono il fatto che molte lingue condividono una lontana origine storica comune, al punto che si possono individuare novanta diverse famiglie linguistiche, delle quali le sei maggiori (Indo-Europea, Sino-Tibetana, Afro- Asiatica, Niger-Kordofaniana, Austronesiana, Trans-Nuova Guinea) comprendono la maggior parte dei parlanti del mondo. Quasi la metà degli abitanti della Terra parla una lingua che appartiene alla famiglia indo-europea, della quale fanno parte sei delle nove lingue più diffuse al mondo (Inglese, Cinese mandarino, Hindi, Spagnolo, Francese, Arabo standard, Bengalese, Russo, Portoghese). Un'ipotesi molto diffusa tra i geografi e i linguisti considera lo sviluppo dell'agricoltura e le migrazioni delle popolazioni che la praticavano un momento chiave per la trasformazione della distribuzione delle lingue e delle famiglie linguistiche in tutto il mondo. Le lingue indo-europee, suddivise in diversi gruppi, rappresentano la famiglia linguistica con il maggior numero di parlanti e la più vasta diffusione geografica.Uno dei più importanti gruppi di questa famiglia è quello delle lingue romanze, che derivano tutte dal latino, una lingua italica che iniziò a venire parlata dagli abitanti di Roma intorno al VI secolo a.C. La crescita e l'espansione dell'impero romano in gran parte dell'Europa meridionale e occidentale svolsero un ruolo fondamentale nella diffusione della lingua latina, che allora si divideva in un latino classico, con una forma scritta standardizzata, e un latino volgare, non standardizzato, parlato dalla gente comune. La mancanza di regole precise fece sì che quest’ultimo venisse parlato in modo molto diverso tra una regione e l'altra dell'impero romano, portando alla nascita di numerosi dialetti e, nel corso del tempo delle diverse lingue romanze. Gli esperti ritengono che la famiglia delle lingue indo-europee abbia avuto origine nell'area a nord del Mar Nero e del Mar Caspio, oppure in Anatolia, intorno al 5000 a.C. Nonostante la Turchia sia quindi probabilmente la terra d'origine o di prima diffusione delle lingue indo-europee, il turco non appartiene a questa famiglia, ma venne introdotto dai Selgiuchidi, che nell'XI secolo espansero il proprio impero dall'Asia centrale verso l’Anatolia, introducendo una lingua della famiglia altaica, dalla quale deriva il turco moderno. LE MINORANZE LINGUISTICHE Le minoranze linguistiche sono comunità storicamente insediate in un territorio, che oltre alla lingua ufficiale del Paese, parlano una lingua minoritaria, cioè, diversa dalla lingua più diffusa in un dato paese. Le lingue minoritarie, sono molto numerose. In Europa, per esempio, oltre alle 11 lingue ufficiali, sopravvivono altre 60 lingue minoritarie. Di queste, alcune, come il Catalano, che è parlato da circa 7 milioni di persone in Spagna, Francia e nella zona di Alghero, in Italia, sono molto diffuse nel territorio, mentre altre, come il Sami che è una famiglia di lingue parlate da popolazioni della Finlandia del nord, Svezia, Norvegia e la penisola di Kola in Russia, sono a rischio di estinzione. La varietà di linguaggi rappresenta una ricchezza che è importante conservare, infatti, secondo la carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea la diversità socio-culturale rappresenta per il nostro continente “una ricchezza da non disperdere e uno dei pilastri della costruzione democratica dell’Europa” pertanto “L'Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica”. Per questo il Consiglio d'Europa ha stabilito di proteggere e favorire iniziative di promozione delle lingue minoritarie, riconoscendo alcuni fondamentali diritti, quali l'insegnamento nelle scuole, l'uso nelle pubbliche amministrazioni e nei mass media locali 4.2 La diffusione delle lingue e la globalizzazione Quali sono i fattori sociali e geografici che possono determinare la trasmissione e la diffusione di una lingua? Nella storia, la diffusione dell'agricoltura ha facilitato la diffusione di alcune lingue e in senso più generale, potremmo dire che siano la tecnologia e la mobilità dell'uomo a contribuire in modo significativo ad aprire degli spazi per la diffusione delle lingue. La diffusione delle lingue viene condizionata anche da forze politiche, economiche e religiose. Ne è un esempio il ruolo svolto dall'Impero britannico nell’espansione della lingua inglese e, più in generale, dal colonialismo, a causa del quale oggi ci sono più persone che parlano inglese fuori 32 l'unico modo corretto di esprimersi in una lingua, contribuendo in questo modo a diffondere stereotipi negativi nei confronti dei dialetti non-standard. Etichettare un certo modo di utilizzare una lingua come “giusto” o “sbagliato”, “corretto” o “scorretto”, riflette giudizi fortemente soggettivi, frutto di una scarsa conoscenza del funzionamento delle lingue. I TOPONIMI Toponimo: nome di un luogo. I geografi studiano i toponimi sia per le informazioni che possono fornire sulla presa di possesso del territorio e sul potere politico, sia perché testimoni della storia dell'insediamento umano in un certo luogo. Infatti l'attribuzione di un nome a una parte della superficie terrestre è l'espressione di una cultura e insieme un prodotto sociale, che identificando i singoli luoghi permette alla collettività di individuarli e di costruire una geografia simbolica del proprio territorio. Dunque la scelta dei toponimi esprime in modo chiaro il senso di appartenenza di un gruppo nei suoi confronti. Una conferma di questo è data dal cambiamento dei toponimi legato a trasformazioni politiche in molti paesi. In Africa per esempio in seguito alla decolonizzazione e all’ottenuta indipendenza alcuni stati mutarono i nomi a loro attributi in epoca coloniale. La Rhodesia per esempio, che in epoca coloniale era stata cosi chiamata dal nome di Cecil Rhodes, che ne aveva favorito la conquista, ottenuta l'indipendenza mutò il suo nome, dando origine alla Zambia (dal nome del fiume Zambesi) e allo Zimbabwe (dal nome di un importante sito archeologico del paese). In Italia, ad esempio, il fascismo modificò vari toponimi francesizzanti dellaValle d’Aosta, come Courmayeur, divenuto Cormaiore, e attribuì a città di nuova fondazione nomi legati al regime, che con la sua caduta vennero cambiati: Littoria divenne Latina, Mussolinia di Sardegna fu ribattezzata Arborea ecc. Attraverso i toponimi, le società legano al suolo il proprio linguaggio, rappresentano la propria identità e descrivono le caratteristiche dell'ambiente che le circonda. Di conseguenza i toponimi ci possono fornire importanti informazioni sulle pratiche passate di uso del suolo o sui cambiamenti ambientali avvenuti in un luogo nel corso del tempo. In Italia, i numerosi toponimi derivati da latino Selva, riferiti a località ora diboscate, (Selva di Valgardena, Selva di Cadore, di Montello ecc.), indicano un'antica presenza di boschi. I toponimi, conservati da secoli e quindi acquisiti dalla società locale come propri, sono anche utili per documentare le vicende storico-politiche. Per esempio in Europa i numerosi nomi di derivazione romana permettono ai geografi di tracciare i confini dell'impero: in Francia Orleans da Aurelianum, Aiaccio da Adiacium, in Germania Berlino da Berolinum, Bon da Bonna ecc., così come nell'Italia meridionale i numerosi toponimi derivanti dal greco, testimoniano l'esistenza delle antiche colonie greche nella nostra penisola. 4.4 Razze e razzismo CHE COS’È LA RAZZA? Razza: gruppo umano individuato in base ad apparenze somatiche che di regola non sono correlate con differenze genetiche rilevanti. Razzismo: intolleranza nei confronti di persone considerate geneticamente inferiori. Ideologia: sistema di idee e di valori che giustifica le opinioni, le prati-che e gli orientamenti di un gruppo. Il concetto di razza deriva dall’idea, scientificamente infondata, ma storicamente molto diffusa e influente, che si possano utilizzare uno o più tratti somatici per suddividere gli esseri umani in categorie distintive e esclusive. Il naturalista svedese Carlo Linneo, padre del sistema di classificazione delle specie animali e vegetali utilizzato ancora oggi, fu il primo, nel XVIII secolo, a identificare quattro grandi gruppi di popoli, da lui chiamati, “varietà”: africani, nativi americani, asiatici e europei. Si trattava di un vero e proprio metodo di classificazione, basato su un solo tratto esteriore, il colore della pelle. A questo primo tentativo di suddividere gli esseri umani in gruppi intesi come “razze”, ne sono seguiti molti altri, con un numero di razze che variava da tre a trenta, in base alla scelta dei caratteri somatici in funzione degli obiettivi di chi proponeva le classificazioni. 35 La geografia dice che i tratti fisici degli esseri umani tendono a variare gradualmente nello spazio, determinando zone di transizione, piuttosto che confini netti, tra le aree abitate da popoli caratterizzati dai diversi caratteri somatici. Inoltre, le caratteristiche dell'aspetto degli esseri umani non hanno mai la stessa distribuzione spaziale. In biologia la genetica distingue tra il fenotipo, cioè l'aspetto esteriore degli individui (che è il risultato dello sviluppo dei suoi caratteri ereditari in un certo ambiente) e il genotipo, che è l'insieme dei suoi caratteri ereditati, detto anche genoma o più precisamente DNA. Il fenotipo è una semplice apparenza, mentre il genotipo è la vera identità biologica, nascosta nel DNA. I fenotipi hanno una variabilità enorme all'interno di una stessa specie, mentre la variabilità genetica (la differenza tra i genomi), cioè quella su cui dovrebbe fondarsi il concetto biologico di “razza”, è minima. In conclusione, oggi nel dibattito scientifico la razza viene considerata una costruzione sociale, cioè un'idea o un fenomeno che non esiste in natura, ma che viene creato dalle persone, che attribuiscono un significato alle apparenze somatiche degli individui. COME SI È SVILUPPATO IL RAZZISMO? Si definisce razzismo la convinzione che le differenze somatiche e genetiche producano una gerarchia, che consente di dividere gli esseri umani in “superiori” e “inferiori”, con chiare conseguenze in termini di pregiudizi, discriminazioni e odio verso gli altri. Ciò porta all'esclusione e alla discriminazione nei confronti di alcune categorie di persone, che spesso sfociano in veri abusi psicologici e fisici e possono arrivare al genocidio. Il razzismo ha spesso assunto le caratteristiche di un'ideologia, promossa nel corso della storia da numerosi movimenti, come dimostra l'esempio del nazismo. La maggior parte degli studiosi è concorde nel sostenere che gli avvenimenti storici del periodo della colonizzazione e dell'insediamento europei nelle Americhe, tra il XVI e il XVII secolo, abbiano contribuito in modo significativo allo sviluppo del razzismo. In particolare, il razzismo suggeriva visioni del mondo che enfatizzavano le differenze tra i popoli, mettendole in relazione con una presunta inferiorità genetica e intellettuale e giustificando le disuguaglianze e le conquiste coloniali. Inoltre la “razza bianca” è diventata uno standard, in base al quale “misurare” tutti gli altri popoli. Secondo queste tesi, le disuguaglianze sociali su base etnica erano un fenomeno naturale, che collocava i bianchi al vertice della gerarchia sociale, come accadeva per esempio nelle colonie, dove gli amministratori, i dirigenti e i proprietari terrieri europei controllavano i popoli colonizzati. Anche i quartieri residenziali delle città coloniali, abitati prevalentemente da europei, erano espressione della segregazione razziale dei loro abitanti. Successivamente essa ha dato origine al fenomeno dell'apartheid. L'ideologia razzista, infine, ha contribuito a perpetuare fino ai giorni nostri la schiavitù, che, anche se formalmente illegale, continua ad esistere sotto forma di traffico di esseri umani, ovvero lo sfruttamento coercitivo di lavoratori, come accade nel caso dei soldati bambini e della prostituzione. Il commercio di schiavi attraverso l'oceano Atlantico era permesso dalle leggi allora vigenti. Esso seguiva rotte ben precise tra l'Africa e l’America. Il traffico di esseri umani, invece, è un fenomeno di scala globale, presente in tutti i continenti, ma nello stesso tempo illegale e quindi molto meno visibile e perciò definito da alcuni “il lato oscuro della globalizzazione”. 4.5 Che cos’è l’etnicità? DEFINIZIONE E CARATTERISTICHE DELL’ETNICITÀ Etnicità: componente personale e comportamentale dell’identità di un individuo, basata sul senso di appartenenza sociale a un gruppo che si differenzia dagli altri per i suoi caratteri culturali Gruppo etnico o etnia: aggregato di persone che condividono un'identità culturale collettiva (che può derivare da antenati, storia, lingua o religione comuni) in base alla quale sviluppano consapevolmente un senso di appartenenza al gruppo. Viene anche usato come sinonimo di cultura locale. Capire cos'è l'etnicità permette di studiare ed identificare con più facilità i gruppi etnici. Questo concetto va distinto da quello di nazionalità, cioè l'affiliazione di una persona ad uno stato che solitamente avviene attraverso la cittadinanza. I due termini sono però storicamente legati tra 36 loro a partire dal secolo XIX, quando in molti paesi si affermò il principio dello stato su base nazionale fondato a sua volta sull'omogeneità etnica. Spinta ai suoi estremi, questa ideologia portò alle politiche dette di “pulizia etnica”, che consistono nell'allontanamento o addirittura nello sterminio (etnocidio o genocidio) degli appartenenti a etnie diverse da quella dominante. L'esempio più tristemente noto è lo sterminio degli ebrei nella Germania nazista, preceduto di qualche anno dal genocidio degli Armeni ad opera del governo turco, e seguito da altri casi (nell’Africa centrale, nei Balcani (Bosnia Erzegovina e Kosovo) e nel Darfur). Quando ci si occupa dell'etnicità occorre mettere in evidenza le sue molteplici sfaccettature, costituite da elementi interni e personali, come anche da fattori esterni e comportamentali. Alla prima categoria appartiene il senso d'identità che ciascuno si attribuisce e che non necessariamente è determinato dalle origini familiari di una persona. L'identità etnica di una persona dipende anche dal modo in cui si è formata nel tempo la sua identità individuale complessiva, che può portarlo, varie volte nel corso della sua vita, ad abbracciare o rifiutare il sentimento di appartenenza a etnie diverse. In particolare l'identità, anche etnica, di una persona è fortemente influenzata da processi di attribuzione, attraverso i quali le persone attribuiscono agli altri o a se stessi (auto-attribuzione) una certa qualità o identità. L'etnicità, quindi, non solo è soggettiva, ma anche flessibile e contingente, in relazione alle circostanze e alle persone con cui interagiamo e che incidono sulla nostra vita. Come già detto, l'etnicità si manifesta anche attraverso determinati comportamenti, rappresentati dalle nostre pratiche identitarie, come il parlare una certa lingua o il seguire determinate norme religiose o usanze tradizionali, associate per esempio alle preferenze alimentari, al modo di vestire, alla musica, alla danza, all'arte, ecc.In alcuni casi, inoltre, le componenti personali e quelle comportamentali dell'etnicità si rafforzano a vicenda e il senso di identità etnica di una persona finisce per dipendere dalla pratica di determinati comportamenti. Come la razza, anche l’etnicità è una costruzione sociale soggettiva, che sfugge a una rigida suddivisione delle persone in categorie fisse, sulla quale di conseguenza, è molti difficile raccogliere dati precisi. ETNIE, CULTURE, CIVILTÀ Il concetto di etnia viene sovente usato come sinonimo di “cultura” che indica una costruzione sociale riferita a pratiche e credenze condivise. Quando esse sono pensate come caratteristiche peculiari di un gruppo etnico, questo viene sovente indicato come “una cultura”. Più complesso è il rapporto tra il concetto di etnia (o cultura) e quello di civiltà. In origine esso veniva applicato soltanto alle società europee e mediterranee in contrapposizione alle altre società ritenute barbare. Nel XVIII secolo, con l'illuminismo, fu esteso anche ad altre società, come quelle cinese e indiana, in quanto avevano raggiunto certi livelli di complessità e raffinatezza in campi come il diritto, la scienza, la letteratura, ecc., in cui potevano reggere il confronto con gli equivalenti europei. Oggi alcuni parlano di civiltà in presenza di culture caratterizzate da forme di organizzazione tecnica e sociale evolute, diffuse su un'ampia area geografica (civiltà azteca, egizia, romana ecc.). Altri lo considerano invece un termine basato su valutazioni soggettive, falsate da pregiudizi tipici delle società occidentali. Perciò lo rifiutano, ritenendo che non ci siano culture oggettivamente superiori o più importanti di altre. 4.6 L’etnicità nel paesaggio La geografia etnica è un filone della geografia umana che studia le migrazioni e la distribuzione spaziale dei gruppi etnici, l'interazione e le reti etniche e i segni dell'etnicità nel paesaggio, che contribuiscono a formare i cosiddetti “paesaggi etnici”. Lo studio di questa particolare forma di paesaggio, si è tradizionalmente concentrato sull'analisi dei segni della cultura materiale, come gli edifici religiosi, i centri di ritrovo comunitari o gli slogan scritti sui muri, allargando di recente lo sguardo anche alle stazioni radio e televisive che si rivolgono a specifici gruppi etnici o ai siti internet che veicolano le loro informazioni. 37 II Corano è il libro sacro che per i musulmani contiene la parola di Dio, rivelata a Maometto. La fede è molto importante per i musulmani, anche se per loro è fondamentale che questa venga espressa attraverso le azioni. Gli Islamici si dividono tra Sunniti e Sciiti: i primi, rappresentano l'orientamento più numeroso e diffuso geograficamente, che comprende circa l'80% dei musulmani, mentre della secondo fa parte solo il 15% dei fedeli di questa religione, anche se rappresentano la maggioranza della popolazione in quattro stati (Iran, Iraq, Azerbaigian e Bahrein). Gli induisti chiamano la propria religione sanatama dharma, che significa “verità (o legge) eterna”, mentre il termine Induismo, come la parola India, è usato da chi non è induista. In tutto il mondo sono circa 900 milioni le persone che si dichiarano induiste, facendone la più grande religione etnica del mondo, diffusa soprattutto in India e nel Sud dell'Asia. L'Induismo non ha un fondatore, non forma una chiesa e non ha un'autorità centrale. Storicamente si rifà ai testi sacri dell'antichissima tradizione Veda. Nonostante l'Induismo racchiuda convinzioni e pratiche religiose molto diverse, esistono alcuni tratti comuni, a partire da una visione ciclica dell'esistenza e dalla fede in un'anima immortale, soggetta ad un ciclo di reincarnazioni causa di grandi sofferenze spirituali e controllato dal karma, l'azione mentale e fisica che modifica noi stessi e ha effetto sul resto del mondo. L'obiettivo degli induisti è quello di raggiungere il moksha, ovvero la liberazione dal ciclo di nascite e morti, rappresentato come uno stato di completa libertà o felicità. La religione buddhista è legata soprattutto alle culture dell'Asia orientale e sud-orientale ed è la religione prevalente di stati come la Cina, il Giappone, Hong Kong, Taiwan e Singapore, dove si mescola con altre tradizioni locali, tra le quali il confucianesimo. Il fondatore del Buddhismo, Siddhartha Gautama (vissuto nel VI secolo a.C.) era un principe induista, che durante la meditazione venne raggiunto dall’illuminazione, in seguito alla quale divenne il Buddha (letteralmente, “l’illuminato"). Per i buddhisti, la sofferenza è dovuta al ciclo di reincarnazioni al quale tutti noi siamo obbligati e da cui è necessario sottrarsi, raggiungendo il Nirvana, attraverso gli insegnamenti del Buddha. I suoi 23 milioni di adepti fanno del Sikhismo la più piccola delle religioni universali del mondo. Il termine Sikh significa discepolo, ovvero seguace di un maestro, chiamato guru, in onore del fondatore della religione Guru Nanak, il quale, dopo una rivelazione divina, iniziò a diffondere i propri insegnamenti e a fondare le prime comunità Sikh. Nata nel nord dell'India, questa religione mostra influenze sia dell'Islam, che dell'Induismo. I sikh, ad esempio, predicano l'esistenza di un unico dio creatore, ma nello stesso tempo l'importanza del karma. 4.8 Religione, società e modernizzazione I LUOGHI SACRI Un luogo sacro è un luogo al quale viene attribuito un particolare significato religioso e che, per questo, merita, agli occhi dei fedeli, devozione e rispetto. Ad esempio, gli Islamici proibiscono l'accesso a La Mecca e a Medina, le due città sante, a tutti i non musulmani, ritenendo che questo sia un mezzo per mantenerne la sacralità. Un pellegrinaggio è un viaggio, compiuto da un fedele, verso un luogo sacro, per motivi religiosi. Alcuni di essi, come l'haji dei musulmani, sono precetti obbligatori, mentre la maggior parte rappresentano gesti volontari. La religione offre una base fondamentale per l'identità di un individuo o di una comunità. Nell'Islam, per esempio, l'idea di una comunità dei musulmani, viene espressa frequentemente, infatti, la parola araba umma indica proprio la “comunità dei fedeli”, costituita dai musulmani di tutto il mondo, la cui identità trascende le differenze dottrinali e la separazione geografica. La devozione nei confronti dei luoghi sacri può contribuire a sviluppare un forte senso di attaccamento tra le persone e un territorio, che talvolta può portare a rivendicazioni e conflitti relativi al modo in cui una determinata area debba venire utilizzata. La relazione tra le comunità religiose e il territorio si manifesta anche attraverso altre forme, come dimostra, la concezione che alcune comunità religiose diasporiche, costrette ad abbandonare un 40 luogo a causa della propria fede, hanno nei confronti delle proprie “terre sante”, che talvolta vengono intese come patrie nelle quali la comunità dei fedeli auspica di insediarsi. Per gli ebrei, probabilmente la più nota comunità religiosa diasporica, la religione e l'insediamento sul territorio sono stati per lungo tempo strettamente interrelati. Il ritorno a Israele divenne l'obiettivo principale del movimento sionista, sviluppatosi nel XIX secolo con l'ambizione di creare una patria religiosa e politica per tutti gli ebrei, realizzatasi in parte nel 1948, con la nascita dello stato di Israele, che tuttavia portò ad una serie di complesse problematiche. TRADIZIONE E CAMBIAMENTO Nello stesso modo in cui tutte le società evolvono, dal punto di vista sociale e da quello economico, così anche le attitudini, le idee e i valori delle persone sono soggette ad un cambiamento, con il quale tutte le religioni sono costrette a confrontarsi. Il termine modernismo indica quella corrente intellettuale che incoraggia il pensiero scientifico, la diffusione della conoscenza e la fiducia nel progresso. All'inizio del XX secolo, Papa Pio X condannò ufficialmente il modernismo, perché metteva in discussione alcuni dogmi fondamentali del Cattolicesimo. La tensione tra tradizione e cambiamento è evidente ancora oggi nelle posizioni del Vaticano in merito al clero femminile o alla contraccezione. Nel caso dell'Induismo, invece, la principale tensione tra modernità e tradizione riguarda il sistema ereditario delle caste, una forma gerarchica di stratificazione sociale, la cui prima descrizione si trova nei Veda, nei quali vengono identificate quattro classi sociali, chiamate varna, caratterizzate da diversi gradi di purezza. Con l'evolversi del sistema religioso induista, è stata introdotta una quinta categoria di persone, considerate tanto impure da non appartenere a nessuna casta, i cosiddetti intoccabili, chiamati oggi Dalit. Anche se la legge indiana ha abolito le caste, nelle aree rurali questo sistema continua a influenzare le relazioni sociali e le interazioni tra le persone. Le resistenze nei confronti del cambiamento a volte vengono espresse attraverso il fondamentalismo religioso, che, in diverse forme, richiede che la fede e i principi religiosi di una persona permeino ogni aspetto della sua vita privata e pubblica. La maggior parte dei movimenti fondamentalisti non attua la violenza e la loro presenza è diffusa in gran parte delle religioni: Cristianesimo, Induismo, Islam ed Ebraismo compresi. Il tradizionalismo islamico, o Islamismo, è un movimento che auspica una nuova diffusione, o la conservazione, dell'Islam tradizionale pre-moderno e oppone resistenza all'occidentalizzazione e alla globalizzazione. Quest'ideologia è diffusa in alcune frange della comunità musulmana da molto tempo, ma solo negli ultimi anni alcuni gruppi che fanno riferimento ad essa hanno iniziato a praticare atti di violenza e di terrorismo. 41 5. GEOGRAFIA CULTURALE E LA GLOBALIZZAZIONE 5.1 La globalizzazione oggi Oggi con il termine globalizzazione si intende l’insieme dei processi che contribuiscono a incrementare l’interconnessione e l’interdipendenza tra le persone, i luoghi e le organizzazioni di tutto il mondo. Sebbene la globalizzazione di cui oggi si parla sia il frutto, relativamente recente, della diffusione del capitalismo e del commercio e della finanza internazionale, la tendenza all'interconnessione spaziale su lunghe distanze è in atto da molto tempo. Di fatto la globalizzazione contemporanea, ha iniziato a manifestarsi negli anni Sessanta del secolo scorso, diffondendosi con particolare rapidità soprattutto a partire dagli anni Ottanta e Novanta, quando diventarono poi anche di uso comune le parole “globale” e “globalizzazione”. Ciò che distingue la globalizzazione contemporanea è soprattutto l'alto livello di interdipendenza finanziaria, politica e culturale che esiste oggi tra le diverse parti del mondo, in stretta relazione con la “compressione spazio-temporale” del globo. La globalizzazione contemporanea implica contemporaneamente: (a) un’espansione orizzontale (da luogo a luogo), attraverso veloci flussi di beni, persone e idee che connettono tutti, o quasi, i luoghi della Terra; (b) (b) un'espansione verticale (dai soggetti locali alle grandi organizzazioni mondiali) che istituzionalizza, rafforza e rende stabili questi legami, nei vari luoghi, come capita ad esempio con le istituzioni internazionali della finanza e del commercio. La globalizzazione è al tempo stesso la causa e l'effetto dell'interazione spaziale. Essa è stata favorita in parti-colare da cinque fattori: 1. La ricerca di mercati su scala globale, conseguente all'affermazione del capitalismo. Questo comprende anche l'individuazione di luoghi nei quali le materie prime possono essere acquisite a minor costo e i beni possano essere prodotti e distribuiti con maggiori profitti. 2. Le innovazioni tecnologiche a tal scopo più efficaci, specialmente nel campo dei trasporti, delle telecomunicazioni e della comunicazione digitale. 3. La riduzione dei costi e dei tempi dei trasporti e delle comunicazioni. 4. Un aumento dei flussi di capitale finanziario, come risultato deI commercio, degli investimenti internazionali e della speculazione sulle valute e sui titoli di credito. 5. La diffusione di politiche, leggi e assetti istituzionali che hanno favorito i quattro fattori precedenti. Uno dei cambiamenti politici legati all’affermazione della globalizzazione è la creazione, nel 1995, dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (conosciuta internazionalmente come World Trade Organization o WTO). L'obiettivo principale della WTO, del quale fanno parte più di 150 stati, è quello di istituire ed attuare una regolamentazione in senso liberista del commercio internazionale. Tra gli aspetti principali della globalizzazione ci sono l'aumento dell'importanza del ruolo delle imprese multinazionali nell'economia mondiale e un incremento degli investimenti diretti all'estero e dei flussi di capitale che si spostano in tutto il mondo. Ciò che caratterizza le imprese multinazionali (o transnazionali) è il possesso di uffici o stabilimenti in diversi stati. Per finanziare le proprie attività, le multinazionali trasferiscono denaro proprio, o preso a prestito da banche (anch'esse multinazionali), ai paesi stranieri nei quali hanno delle sedi o degli interessi, mettendo in atto quelli che vengono definiti investimenti diretti all’estero (IDE). Ne è un esempio l'acquisto o la costruzione di impianti per la produzione di beni in un paese diverso da quello della casa madre dell'azienda. Il giudizio sugli effetti degli IDE è controverso: da un lato essi aumentano i flussi di capitale rivolti verso un paese e possono contribuire a promuovere le attività economiche, aumentare l'occupazione e favorire il trasferimento di conoscenza, tecnologie ed infrastrutture; dall'altro, però, gli IDE delle multinazionali limitano la concorrenza delle imprese locali, che non hanno le stesse risorse finanziarie. Capitalismo: sistema economico e sociale in cui il capitale produttivo è detenuto di regola da privati (individui o società), che lo utilizzano per ottenere profitti dalla vendita dei beni e servizi prodotti da lavoratori dipendenti, per poi reinvestirli in attività produttive o finanziarie al fine di accrescere il capitale stesso. 42 5.4 La mercificazione della cultura La cultura è una creazione sociale, plasmata dalle persone e che le influenza a sua volta, che consiste nell’insieme dinamico delle pratiche e delle credenze condivise da un gruppo di persone. Le manifestazioni, o espressioni, della cultura, possono prendere forme materiali o immateriali: la cultura materiale include gli artefatti, strumenti e strutture tangibili e visibili create dalle persone; la cultura immateriale, invece, non è tangibile ed è legata alle tradizioni orali e alle pratiche di comportamento. La geografia culturale è una branca della geografia umana che attribuisce particolare importanza alle idee e alle attività delle persone e alle modalità con le quali esse sono diverse da un luogo all'altro o si relazionano con l'ambiente e il paesaggio. I geografi culturali sono particolarmente interessati alla mercificazione della cultura, cioè sia alla trasformazione in merce delle espressioni culturali materiali e immateriali, sia ai modi con cui la nostra cultura influenza i nostri consumi e ne è a sua volta influenzata. Mercificazione: è la trasformazione in un bene di mercato di un oggetto, un concetto o una procedura, originariamente privi di una destinazione commerciale. Consumo: è in senso generale, l'utilizzo di beni per soddisfare i bisogni e i desideri dell'uomo. PUBBLICITÀ, MERCIFICAZIONE E PRATICHE CULTURALI La pubblicità è una delle principali forze che influenzano i modelli di consumo, sia alla scala locale, che globalmente. La pubblicità è studiata per influenzare il comportamento dei consumatori, con la creazione di bisogni attraverso l'uso di immagini, testi, simboli e slogan. L’esempio del commercio dei diamanti mette in luce alcuni dei modi in cui i beni materiali possono influenzare le pratiche culturali. Proviamo a pensare alle pubblicità sui diamanti che vediamo più spesso. Se siamo convinti che “un diamante è per sempre”, significa che abbiamo fatto nostro uno dei più diffusi, familiari e longevi slogan commerciali dell'industria dei diamanti, lanciato dalla De Beers negli Stati Uniti, nel 1947. L'idea che le imprese che si occupano di diamanti cercano di trasmettere è che queste gemme sono associate all'amore eterno, che mantengono il proprio valore nel tempo e che sono simboli di bellezza, valore, felicità e prestigio sociale. Grazie a questa strategia, il gesto di regalare un anello di fidanzamento con un diamante è diventato un rito diffuso e standardizzato. Il mercato non solo ha influenzato le culture materiali, ma coinvolge con forza sempre maggiore anche le culture immateriali delle comunità indigene, che rappresentano una possibile opportunità di scambi commerciali e guadagni economici. Un noto esempio di questo processo è rappresentato dall'haka, danza rituale collettiva tipica della cultura immateriale degli indigeni Maori, della Nuova Zelanda, che nell'ultimo decennio è entrata pienamente a far parte delle logiche del mercato, a causa del suo utilizzo da parte degli All Blacks, i giocatori della nazionale neozelandese di rugby. La mercificazione della cultura viene contestata, soprattutto perché da essa le persone derivano gran parte del proprio senso di identità e nello specifico, la controversia sull'utilizzo dell'haka solleva sia questioni di proprietà, sia problemi di confini culturali. Per esempio, chi dovrebbe avere il diritto di decidere riguardo all’uso di simboli culturali, come l'haka, o alla rappresentazione dei popoli e delle loro pratiche culturali? E ancora, fino a che punto alcuni aspetti della cultura possono venire trattati come beni commerciali? Chi stabilisce qual è il limite oltre il quale non ci si può spingere? L’INDUSTRIA DEL PATRIMONIO Industria del patrimonio: imprese che gestiscono o traggono profitti dalle eredità del passato, come tradizioni musicali, musei, monumenti o siti storici e archeologici. Le discussioni sulla mercificazione e sull’autenticità dell’eredità culturale riguardano anche la cosiddetta industria del patrimonio. Il geografo inglese David Lowenthal, ha tracciato un'evoluzione del significato di questo termine che nella sua traduzione inglese, heritage, fino a non molto tempo fa, indicava quasi esclusivamente un'eredità.Oggi il termine heritage, che in italiano viene comunemente tradotto con patrimonio, indica invece l’insieme dei beni culturali del passato. La trasformazione del patrimonio in un'attrazione, spesso implica una mercificazione del passato. Ciò può essere fonte di tensioni e di conflitti quando a uno stesso bene culturale è attribuito un significato diverso o è oggetto di pratiche d'uso diverse, come capita ad esempio per le moschee 45 oggetto di visita turistica. Oppure ancora quando si usa un'immagine o un testo sacro per fare la pubblicità di un prodotto commerciale. IL PATRIMONIO MONDIALE DELL’UMANITÀ Patrimonio dell'Umanità dell’Unesco: sono luoghi specifici(come una foresta, montagna, porzione di paesaggio, città, edificio, complesso archeologico e così via) che sono stati riconosciuti a livello internazionale come sito di eccezionale qualità culturale o naturale. UNESCO: organizzazione delle Nazioni Unite per I'Educazione, la Scienza e la Cultura, fu fondata nel 1945 per incoraggiare la collaborazione tra le nazioni nelle aree dell’educazione, scienza, cultura e comunicazione. Attualmente conta 192 membri, vale a dire quasi tutti i paesi del mondo. Con patrimonio mondiale si indicano quei siti ai quali viene attribuito un valore eccezionale ed universale per tutta l'umanità. Le campagne per la protezione del patrimonio mondiale, si sono intensificate soprattutto nella seconda metà del secolo scorso sotto la guida dell'UNESCO. I siti che entrano a far parte della lista del Patrimonio Mondiale dell'Umanità possono essere classificati come siti culturali, siti naturali, paesaggi culturali o siti misti. Alla lista del Patrimonio Mondiale dell'Umanità (World Heritage List) è stato riconosciuto un importante ruolo nell'aumento della consapevolezza riguardo alle risorse culturali globali e, in alcuni casi, nell'aver stimolato lo sviluppo di nuove destinazioni turistiche, anche se non sono mancate le critiche nei suoi confronti, dovute principalmente a quattro ordini di motivi. Il primo è l'eccessiva percentuale di siti europei, compresi edifici e luoghi legati al Cristianesimo, che riflette un certo pregiudizio eurocentrico nella sua composizione. Secondo, quando un luogo viene riconosciuto come Patrimonio dell'Umanità, genera un flusso di turisti che in alcuni casi può interferire con l’utilizzo locale del bene e sovente ne minaccia la conservazione. Terzo, la gestione e la conservazione di questi siti può diventare così molto costosa. Infine alcuni critici mettono in discussione l'opportunità di parlare di un patrimonio mondiale, dal momento che l'eredità culturale, è sempre legata alle caratteristiche del gruppo al quale essa appartiene. In realtà il vero patrimonio mondiale è la diversità o varietà culturale di cui i siti dell’Unesco sono solo un’espressione. Diversità o varietà culturale: è il contrario dell'omogeneità culturale e consiste nel fatto che i diversi gruppi umani, alle diverse scale, fino a quella locale, conservino le loro differenze culturali pur trasformandosi continuamente. 5.5 Geografia culturale dei saperi locali Il folklore si riferisce in particolare a quei gruppi di persone i cui membri condividono gli stessi tratti culturali e vivono prevalentemente in aree rurali, con meno occasioni di contatto con l'economia di mercato globalizzata. Quindi la distinzione tra cultura di massa e folklore si fonda sui cambiamenti sociali legati alla crescita del capitalismo e alla diffusione dell'industrializzazione come veicolo della modernità. In passato questa distinzione corrispondeva a quella tra società rurali e società urbane, ma in seguito l'utilizzo del termine rurale sollevò alcuni problemi, poiché c'era il rischio che le culture così definite venissero viste semplicemente come arretrate, come residui del passato. In Italia Antonio Gramsci e Ernesto De Martino, sempre con principale riferimento alle società rurali meno industrializzate, hanno introdotto il concetto di cultura popolare per indicare quella parte di cultura tradizionale, propria delle classi subalterne, non ancora completamente trasformata in cultura di massa che la oppone alla cultura “colta” o “egemonica”, propria delle classi dominanti. Oggi, con l'avanzare della modernizzazione delle campagne e della globalizzazione è sempre più difficile distinguere tra cultura di massa, folklore e cultura popolare, per cui in questa sede preferiamo parlare di cultura locale. Cultura locale: le pratiche, i comportamenti e le preferenze condivise dai membri di una comunità che interagisce con le caratteristi che naturali e storiche di un certo ambiente locale. 46 IL SAPERE LOCALE I geografi ed altri studiosi usano il termine sapere locale per indicare la conoscenza collettiva di una comunità, che deriva dalle attività e dalle esperienze quotidiane di ciascuno dei suoi membri con milieu sociale e territoriale in cui è inserito. Il concetto di sapere locale viene descritto con chiarezza da tre sue caratteristiche: 1. Il sapere locale di solito viene tramandato oralmente e sono rare le fonti scritte che lo attestano. In molti casi questa trasmissione orale viene accompagnata da attività o racconti, che aiutano a mostrare una procedura o rafforzare una determinata pratica. 2. Il sapere locale è dinamico e in continua evoluzione e si modifica in seguito a nuove scoperte o nuove informazioni 3. Il sapere locale non è un'entità unica e monolitica. All'interno di una comunità sono conservati diversi saperi locali, posseduti dai singoli individui e gruppi, per questo potrebbe essere più corretto parlare di saperi locali, al plurale. Le conoscenze locali spesso offrono degli strumenti per la risoluzione dei problemi, sia individuali che collettivi, nel lungo periodo, contribuendo all'affermazione di un modello di sviluppo sostenibile, secondo il quale l'uso e la gestione delle risorse necessarie per soddisfare i bisogni economici e sociali devono essere tali da non compromettere la possibilità per le generazioni future di fare lo stesso. Medicina tradizionale: pratiche mediche, derivate da conoscenze e credenze antiche sul funzionamento del corpo umano, utilizzate per mantenere la salute o guarire delle situazioni di malessere. Le medicine tradizionali rappresentano una riserva fondamentale di saperi locali, diversi in ogni parte del mondo, i cui depositari possono essere figure dai titoli più svariati: guaritori, erboristi, aggiusta-ossa, spiritisti. Nonostante il proprio nome, la medicina tradizionale in alcuni casi può essere anche del tutto convenzionale, soprattutto dove viene praticata dalla maggioranza della popolazione o costituisce la base del sistema sanitario di una nazione. La maggior parte degli approcci alla medicina tradizionale condivide due principi: l'essere olistica e personalizzata. Un approccio olistico alla medicina considera la salute come la somma di tutte le dimensioni della vita di una persona: non solo quella fisica, ma anche quella mentale, sociale e spirituale. L'approccio personalizzato, invece contempla la possibilità che a due persone che presentano esattamente gli stessi sintomi vengano prescritti trattamenti diversi. La medicina tradizionale, che rappresenta la forma più antica di medicina praticata dal genere umano, viene spesso contrapposta alla medicina allopatica, talvolta chiamata medicina moderna o occidentale. Medicina allopatica: pratiche mediche che cercano di curare o prevenire le malattie attraverso farmaci testati e sperimentati secondo procedure scientifiche e sperimentazioni cliniche. Spesso i saperi tradizionali relativi a questioni come l’utilizzo delle piante medicinali o le risorse idriche mostrano una profonda consapevolezza delle caratteristiche dei luoghi e del funzionamento dell’ambiente. In alcune parti del Medio Oriente, del Nord Africa, dell'Asia Centrale e dell'Europa Mediterranea, uno degli elementi più diffusi delle pratiche tradizionali in materia di utilizzo dell'acqua sono i qanat persiani (chiamati foggara nella regione sahariana), antichi sistemi di captazione delle acque che utilizzano gallerie drenanti sotterranee attraverso le quali l'acqua viene portata ai villaggi, per l'irrigazione e per gli usi domestici. Architettura tradizionale: strutture architettoniche di uso comune (abitazioni, edifici rurali ecc.) presenti in un determinato luogo, periodo storico o comunità. Lo studio dell'architettura tradizionale ha avuto rapporti molto stretti con la geografia umana, in virtù delle prospettive che riesce ad offrire sull'utilizzo dello spazio da parte dell'uomo, sia per quanto riguarda la forma delle case e degli edifici e il loro rapporto con il sito, sia relativamente alla pianta dei villaggi o di altri tipi di insediamenti. Essa risponde a specifici bisogni, in accordo con i valori, le economie e i modi di vita delle culture che la producono. Gli insediamenti spontanei e gli edifici tradizionali vengono costruiti utilizzando i materiali e le risorse disponibili localmente e rispondono alle condizioni ambientali, alle pratiche culturali e ai bisogni del territorio nel quale sorgono. Nell'Asia orientale e meridionale gli edifici costruiti secondo i principi dell'architettura tradizionale rispecchiano anche il rispetto e l'obbedienza a forze cosmiche. 47 L'indicatore più comune dello sviluppo economico è il Prodotto Interno lordo o PIL che consiste nel valore monetario complessivo dei beni e dei servizi prodotti all'interno dei confini geografici di un paese. Il rapporto tra il PIL di un dato anno ed il totale della popolazione di un paese, nello stesso anno, determina il PIL pro capite, che riflette la produzione media per persona. Per semplificare i confronti a livello internazionale, è consuetudine rendere paragonabili i valori, attraverso la parità di potere d'acquisto. Nella sua forma più basilare, la parità di potere d'acquisto (PPA) è un tasso di cambio utilizzato per comparare produzione, reddito o prezzi fra paesi che utilizzano valute diverse.La parità di potere d'acquisto si basa sull’idea che il prezzo di un bene o di un servizio in un paese dovrebbe eguagliare il prezzo dello stesso bene o servizio in un altro paese quando viene convertito in una valuta comune. Gli economisti spesso utilizzano il prodotto interno lordo come misura dello sviluppo economico e, analizzandone l'evoluzione nel corso del tempo, come misura di crescita o declino economico. Tuttavia, questo indicatore ha tre limiti importanti. Innanzitutto riflette soltanto il valore monetario delle entrate ufficiali generate dall'economia formale, non riuscendo ad intercettare il valore dei beni e servizi prodotti attraverso l'economia informale, una componente chiave delle economie dei paesi in via di sviluppo. In secondo luogo non fornisce informazioni sulla uniformità o sulla diseguaglianza di distribuzione della ricchezza all'interno di un paese. Infine, questi indicatori non tengono in considerazione i costi sociali ed ambientali associati al consumo di risorse utilizzate nella produzione dei vari beni e servizi. Un'altra questione legata allo sviluppo è quella della povertà. Il tasso di povertà, cioè il numero di persone povere sul totale della popolazione è la misura più comunemente utilizzata per esprimere l'incidenza della povertà in una data popolazione. Data la complessità del fenomeno nelle rilevazioni statistiche, tale tasso viene calcolato per due livelli di povertà. La povertà assoluta è quella di chi non riesce ad accedere ai beni e servizi essenziali per conseguire uno standard di vita accettabile, e quindi, quando è impossibile soddisfare i bisogni umani fondamentali. La povertà relativa si riferisce a quanti non aggiungono il livello di risorse necessario per soddisfare gli standard minimi della società in cui vivono, consiste, ovvero, nella mancanza di un livello socialmente accettabile di risorse o di reddito rispetto ad altri all’interno di una società. INDICATORI SOCIO-DEMOGRAFICI Gli indicatori socio-demografici forniscono informazioni sullo stato sociale di una popolazione, ne fanno parte per esempio, i dati sulla diffusione delle malattie oi livelli di istruzione ed educazione. Il tasso di alfabetizzazione è la percentuale di popolazione di un paese sopra i 15 anni in grado di leggere e scrivere. Il tasso di alfabetizzazione supera il 90% nelle aree sviluppate, ma cala al 60% di media nei paesi in via di sviluppo. Solo in cinque paesi africani ed in Afghanistan questo tasso è inferiore al 30%. In Italia il tasso di alfabetizzazione è intorno al 90%. Gli indicatori socio-economici sono interconnessi: la nutrizione, per esempio, può determinare le condizioni di salute, le quali, a loro volta, incidono sulla capacità di lavorare. Fame e malnutrizione sono problemi diffusi che determinano le conseguenze più gravi sui bambini. La malnutrizione colpisce quasi un quarto dei bambini sotto i cinque anni nei paesi in via di sviluppo. Altri indicatori socio-demografici includono l'aspettativa di vita e il tasso di mortalità infantile. Tra i vari indicatori socio-demografici, i tassi di mortalità infantile sono considerati i più significativi in quanto evidenziano la perdita delle potenziali risorse umane di un paese. INDICATORI AMBIENTALI L'uso di indicatori ambientali è relativamente recente.Il loro sviluppo e impiego deriva principalmente dalla Conferenza ONU su Ambiente e Sviluppo del 1992, nata dalla diffusa preoccupazione sull'impatto globale di problemi ambientali, come l'inquinamento e la riduzione della biodiversità .La conferenza si è focalizzata sulla ricerca di strumenti per rendere uno sviluppo ecologicamente sostenibile una priorità per tutti i paesi. L'Agenda 21(dove 21 sta per 21° secolo), il piano d'azione derivato dal summit, ha incoraggiato governi e altri enti a sviluppare indicatori ambientali che potessero essere utilizzati per valutare lo sviluppo sostenibile. Da allora, sono stati definiti centinaia di differenti indicatori, tra i quali la frequenza di rischi ambientali come allagamenti, siccità e terremoti; la riduzione della biodiversità e l'accesso all'acqua potabile. 50 Le differenze nello sviluppo sono il risultato di condizioni variegate e interconnesse, che comprendono anche le condizioni geografiche, oltre a quelle economico-strutturali e istituzionali. Si parla a questo proposito della “dotazione geografica” di un paese. Un certo numero di paesi, ad esempio, sono privi di sbocco sul mare, hanno terreni poco fertili, e devono sopportare il peso di gravi malattie, come la malaria e l'HIV/AIDS. Le condizioni geografiche sono solo uno degli elementi del complesso quadro dello sviluppo: la discriminazione contro gruppi etnici o minoranze può marginalizzarle o escluderle totalmente dall'accesso a servizi pubblici, come l'istruzione o la sanità. In alcuni casi, un processo di sviluppo mal governato può condurre ad una maggiore vulnerabilità nei confronti dei disastri naturali: la rapida urbanizzazione, per esempio, può favorire la costruzione di abitazioni su versanti instabili o pianure alluvionali inondabili. Oggi, un altro aspetto dello sviluppo sostenibile riguarda l'esame della vulnerabilità e la resilienza. La vulnerabilità si riferisce a quanto un paese o un gruppo sia incline a subire shock economici, ambientali o di altra natura, mentre la resilienza si riferisce alla capacità di resistere o opporsi a quegli stessi shock. Dal momento che entrambe sono condizioni dai molteplici aspetti, per valutarle è utile utilizzare degli indici, uno dei quali è l'indice di vulnerabilità ambientale (IVE). L’INDICE DI SVILUPPO UMANO E IL BES Molti esperti sostengono che gli indicatori da soli non siano insufficienti per valutarne i reali cambiamenti. Di conseguenza i geografi e gli altri studiosi sono interessati a combinare una serie di indicatori economici, socio-demografici e ambientali per creare indici che forniscano una valutazione più ampia e inclusiva dello sviluppo di un paese. Nel 1990 il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (United Nations Development Programme, UNDP) per misurare lo sviluppo a livello mondiale al fine di proporre strategie di miglioramento, adottò l'Indice di sviluppo umano (ISU), la prima misura dello sviluppo che include anche informazioni sul benessere, la salute e l'istruzione della popolazione di un paese, in unica misurazione statistica. L'indice di sviluppo umano si compone di quattro diversi indicatori: - il PIL pro capite; - la speranza di vita; - il tasso di scolarizzazione fra gli adulti; - il tasso lordo di partecipazione scolastica (il totale di iscrizioni scolastiche rispetto alla percentuale della popolazione in età scolare). Lo sviluppo umano tuttavia riguarda la creazione di un ambiente in cui le persone possano sviluppare pienamente il proprio potenziale e condurre una vita produttiva e creativa, anche in accordo con i propri bisogni ed interessi. Sviluppo significa quindi ampliare le possibilità di scelta delle persone nel condurre lo stile di vita che desiderano, partendo dal concetto di “qualità della vita”. Il concetto di benessere e delle sue componenti è legato a tradizioni e culture diverse da Paese a Paese. Per questo, per individuare i parametri per costruirlo bisogna coinvolgere i cittadini. Alcuni governi si sono già attivati in forme più o meno propagandistiche per conoscere il loro parere. In Italia il Cnel e l’Istat, hanno svolto un'indagine su un campione di 45.000 persone su cosa, secondo gli italiani, determina il benessere di una società e sono arrivati a calcolare un nuovo indice, quello di Benessere equo e sostenibile (BES), che integra indicatori economici, sociali e ambientali con misure di diseguaglianza e sostenibilità. SVILUPPO E GENERE Lo sviluppo ha un impatto differente su uomini e donne: se lo sviluppo umano è incentrato sulle possibilità di scelta delle persone, allora le opportunità e i diritti di donne e uomini devono essere considerati una componente cruciale dello sviluppo generale di una società. Per analizzare le disparità di genere nello sviluppo, L’UNDP ha creato e utilizzato altri due indici di sviluppo: l'indice di sviluppo di genere (ISG) e la misura della capacitazione (empowerment) di genere (MEG), limitati ai due generi principali. L’indice di sviluppo di genere consiste sostanzialmente nell'indice di sviluppo umano modificato per rendere conto delle ampie disuguaglianze nella situazione delle donne e degli uomini, penalizzando i paesi nei quali questo divario è maggiore o dove diminuiscono le conquiste sia degli uniche delle altre. Per rendere conto del benessere, tuttavia, l'indice di sviluppo di genere utilizza il reddito percepito stimato per uomini e donne al posto del prodotto interno lordo pro- capite. 51 A differenza dell'indice di sviluppo di genere, la misura della capacitazione di genere (MEG) valuta il livello di partecipazione delle donne al processo decisionale di un paese, sotto il profilo politico ed economico. La partecipazione economica e il relativo livello di capacitazione sono valutati tramite due indicatori: il reddito percepito stimato di donne e uomini e la proporzione di donne e uomini con impieghi di tipo tecnico o professionale. Uno dei limiti della MEG è che non riflette né tiene in considerazione l'empowerment a livello domestico. 6.2 Sviluppo e disuguaglianza di reddito Sebbene sia possibile utilizzare il reddito medio di un paese per avere un quadro generale della presenza o dell'assenza di povertà, le informazioni sulla distribuzione del reddito e la disuguaglianza di reddito sono rivelatrici, perché mostrano la quota di reddito posseduta dai gruppi più ricchi, rispetto ai più poveri. Distribuzione del reddito: il modo in cui il reddito è suddiviso fra differenti gruppi o individui. Disuguaglianza di reddito: il rapporto fra i redditi dei più ricchi e i redditi dei più poveri. I geografi dello sviluppo esaminano la distribuzione del reddito e la disuguaglianza di reddito a vari livelli e tra diversi raggruppamenti di paesi. L'organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) fu istituita nel 1961 per incrementare lo sviluppo, promuovendo la crescita economica e migliorando gli standard di vita dei suoi Stati membri. Da allora la sua missione si è ampliata, includendo l’assistenza finanziaria e di altra natura ai paesi in via di sviluppo. IL DIVARIO TRA RICCHI E POVERI A livello globale, la disuguaglianza di reddito è molto alta. La distribuzione del reddito mostra la concentrazione di ampie quote di reddito fra le élite, che costituiscono una minoranza della popolazione, creando un effetto definito a “coppa di champagne" sul modello di distribuzione del reddito. La disuguaglianza di reddito sta aumentando o diminuendo? Non esiste un consenso univoco, all'interno della comunità scientifica, riguardo queste tendenze, in parte perché c'è una variazione considerevole nella quantità e nella disponibilità dei dati relativi a questa condizione, in parte perché essa dipende dal periodo di tempo e dai paesi che vengono presi in esame. Per misurare la disuguaglianza di reddito, spesso si ricorre, come strumento statistico, al coefficiente di Gini, I valori di questo indicatore variano da 0 a 100: più i valori si avvicinano a 0, più il reddito è equamente distribuito, più si avvicinano a 100, maggiori sono le disuguaglianze. I coefficienti Gini più bassi registrati nel mondo sono rispettivamente il 24.7 della Danimarca ed il 24.9 del Giappone, mentre a livello globale si registra un valore di 67. Gli Stati Uniti hanno un coefficiente Gini di 40.8, il Brasile di 59.3, e la Namibia di 70.7. LA GLOBALIZZAZIONE E LA DISTRIBUZIONE DEL REDDITO La globalizzazione davvero essa è stata il più grande livellatore della storia? Ci sono due scuole di pensiero opposte su questo tema: la teoria neoliberista della distribuzione capillare e la teoria critica dell'ampliamento del divario tra i ricchi e i poveri. I sostenitori della prima tesi, ritengono che il mercato globale determini una convergenza o un’uguaglianza del reddito. Il commercio è essenziale, poiché conduce alla specializzazione, all'aumento della concorrenza e alla crescita della prosperità e affinché questi effetti di distribuzione capillare abbiano luogo, occorre rimuovere gli ostacoli alle relazioni commerciali. Al contrario, coloro che sostengono la teoria dell'ampliamento del divario tra ricchi e poveri affermano che la globalizzazione agisce contro le condizioni di parità. Uno dei motivi è che essa genera domanda di lavoratori qualificati, attribuendo un riconoscimento a coloro che hanno un'istruzione universitaria e una laurea: più la manodopera è qualificata, più è alto il potenziale di guadagno, mentre coloro che sono privi di competenze e istruzione hanno minori possibilità di competere e avere accesso ai posti di lavoro. In molti casi la globalizzazione può determinare quindi disoccupazione, la quale a sua volta influenza la distribuzione del reddito. Il livello di disuguaglianza di reddito in un paese può avere una serie di conseguenze gravi sullo sviluppo. In primo luogo, la disuguaglianza di reddito è associata ad una maggiore incidenza della povertà, che a sua volta può scoraggiare gli investimenti e lo sviluppo. Inoltre, la disuguaglianza di reddito 52 - Ridurre le tariffe; - Svalutare la moneta. • Deregolamentazione: - Ridurre il ruolo dello Stato nell’economia; - Privatizzare le imprese di proprietà dello Stato, - Ridurre la spesa statale per i servizi pubblici; - Liberalizzare le leggi sul lavoro; - Liberalizzare i regolamenti sugli investimenti esteri. I programmi di aggiustamento strutturale sono diventati il caposaldo del modello di sviluppo neoliberista che durante gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, influenzò le politiche del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Mondiale. Queste istituzioni finanziarie internazionali sono agenzie indipendenti all'interno del sistema delle Nazioni Unite. I programmi del FMI aiutano i paesi ad evitare crisi finanziarie e a sviluppare sufficienti esportazioni per pagare le merci importate, mentre una delle funzioni principali della Banca Mondiale è quella di favorire lo sviluppo a lungo termine, fornendo prestiti o altre forme di assistenza tecnica ai paesi in via di sviluppo. Fin dai primi anni Ottanta del secolo scorso, sia il neoliberismo, sia l'aggiustamento strutturale sono stati pesantemente criticati, in particolare per quanto riguarda i seguenti cinque punti. 1) Poiché i PAS richiedono minori spese statali e tagli nei servizi pubblici, le strutture sanitarie che ricevono finanziamenti statali sono costrette a diminuire le proprie ore di attività, licenziare personale o interrompere la fornitura di alcuni servizi: senza finanziamenti statali, queste strutture sono obbligate ad addebitare agli utenti il costo di certi servizi, rendendo ancora più difficile la possibilità, per i più poveri, di permettersi l'assistenza sanitaria. 2) I programmi di aggiustamento strutturale favoriscono l'eliminazione delle sovvenzioni all’agricoltura, in un'ottica di riduzione della spesa pubblica. Solitamente l'eliminazione dei sussidi fa aumentare il prezzo delle derrate alimentari. 3) Spesso gli aggiustamenti strutturali richiedono la svalutazione della valuta locale, che provoca l’aumento dei prezzi di tutti i beni d'importazione, siano essi medicine, apparecchiature o beni di consumo. 4) Questo tipo di programmi promuove lo sviluppo delle esportazioni, portando molti paesi in via di sviluppo ad adottare un modello di esportazione di prodotti agricoli o minerari, invece di diversificare la propria economia. 5) I programmi di aggiustamento strutturale rappresentano delle ingerenze della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale negli affari interni degli stati. Queste due istituzioni hanno spesso utilizzato criteri discutibili (come la svalutazione delle monete nazionali) come condizioni da soddisfare per ricevere aiuto o prestiti. LA STRATEGIA DELLA RIDUZIONE DELLA POVERTÀ E GLI OBIETTIVI DISVILUPPO DEL MILLENNIO Il grande numero di persone che vivono, a livello mondiale, nella povertà estrema e la prospettiva che l'aumento di popolazione negli anni a venire si verifichi, ha indotto un altro cambiamento di paradigma nella teoria dello sviluppo. Le strategie di riduzione della povertà sono state spesso definite in accordo con gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. L'ONU ha adottato i seguenti otto obiettivi indicati come Obiettivi del millennio (Mdg: Millennium development Goals), identificando il 2015 come, scadenza temporale per raggiungerli: 1. Eliminare la povertà estrema e la fame; 2. Raggiungere l'istruzione elementare universale; 3. Promuovere l'uguaglianza fra i sessi e conferire potere e responsabilità alle donne; 4. Diminuire la mortalità infantile; 5. Migliorare la salute materna; 6. Combattere l'HIV/AIDS, la malaria e altre malattie; 7. Assicurare la sostenibilità ambientale; 8. Sviluppare una collaborazione globale per lo sviluppo. La riduzione della povertà è fondamentale per il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio. La strategia della riduzione della povertà emerge da quattro principi chiave dello sviluppo. Il primo è che, essendo la povertà un problema complesso e sfaccettato, una sua riduzione richiede un approccio comprensivo, che mantenga in equilibrio la preoccupazione per la crescita economica ed un miglioramento del benessere sociale ed ambientale. 55 Il secondo principio è che sia il piano di azione per la riduzione della povertà che gli obiettivi ricercati debbano provenire dal paese in via di sviluppo invece che essere imposti da istituzioni esterne. Il terzo principio segue i primi due nel sostenere che le strategie di successo per lo sviluppo richiedano una partnership effettiva fra agenzie nazionali ed internazionali. Infine, lo sviluppo e la riduzione della povertà, per essere sostenibili, richiedono una prospettiva di lungo termine. Nel 2015 le Nazioni Unite hanno presentato un rapporto sul Mdg da cui, oltre alla riduzione della povertà estrema di cui si è detto, risulta che dal 1990 al 2015 il numero di bambini deceduti prima dei 5 anni di età è passato da 12,7 a 6 milioni l'anno. Quello dei bambini che hanno abbandonato la scuola elementare da 100 a 57 milioni. Quello delle persone che hanno accesso all'acqua potabile da 2,3 a 4,2 miliardi. 56 7. GEOGRAFIA DELL’AGRICOLTURA 7.1 L’agricoltura: origini e rivoluzioni Il nostro stile di vita è strettamente legato all'agricoltura e perfino dipendente da essa. Fino a non molti anni fa, la maggioranza della popolazione mondiale era impiegata in agricoltura, mentre oggi è il settore dei servizi ad occupare la maggior parte della forza lavoro globale (circa il 43%, contro il 34% degli impiegati in agricoltura). Questa riduzione della quota di lavoratori occupati in agricoltura, è espressione tanto della crescente urbanizzazione, quanto del ruolo sempre più rilevante della meccanizzazione e dell'industrializzazione del lavoro agricolo. LE ORIGINI DELL'AGRICOLTURA La caccia agli animali selvatici, la pesca e la raccolta di vegetali spontanei sono i metodi più antichi attraverso i quali l'uomo si è procacciato il cibo. La maggior parte dei gruppi di cacciatori e raccoglitori conduceva una vita nomade, che seguiva gli spostamenti della selvaggina e le variazioni della disponibilità di piante mature e pronte per il consumo. I gruppi che si dedicavano alla pesca, invece avevano maggiori possibilità di insediarsi permanentemente in un unico luogo. In ogni caso, le società di cacciatori, pescatori e raccoglitori non possono essere considerate agricole, poiché sfruttavano le piante e gli animali a disposizione in natura, senza addomesticarne alcuna specie. Oggi sono pochissime le società umane che si dedicano alla caccia e alla raccolta; in alcune aree periferiche del mondo, tuttavia, queste attività vengono ancora praticate da popolazioni di piccole dimensioni, come i San del Sudafrica, alcuni gruppi aborigeni australiani e i Moken del Myanmar. Dal punto di vista storico, il passaggio da società basate sulla caccia e la raccolta a società agricole, costituisce la prima delle tre radicali rivoluzioni che hanno trasformato il mondo. LA PRIMA E LA SECONDA RIVOLUZIONE AGRICOLA La prima rivoluzione agricola corrisponde alla nascita stessa dell'agricoltura, che ebbe inizio con i primi episodi di selezione di piante e addomesticamento di animali, a partire da circa 11.000 anni fa, nel vicino e medio Oriente. Le radici della seconda rivoluzione agricola risalgono invece alle nuove pratiche agricole, probabilmente di origine cinese, che si diffusero in Europa occidentale durante il Medioevo. La prima consiste nell'utilizzo di aratri dotati di vomeri metallici, che consentivano ai contadini di rivoltare le zolle anche nei terreni più pesanti. La seconda tecnica introdotta in quel periodo è invece costituita dalla sostituzione dei buoi coni cavalli, animali da lavoro molto più efficienti. Nel XVII e XVIII secolo, venne introdotta un'ulteriore innovazione, che permise di aumentare ulteriormente la produttività agricola. Si tratta della rotazione delle colture: invece di coltivare sempre lo stesso prodotto, impoverendo il suolo, si cominciò ad alternare le colture, inizialmente lasciando periodicamente i campi incolti (o a maggese), pratica sostituita in una fase successiva da una rotazione cioè un'alternanza di diverse coltivazioni, che consentì di utilizzare i campi senza interruzioni. La Rivoluzione Industriale, inoltre, portò ulteriori innovazioni, che resero l'agricoltura ancora più efficiente, un esempio delle quali è costituito dalla seminatrice meccanica. LA TERZA RIVOLUZIONE AGRICOLA La terza rivoluzione agricola è il frutto delle innovazioni tecnologiche e delle nuove pratiche colturali che si diffusero nel XX secolo, come la meccanizzazione estensiva, il massiccio utilizzo dell'irrigazione artificiale, la diffusione di fitofarmaci e fertilizzanti chimici e le biotecnologie. L'invenzione del motore a combustione interna, aprì la strada alla massiccia meccanizzazione dell’agricoltura, resa possibile dalla maggior potenza e maneggevolezza dei trattori e delle macchine agricole. I trattori contribuirono alla trasformazione dell'agricoltura moderna sotto quattro aspetti principali: innanzitutto ridussero drasticamente il numero di lavoratori necessari per svolgere la maggior parte della attività, migliorando nello stesso tempo l'efficienza e la produttività del lavoro; inoltre, l'utilizzo delle macchine a motore permise di lavorare estensioni molto maggiori di terreno in una giornata di lavoro; i trattori facilitarono poi il passaggio dalla 57 L’AGRICOLTURA DI MERCATO Nell'agricoltura commerciale, o di mercato, i contadini e le loro famiglie non sono i principali consumatori dei beni agricoli che producono, destinati in gran parte ad essere venduti alle aziende trasformatrici dell'industria agro-alimentare, per questo spesso chiamata agribusiness. Una delle caratteristiche tipiche di questo settore è l'integrazione verticale, che prevede che una singola azienda controlli due o più fasi della produzione e distribuzione di un bene. Le imprese dell'industria agroalimentare(es. Kraft, Kellogg’s, Ferrero in Italia) considerano gli agricoltori come propri fornitori, con i quali negoziare dei contratti per assicurarsi le forniture di carne, cereali ed altri prodotti che verranno poi utilizzati per produrre cibi confezionati. Per molto tempo le piantagioni sono state associate alla produzione di colture commerciali destinate all'esportazione sui mercati internazionali, come ad esempio il caffè, il tè, le palme da olio e la canna da zucchero. In tal modo molti paesi in via di sviluppo sono diventati fortemente dipendenti dall'esportazione di materie prime di base, su cui si basa gran parte della loro economia nazionale. Alcune colture commerciali, non vengono coltivate solo nelle grandi piantagioni, ma anche da piccoli produttori, in particolare per quanto riguarda il cacao, il caffè e le noci di cocco. Le prime piantagioni furono quelle di canna da zucchero, create in Africa dai Portoghesi nel XV secolo, la cui coltivazione veniva affidata agli schiavi. Ancora oggi la cura, il raccolto e la lavorazione di questo tipo di coltivazioni vengono affidati ad una manodopera scarsamente qualificata, elemento che contribuisce a perpetuare una società fortemente dualistica, caratterizzata dalla presenza di due grandi classi sociali, quella elevata, costituita da coloro che gestiscono le piantagioni e quella inferiore, composta da chi vi svolge i lavori agricoli. Spesso, inoltre, le piantagioni sono di proprietà di gran di società multinazionali europee o nordamericane. Orticoltura commerciale: produzione intensiva di frutta non tropicale, ortaggi e fiori destinati alla vendita sul mercato. Le aree dedicate all'orticoltura commerciale si sviluppavano un tempo attorno alle aree urbanizzate, rifornendo di prodotti freschi gli abitanti della città. Oggi questi sistemi sono cambiati, grazie allo sviluppo delle reti infrastrutturali ed al potenziamento del settore degli autotrasporti. A partire dalla seconda guerra mondiale, negli Stati Unitisi è sviluppata una forma di agricoltura di mercato conosciuta come truck farming, caratterizzata da grandi aziende agricole, solitamente specializzate in un solo prodotto, spesso distanti dai propri mercati di riferimento, che fanno grande affidamento su manodopera stagionale, proveniente anche da molto lontano, soprattutto durante la stagione del raccolto. Le regioni che si affacciano sul Mar Mediterraneo sono il focolaio dell'agricoltura mediterranea, che nella sua forma tradizionale può essere considerata una varietà di agroforestazione, fondata sull'integrazione tra l'allevamento di bestiame, la coltivazione di un cereale e quella di alberi da frutto (spesso agrumi), viti o ulivi. Come l'orticoltura commerciale, anche l’agricoltura mediterranea è spesso specializzata e si è diffusa in altre parti del mondo con climi simili a quelli del focolaio originario, come nella Central Valley californiana o intorno alla città di Valparaiso in Cile. L'allevamento commerciale di animali da latte è un'attività agricola intensiva ed altamente meccanizzata, poiché gli attuali metodi per la produzione di latte si fondano sull'utilizzo di attrezzature. É un allevamento stabulare, cioè praticato nella stalla, con animali nutriti con i mangimi. Nonostante l'alto livello di meccanizzazione, l'allevamento di animali da latte prevede anche un lavoro costante da parte della manodopera umana, a cui spetta il compito di presiedere due volte al giorno alla mungitura, controllare che non abbiano malattie e che producano la quantità e la qualità di latte desiderata. Tra i sistemi agricoli più diffusi vi sono quelli che integrano la produzione di foraggio con l'allevamento del bestiame al quale questo è destinato e dal quale proviene solitamente la maggior parte dei ricavi dell'azienda agricola, attraverso la vendita e la trasformazione dei prodotti di origine animale. 60 Oggi la specializzazione agricola ha trasformato profondamente questi sistemi e in molte regioni d’Europa, la coltivazione di foraggio per l'allevamento ha lasciato il posto alla produzione di granoturco e di specie oleose come la colza. Nel Corn Belt, (nel Midwest statunitense, tra l'Ohio e il Nebraska) invece, i cambiamenti hanno preso due strade prevalenti. La prima è quella, delle grandi industrie cerealicole commerciali che ottengono più del 50% dei propri ricavi dalla vendita di granoturco e soia solitamente alternando su base annuale la loro coltivazione. La seconda attività rurale è rappresentata invece dall'allevamento intensivo, solitamente di suini, in vere e proprie fabbriche agricole. Factory farm (Fattoria-fabbrica): azienda agricola intensiva, caratterizzata da un’altissima concentrazione di bovini, suini o pollame, in strutture realizzate per ottimizzare il processo di alimentazione del bestiame. Cerealicoltura commerciale: sistema agricolo che prevede una monocoltura di cereali altamente meccanizzata e su vasta scala. Allevamento estensivo di bestiame: forma di agricoltura che prevede l'allevamento brado di grandi mandrie di bestiame o greggi di pecore destinate al macello. Agricoltura estensiva: sistema agricolo caratterizzato da uno scarso uso di forza lavoro, capitali e macchinari per unità di terreno coltivato. L'elemento di base della dieta della maggior parte di noi è costituito da un cereale, che può essere frumento, riso, granoturco, avena, orzo, miglio o sorgo, a seconda delle nostre abitudini e della parte del mondo in cui viviamo. Tutte queste colture, oltre ad essere fondamentali per l'alimentazione umana ed animale, spesso hanno anche molteplici usi nell'industria. La cerealicoltura commerciale è strettamente associata ad ambienti caratterizzati da climi temperati, da grandi estensioni di terreni pianeggianti o leggermente ondulati. Un sistema agricolo di questo genere è stato reso possibile dalla diffusione della meccanizzazione, che lo rende dipendente dai combustibili fossili utilizzati per produrre i fertilizzanti e per far funzionare i mezzi agricoli. I terreni poco adatti ad usi agricoli vengono spesso destinati all'allevamento estensivo di bestiame, soprattutto nelle regioni aride e semiaride. Entrambi i sistemi agricoli sopra descritti possono essere considerati esempi di agricoltura estensiva. LE VARIAZIONI SPAZIALI DELL'AGRICOLTURA È possibile prevedere quali terreni utilizzerà un'azienda agricola e a quali coltivazioni li dedicherà, conoscendone la posizione rispetto al suo mercato di riferimento? Johann Heinrich von Thünen (1783-1850), agricoltore, studioso e proprietario terriero, in anni di spostamenti tra la propria fattoria e le città dove vendeva i propri prodotti, si rese conto che il tipo di coltivazioni variava in base alla distanza dai centri di mercato. Da queste osservazioni lo studioso tedesco dedusse un modello conosciuto oggi appunto come modello di von Thünen con il quale intendeva descrivere le variazioni spaziali dell'agricoltura di mercato. Von Thünen ipotizzò che i costi di trasporto verso i centri di mercato rappresentino. una variabile fondamentale nel definire quanto possa essere redditizio l'utilizzo di un terreno agricolo, in base al principio economico secondo il quale anche le decisioni relative all’uso dei terreni siano improntate al perseguimento del maggior profitto possibile. Anche se la maggior parte degli ortaggi e dei fiori recisi vengono da paesi lontani, attorno (e persino dentro) alle città persistono colture orticole e vivaistiche, inoltre anche una grossa parte del latte proviene dalle zone rurali ad esse adiacenti. Nello stesso tempo i prodotti del pascolo e della cerealicoltura estensiva vengono in gran parte da zone “periferiche” sia alla scala nazionale, sia a quella mondiale (Australia, Brasile, Argentina, Asia centrale ecc.). 7.3 Agricoltura, ambiente e globalizzazione L'agricoltura e l'ambiente sono sfere della realtà intimamente interconnesse. Le caratteristiche del suolo o le condizioni climatiche di un'area possono influenzare le decisioni relative all'utilizzo dei 61 terreni o alla scelta delle coltivazioni. Nello stesso tempo, anche l’agricoltura ha un forte impatto sull’ambiente. LA DESERTIFICAZIONE Desertificazione: grave isterilimento dei terreni in zone non naturalmente desertiche, a causa delle attività umane o per motivi naturali. Tanto l'azione umana, quanto i cambiamenti climatici possono contribuire alla desertificazione. L'eccesso di sfruttamento dei pascoli, per esempio, danneggia la vegetazione, mentre una cattiva gestione dei cicli colturali può produrre un impoverimento dei suoli, creando in entrambi i casi ambienti non più adatti a sostenere le attività agricole o pastorali. Perfino l’irrigazione può avere effetti deleteri per l'ambiente e per la fertilità dei terreni. Nei suoli poco permeabili una sbagliata irrigazione può produrre ad una saturazione idrica del terreno ed alla morte delle coltivazioni. Nelle regioni aride e semiaride, dove i tassi di evaporazione sono particolarmente elevati, un ulteriore grave problema è rappresentato dalla salinizzazione dei terreni, che porta ad una drastica diminuzione della loro produttività. Un altro pesante impatto dell'agricoltura sull'ambiente è infine quello rappresentato dall'utilizzo di fertilizzanti chimici, diserbanti, pesticidi e fungicidi, che spesso defluiscono dai terreni, andando ad inquinare anche le acque superficiali e sotterranee. L'AGRICOLTURA SOSTENIBILE Agricoltura sostenibile: tecniche agricole che permettono un'accurata gestione delle risorse e riducono al minimo gli impatti negativi dell'agricoltura sull’ambiente, senza compromettere la sua redditività. I pesanti impatti ambientali dell’agricoltura hanno spinto gli esperti a mettere in dubbio la capacità di questo settore di provvedere alle necessità delle generazioni future. Questo ha portato ad un aumento dell'interesse nei confronti dell'agricoltura sostenibile, che ricorre a metodi e tecniche che consentono di conservare le risorse idriche ed il suolo, tra le quali: I'aratura secondo le curve di livello o a giropoggio, la coltivazione a strisce, alternando colture a filare (es. cotone) con colture erbacee (es.soia o erba medica) o la creazione di fasce tampone di vegetazione frangivento. Altri metodi di agricoltura sostenibile sono la rotazione delle coltivazioni, che permette di prevenire problemi legati alle malattie e alle piante infestanti, e tutte quelle azioni che consentono di ridurre la dipendenza dai combustibili fossili, specialmente il petrolio. L'agricoltura tecnologicamente avanzata fa anche uso di tecnologie come il GPS e le immagini aeree per misurare e mappare le variazioni spaziali delle condizioni ambientali all'interno di un campo o di un'area coltivata. Ma pare le condizioni del suolo dalle diverse sezioni di un terreno, permette di definire una geografia della fertilità, che può essere utilizzata per programmare i macchinari agricoli in modo che applichino quantità di fertilizzanti diverse a seconda delle esigenze di ciascun settore dell’area coltivata. Va sottolineato, tuttavia, che alcuni esperti contestano l'attribuzione dell'etichetta di sostenibilità all'agricoltura tecnologicamente avanzata, dal momento che essa solitamente sostiene un largo uso di prodotti chimici, la cui produzione richiede grandi quantità di energia e può inquinare le falde e minacciare la biodiversità. Un altro segnale della sempre più diffusa preoccupazione per gli impatti ambientali dell'agricoltura è rappresentato dalla crescente richiesta di prodotti provenienti dall'agricoltura biologica, che costituisce il settore agricolo coni maggiori tassi di crescita, anche se oggi produce solo una piccola percentuale del totale dei beni agricoli presenti sul mercato. La maggiore percentuale di campi biologici sul totale della superficie agricola si trova in alcuni paesi europei, in parte grazie alle politiche rurali comunitarie, che hanno offerto sussidi a questo tipo di agricoltura. La loro produzione è destinata completamente al mercato europeo. Agricoltura biologica: tipo di agricoltura sostenibile che si basa su cicli e processi naturali, compatibili con la conservazione degli ecosistemi locali. AGRICOLTURA E GLOBALIZZAZIONE Nonostante abbia determinato un aumento degli scambi commerciali e la possibilità per i consumatori di accedere ad una varietà di prodotti agricoli mai sperimentata prima, è ormai chiaro che la globalizzazione dell'agricoltura porti con sé anche sfide impegnative, soprattutto per i paesi più poveri. Questo problema viene in parte affrontato dall'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO, v.Capitolo 9). 62 8. CAMBIAMENTI GEOGRAFICI PER L’INDUSTRIA E I SERVIZI 8.1 I settori dell’economia Le attività economiche si possono raggruppare in tre grandi categorie o settori: primario, secondario e terziario. IL SETTORE PRIMARIO: SVILUPPO O DIPENDENZA? Settore primario: raggruppa tutte le attività che producono i beni tratti direttamente da risorse naturali e destinati poi al consumo alimentare e alla trasformazione industriale: comprende l’agricoltura, la silvicoltura, l’allevamento, la pesca e le attività estrattive. Tutte le attività del settore primario prevedono l'utilizzo di risorse naturali o risorse primarie. Nel momento in cui le persone attribuiscono un valore economico a queste risorse e le scambiano, esse diventano beni. Dal punto di vista delle condizioni di sfruttamento di un minerale è fondamentale distinguere il concetto di risorse da quello di riserve. Per risorse minerarie si intende la quantità di minerali scoperti il cui volume è stato stimato approssimativamente e il cui sfruttamento è economicamente possibile. Il termine riserva è più restrittivo. Esso comprende infatti quella parte delle risorse che sono effettivamente disponibili, per le quali esistono cioè le condizioni tecnologiche, economiche e politiche per il loro immediato sfruttamento. Perciò le riserve costituiscono solo una parte delle risorse. Siccome le risorse primarie non sono equamente distribuite, lo scambio è diventato una componente estremamente importante dell'economia globale. La geografia del settore primario presente in un'area concorre in varia misura a configurarne l'economia attraverso la rete delle altre attività economiche ad esso connesse che si insediano in quel territorio. Si possono individuare tre tipi di queste connessioni: a valle, a monte e per i consumi locali. • Le prime sono quelle che trattano le materie prime, come ad esempio il trasporto del legname o dei minerali e le segherie o gli impianti di prima lavorazione. • I collegamenti a monte sono invece dati da quelle attività economiche che favoriscono l'accesso e l'estrazione delle materie prime. In questo caso, le aziende produttrici di strumenti per il taglio dei boschi o lo scavo dei minerali e le società d'ingegneria che progettano le strade o le altre vie di trasporto. • I collegamenti dovuti alla domanda locale si riferiscono invece alla richiesta e all'acquisto di beni di consumo da parte degli abitanti dell'area e dagli eventuali turisti. La produzione di materie prime può avere diverse conseguenze economiche e sociali. Secondo alcuni lo sviluppo di un'economia basata sulle materie prime genererebbe ulteriore sviluppo industriale, mentre altri ritengono che fare affidamento sulle materie prime inibisca la crescita economica e contribuisca alla dipendenza dell'economia locale da pochi beni. Da un punto di vista economico la forte dipendenza dall'esportazione commerciale di materie prime è problematica per almeno tre ragioni. In primo luogo, i prezzi di questi beni oscillano molto nel corso tempo. Un secondo problema è che se paragonato ai prezzi dei prodotti industriali, il valore delle materie prime non cresce con pari rapidità nel lungo periodo. Terzo l'alta dipendenza dall’esportazione di materie prime è spesso associata ad una scarsa diversificazione dell'economia. A livello internazionale, quei paesi che fanno pesante affidamento sull'esportazione di materie prime vengono solitamente chiamati commodity dependent developing country (CDDC). IL SETTORE SECONDARIO E LA PRIMA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE Settore secondario: insieme delle attività che trattano, assemblano, convertono le materie prime in semilavorati e in beni finiti. Il settore secondario comprende tutte le attività manifatturiere che si svolgono nelle fabbriche o all'aperto, come l'edilizia. Le industrie del settore secondario assemblano, trattano o fabbricano merci, combustibili o prodotti finiti partendo da materiali grezzi o semilavorati. A volte viene fatta una distinzione tra manifattura leggera e pesante. 65 Per manifattura pesante si intende la produzione di pro-dotti come acciaio, combustibili, prodotti chimici grezzo anche beni durevoli di grandi dimensioni come grandi motori, navi e armamenti. La manifattura leggera include invece attività che producono beni rivolti al consumo finale (abiti, elettrodomestici, automobili, alimenti, bevande ecc.) o prodotti sofisticati come apparecchi per ospedali, strumenti di precisione ecc. La geografia del settore secondario è stata fortemente influenzata dalle innovazioni tecnologiche, ed in particolar modo dalla Rivoluzione industriale, ovvero dai fondamentali cambiamenti nella tecnologia e nel modo di produzione che si diffusero in Inghilterra alla fine del XVIII secolo. L'espressione modo di produzione si riferisce al metodo dominante con cui viene organizzata e coordinata la produzione di beni. Con l'inizio della Rivoluzione industriale, i sistemi di produzione diventarono quelli dell'impresa capitalistica, che introdusse innovazioni straordinarie nell'organizzazione del lavoro. Esso cominciò ad essere svolto da una numerosa mano d’opera salariata, concentrata in grandi stabilimenti, capaci di produrre grandi quantità di uno stesso bene con costi unitari molto minori di quelli delle imprese artigiane. La Rivoluzione industriale ebbe luogo in Inghilterra e in quel periodo soprattutto grazie a tre elementi. • Il primo consisteva nella grande disponibilità di capitale, gran parte del quale era generato dalla posizione dominante dell'Inghilterra nel sistema del commercio globale e dal controllo che essa esercitava sulle risorse delle sue colonie. • Il secondo era dato dalla larga disponibilità di mano d'opera sotto-occupata nelle campagne. • Il terzo elemento era costituito da una serie di innovazioni tecnologiche che consentivano di aumentare la produttività. Alcune di queste innovazioni miglioravano la produzione agricola, mentre altre riguardavano la trasformazione dei materiali grezzi come il cotone. Per esempio lo «spinning jenny», un dispositivo in grado di intrecciare le fibre di cotone per creare un filo e altra innovazione cruciale fu ovviamente la macchina a vapore. La geografia dell'industrializzazione in Inghilterra è stata influenzata dalla distribuzione di risorse come il carbone e il ferro: infatti, le fabbriche inizialmente vennero localizzate il più vicino possibile alle fonti di energia, in particolar modo alle miniere di carbone. I lavoratori inoltre si trasferivano a vivere vicino alle fabbriche, in aree urbane, e le reti di trasporto che portavano i materiali grezzi verso gli stabilimenti e i prodotti finiti verso i mercati crescevano sempre più fitte. L'industrializzazione è stata quindi fortemente associata anche allo sviluppo dell'urbanizzazione. LA DIFFUSIONE DELLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE La diffusione globale dei sistemi di produzione riconducibili alla Rivoluzione industriale si verificò lentamente, attraverso tre grandi fasi. Durante la prima, che durò circa dal 1760 al 1880, la Rivoluzione industriale si diffuse in Belgio, in Olanda, in Francia, in Germania e negli StatiUniti. La seconda fase, compresa fra il 1880 e il 1950, porto invece queste innovazioni in Russia, Giappone, Canada, in altri paesi europei tra cui l'Italia e in alcuni centri di paesi asiatici (come Shanghai in Cina; Bombay, in India)e latino-americani, come Monterrey in Messico e San Paolo in Brasile. La terza fase, che è iniziata negli anni Cinquanta e che continua tuttora ,ha visto infine l'industria modificarsi molto nei paesi interessati dalla fase precedente e a diffondersi qua e là nel mondo e in particolare nei paesi asiatici affacciati sul Pacifico e sull'Oceano indiano. La diffusione della Rivoluzione industriale è stata fortemente diseguale, non solo a scala globale, ma anche all’interno dei singoli paesi, secondo modelli di industrializzazione e di sviluppo centro- periferia. LA COMPOSIZIONE DEL SETTORE TERZIARIO Settore terziario: insieme delle attività che forniscono servizi per altre attività economiche e/o per i bisogni degli individui e delle collettività. Comprende anche le attività di comando e di direzione, dette quaternarie. Il settore terziario, in senso generale, comprende tutti i tipi di servizi e le attività che si svolgono negli uffici, come quelle gestionali, amministrative e politiche. I servizi per le famiglie sono quelli destinati alla vendita e rivolti al consumo finale, come il commercio al dettaglio, i servizi detti para-commerciali (bar, ristoranti ecc.), i servizi di cura della persona (parrucchieri, lavanderie ecc.), quelli di riparazione e manutenzione (idraulici, auto-officine 66 ecc.). La distribuzione geografica di questi servizi si modella sulla distribuzione della “domanda”, cioè su quella degli utenti. I servizi per la collettività (detti anche di consumo collettivo) sebbene vengano anch'essi fruiti dalle persone, sono gestiti e distribuiti spazialmente con criteri diversi. Questo perché essi non rispondono soltanto all’interesse individuale di chi ne fruisce, ma anche a quelli generali della comunità (città, regione, paese). Tali interessi generali sono rivolti ad assicurare ai cittadini, alla società e all'economia certe condizioni minime necessarie, non rinunciabili. Questi servizi e queste attività sono quindi gestite direttamente dallo stato o da privati sotto il controllo dello stato. Essi riguardano le principali funzioni dello stato stesso (difesa, giustizia, sicurezza, sanità, istruzione ecc.) e quanto attiene alle condizioni generali della mobilità (tra-sporti pubblici) e della comunicazione (radio, TV, telecomunicazioni). Si tratta di servizi che, oltre a soddisfare esigenze di tipo etico e sociale, assicurano le condizioni di base per il funzionamento dell'economia. La loro distribuzione spaziale non può quindi dipendere soltanto dalla domanda (e quindi dal reddito) dei singoli, ma deve ricoprire tutto il territorio, anche là dove la popolazione è scarsa o povera e quindi la domanda non riuscirebbe a coprire i costi. Ovviamente questa distribuzione capillare dei servizi collettivi incontra un limite nelle risorse pubbliche disponibili. La distribuzione spaziale dei servizi per le imprese è regolata dal mercato, ma obbedisce solo in parte al modello valido per le famiglie, perché questi servizi non seguono solo la domanda (in questo caso quella delle imprese), ma la loro presenza in una città o in una regione è un fattore di attrazione per le imprese che hanno bisogno di quei servizi. Mentre per i sevizi alle famiglie è la domanda che determina l'offerta, per i servizi alle imprese è l'offerta che attrae la domanda. Ciò riguarda i cosiddetti servizi “avanzati” cioè quelli che possono rendere più competitive le imprese (ad esempio, consulenza legale, finanziaria, marketing, progettazione tecnica). Infine nelle attività terziarie occupano una particolare posizione le attività quaternarie, così dette per sottolineare il fatto che esse vanno oltre il normale terziario. Questo perché, oltre a presentarsi come servizi, esse hanno soprattutto funzione di comando, direzione, programmazione, indirizzo politico e culturale. Rientrano nel settore quaternario le massime funzioni del governo politico, le direzioni delle maggiori imprese, le borse e le grandi istituzioni finanziarie, i principali centri della cultura civile e religiosa e gli apparati direttivi dei media nazionali e internazionali. Il settore quaternario si concentra di regola in un numero ristretto di luoghi, corrispondenti alle città globali e alle capitali politiche degli stati. Fa infine parte del terziario anche quello che viene definito terzo settore, o no-profit che comprende una serie di attività di servizio svolti da privati, che perseguono scopi sociali nel campo dell'assistenza, della cultura ecc., e tendono ad integrare e in parte sostituire l'intervento dello Stato dove esso è carente (sanità, assistenza agli emarginati, promozione culturale ecc.). 8.2 L’evoluzione dell’industria nel Nord del mondo LA LOCALIZZAZIONE DELLE ATTIVITÀ MANIFATTURIERE Qual è il luogo ideale per aprire una fabbrica? Nel corso della prima e della seconda fase della Rivoluzione industriale, la scelta del luogo in cui collocare le fabbriche era fortemente influenzata dai costi di trasporto delle materie prime. Per ridurre questi costi, le acciaierie venivano costruite vicino ai bacini carboniferi e alle miniere di ferro. Oggi nella scelta del luogo in cui localizzare i propri stabilimenti intervengono altri fattori. Uno di essi riguarda la possibilità di reperire mano d'opera a basso costo (nei paesi più poveri), oppure molto specializzata e qualificata (nelle maggiori metropoli). Un altro importante fattore che può influenzare la redditività di un'azienda riguarda le economie di agglomerazione, cioè i vantaggi che derivano dall'operare a contatto con altre imprese. Oltre al lavoro, infatti, le aziende hanno bisogno di semilavorati, componenti e servizi, che si procurano da altre imprese, definite fornitrici. A volte, tuttavia, la crescita urbana può determinare un aumento delle tasse, del costo del lavoro o dei costi di trasporto, creando al contrario diseconomie di agglomerazione. Una serie di vantaggi perle imprese possono derivare dalle politiche nazionali e locali. Da esse dipende ad esempio la facilità di insediarsi senza troppe restrizioni derivanti dalle norme sindacali, 67 8.3 L’evoluzione dell’industria nel resto del mondo L'attività manifatturiera trasforma i prodotti e ne accresce il valore, attraverso il cosiddetto valore aggiunto di produzione, quantificabile sottraendo al costo del prodotto finito il costo dei fattori produttivi. Negli anni Settanta del secolo scorso cominciò a manifestarsi un importante mutamento nella geografia della produzione, sviluppatosi in due fasi. La prima vide realizzarsi importanti trasformazioni nei paesi più avanzati: il Giappone sperimentò un rapido aumento del valore aggiunto di produzione delle imprese presenti sul suo territorio e cominciò a competere con i centri di produzione industriale europei e statunitensi. La seconda vide invece una crescente importanza dei centri di produzione di alcune aree semi- periferiche dell'Asia, in seguito alla terza fase di diffusione della Rivoluzione Industriale. LE NUOVE ECONOMIE INDUSTRIALIZZATE DELL'ASIA Il successo industriale del Giappone determinò una rapida crescita economica, migliori condizioni di vita e la riduzione della povertà. Il paese divenne un modello da imitare e nel corso degli anni Settanta altri quattro produttori dell'Asia Orientale mostrarono segni di sostanziale crescita e rendimento. Queste nuove economie industrializzate, talvolta definitele quattro tigri asiatiche, sono Hong Kong, Singapore, la Corea del Sud e Taiwan, alle quali negli anni Ottanta si aggiunsero l'Indonesia, la Malesia, le Filippine e la Thailandia. La trasformazione economica di queste nuove potenze economiche deriva da tre fattori principali: (1) iniziative promosse dai governi per incrementare la produttività industriale e migliorare il commercio; (2) passaggio graduale da una produzione caratterizzata da lavoro intensivo e ripetitivo ad una a più alto valore aggiunto tecnologico (ad esempio la realizzazione di componenti per computer e strumenti scientifici); (3) presenza di forza lavoro scolarizzata e qualificata, a basso costo e poco socialmente protetta. In quasi tutte le nuove economie industrializzate dell'Asia meridionale, fu inizialmente la crescita dell’industria tessile a contribuire ad alimentare la produzione iniziale di beni per l’esportazione. La Cina ha vissuto una crescita più tardiva, ma anche più rapida, nella realizzazione di prodotti ad alta tecnologia, e sta attuando ora uno sforzo enorme per aggiornarsi sotto il profilo industriale. LE ZONE ECONOMICHE SPECIALI (ZES) Zone economiche speciali (ZES): zone nelle quali le imprese possono disporre di un'adeguata dotazione di terreni, infrastrutture e servizi, di un regime fiscale agevolato e di forza lavoro non sindacalizzata. Una Zona Economica Speciale (ZES), è un'area industriale che funziona secondo politiche e leggi diverse rispetto al resto del paese in cui si trova, con lo scopo di attirare e sostenere una produzione orientata alle esportazioni. Essa può essere caratterizzata ad esempio da una legislazione semplificata sulle tasse e i dazi doganali o dalla completa esenzione dal carico fiscale e da un accesso facilitato alle reti di trasporto e di comunicazione. Come ulteriore incentivo alle imprese, nelle ZES sono spesso proibite o fortemente limitate le attività sindacali. Tra il 1975 e il 2006 il numero delle ZES è cresciuto da 79 a 3500 e oggi queste aree danno lavoro a circa 66 milioni di persone, due terzi dei quali vivono in Cina, anche se molti altri paesi in Asia e in America Latina hanno recentemente realizzato dei piani per creare le proprie zone economiche. La creazione di zone industriali votate all'esportazione è stata promossa come strategia in grado di aiutare i paesi ad industrializzarsi, per il suo potenziale ruolo nell'attirare gli investimenti internazionali ed il commercio, permettere la produzione di nuovi beni d'esportazione non tradizionali e creando nuovi posti di lavoro, contribuendo anche ad aumentare il numero di lavoratrici donne. Le ZES, tuttavia, sono state anche oggetto di pesanti critiche: da un punto di vista geografico, esse possono aumentare i divari nello sviluppo, concentrando le risorse e infrastrutture in una regione, a discapito delle altre. Dal punto di vista delle condizioni lavorative in alcune fabbriche delle ZES la manodopera viene gravemente sfruttata: bassi salari, lunghi turni di lavoro e l'assenza di protezione sociale e sindacale hanno contribuito, alle proteste dei lavoratori in molte regioni. 70 LE ZES DELLA CINA Le prime ZES furono istituite in Cina nel 1979, come parte di una politica nazionale per creare un'economia più aperta e orientata al mercato. La creazione di queste “isole” di capitalismo all'interno della Cina comunista rappresentava un gigantesco cambiamento nel funzionamento economico del paese. Di conseguenza le ZES furono inizialmente sviluppate a titolo sperimentale e, per restringere Ia diffusione e l'influenza del capitalismo, solo in quattro città (Zhuhai, Shenzhen, Shantou e Xiamen). Due caratteristiche differenziano le ZES cinesi da quelle di altri paesi. La prima è la loro dimensione: in genere esse tendono ad essere più grandi. Per esempio la ZES di Shenzhen copre un'area di 328 kmq, pari a quella di una piccola provincia italiana come Prato. La seconda caratteristica è che esse tendono ad essere concepite in maniera più integrale. Ciò significa che vengono promossi anche altri aspetti economici, come la ricerca e sviluppo o il turismo. Pochi studiosi mettono in discussione il successo complessivo delle ZES cinesi. Tra il 1980 e il 1988, ad esempio, le esportazioni di Shenzhen sono passate dal costituire meno dell'1% a quasi il 25% delle esportazioni totali della provincia del Guangdong. A partire da un simile successo nel 1984, il paese ha “aperto” 14 città agli investimenti stranieri, consentendola creazione di numerose ZES. LE MAQUILADORAS Maquiladora: impianto manifatturiero spesso di proprietà straniera, che importa materiali esenti da dazi doganali, li assembla, li tratta e infine li esporta. In Messico le maquiladoras erano parte di una strategia del governo per alleviare la disoccupazione negli stati al confine con gli USA. In seguito alla sottoscrizione dell’accordo nord-americano per il libero scambio, (North Atlantic Free Trade agreement, NAFTA) da parte di Stati Uniti, Canada e Messico nel 1994, il numero di maquiladoras in Messico è aumentato in maniera esponenziale. Le ragioni di questo aumento includono la prossimità geografica al mercato americano, i bassi salari del Messico e la crescita dell'economia americana. A partire dal 2000, tuttavia, anche le maquiladoras messicane si sono trovate in grande difficoltà, per cause diverse, tra cui il ridimensionamento dell’economia industriale statunitense ed una nuova regolamentazione secondo cui si devono pagare le tasse sui beni importati dai paesi esterni alla NAFTA. Infatti, gli stabilimenti di assemblaggio che non hanno particolari legami né a monte, né a valle con l'economia del territorio in cui operano, sono facilmente delocalizzabili se in qualche altra parte del mondo le imprese multinazionali che le possiedono trovano condizioni localizzative più convenienti. LA DELOCALIZZAZIONE La creazione di zone industriali di esportazione è legata alla delocalizzazione di alcuni segmenti delle filiere produttive nei paesi in via di sviluppo. È facile capire la portata e l'impatto delle delocalizzazioni quando ci rendiamo conto che imprese come Nike, Reebok, Ikea e numerose altre non hanno nemmeno un impianto manifatturiero per la produzione. Piuttosto, queste aziende creano modelli di marca originale, per poi delocalizzare e subappaltare la produzione dei loro beni a impianti manifatturieri localizzati nei paesi in via di sviluppo, secondo un processo di “produzione a contatto” o “produzione a marchio”. La delocalizzazione ha avuto tre conseguenze, rilevanti dal punto di vista geografico. • In primo luogo essa ha dato alla produzione un carattere molto più globale, poiché le sue diverse fasi ora hanno luogo in paesi diversi da quello in cui l'azienda ha la propria sede. • In secondo luogo ha contribuito ad una nuova divisione internazionale del lavoro, al punto che alcune attività manifatturiere sono oggi sempre più spesso realizzate nei paesi delle aree periferiche o semi-periferiche del mondo. • In terzo luogo ha avuto un importante effetto sulla geografia del profitto generato dalle attività produttive. 71 8.4 Le trasformazioni strutturali dei sistemi produttivi Quando si parla di composizione strutturale di un’economia, ci si riferisce all’importanza relativa del settore primario, secondario e terziario nel generare prodotto interno lordo e nel creare posti di lavoro. DEINDUSTRIALIZZAZIONE E GLOBALIZZAZIONE La crisi del fordismo ha segnato un periodo di cambiamento strutturale all'interno dei paesi industrializzati, che ha portato ad un calo dei posti di lavoro nelle attività manifatturiere. La perdita di posti di lavoro nell'attività manifatturiera dei paesi più avanzati solleva alcune domande sulle cause e le conseguenze della deindustrializzazione. Il processo di deindustrializzazione può essere ricondotto a tre cause generali: (1) un maggiore incremento della produttività del lavoro nell’attività manifatturiera rispetto a quella dei servizi; (2) un cambiamento nella disponibilità di risorse; (3) la globalizzazione economica. In base al primo punto, gli incrementi di produttività dell'attività manifatturiera superano gli incrementi di produttività nei servizi e questo innesca la deindustrializzazione. Diversamente da quanto accade nelle fabbriche, nel settore dei servizi solo poche attività possono essere meccanizzate. Da questo punto di vista, l'aumento di produttività dell'attività manifatturiera, non solo intensifica l'industrializzazione, ma innesca parallelamente processi di deindustrializzazione. Una seconda spiegazione delle cause della deindustrializzazione si basa sull'importanza dei cambiamenti nella disponibilità di risorse primarie nelle vicinanze dell'impresa. Quando tale disponibilità viene meno, l’impresa può essere in grado di avvantaggiarsi, in un altro paese, di minori costi di trasporto e di produzione e, di conseguenza, di guadagnare un vantaggio competitivo nella produzione di beni. Una terza spiegazione, infine, fa riferimento alla globalizzazione economica e alla nuova divisione internazionale del lavoro, che ha trasferito i posti di lavoro delle attività produttive nei paesi in via di sviluppo. La globalizzazione e i maggiori traffici commerciali che essa ha favorito, hanno contribuito a disperdere la produzione, con conseguenze evidenti in termini di deindustrializzazione. In generale si può dire che l'evoluzione strutturale di un'economia parte da un primo stadio in cui predomina il settore primario, per passare a una fase di crescita dell'industria manifatturiera (settore secondario) e poi dei' servizi (settore terziario). Quest'ultima fase deriva sia dal cambiamento dello stile di vita dovuto all'aumento del reddito pro capite, sia dalla crescente domanda di servizi da parte delle imprese. SERVIZI, GENERE E SOCIETÀ POST-INDUSTRIALE La rapida crescita dei servizi ha determinato un cambiamento significativo nella struttura economica globale. La crescita del settore dei servizi ha anche avuto un grosso impatto sull'impiego femminile: su scala globale né l'agricoltura né l'industria hanno una forza lavoro ad alta percentuale femminile quanto il settore terziario. La crescita nel settore terziario e quaternario non solo indica importanti cambiamenti nei modelli occupazionali, ma è anche associata all'emergere delle società post-industriali, distinte da cinque caratteristiche principali: (1) alti livelli di urbanizzazione; (2) prevalenza del settore dei servizi e delle attività d'ufficio; (3) prevalenza dei “colletti bianchi” (professionisti, funzionari, impiegati) nella forza lavoro; (4) infrastrutture fortemente basate sull'informatica e le comunicazioni; (5) un'economia basta sulla conoscenza. In questa economia della conoscenza, sono la competenza, il know-how e le idee creative a guidare l'innovazione e creare valore. La conoscenza è diventata una risorsa produttiva che compete con i fattori produttivi tradizionali come la terra ed il lavoro. Uno dei migliori indicatori di un'economia basata sulla conoscenza è la quantità di denaro spesa in ricerca e sviluppo. I fondi per ricerca e sviluppo sono forniti da un insieme di imprese private, organizzazioni no-profit e agenzie governative. Una delle espressioni paesaggistiche della ricerca e sviluppo è il tecnopolo, un'area nella quale si concentrano imprese che si occupano di ricerca, progettazione, sviluppo e/o produzione in settori ad alta tecnologia. La Silicon Valley, che ha iniziato a svilupparsi come tecnopolo in California negli anni Cinquanta del secolo scorso, ne è 72 La costruzione di linee ferroviarie e la massificazione dell'offerta di trasporto contribuì in maniera determinante alla mobilità della popolazione e delle merci. A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso i trasporti su strada e per aereo divennero in molti casi, competitivi rispetto a quelli per ferrovia. Soltanto per il trasporto merci su lunghe distanze e nelle zone più densamente popolate e urbanizzate il treno continuò (e continua tuttora) a svolgere un ruolo importante per il trasporto di passeggeri, specie quelli pendolari. Negli ultimi anni la comparsa di treni ad alta velocità ha riproposto la ferrovia come mezzo di comunicazione competitivo. Mentre in un primo tempo le strade venivano tracciate seguendo le forme del rilievo, i treni necessitavano di un tracciato più lineare e pertanto per far superare loro le montagne si rese necessario ricorrere a trafori. Trafori: detti anche tunnel sono gallerie costruite forando le montagne per farci passare strade, ferrovie, autostrade. Oggi i trafori si realizzano anche per le gallerie stradali, che servono a sveltire i percorsi. LE VIE D'ACQUA INTERNE I corsi d'acqua fin dall'antichità furono utilizzati come vie di comunicazione. Con I'aumento del traffico e le dimensioni sempre maggiori delle imbarcazioni fu necessario intervenire sugli ostacoli naturali quali portate irregolari, profondità limitate, pendenze eccessive ecc. I principali interventi furono di drenaggio, regimazione delle portate, rettificazione dei percorsi (canalizzazione), costruzione di chiuse per superare i dislivelli. Chiuse: si tratta di opere idrauliche che permettono alle imbarcazioni di superare dislivelli lungo i corsi d’acqua. Consistono in una vasca, con due porte tramite le quali si può variarne il livello, immettendo o asportando l'acqua, permettendo cosi alle imbarcazioni di superare un dislivello dell'alveo fluviale. Oggi il trasporto via acqua, lento ma poco costoso, è molto usato per il trasporto di merci pesanti e non deperibili. Per il trasporto delle persone è usato soltanto nelle regioni del Sud del mondo poco dotati di vie di comunicazione, come la regione amazzonica del Brasile. Inoltre sia nel Sud che nel Nord nel mondo la navigazione sui fiumi rappresenta un'attrattiva turistica, come nel caso delle crociere sul Volga, sul Danubio, sul Rio delle Amazzoni e sul Nilo. In Europa, il trasporto fluviale è molto usato nelle pianure interne, dove scorrono fiumi di grossa portata come il Danubio. II più importante fiume europeo per la navigazione è il Reno, che attraversando le zone più industriali della Germania, serve come via di trasporto per materie prime, carbone, petrolio e alcuni prodotti finiti. I PORTI E LE ROTTE MARITTIME I porti sono nodi di traffico in cui convergono rotte marittime, strade e sovente ferrovie, canali e vie fluviali. La rivoluzione dei trasporti del secolo scorso impose profonde modifiche ai porti, molti dei quali funzionavano da secoli come porti polivalenti, in grado cioè di caricare e scaricare oltre ai passeggeri, qualunque tipo di merce. L'impiego di navi sempre più grandi e specializzate rese infatti necessaria la presenza non soltanto di fondali più profondi e terminali più estesi, ma che di attrezzature specifiche per velocizzate le operazioni di carico-scarico con adeguamenti tecnologici di ampia portata. La necessità di maggior estensione è stata risolta in molte aree portuali (come quella di Genova) con l'espansione in mare, attraverso la costruzione di nuove strutture offshore di terminali petroliferi per le superpetroliere, di piattaforme di prospezione ed estrazione di idrocarburi e minerali. Altrove, come a Tokyo, lo spazio è stato conquistato sottraendolo al mare per colmata. Altri porti con retroterra pianeggiante e senza limitazioni di spazio si sono invece estesi sulla terra ferma, come il nuovo porto di Rotterdam. La localizzazione di industrie nei porti o nelle loro vicinanze ha creato regioni industriali costiere legate alla navigazione marittima. I fronti marittimi più importanti sono quelli dell'Europa atlantica (il più importante del mondo), quelli del Giappone orientale e quelli degli USA orientali e del golfo del Messico, che insieme gestiscono circa il 60% del traffico mondiale. I porti dei paesi del Sud del mondo a differenza di quelli dei paesi sviluppati, sono quasi sempre specializzati nell'imbarco di uno solo o pochi tipi di merce. Solo alcuni porti di paesi in via di sviluppo hanno un traffico diversificato: Rio de Janeiro, Mumbai, Buenos Aires, Shanghai, Singapore e Hong Kong. 75 I porti moderni rivestono anche un ruolo sempre maggiore nell'organizzazione del territorio: funzionano come gateway (punto di entrata-uscita) di regioni più o meno vaste e punto di collegamenti tra le vie di comunicazione di mare e terraferma. Di conseguenza condizionano la localizzazione delle industrie, che avvicinandosi ai porti ottengono notevoli risparmi nella movimentazione delle merci. Un ruolo particolare è svolto dai porti di trasbordo che hanno il ruolo di smistare i container dalle grandi navi interoceaniche a navi di minore portata che operano su rotte regionali. Per poter gestire tutti i tipi di merci, si ricorre alla creazione di sistemi portuali, cioè l'integrazione tra più porti di una stessa fascia litoranea, ognuno specializzato in una o più funzioni (porto petrolifero, carbonifero ecc.). IL TRASPORTO AEREO Il maggior vantaggio dell'aereo rispetto agli altri mezzi di trasporto è dato dalla velocità, mentre il suo limite è dato dai costi. Per questi motivi il trasporto per via aerea è utilizzato prevalentemente per il trasporto delle persone e delle merci deperibili di un certo valore, come fiori e primizie. L'uso della spedizione per aereo è inoltre sempre più usata per la consegna degli acquisti on line. Infine l'aereo è di vitale importanza in paesi molto estesi per collegare località isolate, molto lontane o addirittura non servite da altri mezzi. L'importanza degli aeroporti varia a seconda della posizione e dei collegamenti offerti. Un aeroporto intercontinentale è di primaria importanza per lo sviluppo economico di una regione e il suo collegamento con il resto del mondo. Esso funge da nodo da cui dipendono gli aeroporti minori. Particolarmente vantaggiosa è la posizione di un aeroporto situato lungo una importante rotta intercontinentale, soprattutto se funge da nodo di raccordo con altre direttrici, come l’aeroporto di Lisbona, su cui convergono la rotta aerea Europa-America meridionale e Europa- America settentrionale. Altri aeroporti devono la loro importanza alla loro funzione di appoggio per gli aerei lungo rotte intercontinentali. LE TELECOMUNICAZIONI Nel mondo attuale alla circolazione di veicoli e merci che utilizzano le vie di comunicazione, si accompagna un'intensa circolazione di informazioni, sotto forma di denaro, dati, notizie, immagini, supportate dalle reti di telecomunicazione e relative tecnologie (ITC Information and Communication Technologies). Le attività economiche e finanziarie utilizzano tali reti per collegare tra di loro i vari punti nei quali articolano le aziende, trasferendo dati, denaro e sviluppando l’e-commerce. Ma le ITC sono di fondamentale importanza anche in altri campi: - nel campo della salute, fornendo aggiornamento sulle nuove tecniche e nuovi farmaci al personale sanitario soprattutto in aree disagiate; - nel campo della cultura, mettendo in rete scritti, articoli, libri, permettendo discussioni e commenti e dando accesso a biblioteche; - nel campo della ricerca, con la messa in rete dei traguardi raggiunti nei vari campi, permettendo scambi di esperienze e condivisone di conoscenze e dati; - nel campo dell'istruzione, per la quale offre enormi possibilità: dall'insegnamento a distanza, all'aggiornamento degli insegnanti, alla possibilità di consultare testi, immagini, filmati, di ascoltare lezioni, conferenze, musica. - nel campo del sociale favorire la formazione di reti di socializzazione, o social network, che permettono il collegamento a distanza tra persone con interessi affini. Tuttavia se le vie di comunicazione tradizionali (strade, porti, aeroporti) non sono uniformemente distribuiti nei diversi paesi, le differenze nella possibilità di accesso alle telecomunicazioni sono ancora maggiori. Infatti il divario esistente tra chi ha accesso effettivo alle tecnologie dell'informazione tramite Internet e chi nonne è escluso è forte e dà origine a quello che viene detto digital divide. Il divario digitale (digital divide) è un fattore importante di discriminazione tra le persone che vivono in paesi nei quali è possibile accedere a tutte le informazioni offerte dalle reti telematiche e quelle che vivono in paesi che non hanno queste disponibilità e pertanto sono condannate ad una perifericità che ne limita la possibilità di sviluppo. Il divario digitale deriva dalla possibilità o meno di accedere a internet, che dipende da due ordini di fattori: il primo è soggettivo e riguarda sia il possesso degli strumenti necessari, sia la capacità di utilizzarli; i fattori oggettivi consistono soprattutto nella presenza di infrastrutture fisiche (reti 76 cablate e sistemi satellitari) dalla loro ampiezza di banda e affidabilità, dai costi di accesso per le persone e le imprese. 9.2 La circolazione delle merci e il commercio internazionale Negli ultimi decenni l’aumento dei traffici di merci è stato ancora più rapido a seguito degli scambi commerciali a scala mondiale legati alla globalizzazione. Per gestire al meglio tali relazioni si è reso necessario creare un insieme di attività organizzative che gestiscono il trasporto, il trattamento e la distribuzione delle merci in tutte le sue fasi, che vanno sotto il nome di logistica. Logistica: è l’insieme delle attività organizzative, gestionali e strategiche che governano i flussi di materiali, dalle origini presso i fornitori di materie prime fino alla consegna dei prodotti finiti ai clienti e al servizio post-vendita. TRASPORTI E LOGISTICA Un primo compito della logistica consiste nel razionalizzare i trasporti merci, sia in entrata che in uscita dall’azienda, per ridurne i costi. Di fondamentale importanza per tale riduzione fu l'introduzione del container: con l'uso del container non soltanto vengono velocizzate le operazioni di carico e scarico delle merci, ma viene reso possibile un sistema di trasporto multimodale (quando lunghe distanze vengono opere con una combinazione di mezzi diversi). L'importanza della logistica dell'organizzazione aziendale, non soltanto volta accrescere la fluidità del trasporto, riducendone tempi e costi, ma anche impegnata nell'organizzazione dei magazzini, nella suddivisione, confezionamento e imballaggio delle merci, nei contatti con i clienti ecc., ha fatto sviluppare un intero sistema organizzativo, il settore logistico, gestito da imprese specializzate. Queste imprese operano per mezzo di piattaforme logistiche, vaste aree in cui convergono reti di trasporto diverse. Tali piattaforme sono in grado di ricevere, immagazzinare, trattare le merci anche in grande quantità. Dopo aver aperto e svuotate le unità di carico per eseguire anche alcune lavorazioni (per esempio il confezionamento) smistano infine le merci di tutti i tipi utilizzando i mezzi di trasporto più idonei. Anche il trasporto di passeggeri ha seguito la stessa logica. La rete dei trasporti veloci (aereo e treni ad alta velocità) ha alcune piattaforme di interconnessione (hub aeroportuali) dove sono presenti contemporaneamente terminali aerei, stradali e ferroviari (nazionali e internazionali) e di ferrovie metropolitane. Oltre a questa maggiore interazione tra luoghi si è anche verificata una differenziazione economica tra regioni, in quanto alcuni assi di trasporto detti corridoi plurimodali (come per esempio l'asse Parigi-Lione-Marsiglia in Francia) acquistano importanza, rispetto ad altri, con relative rilevanti conseguenze sullo sviluppo economico dei territori attraversati. IL COMMERCIO MONDIALE Il commercio è un'attività da sempre presente nella storia dell'umanità. All'inizio del XIX secolo i principali commerci riguardavano il carbone e le materie prime, dirette alle regioni industriali, e i prodotti finiti esportati dalle stesse, mentre i prodotti dell'agricoltura utilizzavano ancora prevalentemente i mercati locali. Un impulso al commercio di prodotti agricoli, si ebbe poi con lo sfruttamento delle colonie, da cui i paesi europei importavano materie prime industriali ed anche prodotti di piantagione (caffè, cotone, tè, cacao ecc.) continuando ed esportare i loro manufatti in mercati sempre più ampi. La rivoluzione dei trasporti del secolo scorso, con l'aumento della velocità e la riduzione dei prezzi, fece crescere a dismisura la quantità delle merci in circolazione. Un'ulteriore crescita del volume dei commerci internazionali e della loro importanza è legata alla globalizzazione. Proprio sul commercio infatti è basato il processo di interdipendenza delle economie di tutti gli Stati del mondo. Oltre alle innovazioni tecnologiche, altri due fattori hanno influito sulla enorme crescita del commercio nel mondo globalizzato: la divisione internazionale del lavoro, dovuta al diverso costo del lavoro tra paesi del Nord e del Sud del mondo, che spinge le imprese a delocalizzare e la progressiva liberalizzazione del commercio, legata alla nascita di associazioni internazionali per l'abbattimento delle barriere al trasferimento di beni e servizi. Divisione internazionale del lavoro: un tempo consisteva nella ripartizione della produzione di beni e servizi tra i diversi paesi specializzati in determinate tipi di attività. Con la delocalizzazione 77 10. GEOGRAFIA URBANA 10.1 Città e urbanizzazione Le città sono una delle componenti fondamentali del mondo contemporaneo: sono i luoghi principali dell'interazione sociale, dello scambio, della produzione culturale. Una città svolge la funzione di località centrale al servizio di un proprio hinterland o area di gravitazione. Località centrali: località in cui e concentrata l'offerta di beni e servizi rivolta a una domanda di utenti distribuita nel territorio circostante, detto hinterland o area di gravitazione. Nonostante la loro grande varietà, tutte le città condividono queste caratteristiche di base: (1) un'elevata densità di popolazione; (2) una certa dimensione demografica che la distingue dagli insediamenti rurali; (3) una complessità di funzioni culturali, sociali, economiche a cui corrispondono usi del suolo specializzati; (4) l'essere centri dei poteri connessi all'esercizio di queste varie funzioni; (5) l'essere ambienti dinamici e creativi; (6) l'essere connesse ad altri luoghi urbani e rurali attraverso una fitta rete di relazioni e di flussi di persone, beni, servizi, informazioni e denaro; (7) l'essere luoghi di grandi contraddizioni e di conflitti. Le città offrono infatti opportunità e speranze, ma sono nello stesso tempo luoghi di povertà, privazioni, disperazione e rivolte. COME SI DEFINISCE UNA CITTÀ? Il sociologo americano Louis Wirth definì la città in termini di dimensioni, densità e varietà. Questa definizione è ancor oggi abbastanza valida, in quanto comprende buona parte delle caratteristiche sopra menzionate. Nella pratica corrente si ricorre tuttavia a una semplificazione ancora maggiore, riducendo tutto alla semplice dimensione, cioè al numero di abitanti. Questo perché si tratta di un dato facile da ottenere e utile per un primo veloce confronto delle città tra di loro. Su quale sia la soglia demografica al di sopra della quale una municipalità possa considerarsi città non c'è concordanza fra le statistiche dei vari paesi. In paesi con tradizione di abitato poco concentrato come la Danimarca, bastano poche centinaia di abitanti per fare una città; in paesi più densamente abitati come i Paesi Bassi e I'Italia si parte da 10.000. In Australia un insediamento viene definito urbano se supera i 1.000 abitanti, mentre in Giappone solo se ha più di 50.000 residenti. La dimensione dipende inoltre dai confini entro cui calcoliamo la popolazione. Ad esempio in Europa, dal Medioevo alla Rivoluzione Industriale le città erano addensamenti nucleari, sovente circondati da mura e i confini erano quelli delle singole municipalità (in Italia i Comuni). Con l'industrializzazione le città nucleari si sono dilatate nella campagna circostante, fino a comprendere le municipalità vicine, divenendo città estese, ovvero sistemi territoriali di vario tipo, per lo più multicentrici. Le città estese sono la dimensione moderna della città, in quanto in esse troviamo tutto ciò che nella vecchia città stava nel raggio di alcune centinaia di metri. Quest’ultima di solito corrisponde al cuore della città estesa, detto città centrale, e, nella sua parte più antica, città storica. Di regola esso ospita il quartiere centrale degli affari, gli uffici dell'amministrazione pubblica e alcuni servizi come grandi teatri, centri congressuali, musei ecc. Nelle corone periferiche troviamo spazi industriali, commerciali e di servizi, intercalati a vaste aree residenziali. Le città estese prendono nomi diversi. Se l'espansione è stata continua e a macchia d'olio si parla di agglomerato urbano (o agglomerazione). Se c'è stata espansione a macchia d'olio di più agglomerati urbani vicini che si sono fusi tra loro, si parla di conurbazione. Da quando I'uso generalizzato dell'automobile ha favorito un'espansione urbana discontinua e su un'area molto vasta, che ha conservato molti spazi non urbanizzati, si parla di sistemi territoriali urbani, che possono essere aree urbane, oppure, se molto popolose, aree metropolitane. Là dove, come negli Stati Uniti del Nord-Est dal Massachusetts al Maryland, più aree urbane e metropolitane sono cresciute molto vicine tra loro, si parla di megalopoli. 80 RETI URBANE E AREE METROPOLITANE Le città intrattengono con l'esterno scambi di materia, energia, popolazione, beni, servizi, denaro, informazioni. Esse formano delle reti, che funzionano da tessuto connettivo dei territori, a maglie più o meno larghe, a seconda delle diverse situazioni territoriali e del grado di dispersione delle funzioni urbane. Ciò significa che i beni e i servizi prodotti da una città non sono solo destinati ai suoi abitanti, ma: (1) a un territorio circostante che è servito dalla città e che si serve di essa, detto area di gravitazione urbana (hinterland); (2) ad altre città e ad altri territori sparsi per il mondo. I flussi determinati da tali interscambi formano le reti urbane nelle quali le città costituiscono i nodi. Tali reti possono avere forme e dimensioni diverse, per esempio nei paesi con un'economia prevalentemente agricola la rete delle città ha maglie larghe, mentre nelle regioni industrializzate vi sono invece reti urbane con maglie molto fitte e con flussi molto intensi. Nei paesi più economicamente sviluppati si sono formati aggregati regionali di grandi dimensioni che si strutturano attorno una città-rete, i cui nodi, strettamente interconnessi, funzionano nel loro insieme come se fossero un'unica grande metropoli. Tra gli esempi di città-rete di dimensioni macro-regionali il più noto in Europa è quello del Randstad Holland, che conta 7,5 milioni di abitanti, quasi la metà della popolazione dei Paesi Bassi. Si tratta di una rete costituita dalle quattro principali città olandesi: Amsterdam, Rotterdam, L'Aia e Utrecht, e numerose altre medio-piccole. A differenza di quanto capita in altri paesi dove tutte o quasi le funzioni più specializzate si concentrano in un'unica grande area metropolitana, qui esse sono divise tra le città della rete. Ad esempio L'Aia è specializzata nella funzione di capitale politica, Rotterdam in quella portuale, Amsterdam in quella commerciale e finanziaria, mentre città minori come Delft e Utrecht ospitano università di fama internazionale. Le città estese di maggiori dimensioni si possono anch'esse considerare come città-reti. In esse infatti si pone il problema di come amministrare un vasto spazio urbano il cui controllo sfugge alle singole municipalità che le compongono. In alcuni paesi sono state incentivate forme di cooperazione, di consorzio e coordinamento. In altri si sono istituiti dei nuovi enti territoriali sovracomunali, detti aree metropolitane. Un esempio, le 10 municipalità sono la suddivisione del comune di Napoli in dieci sedi municipali di decentramento amministrativo, che rappresentano forme di decentramento di funzioni e di relativa autonomia organizzativa e funzionale rispetto al comune. CRESCITA E DECRESCITA DELLA POPOLAZIONE URBANA Il termine urbanizzazione viene usato in due significati diversi. Può indicare il processo che porta imprese e popolazione a concentrarsi nelle aree urbane, oppure, più in generale, l'estendersi a sempre più vasti territori delle caratteristiche e dei modi di vita delle città. Quando si parla del grado di urbanizzazione di una regione o di un paese, ci si riferisce alla percentuale della popolazione residente nelle città, o popolazione urbana. Il tasso di crescita urbana si riferisce invece all'incremento annuo percentuale della popolazione urbana. In linea di massima, i paesi sviluppati hanno un grado di urbanizzazione più elevato rispetto ai paesi meno economicamente sviluppati. Oggi il tasso globale di crescita urbana è intorno all’1,8%, anche se si registrano grandi differenze tra la crescita urbana dei paesi in via di sviluppo e quella delle aree più sviluppate del mondo, che non supererà invece lo 0,5%. Infatti, mentre nei paesi meno sviluppati e in via di sviluppo la popolazione continua ad accentrarsi, negli ultimi decenni del secolo scorso nei paesi più economicamente sviluppati questa tendenza ha subito un rallentamento e poi una parziale inversione. La prima manifestazione di questa tendenza ha preso il nome di contro-urbanizzazione, il passaggio da uno stato di maggior concentrazione a uno di minor concentrazione, che segnava l'inversione di una tendenza alla concentrazione urbana che aveva agito quasi ininterrottamente a partire dalla Rivoluzione Industriale. Alcuni studiosi, affermarono che la contro-urbanizzazione, che interessava tutte le grandi città in tutti i paesi e le regioni industrializzate, era legata alle nuove tendenze localizzative dell'industria e dei servizi tipiche della fase detta post-fordista, che privilegiava i centri minori, dove la vita era meno costosa, i salari più bassi e minori i conflitti sindacali. Nelle città la crescita demografica non solo rallentò, ma si trasformò in decrescita fin verso la fine del secolo scorso.Dalla semplice contro-urbanizzazione si passo così alla 81 disurbanizzazione, un fenomeno che colpì soprattutto i comuni centrali delle grandi agglomerazioni urbane, ma sovente anche le agglomerazioni nel loro complesso. URBANO, RURALE E CITTÀ DIFFUSA Tradizionalmente il termine urbano sta a indicare gli spazi limitati in cui la popolazione si concentra, mentre il termine rurale viene riferito a tutti gli altri spazi abitati che hanno una bassa densità abitativa. Nei paesi ad economia avanzata, l'urbano tende ad espandersi nei territori rurali, nel senso che molte città si allargano, nella campagna circostante, urbanizzandola, in due sensi. Primo, coprendola di edifici e infrastrutture. Secondo, trasformando i modi di vita della popolazione da quelli tipici delle vecchie società agricole a quelli basati su attività industriali e terziarie. Per indicare questi territori un tempo rurali e ora urbanizzati, si sono coniate nuove parole come rurbano e, se si supera una certa densità, periurbano. Una processo determinante nel trasformare i paesaggi rurali è quello della dispersione edilizia (urban sprawl): si verifica quando il tasso di consumo di suolo dovuto all'espansione dell'area urbanizzata supera quello della crescita della popolazione. Si forma allora un tipo di urbanizzazione dispersa detto città diffusa, caratterizzato da una bassa densità di popolazione e dalla presenza di capannoni, allineamenti commerciali, villette unifamiliari. La città diffusa soddisfa certe esigenze individuali, ma ne scarica i costi sulla collettività in vari modi. Sottrae le risorse suolo all’agricoltura, richiede ingenti investimenti nelle reti elettriche, telefoniche, idriche e fognarie. Non può essere, se non in minima parte, servita dai mezzi di trasporto pubblici rendendo i residenti dipendenti dall’automobile, aumentando i consumi energetici e l'inquinamento dell’aria. Anche se il fenomeno dello urban sprawl ha raggiunto i propri picchi di diffusione negli Stati Uniti, tutte le città rischiano di trasformarsi in città disperse se non gestiscono adeguatamente la propria crescita. LE MEGA-CITTÀ Vi sono due circostanze necessarie per la nascita di una città: lo sviluppo di un sistema agricolo tale da consentire la produzione e la conservazione di un surplus alimentare; un sistema di scambi commerciali tra regioni diverse e un'organizzazione sociale dominata da un’élite religiosa, politica e militare. È la combinazione di queste condizioni ad aver contribuito alla trasformazione degli insediamenti agricoli in luoghi più complessi dal punto di vista funzionale. Oggi si nota che i paesi più sviluppati tendono ad avere gradi di urbanizzazione superiori, ma tassi di crescita urbana più bassi. La causa di questo fenomeno va ricondotta ai cambiamenti sociali e tecnologici portati dalla Rivoluzione Industriale, quando l'affermazione dell'industrializzazione e della meccanizzazione ridusse la richiesta di manodopera nelle campagne, generando invece un aumento dell'offerta di lavoro da parte delle fabbriche e delle industrie delle città. Le regioni del mondo che si industrializzarono per prime furono infatti anche le prime ad assistere ad una massiccia diffusione dell’urbanizzazione, accompagnata da una rapida crescita economica. Per la maggior parte del XX secolo, le grandi città del mondo si concentrarono prevalentemente nell'America settentrionale e nell'Europa occidentale. Però, intorno al 1975 questo modello iniziò a cambiare radicalmente, grazie alla rapida diffusione globale dell'urbanizzazione e alla nascita delle mega-città, agglomerati urbani con più di 10 milioni di abitanti. Se non viene gestita in modo adeguato, una rapida crescita dell'urbanizzazione può essere accompagnata da una serie di problemi, come l'incremento della disoccupazione, la nascita di baraccopoli e un aumento del traffico e dell’inquinamento. 10.2 Funzioni, gerarchie e sviluppo economico LE FUNZIONI DELLA CITTÀ Per funzione di una città si intende un'attività (come il governo, l'amministrazione pubblica, il commercio, l’industria, la ricerca, l'istruzione ecc.) che risponde sia a esigenze interne della città, sia soprattutto esterne ad essa. Sono queste ultime che giustificano l'esistenza della città in rapporto alle più vaste entità territoriali (regionali, statali ,internazionali) per le quali la città esercita appunto le sue funzioni. Il raggio d'azione (detto anche portata) di tali funzioni può avere diversa ampiezza territoriale. Di conseguenza le diverse funzioni di una città possono interessare un numero maggiore o minore di 82 volta distinti in pubblici e privati: il tutto in relazione ai lineamenti del sito (rilievo, corsi d’acqua, linee costiere) e a loro eventuali trasformazioni storiche (bastioni, canali ecc.). Negli agglomerati tradizionali si individuano i due grandi tipi morfologici: piante a scacchiera (o a griglia) e piante radiocentriche, a cui se ne aggiunge un terzo, quello della città lineare, che caratterizza le città minori nate lungo una strada o le città che si sviluppano parallele alle coste (conurbazioni liguri e romagnole). Va notato che le classificazioni geometriche hanno di per sé poco significato se non vengono collegate con i processi storici che le hanno generate. Così ad esempio la pianta a scacchiera può rivelare un’origine romana, come nel caso di Torino e di Piacenza, oppure un'origine “franca” medioevale (Castelfranco Veneto), o pianificata barocca (Noto),o ancora un'origine coloniale come in molte città americane e australiane. È difficile che una città presenti una morfologia omogenea. In genere morfologie diverse si sono giustapposte e talvolta sovrapposte nel corso della storia, dando luogo a cesure e discontinuità nel tessuto urbano. Se a grandi linee la forma è data dalla planimetria, un esame morfologico completo deve tuttavia considerare la città come uno spazio tridimensionale.Variano infatti parecchio le volumetrie degli edifici passando dai grattacieli dei centri e dei sub-centri periferici alle villette a schiera dei quartieri suburbani. Nella città moderna acquistano poi crescente importanza gli spazi pubblici sotterranei come le ferrovie metropolitane, le loro stazioni e le gallerie commerciali, che in città a clima freddo come Stoccolma, Montréal e Toronto e molte città siberiane possono avere sviluppi chilometrici e connettere tra loro i principali edifici del centro. Le volumetrie rispecchiano le densità della popolazione e delle attività economiche che a loro volta sono regolate dal mercato del suolo e quindi dai valori di centralità, cioè dalla distanza dal centro principale e dai diversi centri e sub-centri in cui si articola città policentrica. Fin verso la metà del secolo scorso i modelli morfologici dominanti erano quelli derivati dallo studio delle città monocentriche europee e nord-americane. Schematizzando, le parti centrali erano occupate dal quartiere degli affari (CBD: central business district), caratterizzato da grattacieli nelle città americane e in quelle europee dalla compresenza di edifici storici di vario tipo. Adiacenti al quartiere centrale e in parte compenetrato con esso, si poteva osservare un mosaico di aree miste di residenza e servizi in parte degradate e abitate da classi sociali meno abbienti, in parte occupate da quartieri con varie specializzazioni: nei trasporti (aree portuali con i servizi e le industrie connesse, stazioni ferroviarie ecc.), nel divertimento (teatri, cinema, ristoranti ecc.), nella cultura (musei, università, biblioteche, gallerie, case editrici ecc.), oltre ad alcuni quartieri residenziali di pregio e altri con forte presenza di commercio e artigianato molto specializzati, che si estendevano lungo i principali assi stradali nella zona semi-periferica o di transizione e in quella periferica. Procedendo verso la periferia aumentava la presenza di stabilimenti industriali e di quartieri residenziali di edilizia popolare. Oggi lo schema monocentrico è ancora in parte riscontrabile nei centri minori, mentre nei sistemi urbani maggiori ha subito profonde modifiche dovute alla peri-urbanizzazione, alla dismissione dei grandi spazi industriali, e alla ridistribuzione di attività centrali e di popolazione nelle maglie e nei nodi della nuova griglia urbana poli-centrica. La dispersione urbana che caratterizza le nuove forme della città estesa a prima vista appare del tutto caotica, in quanto risultato di un'avanzata disordinata della città nella campagna dove si alternano villette unifamiliari, capannoni industriali, aree di deposito e smistamento delle merci, spazi di ricreazione (ad esempio campi da golf), ipermercati, allineamenti commerciali lungo le grandi arterie per la vendita di mobili, materiali da costruzione, auto, giardinaggio ecc., vecchi borghi rurali, spazi agricoli intensivi e altri incolti. In questi spazi non si riscontra più l'ordine derivante dal un unico gradiente regolare centro- periferia. La densità della popolazione e dell'occupazione del suolo, il prezzo del metro quadro e le centralità funzionali, presentano valori molto variabili. L'USO DEL SUOLO URBANO Tra i principali processi che influenzano la struttura di una città ci sono la centralizzazione, la decentralizzazione (sub urbanizzazione e peri-urbanizzazione) e l'agglomerazione. La prima indica quelle forze che portano la popolazione e le attività economiche a concentrarsi nei quartieri più centrali della città, mentre il concetto di decentralizzazione si riferisce invece al fenomeno opposto, ovvero la tendenza di una parte degli abitanti e delle attività a spostarsi verso gli spazi periferici: nelle aree suburbane o nella città diffusa. L'agglomerazione in un'area di 85 determinate attività può incidere sulla struttura tanto delle aree centrali, quanto di quelle periferiche. Le città sono spesso caratterizzate anche da una zonizzazione funzionale, in base all'uso dei terreni, riconducibile a tre categorie principali: quella residenziale, quella del commercio e dei servizi e quella industriale, riferendoci alle quali possiamo identificare e comprendere i modelli di distribuzione e le forze che li influenzano. Zonizzazione funzionale: la suddivisione del territorio di una città in zone caratterizzate da specifiche attività e usi del suolo. Il valore dei terreni è una delle forze economiche che più incidono sull'uso del suolo all'interno dei confini di una città. Una delle principali espressioni della forza delle istituzioni nel determinare direttamente gli usi del suolo urbano è la zonizzazione, attraverso la quale l'amministrazione cittadina può limitare l'insediamento di alcune attività come fabbriche o magazzini in alcune zone specifiche della città. Zonizzazione: leggi che regolano I'uso del suolo urbano e il suo sviluppo. LA GEOGRAFIA INTERNA DELLE CITTÀ DEI PAESI ECONOMICAMENTE AVANZATI I geografi urbani si interessano da molto tempo dell'organizzazione spaziale delle città e hanno sviluppato diversi modelli volti a descrivere la loro struttura interna. All'interno della città dei paesi economicamente avanzati gli abitanti e le diverse attività economiche non si distribuiscono in modo casuale, ma secondo una geografia legata a fattori soprattutto economici e socio-culturali. Il valore del suolo e, quindi, il costo degli affitti o dell'acquisto di fabbricati, crescono di regola dalla periferia verso il centro (o i centri, nel caso di città policentriche come Los Angeles). Questo fa sì che nelle città più importanti si localizzino nel centro i servizi di rango elevato, con ampia portata, che vengono a costituire il centro degli affari o CBD (Central Business District). Le industrie manifatturiere, sia a causa degli alti costi del terreno sia per motivi ambientali, tendono a localizzarsi invece alla periferia della città e oggi sempre di più fuori da essa. La popolazione con redditi medi e bassi si distribuisce in quartieri più o meno distanti a seconda del reddito. Nella scelta delle zone di residenza tuttavia non entra soltanto la prossimità al centro, ma anche valutazioni di tipo ecologico e di qualità della vita (cioè salubrità dell'ambiente, bellezza del sito). Per cui spesso quartieri residenziali ad alto reddito si situano anche fuori dell'agglomerato urbano, in zone di pregio ambientale. MODELLI DI FORMA E DI EVOLUZIONEDELLA STRUTTURA URBANA Nel 1925 il sociologo Ernest Burgess, tra i principali esponenti della Scuola di Chicago, ha sviluppato il modello delle zone concentriche, uno dei primi a descrivere la struttura spaziale delle città. Alla base di questa teoria c'era un'interpretazione ecologica della crescita urbana, secondo la quale i gruppi che vivono in città competono per il territorio e le risorse, proprio come avviene per le specie animali nell'ambiente naturale. Questi processi portano ad una separazione dei gruppi sociali lungo confini economici ed etnici, che delimitano le nicchie del territorio urbano occupate da ciascuna comunità. La mobilità sociale, l'immigrazione o i cambiamenti nell'uso dei terreni o nel loro valore possono causare lo spostamento delle persone da una zona all'altra, in base ad un processo che Burgess ha chiamato successione. Nel 1939 l'economista Homer Hoyt ha proposto un nuovo modello di descrizione della struttura spaziale urbana, chiamato modello dei settori. Esso attribuisce una grande importanza al ruolo dei mezzi di trasporto nella divisione dei cerchi concentrici in settori radiali. Nel 1945, Chauncy Harris ed Edward Ullman, due geografi dell'Università di Chicago, proposero il modello dei nuclei multipli. Harris ed Ullman hanno sottolineato come molte città non abbiano un solo centro commerciale e degli affari, ma molteplici nuclei centrali, che a seconda delle città, possono includere i porti, i quartieri amministrativi, le zone universitarie o quelle industriali. Tutti questi nuclei influenzano, in diverse proporzioni, i modelli di utilizzo dei terreni all'interno dei confini della città. Questo modello ha avuto conferma negli ultimi decenni con la formazione di spazi urbani policentrici. Esso testimonia l'effetto determinante dei mezzi di trasporto nella forma urbana. In molte città europee sono ancora evidenti le tracce della loro conformazione medievale, come ad esempio i resti delle antiche mura, che circondano un nucleo centrale quasi sempre caratterizzato da una chiesa cattedrale, una piazza del mercato, un'alta densità di edifici dalle altezze moderate ed un reticolo irregolare di strade piuttosto strette. 86 Nelle città dell'Europa occidentale queste caratteristiche hanno dato vita ad una specifica forma urbana, frutto dell'interrelazione tra diverse forze economiche, istituzionali e socio-culturali. In particolare è possibile individuare alcuni fattori che hanno svolto un ruolo determinante in questo processo: • La conformazione delle città è particolarmente adatta alla circolazione dei pedoni e delle biciclette e spesso il centro cittadino è chiuso al traffico automobilistico. • Il trasporto privato è più costoso che in altri continenti, a causa dell'elevato prezzo delle automobili, del carburante e di tasse ed assicurazioni. • I mezzi di trasporto pubblico sono economici e molto diffusi. • In molti paesi del centro e del nord dell'Europa le abitazioni di proprietà non sono molto diffuse. • Un forte attaccamento nei confronti degli edifici storici ha favorito la loro conservazione, rendendo difficili vasti progetti di rinnovamento urbano. • I quartieri centrali sono occupati da residenze, oltre che da uffici e servizi. 10.4 Le popolazioni e il governo delle città RESIDENTI E NON RESIDENTI Per molti secoli la popolazione della città coincise con quanti risiedevano e lavoravano nella città stessa. Normalmente la popolazione notturna coincideva con quella diurna. Nelle città moderne la popolazione notturna e quella diurna non coincidono più. La popolazione urbana si divide in tre categorie principali. La prima è quella dei residenti, mentre le altre due comprendono quanti sfruttano la città senza risiedervi stabilmente, i city users. Una è quella dei lavoratori pendolari, l’altra è la categoria degli utenti di servizi, costituita da quanti si recano in città per usufruire dei vari servizi della stessa, tra i quali al primo posto stanno quelli scolastici e sanitari. L'insieme dei city users varia numericamente a seconda delle città, ma nel caso delle metropoli raggiunge cifre ingenti. Per esempio i quartieri centrali di Tokyo, che già contano circa 8 milioni di residenti, si calcola che ne ricevano giornalmente altri 2 milioni. In Italia i pendolari si aggirano intorno agli 11 milioni di persone. L'afflusso di popolazione non residente condiziona lo sviluppo urbanistico delle città per quanto riguarda le reti di strade e autostrade per l’accesso, aeroporti, linee e stazioni ferroviarie, alberghi, centri per congressi e esposizioni, l'ubicazione delle sedi di rappresentanza di istituzioni finanziarie e di grandi industrie. LA COMPOSIZIONE SOCIALE E LA GENTRIFICATION Nelle città convivono persone con livelli di istruzione e tipi di occupazione diversi che ne definiscono la posizione socio-professionale, dalla quale derivano redditi e tipi di consumi diversi. Dalle rilevazioni statistiche, risulta che nelle città dei paesi economicamente avanzati è particolarmente numerosa la presenza di imprenditori, dirigenti e liberi professionisti, cioè delle classi corrispondenti a lavori mediamente più qualificati e remunerativi. La domanda di servizi di questa categoria di cittadini abbienti ha un effetto moltiplicatore sull'occupazione meno qualificata (personale addetto alle pulizie, alla sorveglianza, alla manutenzione, alla ristorazione, ai servizi alla persona ecc.). La possibilità di trovare impieghi di questo tipo ha richiamato nelle grandi città europee e nord-americane un flusso sempre più numeroso di popolazione povera e di lavoratori dequalificati provenienti dall’Africa, dall'America Latina e dall'Asia meridionale e, per quanto riguarda l’Europa, anche da alcuni paesi ex-socialisti dell’Est; tali immigrati operano in condizioni simili a quelle dei paesi di origine: elevata intensità di lavoro, sfruttamento, bassi salari, abitazioni sub-standard. Invece, nelle città dei paesi meno ricchi, con la dimensione urbana cresce la percentuale di popolazione meno istruita e più povera, dedita a lavori poco qualificati. Queste differenze tra le città del Nord e del Sud del mondo, che riguardano le disuguaglianze di reddito, si riflettono nella struttura stessa dell'abitato. Nei paesi industrializzati in un primo tempo la distribuzione delle classi sociali seguì grosso modo il gradiente negativo dal centro (abitazioni della borghesia) alla periferia (abitazioni degli operai ed edilizia popolare). In un secondo tempo, a cominciare dalle città americane negli anni Venti si ebbe un progressivo trasferimento dei più ricchi verso nuovi quartieri residenziali suburbani, mentre i vecchi quartieri 87 Nel paesaggio urbano sovente singoli edifici o complessi architettonici diventano tratti distintivi e simboli delle diverse città, come la Torre Eiffel a Parigi, i grattacieli di Manhattan e ora, quelli di città come Dubai. Il paesaggio urbano è caratterizzato da una concentrazione di beni culturali di regola molto superiore a quella riscontrabile negli spazi rurali. Ciò deriva anzitutto dal fatto che le città permangono per secoli e talvolta per millenni negli stessi luoghi. Perciò in essi si accumulano tutte le manifestazioni tangibili e intangibili delle funzioni che la città ha svolto nelle varie epoche storiche, ognuna delle quali ha sedimentatole proprie testimonianze. L'insieme di queste testimonianze costituisce il patrimonio culturale della città, il quale si articola in un certo numero di beni culturali sia materiali (o tangibili), sia immateriali (o intangibili). LA CITTÀ COME ECOSISTEMA La città può essere considerata come un ecosistema urbano. Ecosistema: insieme di animali e vegetali, collegati tra di loro e al loro ambiente da una trama di relazioni necessarie alla sua sopravvivenza. La città infatti per realizzarsi e riprodursi ha bisogno di continui scambi di materia ed energia con l'ambiente naturale terrestre. A differenza della maggioranza degli ecosistemi naturali tuttavia l'ecosistema urbano è caratterizzato da un costante squilibrio energetico con l'ambiente esterno. Oggi ogni ecosistema urbano ha come suo ambiente esterno l'intero pianeta, e ciò è uno dei motivi per cui non esistono più limiti di tipo tecnico alla crescita dimensionale della città. Il consumo di energia e di materiali comporta la produzione di rifiuti e di emissioni inquinanti che, se non fossero smaltiti, porterebbero al blocco dell’ecosistema urbano. Esso deve perciò sempre più organizzarsi per limitarli, smaltirli o riciclarli, e ciò di nuovo richiede ulteriori afflussi di energia dall'esterno. Lo studio degli ecosistemi urbani serve a progettare l'ambiente artificiale urbano tenendo conto dei cicli naturali, al fine di adattarsi il più possibile alle loro leggi e di farne il supporto del suo sviluppo funzionale. Questo tipo di sviluppo, che riduce al massimo sia i consumi di risorse primarie e di energia, sia i rifiuti, è quello che corrisponde ai requisiti della sostenibilità ambientale urbana. L'impronta ecologica: è un indice statistico che dà la misura di quanta superficie in termini di terra e acqua la popolazione urbana necessita per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per assorbire i rifiuti prodotti. Un indicatore utile per sapere in che misura ogni città sia data a questo tipo di sviluppo è quello dell’impronta ecologica urbana. Essa ci dice quante risorse naturali ogni città richiede per i suoi consumi e per assorbire i rifiuti che produce. Per calcolare l'impronta ecologica di una città si sottraggono i prelievi-consumi di risorse ambientali locali dai prelievi-consumi che la città (attraverso le importazioni di materiali ed energia e le emissioni di rifiuti) effettua a spese delle risorse ambientali del resto del mondo. Essa viene espressa in “unità di area”, corrispondenti a quanto il pianeta può produrre in media con un ettaro della sua superficie. Il risultato, diviso per il numero di abitanti della città fornisce l'impronta ecologica media della sua popolazione. I sistemi per ridurre l'impronta ecologica delle città sono molti e diversi tra di loro. In primo luogo si possono ridurre i consumi di energia con interventi sulla compattazione dell’edificato, sul traffico automobilistico, sulla coibentazione degli edifici, sull'efficienza energetica degli impianti di riscaldamento ecc. Si può anche intervenire sulle emissioni riducendo, riciclando e trattando quelle di materiali non biodegradabili, quelle di gas inquinanti e di anidride carbonica. 90 11. GEOGRAFIA POLITICA 11.1 I concetti chiave della geografia politica Geografia politica: branca della geografia che studia le relazioni di potere nello spazio geografico, con particolare riguardo agli enti istituzionali che esercitano un controllo su territori popolazioni e risorse. Sovranità: autorità completa ed esclusiva di uno Stato sul suo territorio, sui suoi cittadini e sui propri affari interni. Secondo alcuni la geografia politica è quella branca della geografia umana che studia le relazioni spaziali connesse all'esercizio del potere alle diverse scale. C'è chi, invece, limita il campo della geografia politica ai territori sovrani, cioè agli Stati. Questa è la definizione adottata dai geografi dalla fine dell’Ottocento, fin agli anni Settanta del secolo scorso, quando venne ritenuta troppo restrittiva. TERRITORIALITÀ E SOVRANITÀ STATALE Nella geografia politica sono basilari i concetti di territorialità e di sovranità. Il territorio viene definito come uno spazio di interazioni di due tipi: quelle rivolte a escludere gli altri dall'occupazione e dall’uso del nostro territorio (territorialità negativa o passiva) e quelle rivolte a competere e cooperare per il miglior uso di esso (territorialità positiva o attiva). Queste due facce della territorialità fanno parte di un unico problema che tutti i gruppi umani stanziali hanno: quello di ottenere dal territorio che abitano i mezzi necessari per vivere nel migliore dei modi compatibili con le risorse disponibili e per essere autonomi, cioè non soggetti alla volontà e alle decisioni di altri. Quest'ultimo obiettivo si ottiene se il gruppo umano è in grado di esercitare la completa ed esclusiva sovranità sul suo territorio, sulla sua popolazione e sulle relative risorse. Gli unici organismi a cui è riconosciuto il diritto di esercitare tale completa sovranità sono gli Stati. Essi riconoscono reciprocamente tale diritto e lo esercitano ciascuno entro i confini del proprio territorio. Ciò vale però solo sul piano formale, perché di fatto esistono Stati più forti, in grado di imporre i loro interessi e il loro controllo a Stati più deboli. Per esempio gli Stati Uniti esercitano un certo controllo su alcuni Stati dell'America centrale, come la Cina tende a esercitarlo su Myanmar e Vietnam. Inoltre negli ultimi decenni si è anche affermato il principio che organizzazioni sovra-nazionali possano intervenire a limitare la sovranità di quegli Stati che violano gravemente i diritti umani o che minacciano gli interessi generali dell’organizzazione. Così ad esempio si sono avuti gli interventi militari della NATO negli Stati della ex-Iugoslavia, in Iraq, in Afganistan e in Libia. In altri casi si impongono misure meno coercitive, come l’embargo, cioè il divieto di avere rapporti commerciali con lo Stato che si vuole condizionare o punire. LO STATO Stato: unità politica riconosciuta internazionalmente, caratterizzata da una popolazione stabile, confini definiti e un governo con la completa sovranità sul territorio, sugli affari interni e le relazioni internazionali. Nel lessico comune il termine paese è spesso sinonimo di Stato, anche se quest'ultimo termine esprime il concetto in modo più formale. Uno Stato esiste se presenta le seguenti caratteristiche: • possiede e controlla un territorio delimitato da confini definiti e riconosciuti dagli altri Stati; • sul suo territorio risiede stabilmente una popolazione che si riconosce nelle leggi e nel governo dello Stato; • la sua esistenza viene riconosciuta dagli altri Stati; • ha un governo che si occupa degli affari interni e delle relazioni internazionali. La sovranità costituisce un elemento fondamentale dell'esistenza di uno Stato e spesso è oggetto di dispute territoriali. Da questo punto di vista, è particolarmente interessante il caso di Taiwan, oggetto di una contesa territoriale cominciata negli anni Quaranta del secolo scorso, in seguito alla guerra civile scoppiata in Cina tra comunisti e nazionalisti, che portò alla nascita della Repubblica Popolare Cinese. Ai 91 nazionalisti rimase il controllo dell'isola di Taiwan, che da allora si è sviluppata con un sistema politico ed economico liberista, molto diverso da quello della Cina, dalla quale il governo di Taiwan non si è però mai dichiarato indipendente, continuando al contrario ad agire in nome della Repubblica Cinese e a presentarsi come l'erede dei governi al potere prima della guerra civile. Da parte sua, il governo comunista cinese rivendica la propria sovranità su Taiwan e considera l'isola la ventitreesima provincia della Cina, anche se di fatto non la controlla politicamente. Si potrebbe dire, quindi, che Taiwan de facto sia uno Stato dotato di una propria sovranità, controllato da un governo autonomo, ma de iure continui a essere parte della Repubblica Popolare Cinese, poiché la comunità internazionale non ne riconosce la completa sovranità. Questo esempio dimostra quanto non sia chiaro ad esempio come ci si debba comportare di fronte a una realtà come quella di Cipro, divisa fin dagli anni Settanta tra una parte settentrionale, controllata dalla Turchia, e duna meridionale, legata alla Grecia. O come quella dello Stato della Palestina, solo in parte riconosciuto dalle Nazioni Unite (in quanto membro dell'UNESCO), ma non riconosciuto da una settantina di Stati membri dell'ONU. STATO E NAZIONE Le persone che vivono all'interno dei confini di uno stato sono coloro che condividono il senso di appartenenza a una nazione, spesso frutto di un insieme di circostanze storiche, culturali, economiche e politiche. Anche se nel linguaggio comune i termini Stato e nazione vengono spesso considerati sinonimi, i geografi politici sono molto attenti a definire le differenze tra i due concetti, riassumibili nel fatto che nazione si riferisce ad un popolo, mentre Stato a un'entità politica giuridicamente riconosciuta. Di conseguenza, il nazionalismo è l'espressione dell'orgoglio di appartenenza e della lealtà nei confronti di una nazione, mentre il patriottismo rappresenta l'amore e la devozione verso il proprio Stato. La maggior parte degli Stati del mondo sono Stati multinazionali, al cui interno cioè vive una popolazione appartenente a due o più nazioni, come in Europa la Svizzera, il Regno Unito, la Spagna, e negli altri continenti Brasile, Canada, Cina. Si parla invece di Stato-nazione quando i confini dell'entità statale coincidono con quelli del territorio che si identifica in una nazione, il cui popolo condivide un senso di unità politica. Semplificando il concetto, si potrebbe dire che gli stati-nazione presentano una popolazione quasi completamente omogenea. È il caso dell’Islanda, dove gli islandesi sono il 94% della popolazione, o in Giappone, la cui quasi totalità degli abitanti (99%) si riconosce nella nazione giapponese. Nel mondo, però, sono pochissimi gli Stati che possono essere ricondotti a una definizione di Stato-nazione cosi precisa, anche se la maggior parte di essi presenta comunque una certa identità nazionale unitaria, grazie all'integrazione sociale, economica e politica dei suoi cittadini, anche se appartenenti a nazioni diverse. È il caso dell’Italia, dove convivono con la maggioranza, che parla italiano, gruppi che parlano lingue minoritarie. Alcuni Stati multinazionali, per vari motivi politici, economici e sociali, non sono stati in grado di creare le condizioni per una vera integrazione delle nazioni che hanno al loro interno e si sono disgregati, come è accaduto negli anni Novanta all'Unione Sovietica, alla Jugoslavia e alla Cecoslovacchia. Il crollo di questi tre Stati ha generato la nascita, dal 1991 a oggi, di ben ventiquattro nuove entità statali. Al contrario esistono nazioni senza Stato, come quella Curda, il cui territorio, detto Kurdistan (190.000 kmq), è diviso tra Iran, Iraq, Turchia, Siria, con qualche piccola enclave in Armenia. IMPERIALISMO E COLONIALISMO Imperialismo: controllo diretto o indiretto esercitato da uno stato nei confronti di un altro stato o di un’altra entità politica territoriale. Colonialismo: forma di imperialismo in cui lo stato dominante prende possesso di un territorio straniero, occupandolo e governandolo direttamente. L'imperialismo e il colonialismo sono processi legati l'uno all'altro, che hanno contribuito alla nascita di molti degli Stati multinazionali oggi esistenti. Questo fenomeno iniziò a diffondersi in modo massiccio a partire dal XV secolo, quando i portoghesi diedero inizio alle proprie esplorazioni lungo le coste africane e poi, insieme agli spagnoli, occuparono ampie porzioni del territorio americano. Queste prime conquiste stimolarono l'Olanda, la Francia e la GranBretagna a imitare le potenze iberiche, cercando nuovi territori al di fuori dei propri confini, seguiti nei secoli successivi anche da Belgio,Germania e Italia. 92 Nel caso della Spagna esso è stato utilizzato per confrontarsi con i movimenti separatisti di due delle nazioni che la compongono: quella basca (2,2 milioni di persone) e quella catalana (7,4 milioni). LE DIVISIONI TERRITORIALI INTERNE. CENTRALISMO, FEDERALISMO, SUSSIDIARIETA La maggior parte degli Stati è a sua volta suddivisa internamente, dal punto di vista politico- amministrativo, in territori più piccoli chiamati, a seconda dei casi, Stati (come negli USA o in Brasile), regioni, Länder (in Germania), province, distretti, contee, prefetture (in Giappone), Oblast (in Russia), dipartimenti (in Francia), territori (in Australia e in Canada), cantoni (in Svizzera),ecc. Questi a loro volta possono dividersi in circoscrizioni minori, fin alle singole municipalità. I rapporti tra il governo centrale e le sue suddivisioni territoriali interne variano notevolmente da Stato a Stato, a seconda dei gradi di autonomia che le varie costituzioni assegnano alle divisioni interne. A grandi linee si hanno nel mondo due sistemi di governo prevalenti: quello federale e quello centralista. Nei sistemi federali, lo Stato delega parte del proprio potere alle entità politico-amministrative di scala sub-nazionale. Esse hanno organi elettivi che possono darsi proprie leggi, fare piani e attuare politiche in ambiti definiti, di regola, dalla Costituzione dello Stato, cioè dalla legge su cui si fonda tutto l'ordinamento dello Stato stesso. Il riconoscimento delle autonomie alle comunità territoriali delle scale inferiori, risponde al principio di sussidiarietà, secondo cui se un ente sotto-ordinato (per es.un comune) è in grado di svolgere certe funzioni, l’ente sovra-ordinato (per es.la regione) deve lasciargli questi compiti. Nei sistemi centralisti, al contrario, il potere è concentrato esclusivamente nelle mani del governo nazionale, che si occupa della produzione e dell'applicazione delle leggi e delle politiche in ogni parte del territorio, lasciando alle autorità locali competenze puramente amministrative. Tra gli Stati tendenzialmente centralisti troviamo molti Stati europei, tra i quali soprattutto la Francia. Sono invece federalisti la Germania, I’Austria, la Svizzera e la Russia. L'Italia è uno Stato che da centralista com'era ai tempi dell’Unità, si è andato spostando gradualmente verso il modello federale, ma si può parlare, per ora, di un federalismo parziale e incompiuto. 11.3 Le istituzioni internazionali e sovranazionali Anche se il separatismo è una forza potenzialmente destabilizzante, i suoi effetti sono in un certo senso contrastati dalla diffusione dell’internazionalismo, lo sviluppo di strette relazioni politiche ed economiche tra stati, il cui esempio più chiaro è rappresentato dalle sempre più numerose istituzioni politiche sovranazionali. Un'organizzazione (o istituzione) sovranazionale consiste nell'unione di più Stati che decidono di lavorare insieme per raggiungere specifici obiettivi economici, militari, culturali o politici. L'Organizzazione delle Nazioni Unite, ad esempio ,è un'istituzione sovranazionale che promuove la pace e la sicurezza globali. L'Unione Europea(UE), l’ASEAN (Associazione delle Nazioni dell'Asia Sud-Orientale), la Comunità degli Stati Indipendenti(CSI, che raggruppa Stati che facevano parte dell'Unione Sovietica), sono istituzioni sovranazionali i cui membri cooperano per scopi economici e politici. La NATO, infine, è un'alleanza militare che unisce numerosi Stati nordamericani ed europei. Tutte queste istituzioni, come la maggior parte di quelle esistenti, furono fondate dopo la seconda guerra mondiale. I benefici dell'appartenenza ad un'organizzazione sovranazionale variano a seconda dei suoi scopi, ma spesso includono un aumento della sicurezza politica o il miglioramento delle opportunità commerciali. Fare parte di un'istituzione di questo tipo, però, ha anche dei costi, il principale dei quali è rappresentato dalla perdita di una parte della propria sovranità. L’ORGANIZZAZIONE DELLE NAZIONI UNITE L'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) fu istituita nel 1945, con lo scopo di promuovere la pace nel mondo. La missione di questa organizzazione sovranazionale comprende la costruzione e il sostegno di relazioni cooperative tra gli Stati e l'uso della diplomazia per negoziare soluzioni pacifiche, qualora si presenti il rischio di conflitti internazionali. 95 Oggi quasi tutti gli Stati del mondo (193 su 205) fanno parte delle Nazioni Unite, con l'eccezione di Stati non ancora da tutti riconosciuti come il Kosovo, Taiwan e lo Stato della Palestina. La sede principale dell'ONU si trova a New York, mentre in diverse parti del mondo si localizzano le sue agenzie specializzate, come l'Organizzazione Mondiale dellaSanità (OMS), con sede a Ginevra, o la Food and Agriculture Organization (FAO), il cui quartier generale si trova a Roma e i suoi organi principali: il Consiglio di Sicurezza, l'Assemblea Generale e la Corte di Giustizia Internazionale. Quest'ultima, con sede a L’Aia, in Olanda, si occupa delle dispute legali internazionali. L'Assemblea Generale, invece, composta da tutti gli Stati membri dell’ONU, ne controlla gli aspetti economici e supervisiona le attività di tutte le altre branche dell’organizzazione. Il lavoro quotidiano di mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, però, è appannaggio del Consiglio di Sicurezza, che a seconda dei casi, può proporre delle sanzioni contro un paese o ordinare l'invio di truppe di peacekeeping in un'area calda del mondo. Perché le raccomandazioni del Consiglio di Sicurezza vengano approvate, devono esserci nove voti favorevoli da parte dei membri non permanenti e il consenso unanime dei membri permanenti del consiglio. L'UNIONE EUROPEA L’operato dell'Unione Europea (UE) si sviluppa a scala regionale, con l'obiettivo di favorire la cooperazione economica e la coesione territoriale e sociale tra i paesi dell’Europa. La storia di quest'istituzione si è sviluppata attraverso cinque tappe fondamentali: • L’istituzione, nel 1944, del Benelux, I'unione doganale tra tre piccoli Stati europei, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, convinti di poter ottenere vantaggi economici e costi di produzione più bassi grazie alla cooperazione reciproca, alla rimozione dei dazi doganali e alla semplificazione del movimento delle merci all'interno dei confini dell’unione. • L'attuazione del Piano Marshall, dopo la seconda guerra mondiale, che stimolò la ricostruzione dell’Europa e incoraggiò la cooperazione regionale. • L’istituzione della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), che nel 1952 unì il Benelux a Francia, Germania Ovest e Italia, con l'obiettivo di rimuovere le barriere doganali per il commercio di acciaio e carbone. • La stipula del Trattato di Roma, che nel 1957 istituì la Comunità Economica Europea (CEE), chiamata anche Mercato Comune. Gli Stati sottoscrittori di questo trattato si impegnavano a rafforzare l'unione economica tra di essi, creando un mercato comune nel quale beni, persone, servizi e capitali fossero liberi di circolare da uno Stato all’altro. Gli Stati fondatori della CEE sono gli stessi che cinque anni prima istituirono la CECA. • L'entrata in vigore del Trattato di Fusione, firmato a Bruxelles nel 1967 sostituendo il Trattato di Roma. Attraverso questo accordo si gettarono le basi per la cooperazione politica degli Stati europei, attraverso la creazione di un Parlamento Europeo. Questa nuova prospettiva portò anche a un cambio di nome della CEE, che diventò Comunità Europea (CE). Alla base del Trattato di Roma c'era la convinzione chela CEE avrebbe presto incorporato nuovi Stati, che condividevano gli ideali politici e economici dei fondatori: nel1981 erano già sei i nuovi paesi entrati a far parte della Comunità Europea (Danimarca, Irlanda, Regno Unito, Grecia, Portogallo e Spagna). Questi dodici Stati membri siglarono nel 1992 il Trattato di Maastricht, o Trattato sull'Unione Europea, nome con la quale a partire da quella data viene indicatala principale istituzione sovranazionale europea. Da allora, altri 16paesi si sono aggiunti all’Unione, che conta oggi 28 Stati membri. Anche la Turchia si è candidata a far parte dell’Unione Europea. I negoziati, iniziati nel 2005, sono proseguiti con fasi alterne fin ad oggi, senza risultati. Le competenze dell'Ue si sono estese a vari campi attraverso una serie di trattati e di atti istitutivi, tra cui di particolare importanza quello che nel 1998 ha istituito la Banca Centrale Europea (BCE) e quello che nel 1999 ha introdotto l'euro come moneta unica, adottata poi negli anni successivi da 19 paesi, tra cui l'Italia nel 2002. Il funzionamento dell’UE è affidato a un certo numero di Istituzioni europee. - La Commissione europea, con sede a Bruxelles, detiene il potere esecutivo. È formata da un Commissario per ogni Stato membro, nominato dal Consiglio europeo, con l'approvazione del Parlamento europeo. - Il Parlamento europeo, composto dai rappresentanti dei cittadini degli stati membri eletti a suffragio universale diretto, ha sedi a Strasburgo, Bruxelles e Lussemburgo. Esercita il potere legislativo con il Consiglio dell'Unione europea. 96 - Il Consiglio dell'Unione europea ha sede a Bruxelles ed è formato dai ministri dei vari governi statali. - II Consiglio europeo, con sede a Bruxelles, è formato dai capi di stato o di governo di ogni paese membro e ha funzione di indirizzo generale per le politiche europee. Sono inoltre Istituzioni Europee la Corte di giustizia dell'Unione europea, la Corte dei conti europea e la Banca centrale europea. Alle Istituzioni europee si affiancano varie organizzazioni e agenzie. Redditi e ricchezza sono distribuiti in modo ineguale tra gli stati membri e le loro regioni. Allo scopo di superare questi divari l'UE attua una politica di convergenza economica e di coesione territoriale che modella in varia misura la geografia economica e sociale del continente. Il suo strumento principale è costituito dai Fondi Strutturali, riservati agli investimenti nelle aree meno sviluppate. Un altro campo di intervento importante dell'Ue è quello a cui si rivolge la Politica Agricola Comune (PAC) a sostegno della competitività del settore agricolo. Tra le principali politiche Europee vanno ricordate quelle per la ricerca e l’istruzione. A quest'ultima è dedicato Il programma Erasmus, per la mobilità studentesca, creato nel 1987. Dal 2009 la crisi dell'eurozona ha messo in dubbio la solidità dell'unione monetaria. La crisi ha toccato alcuni stati periferici come Grecia, Portogallo e Cipro, ma anche Italia e Spagna, rispettivamente la terza e la quarta economia dell'UE. Due sono i fattori che hanno determinato la crisi: l’alto livello del debito e la vulnerabilità del sistema bancario, privo delle coperture necessarie a sopperire ai debiti insoluti. La crisi dell'eurozona ha scatenato una grave recessione, alti tassi di disoccupazione e pesanti misure di austerity ovvero azioni volte a ridurre la spesa pubblica e ad aumentare l'imposizione fiscale. Per prevenire simili crisi in futuro, infatti, I'UE ha approvato il cd. fiscal compact che impone agli Stati membri la stabilità di bilancio. Si è proposto, inoltre, di dare alla Banca Centrale Europea il potere di monitorare lo stato di salute delle banche dell'eurozona, come già accade negli USA con il sistema della Federal Reserve. Tra le molte ragioni dell'importanza dell'Unione Europea, è utile in particolare metterne in evidenza due. In primo luogo, si tratta di un esempio di successo di cooperazione economica sovranazionale, che è stato preso a modello da altre organizzazioni simili nate in seguito. Inoltre, la nascita della UE ha portato la cooperazione sovranazionale a livelli mai raggiunti prima, al punto da mettere in discussione lo stesso concetto tradizionale di stato, soprattutto per quanto riguarda caratteristiche un tempo considerate prerogativa esclusivamente statale, come la presenza di un parlamento, di una banca centrale e di un inno ufficiale. Nel 2004 è stata redatta anche una costituzione dell'Unione Europea, la cui adozione è stata però respinta da alcuni stati membri (in particolare Francia e Paesi Bassi) attraverso un referendum. Alcuni si chiedono se l'UE possa essere considerata una nuova forma di stato sovranazionale. Per ora la risposta è negativa, non avendo una costituzione, né altre prerogative proprie dello Stato, come un esercito e una politica estera comune. 11.4 La geopolitica del mondo La differenza tra geografia politica e geopolitica non è sempre chiara né da tutti accettata. In generale, la geografia politica studia il rapporto tra spazio e potere così come storicamente si presenta, mettendolo in relazione con l'insieme dei fenomeni fisici, demografici, culturali, sociali ed economici compresenti sulla superficie terrestre. La geopolitica è invece una riflessione sui fatti studiati dalla geografia politica al fine di orientare l'azione politica. La si potrebbe perciò considerare come un'applicazione operativa della geografia politica, che cerca di dettare norme generali e quindi di fare previsioni a sostegno delle decisioni politico-territoriali. Secondo il geografo francese Yves Lacoste oggi la geopolitica studia le situazioni in cui due o più attori politici si contendono un territorio. Ciò può avvenire a tutte le scale, ma la scala più studiata è quella delle relazioni internazionali. LA TRADIZIONE GEOPOLITICA La geopolitica tradizionale si è occupata di studiare i vari modi in cui gli Stati acquisiscono il proprio potere territoriale, le relazioni spaziali tra i diversi Stati e le loro strategie di politica estera. 97