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Geraci-Marcone Storia romana, Schemi e mappe concettuali di Storia Romana

manuale di storia romana dalle origini alla caduta

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2022/2023

In vendita dal 05/12/2022

NottoladiMinerva95
NottoladiMinerva95 🇮🇹

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Scarica Geraci-Marcone Storia romana e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia Romana solo su Docsity! Geraci-Marcone STORIA ROMANA PROBLEMI DI METODO PER LA STORIA DI ROMA ARCAICA LA TRADIZIONE LETTERARIA Da studi fatti è stato appurato che l’età che va tra il IV e il III sec. a.C. potrebbe essere quella che ha assistito alla creazione, nelle linee generali, della rappresentazione della struttura di Roma arcaica. Ci sono due opere molto importanti che presentano la narrazione romana dalle origini fino all’incendio gallico, quelle di Livio e Dionigi di Alicarnasso, che scrivono in età augustea. Ci si pone il problema delle basi su cui gli scrittori si siano basati per narrare le vicende, che hanno ricostruito su una lunga tradizione di scrittura storica in forma di annali. Le opere dei due, per quanto possano differire nella tecnica e nello stile, sono simili nel racconto della storia della città e del suo sviluppo, poiché entrambi hanno rielaborato lo stesso materiale annalistico romano. Dionigi, la cui narrazione risulta più ampia, cercò di narrare ai lettori greci una prima ricostruzione dell’etnia romana e dello sviluppo effettivo di episodi storici; i loro procedimenti derivano sia dalla concezione tucididea di un ripetersi della storia per la costante coerenza della natura umana, sia per l’immaginata continuità istituzionale e, quindi, la possibilità di una ricostruzione del passato basandosi sul presente. La prima, vera storiografia romana sarebbe nata già nel III sec. a.C. con Fabio Pittore e Cincio Alimento, i quali scrivono secondo i principi della storiografia greca, servendosi anche di fonti greche, per contribuire all’accoglimento di Roma in una comunità culturale e politica riconosciuta superiore e per giustificarsi di fronte alle accuse di barbarie. Nel II sec. a.C., attenuatasi questa necessità di giustificazione, Catone, nelle sue “Origines”, pur conservando attenzione alle origini e alla presenza in questa fase di elementi greci (es. mito di Enea), volse l’accento sulla politica interna della città, che divenne, nel I sec. a.C., uno strumento che favorì il processo di attualizzazione della storia del passato. La storiografia romana più antica trova fattori unitari sia in Fabio Pittore che in Catone, nel console Calpurnio Pisone e negli “Annales” di Ennio. L’interesse per questi autori è per l’età contemporanea e per quella più prossima a questa, che si accompagna ad una tradizione relativamente ricca per il periodo delle origini e per l’età regia. Per il periodo delle origini e quello dei re c’è già stato nella storiografia greca della fine del IV sec. a.C. il richiamo alla storia di Roma nell’alveolo di quella greca, testimoniato anche dall’accettazione del mito di Enea, il quale avrebbe “convissuto” per qualche tempo con quello di Odisseo. L’interesse di questi autori per le vicende contemporanee porta ad una mancanza di dati relativi al passaggio tra monarchia e repubblica, mentre abbondano quelli relativi alle origini mitiche della città e agli avvenimenti a partire dal II sec. in poi. Nella metà del IV sec. a.C. venne considerato singolare l’accoglimento in Roma della leggenda di Romolo e Remo, probabilmente di origine locale ma rielaborata forse in connessione con eventi politici contemporanei. Con l’avanzata di Roma in Italia e nel Mediterraneo, con la sua vittoria su Pirro e Cartagine, il mondo greco, con Timeo, ricominciò seriamente ad interessarsi a Roma, volgendo l’attenzione più che alla storia arcaica della città, alle sue istituzioni politiche e militari. Di storia romana scrisse anche Polibio. I DATI DELL’ANTIQUARIA Li abbiamo da svariati scrittori, come Varrone, Plinio il Vecchio, che hanno raccolto nelle loro opere tutta una serie di indicazioni che nascevano dalla loro curiosità circa lingua latina, elementi architettonici romani, istituzioni romane. Verso la fine del IV sec. e gli inizi del III sec. a.C., in questa tappa nella formazione della tradizione, c’è stata una forte selezione di dati storici trasmessi oralmente e di fonti documentarie; molti dati dunque, che, pervenutici tramite l’antiquaria, non sono stati trasferiti a livello storiografico. L’annalistica ha lasciato da parte elementi di contenuto giuridico, economico, sociale e culturale molto preziosi; ci sono varie ragioni per questa trascuranza, prima tra le quali la loro estraneità al quadro politico lineare che si intendeva proporre. In età arcaica il collegio pontificio registrava, con metodo annalistico (elenco di datazioni anno per anno), gli eventi essenziali della comunità, in tavole in legno imbiancate: Annales Maximi, divisi in 80 libri che contenevano le annotazioni che il pontefice massimo registrava nel corso dell’anno sulla tabula dealbata, che veniva esposta al pubblico sulle pareti della Regia (la sua residenza). Tali annotazioni dovevano avere carattere sacro in prevalenza, però venivano anche registrati altri avvenimenti di rilievo. Si ritiene che Annali Maximi siano stati pubblicati durante la reggenza di Publio Mucio Scevola (130 a.C.). I contenuti erano essenziali e citavano soprattutto carestie, epidemie, eventi astronomici e religiosi. Vi è incertezza sull’inizio di queste registrazioni, secondo Dionigi, Polibio consultò l’unica tavola che all’epoca si conservava al collegio dei pontefici per la cronologia della fondazione di Roma. Lo schema di questa narrazione era dato dalla lista dei magistrati annuali, i Fasti Consolari; tale lista fu riconosciuta sicura nella sua autenticità. E’ un documento di grande valore che riguarda la storia più antica della città. Altri dati, da cui traevano spunto gli scrittori, erano dati dalle trasmissioni orali, che erano molteplici a seconda degli usi e del milieu sociale che le conserva, le elabora e le trasmette. Un saggio di Giorgio Pasquali, “La grande Roma dei Tarquinii”, pone attenzione su come la Roma della monarchia etrusca si presentasse come una città ampia e ricca con grande carattere greco nelle manifestazioni artistiche, culturali e politiche e con carattere mercantile, fiorenti attività commerciali e attività industriose. A tale fase sarebbe seguita una lunga fase decadentistica. Quindi, vi è una vasta penetrazione dell’influenza greca in Roma, data poi da ritrovamenti di frammenti di terracotta architettoniche, di ispirazione ionica, appartenenti ad edifici monumentali, resti di templi dedicati a divinità greche, resti di antiche muraglie serviane; l’ordinamento timocratico centuriato attribuito a Servio Tullio era ritenuto ispirato ad analoghe costituzioni greche; anche se molte componenti di questo quadro sono incerte. Così come ricorda anche Pasquali, il periodo di prosperità per la città sotto l’influenza etrusca e è testimoniato anche dalle prime importanti opere pubbliche: il tempio di Giove Capitolino, la costruzione della cloaca maxima, che permise la bonifica dell’area del Foro Romano, e il Circo Massimo. Il Pasquali sosteneva anche la tesi del Fraccaro sulle riforme serviane: Superamento della fase romulea di 3000 unità fornite dalle 3 tribù. Se una legione comprendeva 50 uomini per centuria, per un totale di 3000 unità, e ogni esercito constava di due legioni, è chiaro che erano stati raddoppiati i quadri di ogni singola legione precedente per formarne due e tale raddoppio, secondo il Fraccaro richiese l’istituzione, all’inizio della repubblica, di due consoli al posto di un unico comandante. Lo schema dell’ordinamento serviano, 5 classi di censo (riorganizzazione della cittadinanza su basi timocratiche) e 193 centurie, è stato però discusso, in quanto molti sostengono che esso non può risalire a metà VI sec. poiché tale struttura presuppone una complessa articolazione della società e grandi capacità economiche non ammissibili in età regia. Servio Tullio modificò la tradizionale ripartizione in tribù del popolo romano, che considerava come criterio di appartenenza il luogo di residenza. Vennero così create quattro tribù urbane (Suburana, Palatina, Esquilina, Collina); in questo modo, oltre ad omogeneizzare i cittadini romani, si poteva anche valutare il patrimonio dei singoli cittadini e quindi fissarne il tributo che questi dovevano versare alle casse dello stato, oltre che il censo, che ne determinava i diritti ed i doveri. Nel VI sec. si può pensare ad una società gentilizia che aveva al suo interno differenziazioni economiche, non ad una città politicamente organizzata su vari livelli di censo (tant’è che l’organizzazione timocratica della società, attribuita a Servio Tullio, viene considerata anacronistica in una società premonetaria). In tal modo, sfruttando le differenze all’interno dei gruppi, si potevano valorizzare le differenti capacità economiche ai fini della milizia: si è ben lontani dalla teorizzazione vera e propria di una città politicamente organizzata su vari livelli di censo, che si è avuta attraverso un lungo processo che ha avuto un momento decisivo tra V e IV sec. con l’assedio di Veio, con l’istituzione dello stipendium e del tributum. Dalla metà dell’VIII sec. a.C. si andò sviluppando lentamente nel mondo greco l’ordinamento oplitico, che ebbe un suo tipico armamento ed una particolare tecnica di combattimento. Inizialmente si usavano scudi quadrato/rettangolari, poi le prima file adottarono scudi rotondi, più leggeri, ma coprivano meno il corpo, pertanto marciavano tutti insieme accorpati. Tale modello venne introdotto in Etruria nella prima metà del VII sec. a.C. e fu adottato da una società oligarchico-gentilizia. Il sistema oplitico-falangitico passò dall’Etruria a Roma tra il VI e IV sec. a.C. e qui, la progressiva valorizzazione militare degli strati inferiori portò con sé conseguenze politiche e istituzionali che cambiarono l’impianto cittadino. La struttura statale conquistò sempre più consistenza e la stessa classe dominante dovette autoregolarsi per mantenere il potere. Certa è la tesi che la milizia serviana abbia raggiunto il suo completamento nelle sue 5 classi verso il V sec. a.C. inserendo proprio elementi inferiori cresciuti economicamente; e quindi, tra fine V sec. e inizi IV sec. potrebbe risalire il rapporto tra ordinamento serviano concluso e la struttura della legione del Fraccaro. L’espansione territoriale nella zona circostante all’inizio dell’età repubblicana e l’interesse di Cartagine a stringere rapporti con città etrusche ci è tramandata dal testo del primo trattato con Cartagine, riportato da Polibio, che prevede accordi di non invasione delle reciproche acque e clausole commerciali, riportandone, però, non il testo ma una sorta di riassunto con commenti personali. Grazie alle analisi critiche, è stato possibile stabilire che, in realtà, c’era una profonda diseguaglianza tra i due contraenti, in quanto i Cartaginesi avevano la possibilità di sbarcare militarmente nel Lazio, mentre i Romani non potevano avvicinarsi alla costa africana. È evidente che la Roma dei Tarquini e dei primi tempi della repubblica non era grande, come mostra anche la struttura cittadina instabile. Per quanto concerne il commercio, in realtà Roma si basava ancora sull’agricoltura. ROMA E I LATINI La comunità romana apparteneva al gruppo etnico latino. I Latini si estendevano a sinistra del corso finale del Tevere fino al Circeo. La metropoli dei latini fu Alba Longa, poi ci fu Lavinio. I Latini ogni anno offrivano un sacrificio a Giove. Nella prima metà del VI sec. a.C., durante il periodo dei re etruschi, Roma ha cercato di acquistare preminenza nel Lazio, basti pensare alla fondazione del Tempio a Diana sull’Aventino, attribuito a re Servio Tullio, nel tentativo di creare un culto federale sotto direzione romana. Probabilmente con Tarquinio il Superbo si è raggiunta la massima espansione di Roma nel Lazio; egli avrebbe organizzato in onore del culto di Giove varie manifestazioni che dovevano primeggiare (509 a.C.). Ad Aricia, i Latini, con l’aiuto dei Cumani, respinsero Porsenna. Nel 499 o 496 a.C. Roma ebbe la meglio sui Latini nella battaglia del Lago Regillo, giungendo alla stipulazione di un trattato tra Roma e i Latini: Foedus Cassianum, nel 493 a.C. (dal nome del console Spurio Cassio) e ad esso, dopo 7 anni, vennero annessi anche gli Ernici. Tale trattato conteneva la volontà di restare uniti contro la penetrazione di popolazioni montane appenniniche (Volsci, Equi) che spingendosi nella regione pontina fino al mare tagliarono le comunicazioni tra Lazio e Campania. Nel V sec. a.C. i Latini combatterono i popoli che li minacciavano e che volevano avere il controllo laziale. Roma fu impegnata anche contro gli Etruschi a nord e i Sabini a est. Il Foedus escludeva reciproche aggressioni, prevedeva reciproci appoggi anche militari e le pari spartizioni dei bottini di guerra, definiva rapporti commerciali. L’alleanza permise ai Romani di affrontare meglio le periodiche minacce di popolazioni quali Volsci, Equi, Sabini, che tentarono anche di stringere alleanze con i Romani o i Latini a seconda delle opportunità e che volevano compiere razzie. Le lotte contro questi popoli durarono molti anni, tanto che Livio si chiese come essi avessero radunato un numero efficace di soldati, attingendo probabilmente da giovani o da altri popoli. Ciò durò fino allo scioglimento della Lega Latina nel 338 a.C., data in cui le colonie latine iniziarono ad essere fondate da soli cittadini romani che acquisivano la cittadinanza latina. DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA (ORGANIZZAZIONE POLITICA E BUROCRATICA) Dopo Tarquinio, in età repubblicana, come sappiamo dai Fasti Consolari, vennero eletti due magistrati annuali (al termine del mandato entravano in senato), chiamati prima praetores e poi consoli. Tale possibilità va considerata in modo cauto, infatti pare che all’inizio vi fosse un praetores maximus (che secondo Livio doveva affiggere un chiodo alla destra nel tempio di Giove Capitolino) che comandava l’esercito, poi, solo in seguito, vi fu un’uguaglianza collegiale. Egli potrebbe essere stato un magistrato avente potere assoluto, seguito dal suo più stretto collaboratore, o colui che a turno, in una coppia con eguali poteri, ne deteneva l’esercizio. Secondo Festo, alcuni ritenevano che il pretore massimo fosse il detentore di potere militare al più alto grado, altri il più anziano. I più antichi magistrati si chiamavano pretori e non consoli (tra l’altro, secondo Zonara, i primi consoli furono Valerio e Orazio e i primi magistrati a chiamarsi consoli furono quelli del 449 a.C., primo anno dopo la caduta del decemvirato). Il consolato divenne magistratura suprema stabile dal 367 a.C. con le leggi Licinie-Sestie. E’ attestato che vi fosse un magister populi (populus= fanteria) che aveva alle sue dipendenze un magister equitum; tale nome restò anche ad indicare il magistrato sottostante al dictator, che in età storica era una magistratura straordinaria temporanea cui si ricorreva in circostanze militari e civili particolari ed era nominato dal console; ma il dictator era anche il magistrato annuale ordinario in varie città latine e il comandante dell’esercito latino e forse, tale carica, per una buona parte del V sec. a.C., pare fosse stata tenuta alternativamente sia da un romano sia da un latino. Tra il 444 e il 367 a.C. vi furono i tribuni militum consulari potestate (da 3 a 8), con primaria funzione militare, che spesso sostituirono i consoli. Verso il 495 a.C. nacquero le prime 21 tribù territoriali che soppressero quelle gentilizie d’origine e che furono indispensabili per l’organizzazione della società fondata sui patrimoni. Successivamente esse divennero distretti di voto per i comizi tributi e nel III sec. a.C. furono la base per arruolare i soldati. Dopo le 21 tribù ne furono create altre 14 e abbienti: fase premonetaria. Essa è importante come differenziazione sociale e politica dal VI al IV sec. a.C. e spiega la denominazione di aes alienum (bronzo altrui) per indicare il debito. Si trattava di un prestito di riserve metalliche altrui che un cittadino riceveva temporaneamente per mantenere la propria credibilità sociale e politica. IL PROBLEMA AGRARIO Gli incrementi territoriali conseguenti alle vittorie hanno consentito la distribuzione di terra ai cittadini meno abbienti. Secondo l’annalistica, le leggi agrarie risalgono ai provvedimenti del V sec. a.C., a partire dalla legge agraria di Spurio Cassio del 486 a.C. Con la nuova strutturazione del corpo civico fondata sulle proprietà terriere si crearono nuove tribù e distribuzioni territoriali a seconda delle esigenze statali. La tradizione letteraria ha delineato l’uso, nel tempo, delle terre conquistate. La tecnica dell’organizzazione agrimensoria del suolo (limitatio) non risalirebbe nel Lazio oltre il IV sec. a.C. per cui, è impossibile affermare come nel V sec. a.C. avvenissero le distribuzioni delle terre, tanto ad opera dei patrizi per i loro clienti, quanto dai plebei. Rozze sistemazioni del suolo le troviamo nelle antiche colonie della Lega Latina, quando la divisione e l’assegnazione del terreno avvenivano in base a un allineamento di segni delimitati da bande oblunghe di terra, sia in senso della latitudine che della longitudine (unica eccezione per Terracina, con sistemazione più precisa mediante cardi e decumani). Tale sistema si ritrova poi ancora nelle colonie latine dedotte da Roma tra il IV e il III sec. a.C. Con le conquiste in Sabina (305 e 290 a.C) ci fu un’ampia disponibilità di terra, tale da sviluppare così un complesso sistema di sfruttamento del terreno con la distribuzione viritane di 7 iugeri (equivaleva all’area di terreno che era possibile arare in una giornata di lavoro con una coppia di buoi e corrispondeva a circa un quarto di ettaro), con la deduzione di colonie latine e cittadine, con la vendita ad opera di questori di 50 iugeri a cittadini abbienti. Si è portati a credere che la Legge Agraria Licinia Sestia del 367 a.C. (che alcuni ritengono sia inventata) abbia ammesso anche i plebei all’utilizzo della terra pubblica. Già ai tempi di Romolo fu molto importante il problema agrario. Sia per Romolo che per altri re venne ammesso un processo di distribuzione delle terre conquistate a cittadini più poveri, così che questi non dovessero lavorare le terre degli altri, facendo nascere un forte contrasto tra patrizi e plebei. STORIA ROMANA E STORIA ITALICA Le molte tappe dell’avanzata di Roma sono state caratterizzate dagli scontri che essa ha avuto con molte popolazioni italiche. Nelle Origines di Catone le città italiche si inseriscono in un quadro unificante della storia di Roma, favorito anche dalle azioni politiche romane che assimilavano il vinto e ammettevano qualsiasi insegnamento straniero. Molta della storiografia antica infatti racconta la storia italica in una chiave interpretativa incentrata attorno a Roma. Solo nel 1700 si sono sviluppate delle tendenze storiografiche tese alla valorizzazione di altre tradizioni regionali che escludono Roma e il Lazio. Questo perché allora la storia italiana insisteva sui vantaggi del frazionamento politico e statale esaltando il piccolo stato perché retto da regime repubblicano, privilegiando la fase italica pre-romana perché tale storia vedeva, nella conquista di Roma, la sopraffazione politica e la rovina economica con la rottura di vecchie tradizioni ambientali. Venne studiata con interesse la civiltà etrusca, l’antica cultura meridionale sia greca che indigena, recuperata sia nelle componenti filosofiche e letterarie, sia da splendidi ritrovamenti archeologici a Ercolano e Pompei. Si sono studiati, nello stesso periodo, anche popolazioni dell’Italia Settentrionale: Liguri, Celti, Veneti. Accanto alle ragioni ideologiche e culturali, le indagini archeologiche, epigrafiche e linguistiche, favorirono un approfondimento delle conoscenze delle popolazioni italiche e delle loro forme culturali e civili. Le coste magna-greca ed etrusca avevano insediamenti cittadini; ovviamente il significato politico delle città greche era diverso da quello delle città etrusche, come pure differente era anche il loro contesto sociale: le città greche si basavano su un sistema di tipo feudale. In Italia centro-meridionale, dalla Sabina al Sannio, alla Lucania, al Bruzzio e all’Apulia, le popolazioni restarono a lungo disperse e le varie tribù erano organizzate in forme federali attorno ad importanti santuari, esaltati nei secoli XVIII e XIX come esempi di libertà dell’egemonia romana. A tali insediamenti corrispondevano strutture economiche e sociali prevalentemente pastorizie e agricole e con un diffuso sfruttamento del suolo. In Italia settentrionale, nella valle del Po, si ebbero due invasioni celtiche (IV sec., fine V sec. - inizi del VI). I celti ribaltarono gli insediamenti etruschi, si sovrapposero ai Liguri dando origine a culture che restarono sempre inferiori a quelle delle altre popolazioni italiche. I Galli, sistemati lungo l’asse padano e poi sull’Adriatico (zona picena), esercitavano qualche forma di agricoltura ma privilegiavano fare la guerra. Essi erano organizzati in clan i cui capi erano tanto più potenti quanti più clienti avevano. L’ETA’ MEDIO-REPUBBLICANA DALLA CONQUISTA DI VEIO ALLE LEGGI LICINIE SESTIE Nel 396 a.C., dopo una guerra durata un decennio, Veio, città ricca dell’Etruria a pochi km da Roma, venne conquistata e ciò rappresentò un grande evento nella storia di Roma, infatti, la grande estensione del territorio conquistato e l’insediamento di quattro tribù modificarono l’economia e la società romana. La conquista fu anche possibile grazie ad una potente milizia arricchita dalle classi della plebe che si erano appropriate della partecipazione alla vita politica e civica e quindi perfezionatesi anche nella milizia. La rivalità tra Roma e Veio era antichissima e va collocata molto probabilmente ai tentativi di entrambe di controllare le saline presso la foce del Tevere e di conseguenza il commercio del sale. Pare che il primo scontro tra i veienti e i romani risalga all’epoca di Romolo. Nel 406 a.C., dopo lo scadere della pace ventennale stipulata con Veio, le ostilità tra le due città si rinnovarono. I romani volevano, una volta per tutte, liberarsi dei veienti. La conquista della città non fu comunque semplice perché i vaienti si mostrarono tenaci e resistenti. Veio fu abbandonata da altre città etrusche nella guerra contro Roma, poiché le città etrusche non favorivano azioni comuni. A conquistare Veio fu Furio Camillo, un tribuno militare con potestà consolare e dittatore; si può considerare come il prototipo di una nuova figura politica in grado di riscuotere consensi da parte del popolo in virtù del suo valore e capacità militare. Dopo Veio, le guerre non furono più stagionali e i soldati ebbero diritto a uno stipendium L’ascesa di Roma venne interrotta dalla conquista gallica (probabilmente i Senoni) della città (390 secondo Varrone, realmente nel 387 o 386 a.C.). La milizia gallica assediò l’etrusca Chiusi e marciò contro Roma, battendo i romani sul fiume Allia, impadronendosi così di Roma e devastandola. L’alleata di Roma, la città etrusca di Caere, ebbe un ruolo importante nella vicenda gallica, pare che la città sia stata dapprima legata a Roma con un rapporto paritario per poi essere sottomessa, a seguito di una ribellione, come prima forma di civica sine suffragio. I galli si ritirarono dopo che fu pagato un riscatto (da Marsiglia) o forse dopo che i veneti occuparono i loro territori; se ne ebbe notizia molto confusa in Grecia e fu proprio quest’episodio che pose da parte della Grecia l’attenzione su Roma. La tradizione parla di un incendio le cui tracce archeologiche non si sono mai ritrovate, infatti, è stata avanzata l’ipotesi che esso sia una leggenda creata per spiegare la mancanza di documenti relativi alle fasi più arcaiche della storia di Roma. Roma, dopo i Galli, ebbe una rapida ripresa e nel IV sec. si impegnò nella guerra contro i Volsci, alleati, in alcuni casi, anche con Latini e gli Ernici, che erano ancora alleati con Roma tramite il foedus Cassianum del secolo precedente. L’alleanza pur rinnovata nel 358 a.C. venne meno nella guerra dal 341 al 336 a.C. Nel 381 a.C. Tusculum venne incorporata a Roma con diritto di voto e con la condizione di conservare la propria autonomia divenendo il primo municipium. In Etruria si sentì molto la minaccia di Roma, vi fu una serie di scontri con i Tarquini. In Roma, in campo politico, con l’aumentare del benessere e della partecipazione della plebe, divennero più acuti i contrasti tra patrizi e plebei. Nel 384 a.C. venne sventato un colpo di stato ad opera di Manlio Capitolino, un patrizio eroe della guerra contro i Galli. Dal 375 al 371 a.C. non vennero eletti magistrati curuli. Nel 375 a.C. i tribuni Gaio Licinio e Lucio Sestio (primo console plebeo nel 366) proposero tre leggi contro la potenza dei patrizi, le leggi Licinie Sestie, che prevedevano: - possibilità che gli interessi pagati sui debiti venissero detratti dal totale della somma dovuta; - introduzione di limiti all’occupazione privata del terreno (non più di 500iugeri a testa); - obbligo che uno dei due consoli doveva essere un plebeo. Queste furono approvate nel 367 a.C., quando, il dittatore Marco Furio Camillo, dopo la guerra gallica (quando fece ricostruire Roma), trovò grande clima di discordia a Roma a causa dell’opposizione plebea. Pertanto fu eletto Lucio Sestio come primo console plebeo e i plebei concessero alla nobiltà un pretore che amministrasse la giustizia. L’intesa fu celebrata con i Ludi Massimi, della durata di 4 giorni. Nacque anche la carica degli edili curuli, che ottennero i patrizi al rifiuto dei plebei di sostenere spese per i ludi votivi. I una serie di prestazioni e la privavano di una politica estera autonoma; tali trattati coinvolgevano gli stati alleati che dovevano fornire la milizia ed evitavano l’imposizione del pagamento diretto dei tributi. Tali trattati coinvolgevano le città greche di Magna Grecia, le comunità tribali sannitiche, le città etrusche a regime aristocratico. LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO MILITARE Nella guerra contro i Sanniti, nelle zone di montagna, lo schieramento a falange non poteva operare. Verso il 340 a.C. fu introdotto l’ordinamento manipolare: le centurie di 50-60 uomini che formavano una legione vennero riunite in gruppi di 120 uomini, e la fanteria fu disposta in 3 gruppi: hastati, principes, triarii, con diverso armamento, offensivo e difensivo. L’armamento difensivo era sempre graduato secondo il censo del cittadino, ma nel corso del III sec. a.C. le distinzioni di armamento basate sul censo si sostituirono al criterio di anzianità dei militi. Nel corso del III secolo scomparve progressivamente la leva per centurie, sostituita dalla leva per tribù. Vantaggi: - la prima era necessario che si svolgesse a Roma, mentre la seconda poteva avvenire localmente; - la prima richiedeva uno sforzo troppo grande alle classi di censo più alte che, essendo in numero minore, erano costrette a servire senza avvicendamenti, mentre la seconda valorizzava le classi medie; - la prima implicava una differenziazione nell’armamento delle diverse classi, la seconda richiedeva un progressivo eguagliamento dell’armamento e, quindi, il superamento delle distinzioni di censo. Tra il 281 e il 280 a.C. ci fu il primo arruolamento dei proletari (o capite censi), che precedentemente erano esclusi dal servizio di leva a Roma. ROMA E IL MONDO GRECO NEL III SEC. A.C. Alcuni storici, tra cui Polibio e Dionigi, affermano che sono scarse le conoscenze di Roma nel mondo greco. La scoperta della città va ad opera di Timeo da Tauromenio, uno storico esule ad Atene tra il IV ed il III sec. a.C. che trattò della guerra di Roma e Pirro, avvertendo l’approssimarsi anche dello scontro tra Roma e Cartagine. Menzioniamo anche Ieronimo di Cardia e Licofrone, che nel suo poema “Alexandra” intuiva la presenza militare romana per terra e per mare. La prima esigenza della politica greca fu di capire le radici e la potenza di Roma in cui la milizia cittadina non impiegava mercenari e dove gli schiavi liberati potevano entrare a far parte della cittadinanza, ponendo grande interesse sul funzionamento dello stato e della sua politica, con una grande concentrazione di potere nelle mani del senato e grande forza militare, strumento della potenza egemonica romana (come ricorda Polibio). Certo è che nel corso del III sec. a.C. Roma riconobbe la sua inferiorità culturale di fronte al mondo greco, avvertendo la necessità di colmare questa lacuna, per cui, accettò nella propria tradizione storica ciò che permetteva di agganciarla al mondo greco. Esempio lampante, in tal senso, fu la nascita della storiografia romana in lingua greca (fine III sec. a.C.), che forniva la rappresentazione di Roma in funzione della sua nuova posizione internazionale, acculturando i Romani anche sotto il profilo del mondo artistico greco. Anche nel mondo religioso la Grecia ebbe la sua influenza. LA CONQUISTA DELL’EGEMONIA IN ITALIA LE GUERRE SANNITICHE Roma si spinse in Italia meridionale per acquisire nuove terre su cui fondare nuove colonie, intrecciare nuove reti commerciali ed imporre il suo dominio. Tale espansione non fu facile perché Roma si trovò al centro tra le popolazioni bellicose e acculturate delle montagne e quelle prestigiose della Magna Grecia. Nel Sannio, per l’asperità del territorio, Roma dovette ricorrere a diverse tattiche militari con soldati di fanteria che potevano muoversi con relativa autonomia gli uni dagli altri. I Sanniti, detti anche Sabelli, vivevano in un territorio montagnoso e aspro retrostante la Campania (Attualmente Abruzzo e Molise). Vivevano prevalentemente di allevamento, agricoltura e artigianato. Erano raggruppati in tribù (touto) che a loro volta si articolavano in pagi (distretti atti al reclutamento della milizia, all’organizzazione agricola e alle pratiche religiose). Il potere era in mano ad un senato e dei magistrati, detti meddix, a capo del quale c’era il meddix tuticus, il capo della touto, di durata annuale. Nel 343 a.C. vi fu la prima guerra sannitica (343-341 a.C.), ove intervennero i Romani, scoppiata a seguito del tentativo dei Sanniti di annettersi ai Sidicini, che chiesero soccorso ai Campani. Capua e i suoi alleati chiesero aiuto ai Romani contro i Sanniti che stavano occupando la valle del Volturno, punto strategico di passaggio dagli altopiani della Sabina alle pianure di Campania e Lazio. Il conflitto, combattuto prevalentemente in Campania, si concluse con l’annessione dei Sidicini ai Sanniti e Roma ebbe l’egemonia sulle città della costa marina. Gli anni di pace verso i Sanniti permisero a Roma di consolidare le sue posizioni nel Lazio meridionale e in Campania, dove durante la guerra latina (340- 338 a.C.), scatenata dalla ribellione degli alleati latini che capirono di essere in posizione di inferiorità, i Sanniti combatterono al fianco dei Romani, i quali sciolsero la Lega latina ed incorporarono molte loro colonie, quali Aricia, Capua, Cumae, Formiae. Nel 328 a.C. ci fu la seconda guerra sannitica (326-304 a.C.), caratterizzata da maggiori insuccessi militari per i Romani, che scaturì soprattutto dalla fondazione della colonia latina di Fregellae in zona di egemonia sannita. Dopo la loro vittoria nel 322 a.C. su Sanniti e Apuli, i Romani dovettero poi arrendersi nelle Forche Caudine. Livio racconta che i soldati romani furono chiusi in trappola senza possibilità di fuga. Per cinque anni, perlopiù di predominio sannitico, non vi furono conflitti, che ripresero poi nel 316 a.C. quando i Sanniti riuscirono ad allearsi a varie popolazioni (tra cui Equi, Etruschi, Campani, Aurunci, Nolani) e ad ottenere una prima vittoria a Latulae ma, nel 305 a.C., i Romani rimontarono e sconfissero i Sanniti, catturando il loro comandante Staius Gellius. Roma si riprese le colonie Cales e Fregellae che erano state annesse ai Sanniti e ne fondò altre come avamposto al territorio sannita: Luceria, Saticula, Suessa Aurunca, Interamna, Lirenas e Sora. Nel 299 a.C. i Sanniti scagliarono un’altra offensiva (terza guerra sannitica 298-290 a.C.), che ampliò il fronte antiromano, composto da Sanniti, Umbri, Etruschi, Galli (anche se Livio è dubbioso sulla grandezza dell’esercito, in quanto pare che alcuni abbiano numericamente esagerato nel descriverlo). Mentre Roma combatteva a Nord contro i Galli Senoni, gli alleati dei Sanniti assalirono i Lucani che erano alleati a Roma. Gli avvii di tale conflitto sono documentati nell’Elogio funebre di Scipione Barbato, dove questi si prende il vanto di aver conquistato la Taurasia e il Sannio. Nel 295 a.C. gli alleati Sanniti sconfissero i Romani a Camerino, ma poi a Sentino i Romani rimontarono riportando la vittoria, grazie anche al tradimento di tre abitanti di Chiusi che rivelarono i piani dei Sanniti. Questi furono trattati come prigionieri arresisi e molti dei loro territori divennero romani. Mantennero però una propria autonomia e si fecero valere alleandosi con Pirro nel 280 a.C., che aveva organizzato una spedizione antiromana. PIRRO IN ITALIA Qualche anno dopo la vittoria sui Sanniti e sui suoi alleati, Roma dovette misurarsi con una potenza extraitalica, quella della monarchia ellenica dell’Epiro, il cui re all’epoca era Pirro. Roma aveva iniziato un’ambiziosa politica di penetrazione in Magna Grecia, presentandosi come sostenitrice delle aristocrazie al governo nelle varie città e giungendo a stringere alleanza con Crotone e a installare presidi a Locri e a Reggio. L’ambizione di Pirro di avere un’egemonia sulle città della Magna Grecia per poi sconfiggere Romani prima e Cartaginesi poi venne, quindi, appoggiata dalle città magnogreche, nonché da Macedonia, Siria ed Egitto. Abile stratega e uomo politico, pare che il suo aspetto incutesse paura; vi è anche una leggenda sul suo alluce destro che pare avesse potenza divina, tant’è che quand’egli fu cremato il suo alluce venne ritrovato intatto. Nell’autunno del 282 a.C. Roma, in conflitto nella sua politica di appoggio alle aristocrazie locali con Taranto (che aveva il porto più importante d’Italia), governata dai democratici, mandò dieci navi da guerra nel golfo di Taranto, malgrado un trattato che lo vietasse. I Tarantini assalirono le navi facendole a pezzi. I tarantini chiesero aiuto a Pirro, il quale fu il primo frequentavano il Mar Mediterraneo, in particolare Etruschi e Romani, con cui il primo trattato pare risalisse al 509 a.C. e in cui venivano stipulate condizioni di commercio in Lazio, Libia, Sardegna e Sicilia. I Romani non potevano oltrepassare il Capo Bello. In un altro trattato con i Romani si stipulava che Roma e Cartagine si impegnassero a combattere Pirro. Vista la larga espansione dei Cartaginesi, con il Trattato dell’Ebro (226 a.C.) Roma poneva ai Cartaginesi limiti espansionistici per cui questi ultimi non potevano espandersi al di là del fiume Ebro. LE GUERRE PUNICHE (ANNIBALE) Furono tre guerre combattute fra Roma e Cartagine tra il III ed il II sec. a.C., che si risolsero con la totale supremazia di Roma sul Mediterraneo. Sono conosciute come guerre puniche in quanto i Romani chiamavano punici i Cartaginesi. Dopo la guerra contro Pirro, grazie ad una serie di trattati con i vari centri di potere italici e alle colonie romane e latine, Roma controllava gran parte d’Italia, fino allo stretto di Sicilia, bramata dai Cartaginesi ma anche da Roma; all’inizio del III secolo, Roma aveva iniziato a penetrare in Sicilia. Dopo la sconfitta di Pirro, la città di Messana (Messina) venne occupata da mercenari campani, i Mamertini, seguaci di Mamers (il dio Marte), che furono sconfitti nel 270 a.C. da Gerone II re di Siracusa. I Mamertini chiesero aiuto a Cartagine e poi a Roma, che sotto la spinta delle gens Fabia e Claudia, decise di non tradire la fides promessa ai Mamertini e, anche se non era ancora militarmente preparata per una spedizione così lontana e difficile, decise di approfittare di tale evento per istituire una potente flotta per contrastare l’espansione di Cartagine, la quale si alleò con i Siracusani, in Sicilia. Si combatté in Sicilia e in Africa; per la prima volta, Roma costruì una flotta, che raggiunse le 300 unità durante la guerra; i Romani inventarono i corvi, tavolati muniti di arpioni con cui agganciare le navi avversarie e dare inizio ad una sorta di battaglia di fanteria sul mare. L’inizio della prima guerra punica (264-241 a.C.) sembrò favorire i Romani, infatti il console Appio Claudio sbaragliò i Siracusani e i Cartaginesi a Messina. Nel 260 a.C. i Romani furono vittoriosi a Mylae (Milazzo) sotto la guida di Gaio Duilio e attaccarono i Cartaginesi in Sardegna e in Corsica riportando altre vittorie. Nel 256 a.C. il generale Attilio Regolo vinse in Africa ben due battaglie navali, ma poi a terra fu catturato dai Cartaginesi; nel 242 a.C. il proconsole Lutazio Catulo sbaragliò i nemici alle Egadi, dopo vari alternarsi di battaglie navali e di terra. Nel 241 a.C. Cartagine capitolò e lasciò la Sicilia, pagando anche un tributo. Successivamente a Cartagine ci fu una rivolta dei mercenari, che fu sedata dai Romani, i quali però impedirono a Cartagine di ritornare in Sardegna e Corsica. Sicilia e Sardegna-Corsica diventano le prime provincae. Una provincia è un territorio extra-italico governato da un pretore. Dal 237 a.C. i Barcidi si estesero in Spagna grazie alle conquiste di Amilcare Barca, che furono poi proseguite, alla sua morte, da Asdrubale, che giunse sino all’Ebro e che fu poi successo, nel 221 a.C., da Annibale. L’espansione di Roma e Cartagine in Spagna rese necessario stipulare un trattato, il Trattato dell’Ebro (226/225 a.C.) che stabiliva che Cartagine non potesse sconfinare al di là del fiume Ebro. Nel 219 a.C., però, Annibale assalì la città spagnola di Sagunto, che era al di qua del fiume ed alleata con Roma. Da qui ci fu la seconda guerra punica (218- 202 a.C.), nata anche dal rancore cartaginese per l’umiliazione precedente (secondo Polibio, la prima causa della guerra fu il risentimento di Amilcare e il suo desiderio di rivincita; nonché il fatto che, pur di non guerreggiare in condizioni pessime, si vide costretto a pagare un’indennità ai Romani). Conquistata Sagunto, il generale Annibale marciò verso l’Italia nel 218 a.C. valicando le Alpi, percorso molto faticoso per il suo esercito e i suoi elefanti, soprattutto a causa della neve. Annibale sbaragliò subito i Romani a Ticino, per poi proseguire verso Roma. I Romani furono abbattuti a Trebbia, al lago Trasimeno e a Canne (216 a.C.). Annibale fu un grande stratega militare che seppe inventare sempre nuove tattiche che gli assicuravano la vittoria, come a Canne, in cui fece arretrare la parte centrale del suo schieramento, fece penetrare i Romani e li strinse in una morsa. Stessa tattica a Zama, in Africa, dove però non ebbe successo poiché i Romani, desiderosi di rivincita, estesero la loro linea di difesa per evitare di essere accerchiati, e conclusero la guerra a loro favore nel 202 a.C. ad opera di Scipione l’Africano. Negli anni centrali della guerra Roma adottò la tattica del temporeggiamento: non ingaggiavano più grosse battaglie ma disturbavano il nemico nei suoi accampamenti italiani. Tale tattica costrinse Annibale a farsi inviare rinforzi condotti da Asdrubale suo fratello, ma questi furono sbaragliati a Metauro nel 207 a.C. Scipione fondò in Spagna la colonia di Italica per indebolire i Cartaginesi e conquistare sempre di più la penisola iberica, affrontando varie battaglie con le tribù dei Celtiberi. Nel frattempo Annibale dominava in Italia meridionale, cercando di far sì che gli alleati italici abbandonassero i Romani, trattandoli in modo meno indulgente e affermando di voleva guerreggiare solo contro i Romani e non contro gli alleati, che invece avrebbero dovuto allearsi con lui per riottenere la libertà e i propri territori. La sconfitta di Annibale fu determinata molto probabilmente da un errore politico, poiché egli pensò che durante la sua permanenza in Italia gli alleati di Roma l’avrebbero abbandonata e che i Celti l’avrebbero aggredita, ma questi erano già stati sconfitti e indeboliti dai Romani, mentre gran parte degli alleati italici rimasero fedeli anche militarmente. I Punici stipularono trattati di alleanza con Capua, Locri, Lucani e alcuni Etruschi e in questo progetto Capua sarebbe dovuta divenire capitale d’Italia. Annibale pattuì anche con Filippo V di Macedonia e Gerone di Siracusa, che venne poi assediata dalla flotta romana nel 211 a.C. Tuttavia, la presenza di Annibale lasciò strascichi pesanti, quali morti, spopolamento, devastazioni, presupposto però di ampliamento delle proprietà agricole dei più ricchi. Le imposizioni dei romani,dopo la vittoria, furono terribili. Richiesero ai Cartaginesi: 10.000 talenti per 50 anni, la limitazione della flotta a solo 10 navi, la rinuncia della Spagna. CATONE IL CENSORE Catone nacque a Tuscolo, vicino Roma, nel 234 a.C. da famiglia non nobile ma divenne console e censore grazie all’amico Valerio Flacco, ed espulse dal senato membri delle più illustri famiglie. Era legato a valori tradizionali, tanto che proibì banchetti sontuosi e l’uso dei gioielli. Nel 195 a.C. da console comandò un’armata in Spagna contro i Celtiberi. Fu un raffinato intellettuale che oltre alle sue opere oratorie e giuridiche, militari e mediche, compose un trattato di agricoltura (“De agri coltura”) che ebbe molto successo, in cui propose una tenuta agricola lavorata da 15 schiavi ben nutriti, che fornisse i massimi profitti da olio e vino da vendere sui mercati urbani. Pare fosse una persona contraddittoria ad esempio fu un grande nemico politico-culturale di Scipione l’Africano, però fece sposare suo figlio proprio con una parente di questi. Nel 167 a.C. difese Rodi da chi voleva aggredirla militarmente con l’accusa di non aver appoggiato Roma nella guerra contro Perseo, poi guidò il partito di chi voleva la distruzione di Cartagine. Propose un’azienda basata sugli schiavi ma poi si atteggiava a difensore di piccoli contadini. In realtà queste apparenti contraddizioni simboleggiano il suo adattarsi ai tempi, dato che visse a lungo. IL FRONTE DEI BALCANI (LE GUERRE ILLIRICHE) Alla fine del III sec. a.C. i pirati Illirici infestavano il Mar Adriatico e i mercanti chiesero aiuto a Roma, che intervenne subito sconfiggendo la regina illirica Teuta (229-228 a.C.), che sosteneva le attività corsare, costringendola al pagamento di un tributo e al non sconfinamento. Il principe illirico Demetrio di Faro per 10 anni fu re e cliente di Roma, poi, con il pretesto di alcune infrazioni da parte di Demetrio, Roma dichiarò guerra all’Illiria e Demetrio dovette fuggire e rifugiarsi presso Filippo V re di Macedonia. A tale impresa Roma fece seguire tutta una serie alleanze, fino in Grecia, allo scopo di fare guerra in nome degli alleati attaccati dai nemici. Roma fu così astuta che non si trovò mai nella situazione di dover dichiarare per prima la guerra, conquistando così Grecia e Macedonia senza sembrare aggressiva. LE GUERRE MACEDONICHE Nel 216 a.C. Filippo V, re di Macedonia, intenzionato a contrastare l’espansione dei Romani nell’Adriatico, aiutò il principe illirico Demetrio a riconquistare il trono e stipulò un’alleanza con il generale cartaginese Annibale, contro Roma. Tale patto venne stretto in nome di vari dei e in base a due punti politici: Annibale agiva come un re d’Italia e trattava a nome dei suoi alleati in Italia; l’obiettivo dell’alleanza non voleva dire la distruzione di Roma ma una vittoria che portasse a un patto di amicizia. La coalizione riuscì così a contenere le mire espansionistiche del re macedone; la prima guerra macedonica (216-205 a.C.) si concluse senza vincitori né vinti con la pace di Fenice; Filippo si alleò con la Lega Achea e Roma con la Lega Etolica, che però firmò un armistizio con Filippo; Roma, che ASIA MINORE: IL REGNO DI PERGAMO CEDUTO AI ROMANI Nel 133 a.C. il re di Pergamo Attalo III morì senza eredi ma lasciò un testamento in cui affidava l’eredità ai Romani con la garanzia di libertà per la città di Pergamo. Ma Aristonico, forse un suo figlio, scatenò una rivolta, sedata dopo quattro anni, liberando gli schiavi e fondando la città di Doulon Polis (città degli schiavi). LE GRANDI RIVOLTE DI SCHIAVI: EUNO E SPARTACO A Roma vi erano migliaia di schiavi spesso trattati in modo disumano. Le rivolte schiavistiche nella storia di Roma si possono racchiudere in due più importanti. Nel 136 a.C. in Sicilia scoppiò la prima rivolta di massa con a capo Euno. La rivolta si allargò a macchia d’olio tra uccisioni, stupri e violenze accendendo così altre rivolte un po’ ovunque finché i Romani riuscirono a vincere l’assedio di Taormina catturando Euno e ripulendola da coloro che si erano dati al brigantaggio. Sempre in Sicilia nel 73 a.C. scoppiò un’altra rivolta, ad opera di un gruppo di gladiatori di Cuma, consapevoli della loro condizione servile e di morte certa, comandata da Spartaco. Subito furono incalzati da Roma e ci furono vittorie, vendette e sconfitte. Essi marciarono per circa 3000km, anche per poter fuggire, ma poi furono sconfitti da Crasso e le sue truppe in Lucania e poi vicino Brindisi, dove Spartaco trovò la morte. La violenza verso gli schiavi era comunque molto praticata attraverso severe punizioni, che venivano finanziate da appaltatori di strumenti di tortura e i torturatori erano stipendiati. Nei secoli di storia, prima di Augusto, i romani chiusero le porte del tempio di Giano, simbolo di assenza di guerre, per sole due volte: con re Numa e nel 235 a.C. LA TERZA GUERRA PUNICA (149-146 A.C.) La grande ricchezza di Cartagine, nonostante avesse perso le due guerre puniche e nonostante dovesse pagare un tributo regolare a Roma, fu forse la causa scatenante della terza guerra punica. C’è chi comunque ipotizza che fosse un avvertimento contro il regno di Numidia che, sotto il governo di Massinissa, si stava espandendo sulle coste dell’Africa disturbando gli interessi commerciali di Roma e dei popoli Italici alleati di Roma. Il senato discusse molto sul dichiarare guerra ai cartaginesi perché alcune fazioni, tra cui Catone e Scipione Emiliano, volevano la guerra a tutti i costi e altre, invece, tra cui il senatore Scipione Nasica, sostenevano la teoria metus hostilis, secondo la quale uno Stato doveva avere sempre un nemico di cui aver paura altrimenti ci sarebbe stato un decadimento della tensione morale e politica. Roma non dichiarò subito guerra ma cercò di ingannare Cartagine tramite delle trattative di pace. I cartaginesi si affidarono alla fides dei romani, inviarono 300 ostaggi e consegnarono le armi. I romani, però, volevano che tutti i cittadini abbandonassero la città. A questo punto i cartaginesi dichiararono guerra, che durò tre anni, fin quando Cartagine cadde per mano di Scipione Emiliano; i cartaginesi che non erano morti divennero schiavi romani e la città divenne territorio pubblico romano. I GRACCHI: CONTRO GLI ABUSI DEI RICCHI Dal matrimonio di Tiberio Sempronio Gracco e Cornelia, figlia di Scipione l’Africano, nacquero 12 figli, di cui ne sopravvissero solo tre: Tiberio, Gaio e Sempronia, che sposò Scipione l’Emiliano, figlio di Lucio Emilio Paolo adottato dagli Scipioni che non avevano figli maschi. Tiberio fu eletto tribuno della plebe nel 133 a.C. Egli propose l’approvazione di una legge agraria (una sorta di rivisualizzazione della legge licinia-sestia) per il possesso e l’uso delle terre pubbliche, stabilendo che nessuno poteva possedere più di 500 iugeri (1 iugero= 2500mq) di terra pubblica più altri 250 iugeri per ogni figlio maschio fino ad un massimo di 1000. Egli così voleva migliorare la condizione dei poveri e ricreare il contadino-soldato; voleva reinsediare nelle campagne i contadini che si erano inurbati, con il conseguente aumento della popolazione e quindi della leva militare e risolvere il dramma sociale attraverso le assegnazioni. Tale progetto venne bloccato dal tribuno Ottavio, per cui Tiberio Gracco lo fece sostituire da uno d’accordo con lui; da qui si creò una commissione di tre membri per distinguere le terre pubbliche da quelle private e redistribuire in modo inalienabile l’ager publicus illegalmente occupato. I primi tre triumviri furono Tiberio, Gaio e il suocero Appio Claudio Pulcro. Questo progetto era comunque difficile da realizzare, sia perché l’occupazione delle terre era ormai iniziata da molti anni e risultava complesso capire quali fossero le terre occupate illegalmente, sia perché era un’operazione che richiedeva grossi finanziamenti. Si oppose Scipione Emiliano, nel gruppo di ricchi che avevano abusato dell’ager publicus. Tiberio inoltre propose anche alcune modalità di divisione dei terreni di Pergamo, regno lasciato in eredità da Attalo III. Malgrado una legge vietasse la rielezione se non dopo di 10 anni dalla prima carica, Tiberio, affinché la sua politica avesse successo, si ricandidò come tribuno della plebe ma venne accusato di ambire alla monarchia e fu abbandonato dai suoi sostenitori, finché un gruppo guidato da Scipione Nasica lo uccise. Dopo 10 anni venne eletto tribuno il fratello di Tiberio, Gaio Gracco, che fece approvare una legge per la distribuzione di grano a prezzi ridotti per i ceti meno abbienti e fece costruire grandi magazzini per incamerarlo (lex frumentaria), così fu accusato di sperperare i soldi dello Stato. Inoltre fece passare una serie di leggi elettorali dette lex Sempronie: una legge elettorale per far votare le centurie secondo un ordine sorteggiato, una legge mediante la quale i compiti da assegnare ai consoli fossero stabiliti prima della loro elezione onde evitare favoritismi, e una lex de repetundis, contro estorsioni e abusi dei magistrati romani; inoltre nelle corti giudicanti le quaestiones privilegiò i cavalieri rispetto ai senatori (per porre fine alla corruzione interna ai tribunali, dove i governatori alla fine del loro mandato venivano sottoposti a giudizio, a causa del loro tiranneggiare le popolazioni locali, ma mai condannati perché lo stesso tribunale era formato da giudici senatori). Il repetundis va contro la lex Calpurnia del 149 a.C., in cui si stabilì che i senatori facessero parte delle corti giudicanti le quaestiones. Nel 122 a.C., approfittando di una modifica della legge, si fece rieleggere tribuno e con un’unica proposta legislativa egli voleva concedere il diritto di voto a tutti gli alleati italici, ma i Romani si opposero, timorosi di perdere i loro privilegi. Presentatosi per la terza volta alla candidatura fu però sconfitto da Livio Druso. I senatori suoi nemici scatenarono la violenza e Gaio chiamò in aiuto anche gli schiavi promettendo loro la libertà ma anche così non ebbe consenso, anzi fu ucciso da un suo stesso schiavo. Successivamente fu approvata una legge che aboliva il pagamento dell’affitto per gli aristocratici occupanti ager publicus e il vincolo dell’inalienabilità delle terre assegnate. Con l’urbanizzazione entrò in crisi la piccola proprietà contadina, facendo affermare le grandi ville agricole schiavistiche con colture a vino o a olio. Esse erano dirette da schiavi-manager (vilici), che facevano lavorare schiavi-operai. Nacquero anche nuove figure sociali, come gli esattori fiscali, detti publicani, e i finanziatori illegali. Anche l’esercito subì una trasformazione perché ora per arruolarsi non era necessario possedere delle ricchezze che garantissero la volontà di combattere per poterle difendere, ma bastava voler fare tale professione. In ambito politico, i nuovi ricchi premevano per entrare in senato. Il tribunato, con i Gracchi, diventò molto influente, tanto da indurre Silla a ridimensionarne i poteri. LA LOTTA POLITICA DOPO I GRACCHI A Roma non esistevano partiti politici con strutture e programmi definiti, si formavano in modo mobile dei gruppi politici che lottavano per vari valori o interessi. Raramente comunque il sistema politico rappresentava istanze e voti del popolo, come nel 195 a.C., quando le donne sostennero l’abrogazione della legge Oppia, che limitava il lusso nell’abbigliamento e i gioielli. La lotta per le istanze rappresentative era esclusivamente tra ricchi proprietari terrieri, che erano riusciti ad entrare in senato, e ricchi commercianti, che ambivano all’accesso; le masse potevano solo unirsi con gli uni o con gli altri. L’ORDINE DEI CAVALIERI I cavalieri (equites) erano un gruppo cui individualmente si accedeva previo esame del possesso di alcune prerogative, quindi il cavalierato è un titolo personale di origine civica e funzionale. C’erano equites romani equo publico e semplici equites. Entrambi dovevano avere un gran patrimonio ma solo alcuni, ¼ circa, avevano l’onore del cavallo donato dalla pubblica spesa. Essi dovevano avere prestanza fisica, saper addestrare il cavallo e aver militato nell’esercito per 10 anni. Ritroviamo tra i cavalieri: finanzieri, proprietari fondiari, commercianti, avvocati. Con l’espandersi del loro potere divennero amministratori ai più alti livelli dello stato. l’89 a.C. si combatté in Campania e nel Sannio, con la vittoria dei Romani e la riconquista delle città della costa sud campana. Il massacro e la caduta di Asculum chiuse la vicenda militare. La guerra sociale è stata condizionata da decisioni politiche, in quanto Roma, nel 90 a.C., decise, attraverso la lex Iulia de civitate, proposta dal console Lucio Giulio Cesare, di concedere la cittadinanza agli alleati fedeli e a chi avesse rapidamente deposto le armi. I nuovi cives dovevano essere temporaneamente iscritti in 8 tribù e poi distribuiti delle vecchie 35 tribù. Nell’89 a.C. fu probabilmente completato il processo di immissione dei nuovi cives con la lex Plautia Papiria, escludendo Sanniti e Lucani ancora in armi. Questa norma comprendeva gli alleati a sud del Po; a nord del Po invece le comunità ebbero un altro provvedimento ad opera del console Pompeo Strabone, la lex Pompeia, che trasformava le comunità in colonie latine (Ius Latii), con acquisizione della cittadinanza ai loro magistrati. LO STATO MUNICIPALE L’estensione della cittadinanza romana necessitava un cambiamento nei fondamenti cittadini dello stato romano. Il centro del potere politico e decisionale restò a Roma, per cui la classe dirigente tradizionale nei decenni successivi alla guerra non subì notevoli trasformazioni, che si ebbero invece a seguito delle guerre civili. Fu invece interamente ristrutturato il territorio romano con la trasformazione delle comunità latine e italiche in cantoni dello stato romano: municipia. Essi prevedevano dei magistrati (quattuorviri) nominati da Roma, un senato locale e un’assemblea popolare. Essi ebbero molta autonomia e la loro costituzione venne affidata a personaggi romani influenti, che dovevano appunto determinare i territori e la sede dei municipia. Uno dei processi fondamentali della municipalizzazione fu il processo di urbanizzazione, che in alcune zone fu accompagnato da un riassetto agrimensorio dei nuovi territori municipali, al fine di determinare, attraverso catastazioni e censimenti, le proprietà rurali e la struttura sociale degli abitanti, e di identificare i ceti direttivi dei nuovi municipi. Tale assetto portò profondi cambiamenti in molte aree italiche e nei rapporti tra uomo e natura e un forte avanzamento anche economico dei territori. I GUERRA MITRIDATICA – I GUERRA CIVILE – SILLA L’impegno romano contro gli insorti italici aveva fatto passare in secondo piano i problemi di politica estera. Tra il 90 e l’89 a.C., in Oriente, la tensione con il re del Ponto Mitridate si era aggravata. Il re rappresentava tutte le tendenze antiromane, per cui la guerra risultò inevitabile. Toccò al console Lucio Cornelio Silla (88 a.C.) condurre questo nuovo conflitto. Mitridate nel frattempo aveva massacrato negotiatores italici e romani in Asia e si era schierato con Atene. Il tribuno Sulpicio Rufo, probabilmente per alcune critiche nei confronti di Silla, da parte del ceto equestre e della fazione mariana, fece distribuire nuovi cives nelle 35 tribù e con una votazione popolare trasferì da Silla a Mario il comando della campagna contro Mitridate. Appreso ciò, Silla, che era in Campania, mosse le sue truppe contro Roma, seguito dal suo esercito (ove vi erano molti proletari, arruolati durante la guerra sociale) e abbandonato dagli ufficiali, e qui giunto prese provvedimenti contro Sulpicio e Mario e propose un programma di riforme costituzionali atte a rafforzare il potere del senato, ampliandolo di 300 membri e ridimensionando il potere dei tribuni; tali riforme non furono però adottate perché Silla era spinto dalla necessità di recarsi in Oriente. Il contrasto politico allora riesplose con il sopravvento di Lucio Cornelio Cinna (console nell’87 a.C.), console con Mario che, al suo settimo consolato, morì poco dopo, seguito da Pompeo Strabone. Nell’84 a.C. Cinna fu ucciso dai romani perché era troppo a favore degli italici. Nell’87 e 85 a.C. Silla, che aveva ripreso il comando della guerra, vinse su Mitridate in Grecia e Asia, costringendolo alla Pace di Dardanos. Nell’83 a.C. tornò in Italia sbarcando a Brindisi, sapendo che la disposizione dell’Italia era a favore dei mariani, con cui tentò invano un accordo. Dalla guerra civile che ne derivò (82 a.C.) Silla ne uscì vincitore nella battaglia finale di Porta Collina, mentre i maggiori danni li ebbero i Sanniti. Il consenso intorno a Silla crebbe al pari dei suoi successi militari. Egli assunse una dittatura costituente procedendo ad una serie di riforme (vedi fonti). La riorganizzazione della res publica fu inizialmente accompagnata da misure di repressione degli avversari vinti, nonostante le liste di proscrizione (nel mondo romano indicava un avviso pubblico con cui si notificava la messa in vendita dei beni di un debitore ma in tale periodo divenne un metodo di eliminazione di massa, con l’esilio o la soppressione fisica, dei rivali politici o dei nemici personali, i cui beni venivano poi incamerati dall’erario o utilizzati per pagare i soldati delle legioni) vietassero stragi e persecuzioni inutili. Al seguito di Silla si era distinto Gneo Pompeo, figlio di Pompeo Strabone che venne eletto console nel 70 a.C., con Crasso, senza iter politico regolare e che represse le sommosse che si crearono in Spagna, dopo la guerra civile, ad opera del generale Sertorio, il quale creò una sorta di antistato. Pompeo, per riuscire nell’impresa, ebbe un imperium proconsolare. SPARTACO – CATILINA Dopo Silla la vita politica di Roma ebbe nuove difficoltà e il potere effettivo restò nelle mani di una ristretta cerchia oligarchica. Ci furono insurrezioni fallite contro l’ordine sillano, si mirò principalmente al ripristino del pieno potere dei tribuni della plebe, circoscritto da Silla, raggiungendo tale traguardo nel 70 a.C. con il consolato di Pompeo e Crasso. I vari conflitti sociali e civili in Italia avevano messo in crisi l’economia e l’agricoltura, provocando disagi, e probabilmente l’insurrezione schiavile e da qui Spartaco, prima schiavo e poi gladiatore, portò in conflitto le masse servili, le quali rivendicavano le loro libertà e tentarono di lasciare l’Italia, ma il loro tentativo di passare in Sicilia fallì. La rivolta, nel 73 a.C., ebbe molte sopraffazioni sui romani ma fu domata tra il 72 e il 71 a.C. ad opera di Licinio Crasso, che fu aiutato da Pompeo di ritorno dalla Spagna. Stroncata la rivolta restò il disagio economico e sociale, che un tribuno della plebe cercò di domare, con una legge agraria, fallendo. Di tale disagio ne approfittò il patrizio Sergio Catilina, un proprietario terriero sanguinario seguace di Silla e già processato per estorsione nel 67/66 come amministratore fraudolento in Africa, a cui risultò difficilissimo far parte della politica perché ciò richiedeva una grande disponibilità di denaro liquido, quindi il suo tentativo di entrare nel ristretto gruppo che controllava la politica era disperato, tanto che, ordita una congiura nel 63 a.C. e scoperta da Cicerone, i complici di Catilina vennero arrestati e messi a morte mentre egli scappò in Etruria con una banda armata che fu disfatta a Fiesole. Cicerone era convinto di aver salvato la repubblica ma il tribuno Clodio Pulcro, appoggiato da Cesare e Pompeo, accusò Cicerone per quella condanna senza appello, tale che egli si allontanò da Roma e gli furono confiscati i suoi beni. Il tribuno Clodio, che con un aveva fatto approvare un plebiscito sull’esilio di Cicerone, instaurò bande armate e violenza, finché nel 57 a.C. il console Cornelio Lentulo richiamò Cicerone dal suo esilio ed organizzò bande anticlodiane, cosicché Clodio nel 52 a.C. fu ucciso in uno scontro ad Aricia. L’IMPERIALISMO ALLA FINE DELLA REPUBBLICA (II GUERRA MITRIDATICA) Nel 74 a.C. Mitridate, che aveva dichiarato guerra a Roma e alla Bitinia, regno che era stato lasciato in eredità ai romani da Nicomede IV, minacciava ancora di muovere guerra a Roma; il console Licinio Lucullo, fedele collaboratore di Silla, ottenne il comando della guerra contro il re pontico, vincendolo più volte, senza però ottenere un definitivo successo. Rientrò a Roma nel 66 a.C. e la guerra proseguì con al comando Pompeo che nel 67 a.C. aveva sconfitto la pirateria nel Mediterraneo anche grazie alla lex Gabinia, con cui Pompeo aveva potere su qualunque governatore di provincia (proconsole o pretore) fino a 20 km dalla costa. Con la lex Manilia del 66 a.C. assunse il comando contro Mitridate, sconfiggendolo definitivamente e riorganizzando i domini romani in Asia e costituendo la nuova provincia di Siria. Pompeo conquistò anche Gerusalemme tra il 66 e il 63 a.C. Rientrato in Italia nel 62 a.C. a Brindisi sciolse l’esercito. ALLEANZA TRA POMPEO, CRASSO E CESARE (PRIMO TRIUMVIRATO, GUERRA GALLICA) Una nuova situazione intorno al 60 a.C. si andava delineando nella scena politica romana. Il disgregarsi della situazione politica e i contrasti nella classe dirigente portarono ad accordi tra le personalità più influenti del periodo. Nel 60 a.C. il console Giulio Cesare, discendente di gens patrizia, che ebbe l’appoggio popolare, strinse un’intesa privata, che fu mantenuta segreta per un po’ di tempo, con Pompeo e Crasso à I triumvirato. Plutarco scrive che non era altro che una congiura per dividersi il potere e distruggere la costituzione. Crasso e Pompeo erano stati consoli insieme, quando avevano emanato una legge per il completo espansione era la Spagna, Cesare vi si recò e sconfisse i legati pompeiani nel 49 a.C. Nel 48 a.C. Cesare sconfisse Pompeo a Farsalo, in Tessaglia, poi lo inseguì in Egitto e lo uccise. Nel 47 a.C. Cesare si recò in Africa per combattere contro le forze pompeiane, le quali furono sconfitte. Gli fu confermata la dittatura per altri 10 anni e nel 44 a.C. ebbe la dittatura a vita. Il programma politico del governo cesariano fu quello di molte misure sociali, tra cui: colonizzazione in Italia e province, costruzioni pubbliche a Roma, ampliamento del senato, aumento dei magistrati, dittatura continua, controllo sui costumi e il prenome di Imperatore, tenne il terzo e quarto consolato solo come titolo e nominò due consoli al suo posto, affidò le corti giudicanti a senatori e cavalieri. Non potendo eliminare i gruppi di oppositori della classe dirigente tradizionale, applicò la politica della clemenza. Cesare voleva riprendere la campagna contro i Parti dopo il tentativo fallito di Crasso per un decisivo rafforzamento del dominio romano, ma fu ucciso alle Idi (15) di Marzo del 44 a.C., nella curia del Senato, da una congiura oligarchica, giustificata probabilmente dal timore di un ritorno della monarchia. Dopo la morte di Cesare da parte dei cesaricidi non vi fu alcuna iniziativa politica. Il senato era composto in maggioranza da elementi cesariani (che furono colti di sorpresa), anche la plebe e le masse militari presenti in Roma. Era dunque necessario un compromesso tra i gruppi politici contrapposti e l’amnistia stabilita per gli uccisori. Non si poterono abolire le iniziative politiche di Cesare, anzi, si decise di applicare decisioni prese dal dittatore che non erano state ancora attuate (il console Marco Antonio ne approfittò per far passare per cesariani alcuni suoi progetti). L’influenza di Cesare restò forte nel senato, la plebe urbana era ostile ai cesaricidi e molte provincie d’Occidente erano controllate da cesariani (tra cui Emilio Lepido a capo della Gallia Narbonense), così i cesaricidi Gaio Cassio Longino e Marco Giunio Bruto fuggirono, governando province orientali e organizzando la resistenza armata contro i cesariani. Nel 44 a.C. giunse dall’Epiro, ad ostacolare la preminenza di Marco Antonio, un giovane pronipote di Cesare, Ottavio, designato come suo figlio nel testamento, che prese il nome di Giulio Cesare Ottaviano e che denotò una grande abilità politica. Intanto, Marco Antonio si muoveva verso la Gallia Cisalpina per scacciare il cesaricida Decimo Bruto. Ottaviano si mosse contro Antonio che si era stanziato a Modena e si era rivelato ostile al senato. Sconfitto Antonio, Ottaviano fu eletto console e fu emanata una legge, la lex Pedia, che istituiva delle corti giudicanti contro gli uccisori di Cesare. Di lì a poco con un voltafaccia Ottaviano si alleò con Antonio e Lepido à II triumvirato, con legge votata nei comizi, che si contrapponeva alle tradizionali magistrature per la durata di 5 anni; si trattava di fatto della spartizione del potere in vista della guerra contro gli oppositori di Cesare. Tra le prime vittime delle proscrizioni, premessa delle confische che servivano anche a procurare terre da distribuire alle truppe come ricompensa, ci fu Cicerone. Le masse militari fedeli a Cesare esercitarono pressione contro possibili risorgenze dell’oligarchia senatoriale. Nel 42 a.C., mentre Lepido restava a Roma, Antonio e Ottaviano erano a Filippi (Macedonia) contro Bruto e Cassio che furono sconfitti. Antonio, oltre a riorganizzare le province orientali, ebbe anche il controllo delle Gallie mentre Lepido ebbe il comando delle province africane. Ottaviano stabilì il suo potere in Italia mentre in Sicilia Sesto Pompeo, che disponeva di una potente flotta, accolse rifugiati dalle proscrizioni e da Filippi e bloccò spesso i rifornimenti per Roma. La posizione di Ottaviano in Italia divenne insicura e piena di astio; egli confiscò terre italiche per darle alle truppe e tale peso ricadde soprattutto sul ceto medio italico, da cui proveniva gran parte delle truppe, suscitando gravi contrasti. Una rivolta a tal proposito partì da Perugia e fu capeggiata dal fratello di Antonio. In risposta Ottaviano prese le Gallie al triumviro e, per paura che questi si alleasse al nemico Sesto Pompeo, decise di sposare una parente di quest’ultimo, Scribonia. La rottura tra Antonio e Ottaviano si risolse con l’incontro a Brindisi. Un accordo con Sesto Pompeo a Pozzuoli nel 39 a.C. gli riconobbe il governo delle isole del Mediterraneo. Ma Pompeo continuava ad attaccare le coste italiane, per cui il console Agrippa assunse in comando di una nuova battaglia contro Pompeo, e Antonio fornì aiuti dato che Ottaviano ebbe difficoltà nella riconquista della Sicilia. Nel 36 a.C. il triumvirato venne rinnovato per altri 5 anni (per gli accordi ad Antonio spettava l’Oriente, a Lepido l’Africa, ad Ottaviano l’Occidente) e Agrippa vinse definitivamente su Sesto Pompeo. Ripresa la Sicilia, Lepido, avendola rivendicata per sé, ottenne solo il sollevamento dall’incarico di triumviro (rimase pontefice massimo, titolo che alla sua morte prese Ottaviano) e Ottaviano si proclamò restauratore dell’ordine e della pace. Nel frattempo i due furono impegnati in altre campagne, quella armenica e partica Antonio e quella illirica Ottaviano. Allo scadere del triumvirato vi fu un inasprimento dei contrasti tra i due triumviri, tanto da sfociare in una vera e propria guerra civile, che ebbe come casus belli l’unione tra Marco Antonio e la regina d’Egitto Cleopatra: poiché il senato non vide di buon occhio la spartizione ai figli di Antonio e Cleopatra di terre che appartenevano a Roma, Ottaviano si impossessò del testamento del rivale e lo lesse pubblicamente scatenando reazioni negative e, proclamandosi campione delle tradizioni romane ed italiche, dichiarò guerra a Cleopatra. Lo scontro finale, noto come battaglia di Azio, si ebbe il 2 settembre del 32 a.C. sulla costa adriatica della Grecia, in cui Agrippa ne uscì vincitore. Nel 31 a.C. Ottaviano si impossessò dell’Egitto e Antonio e Cleopatra si uccisero. L’età del triumvirato fu un’era di violenza politica e sociale, soprattutto per l’Italia, in cui Ottaviano, responsabile di violenze e della guerra civile, cercò poi di legittimare il suo potere e le sue azioni e di far dimenticare le sue responsabilità nelle stragi, nelle proscrizioni e nelle confische violente. L’ECONOMIA TRA LA FINE DELLA REPUBBLICA E L’IMPERO Le guerre civili, le rivolte, la lotta contro i pirati e le guerre contro altri popoli modificarono l’economia romana; il capitale finanziario prese il sopravvento sull’economia agraria. Mercanti, banchieri, usurai, finanziatori si arricchivano sempre di più per gli appalti che ricevevano e per i prestiti che essi facevano a nazioni e a re. Qui emerse la figura di Rabirio Postumo, che prestò soldi a diverse nazioni e che nel 55 a.C. si fece nominare ministro delle finanze dell’Egitto per poter recuperare i suoi crediti. Tra il 90 e il 50 a.C. circolarono più di 400mln di monete romane d’argento, soprattutto per le esigenze di rifornimento ed equipaggiamento degli eserciti. DALL’ECONOMIA DEL BOTTINO AL FISCO IMPERIALE Esaurendosi l’espansione militare, le finanze dello stato non potevano essere gestite con i bottini conquistati ai popoli vinti e fu quindi necessario creare un sistema fiscale e tributario efficiente per fornire Roma di risorse. I cittadini romani pagavano le imposte indirette e il 5 % sulla manomissione degli schiavi e sull’eredità e nulla sulla patrimoniale; gli altri cittadini dell’impero pagavano l’imposta inversamente proporzionale, cioè la quota fiscale era tanto più alta quanto era più basso lo status socio- giuridico. L’imposta più gravosa fu quella fondiaria, se ne affiancavano poi altre secondarie, differenti da provincia a provincia. Con il passare del tempo, i tributi fiscali divennero sempre più pesanti, basti pensare che la Gallia e l’Egitto pagarono tributi 10 volte superiori a quelli pagati inizialmente a Cesare e Augusto. Buona parte di questi introiti veniva utilizzata per l’esercito. IL MONDO DELLE MERCI A Roma, nonostante le leggi contro il lusso, vi era larga domanda di beni sontuosi da parte dell’elités e ovunque emergeva una borghesia municipale che, anche in periferia abitava in sontuose case riccamente ornate e arredate. Vista la grande domanda di merci gli scambi erano notevoli e si facevano anche al di là delle frontiere romane. Nel II sec. a.C. fitti traffici vi erano tra Roma e la Gallia meridionale, tra cui il vino, arricchendo i mercanti e le entrate doganali. Centro principale di scambi fu il porto di Delo, gestito spesso da ex schiavi che vendevano a loro volta principalmente schiavi. Anche Roma aveva il suo mercato di schiavi sull’Aventino e gestito da commercianti specializzati: i magistri Capitolini. I mercanti si incestuosi per non frazionare il piccolo patrimonio costituito. Qualcuno raramente riusciva ad emergere, come il contadino africano Machtar. DALL’ARTIGIANATO ALLA MANIFATTURA Con la grande urbanizzazione dell’Impero romano si sviluppò enormemente anche l’artigianato, mentre circoscritto fu il fenomeno della manifattura, per cui risultava difficile la nascita di un centro di produzione di massa, gestito da un imprenditore con grandi disponibilità finanziarie. Nel settore privato forse solo la produzione ceramica si organizzò in centri di produzione seriali tali da poter essere definite manifatture. Nel settore pubblico masse di operai erano impiegati nella produzione di moneta e armi e qui, al posto dell’artigiano tuttofare, ci si specializzò in una serie di operazioni diverse. Per quanto riguarda i macchinari, in campagna, dove si produceva olio e vino, sorsero fornaci che divennero sempre più grandi e articolate. Ad esempio nella Gallia Narbonese vi erano 200 fornaci dove venivano usati più di 100 operai. Le poche manifatture si configurarono come complementari alla campagna. Una forma di manifattura fu quella del papiro, che godeva di una larga richiesta e la sua produzione era concentrata in Egitto; poi vi fu anche un artigianato tessile in cui il proprietario dirigeva lavoro e lavoranti, che erano donne schiave. La manifattura ricoprì anche il lavoro nelle cave, nelle miniere, nella produzione di marmi, in special modo quello dei sarcofagi. La più grande industria manifatturiera, forse, era quella monetaria, con il lavoro che si snodava in varie fasi: l’incisione del conio, fusione e taglio del lingotto, riscaldamento e posizionamento del tondello, battitura sull’incudine, immagazzinamento, registrazione e distribuzione delle monete. Nelle zecche più attive si dovettero impiegare migliaia di lavoratori e ci fu anche una rivolta, di cui sappiamo dal trattato Historia Augusta, dove ci furono tanti morti. SCHIAVI DELLA TERRA Lo schiavismo, che anticamente costituiva la forza-lavoro dominante, è un fenomeno complesso che nasce da movimenti politici, economici e culturali (guerre, bisogno di forza lavoro, una cultura dell’indipendenza in una società in cui già la famiglia si configura come luogo di schiavitù per donne e figli). In Italia, tra la seconda guerra punica e la conquista gallica di Cesare furono venduti più di mezzo milione di schiavi di guerra, da aggiungere a quelli venduti già sui mercati. Questi schiavi furono anche oggetto di contraddizione, sia perché il loro acquisto comportava l’uso della pirateria, mentre invece si faceva pulizia dei pirati dai mari; sia perché uno schiavo era spinto ad ottimizzare il lavoro solo dalla violenza, mentre il mezzadro dall’aumento della sua quota parte. Ci furono grandi manomissioni di schiavi per aumentare i profitti sul valore della tenuta, la sola imposta del 5% sulla liberazione degli schiavi portò enormi introiti e da qui si ebbero i liberti, che si proiettavano in un nuova dimensione socio- economica, fino a diventare imprenditori commerciali. Nel I sec. a.C., con la fine della pirateria, si concluse una fase nella storia dello schiavismo. Tra l’altro, dato che la morte di uno schiavo rappresentava una perdita di capitale, i proprietari cominciarono a preferire l’affitto, ripartendo quote di produzione tra proprietari e coltivatori. Lo schiavismo comunque continuò fino al medioevo avanzato. TECNOLOGIA E PRODUZIONE Il tempo storico dell’economia imperiale è molto lento. Nell’Impero, la struttura tecnica della produzione non conosce miglioramenti essenziali. Nel settore militare vi furono tentativi di meccanizzazione (labor- saving) e lo sviluppo appare innegabile nell’edilizia e nell’ingegneria civile e navale. Ottimo esempio della produzione di energia furono i mulini ad acqua, impiegati come macchine produttrici di energia e dal I al III sec. a.C. ne sorsero una quindicina, molti di più ne erano nell’alto medioevo. Nel mondo antico ci furono spettacolari opere ingegneristiche, come gli acquedotti, però nell’Impero romano non vi fu rivoluzione tecnologica, anche per l’impiego di forza-lavoro a basso costo e di lavoro schiavile, e quindi mancavano energie da investire nell’innovazione tecnologica delle strutture produttive. IL DIRITTO E LA COSTITUZIONE IN ETA’ REPUBBLICANA LA STORIA GIURIDICA Non ha senso pensare di trasferire il concetto della parola “diritto” moderno a quello rappresentativo dell’età repubblicana romana. Questo perché la parola diritto deve essere intesa come un’area di esperienza che si differenzia logicamente tra quella antica rispetto a quella moderna. La storiografia del diritto romano si occupa di comportamenti che si aggregano intorno ad alcune idee, fra le quali era centrale quella di ius (diritto), che viene assunto come una gamma di rappresentazioni antiche che variarono nel tempo, dando origine ad una rete selezionata di azioni e contenuti di pensiero. LA TRADIZIONE ROMANISTICA Grande importanza si pone sul diritto romano, le cui fonti furono racchiuse in 3 volumi dall’imperatore Giustiniano tra 529 e 534, riapprodò alla grande storia sul finire dell’XI sec. Esso racchiudeva costituzioni imperiali tra II e IV sec. (Codex Justinianus) e il manuale “Institutiones”, a cui fu affiancata un’ampia antologia della produzione letteraria di giuristi romani dei sec. II e III, i Digesta. Un manoscritto di quest’opera fu elevato da studiosi della scuola di Bologna ad oggetto di studio e insegnamento e lo designarono come Corpus Iuris Civilis. Il diritto romano giustinianeo fu anche rielaborato come diritto vigente per i popoli del Sacro Romano Impero, in quanto più alta espressione della missione ordinatrice affidata da Dio all’Imperatore. Tra il XIII e il XIV sec. esso fu recepito come diritto comune dell’Europa continentale: ius comune, e rimase tale fino alle codificazioni dell’era della Rivoluzione francese e alle conseguenti modifiche ideologiche e politiche. L’attuale scienza del diritto si basa sul Corpus Iuris Civilis di Giustiniano, che rappresenta anche il principale documento di cui si serve lo storico e che pone una relazione di continuità tra l’attuale esperienza giuridica e quella romana. GLI ESORDI DELLA DOCUMENTAZIONE La moderna scienza giuridica dà per scontato che laddove vi sia un gruppo umano organizzato vi sia il diritto. Esso nacque probabilmente con le città-stato e bisogna tener presente che, soprattutto per la storia più remota, non è mai possibile avere notizie complete o comunque certe al 100% poiché ci si basa sulle fonti disponibili. Si sa che solo dal 200 a.C. in poi sono cominciati a pervenire documenti con regolarità e continuità, ciò è dovuto ad un flusso regolare di epigrafi di interesse giuridico aperto dal decreto spagnolo di Lucio Emilio Paolo e dal senatoconsulto sui Baccanali, nonché la pubblicazione dei “Tripertita” ad opera del console Sestio Elio Peto (198 a.C.), opera capostipite della letteratura giuridica romana le cui testimonianze sono numerose nel corso del II sec. a.C. Ci sono comunque anche pervenuti resti e frammenti di documenti di età inferiore al 200 a.C., che hanno lasciato la loro impronta nell’annalistica, nell’antiquaria e nei documenti di epoca successiva; ciò vale soprattutto per le informazioni istituzionali. L’ESTRAZIONE E LA POSIZIONE DEI GIURISTI NEL II SEC. A.C. Come sostiene Cicerone, mentre in Grecia l’assistenza giuridica era a pagamento e affidata a persone di bassa estrazione sociale, a Roma si dedicavano al diritto uomini altolocati e più illustri, che infatti avevano molta opportunità di diventare consoli oppure censori. Il giureconsulto è un esperto del diritto che dà pareri su determinate questioni o che si dedica all’insegnamento delle discipline del diritto come scienza. Tra i giuristi noti, molto attivi tra fine III sec. a.C. e II sec. a.C., c’è Sesto Elio Peto, l’autore dei “Tripertita”, nobile di nascita, raggiunse la censura nel 194 a.C. Tra i 29 giuristi di quest’epoca 15 erano nobili e alcuni anche patrizi, proprio come Sesto Elio; 8 appartenevano a famiglie senatorie, 6 a quelle dei cavalieri. Data la loro importanza sociale essi hanno lasciato ampie tracce poteva venire asservito al ruolo di schiavo. Vi erano poi altre infrazioni che pare alterassero la collera degli dei e le modalità di espiazioni giungevano anche alla condanna a morte. Vi era poi la persecuzione pubblica, che veniva affidata a persone scelte e avveniva in pochi casi: perduellio (reato politico), omicidio volontario, proditio (intesa con il nemico). LEX PUBLICA E AUTONOMIA PRIVATA Il fatto che in antichità le Dodici Tavole avevano grande importanza ma anche ruolo marginale per le decisioni dei giuristi, potrebbe sembrare oggi una contraddizione; invero nell’antica Roma la legge non aveva l’ambizione che c’è oggi di regolare in modo capillare il comportamento dei consociati. Tale pretesa di legge è relativamente moderna (fine ‘700), in cui il valore politico del diritto venne monopolizzato e tutto, anche quello che disciplinava i rapporti privati quotidiani, posto nelle mani del legislatore. In Roma le regole comportamentali erano perlopiù poste dagli stessi consociati attraverso un ampio uso dell’autonomia privata, cioè il potere di darsi da sé le norme per i propri interessi guidati dal consiglio esperto dei giuristi, quindi la lex interveniva solo in mancanza di autoregolamentazione o qualora le parti non riuscissero a trovare accordi o sfociassero in liti. Le Dodici Tavole risolvevano conflitti di interesse laddove non si poteva contare su un preventivo regolamento delle parti; tipico esempio è quello degli atti illeciti (delitti e crimini), a cui sono dedicate molte leggi decemvirali che fungevano da autorità esterna per stabilire gli interessi delle controparti. Fuori del campo degli illeciti vi erano altri casi su cui non si poteva contare sullo spontaneo regolamento dei soggetti coinvolti, come l’usucapione (acquisto della proprietà a titolo originario basato sul perdurare per un determinato periodo di tempo del possesso su una cosa) di cui le Tavole fissano la durata. Per il resto la legge cittadina non entrava nel campo dell’autonomia privata se non per alcuni casi in cui fossero coinvolte persone non in grado di badare ai propri interessi. La lex publica, comunque, riconosceva l’efficacia giuridica di alcuni provvedimenti privati, quali nexum, ultime volontà, mancipatio (scambio immediato di una cosa contro un corrispettivo in metallo). La legge, dunque, rendeva ius i provvedimenti dei privati. Ciò che non faceva era disciplinare dettagliatamente doveri e diritti delle parti in causa, che procedevano in questo senso autonome. La lex publica romana può essere caratterizzata come sussidiaria e preminente rispetto all’autonomia privata. In sostanza, dunque, le Dodici Tavole venivano considerate basilari poiché contenevano una disciplina pressoché completa, anche se elementare, di riti processuali, delitti e crimini, regole di successione, norme di protezione degli incapaci e pochi altri conflitti di interesse che richiedevano una soluzione positiva; inoltre esse riconoscevano le forme dell’autonomia privata e sancivano la loro efficacia sul piano dello ius. LE FUNZIONI DEL GIURISTA: CAVERE La funzione ancora sussidiaria della lex publica comportava l’importanza della funzione cautelare dei giuristi, cioè di trovare la forma giuridica più consona per gli scopi pratici perseguiti dai propri clienti e per mediare le controversie. Ad esempio oggi è la legge a stabilire se un venditore sia responsabile dei difetti di ciò che ha venduto; nell’antica Roma, che il venditore rispondesse o meno dei difetti dipendeva dal modo in cui le parti avevano regolato i loro interessi. In particolare, perché il venditore fosse responsabile dei difetti, era necessario che il compratore ne facesse promettere l’assenza mediante un apposito negoziato verbale: la stipulatio. Da tale esempio si capisce che l’ordinamento lasciava alle parti coinvolte di cautelarsi, facendo leva sui reciproci interessi, e che la sfera dei rapporti economici restava quasi estranea all’intromissione della legge, che ne tutelava la forma ma non i contenuti, in quanto in questo caso l’equilibrio fra gli interessi contrapposti era la norma posta dagli stessi privati nei loro rapporti. Comunque, i privati, in rispetto alla cura dei loro interessi, consideravano importanti i consigli dei giuristi, per i quali la conoscenza dello ius rappresentava un elemento cardine, essi si mettevano a disposizione come interpreti della legge e come difensori dei clienti sottoposti a giudizio e come consiglieri e assistenti in tutte le questioni. LA GIURISPRUDENZA PONTIFICALE Oltre allo ius civile, ricordiamo anche lo ius pontificium à forma di conoscenza, forse istituita da re Numa, relativa ai sacrifici, ai riti funebri e all’interpretazione ed espiazione di fenomeni prodigiosi (es. fulmini), alla supervisione delle cerimonie di consacrazione, dei voti e del calendario. I suoi esperti erano i pontefici. Nel II sec. a.C. lo ius pontificium e lo ius civile erano ben distinti, anche se esistevano alcune materie su cui incidevano entrambi ma da differenti punti di vista, come ad esempio l’individuazione, pontificale, di chi dovesse continuare i sacrifici familiari alla morte del pater familias connessa a quella, civilista, per l’eredità. Altra materia su cui i due ius si trovavano era quella del calendario. I pontefici esercitavano anche controllo su riti come l’adozione e il testamento, nella sua forma arcaica, che si compivano entrambi avanti a comizi curiati. Assistevano anche al sacrificio nuziale della confarreatio, celebrato con pane di farro e grazie al quale il marito acquistava la manus (potestà) sulla moglie. Secondo Pomponio, e confermato poi da altre fonti, pare che inizialmente sia ius civile che ius pontificium fossero nelle mani dei pontefici; a riprova di questo, basti pensare che i pontefici non avevano solo funzione puramente religiosa, non erano figure carismatiche, seppur operatori del sacro, piuttosto lo ius pontificium era una sorta di tecnica, cercava di conoscere e controllare il rapporto fra il mondo dell’uomo e quello degli dei. La disciplina pontificale si reggeva sul presupposto che l’esatta esecuzione dei riti garantisse l’approvazione divina, e nella natura ripetibile e ripetitiva degli atti di culto si coglie una profonda analogia con i negozi dello ius civile, che ha in comune con il ius pontificium anche i conservare forme e formule, che nello ius civile dovevano essere eseguite in modo impeccabile o l’atto per cui esse erano eseguite sarebbe stato ritenuto invalido. Il dominio dei pontefici sui riti era dunque elevato e, in tal senso, il loro controllo sullo ius civile si incrinò quando lo scriba Gneo Flavio, nel 304 a.C., compilò le legis actiones e i fasti; con due iniziative coordinate si eliminò la necessità per i privati di ricorrere al consiglio dei pontefici circa la forma e il tempo del processo. Nel 208 a.C. il pontefice Tiberio Coruncanio, che fu il primo plebeo a diventare pontefice massimo, secondo Pomponio fu il primo a fare pubblicamente professione e a dare consigli circa lo ius civile. I tribuni Quinto e Gneo Ogulnio, nel 300 a.C., per aumentare pontefici ed auguri da 4 a 8 e 9 rispettivamente, con un plebiscito imposero ai sacerdoti allora in carica di individuare nei collegi persone appartenenti alla plebe, invece del patriziato come era sempre avvenuto; questo aumentò sicuramente il numero di coloro che avevano accesso alla conoscenza pontificale. Tra fine III sec. a.C. e inizi II sec. a.C., a causa degli avvenimenti precedenti, la conoscenza dello ius civile si estese al di fuori del collegio pontificale. Bisogna però ricordare che sacerdozi e magistrature appartenevano ad una stessa cerchia sociale: tra III sec. a.C. e II sec. a.C. il profilo dei giuristi era quello di appartenenza prevalentemente alla cerchia dei nobili e senatori dalla quale provenivano anche i maggiori sacerdoti. Basti considerare che a cavallo di questi secoli su 28 giuristi ben 7 presero il sacerdozio e 6 di questi furono pontefices maximum. L’EDITTO DEL PRETORE E LO IUS GENTIUM In una discussione, nel “De legibus”, tra Cicerone e Attico, appare chiaro che vengono messi in luce due problemi relativi allo ius tardorepubblicano: l’eclissi delle Dodici Tavole, oscurate dall’editto del pretore, e l’influenza della filosofia greca sull’elaborazione del diritto. Il più antico metodo di composizione delle controversie tra privati è quello del lege agere, che ci è pervenuto solo nella forma praticata nella tarda repubblica e principalmente attraverso una fonte del II sec. a.C. di Gaio: le “Institutiones”. Il sistema allora si era già aggiornato in vari punti, pur non restando coerente con i gusti e le esigenze della civiltà contemporanea. Esso fu poi abrogato da due leggi Giulie giudiziarie di Augusto. Il lege agere consisteva in riti verbali, gestuali e simbolici che venivano eseguiti dai contendenti sotto il controllo del magistrato giudicante, cioè il pretore, e tale fase veniva chiamata “in iure”. Ciascun rito si distingueva a seconda di 5 legis actio diverse (tra cui la manus iniectio, che prevedeva assoggettamento fisico); in alcuni casi tale rito realizzava subito la pretesa di una delle parti, come per la manus iniectio, in altri si risolveva la lite, evitando che le controparti giungessero alla forza. Alla fase in iure seguiva la fase “apud iudicem”. Il giudice era un cittadino privato che, nell’emettere sentenza, doveva pronunciare certa verba (parole fisse) prestabilite per ciascun’applicazione. Oltre ad una certa rigidità delle legis actiones, che erano valide solo se la questione che la controparte volesse far valere era prevista dalla legge, sia queste sia lo ius civile erano riservati ai cittadini Romani, lasciando privi di tutela gli stranieri. Solo in seguito, intorno al 242 a.C. fu istituito il pretore peregrino, che presiedeva le controversie che coinvolgevano stranieri. a.C. Egli scrisse 180 libri tra cui “Reprehensa Scaevolae”, dedicata appunto ad un’accurata revisione del lavoro di Scevola. Sulpicio fu il primo a dedicare all’editto del pretore un’opera autonoma. A partire dal I sec. a.C., in coincidenza con la guerra sociale e l’affermarsi dello stato municipale, aumentarono i giuristi cavalieri, che, pur appartenendo all’élite economica, non partecipavano al governo della città, poiché non coprivano magistrature; contemporaneamente, tra i periti giuridici diminuirono i nobili. LA COSTITUZIONE ROMANA: TEORIE, POLITICHE E COMPORTAMENTI GIURIDICI A partire dal II sec. a.C. i Romani cominciarono a servirsi di uno schema teorico greco che distingueva le costituzioni in tre tipi a seconda che il potere fosse nelle mani di uno, di pochi o di molti. Fu lo storico Polibio ad applicarlo per primo a Roma. Il libro di Polibio, “Storie”, conteneva anche l’illustrazione dell’ordinamento militare e si può considerare un chiaro interesse per le istituzioni romane, sorto nel mondo greco quando Roma conquistò l’egemonia in Italia centrale. Era chiaramente necessario conoscere meglio la forma di governo della potenza emergente. Polibio non solo descrisse dettagliatamente le istituzioni romane ma le caratterizzò per la dotazione di una costituzione mista: monarchica, aristocratica e democratica, rappresentate a Roma dai consoli, dal senato e dalle assemblee popolari. Tali individuazioni corrispondono grosso modo all’assetto della res publica nel periodo di grande espansione romana, dalla seconda guerra punica alle province in Asia e in Grecia. Aristotele, nel suo “Politica”, individuava nelle costituzioni tre funzioni che corrispondevano lontanamente alle attuali funzioni legislativa, esecutiva e giurisdizionale: - deliberazione sugli affari comuni à vertente su pace e guerra, alleanze, pena di morte, esilio, confisca, elezione dei magistrati; - magistrature à secondo Aristotele hanno la prerogativa di dare ordini; - giudizio à vertente sulle cause civili. Su questo schema, Polibio riconobbe rispettivamente le tra funzioni ad assemblee, consoli e senato. In un secondo livello d’analisi però, quando sostiene che ai tempi della guerra annibalica Roma riuscì ugualmente a vincere perché il senato aveva prevalenza nelle pubbliche decisioni, a differenza di Cartagine che le affidava al popolo, sembra contraddirsi rispetto a quanto sostenuto in precedenza circa la ripartizione delle competenze; in realtà lo storico, nell’indicare le sfere di competenza, si attiene alla forma, in una valutazione più approfondita si attiene ai contenuti, in quanto, sebbene le decisioni pubbliche richiedevano il voto delle assemblee, spesso le vere decisioni erano prese in senato e il popolo effettuava solo ratifiche. Nel “De republica” di Cicerone si esamina un quadro più ampio ma meno sistematica di Polibio; anche qui comunque è presente lo schema aristotelico di triade, materializzato in: imperium, consilium publicum e iudicium. Al senato, rappresentante aristocratico, attribuisce subito (a differenza di Polibio, che almeno formalmente lo attribuiva al popolo) il potere deliberativo nelle materie di pubblico interesse; al popolo attribuiva invece la libertas, qui intesa come garanzia dei diritti individuali offerta dalla provocatio e dall’auxilium tribunizio. Secondo gli antichi la costituzione romana non era democratica, questo lo dimostrano sia il ricorso alla costituzione mista sia il potere decisionale in mano al senato. Polibio, così come più accentuatamente Cicerone, distinguono il piano politico, dalle cui teorie polibiane hanno valenza, da quello giuridico. E’ una teoria che privilegia il concreto funzionamento delle istituzioni, nel loro agire, e non nella loro dipendenza e rispetto di costumi e leggi. Secondo Cicerone, l’ordinamento della res publica non era costituito solo da regole ma ad esso contribuiva anche la religione, basti pensare all’impostazione religiosa della magistratura, che trovava nel ius augurium principi fondamentali di struttura e regole d’azione. LA MAGISTRATURA Secondo Aristotele la magistratura è dare ordini, per Festo significa guidare; da qui prendono il nome i magistri (mestri) e i magistratus (magistrati). Anche la definizione latina riconduce il magistratus al potere: magister è colui che si trova in una condizione di prevalenza, di detenzione di potere politico che si esprime tramite comando, a cui corrisponde l’obbedienza. A Roma il potere di comando era chiamato imperium (da imperare= comandare), che dopo i re, andò al massimo grado ai consoli. Tra l’imperium dei consoli e il potere che era stato dei re i Romani instaurarono una relazione di continuità storica, poiché fecero del consolato l’istituzione che sostituì il re dopo la cacciata del Superbo. L’articolazione della magistratura nacque dalla progressiva comparsa di altre figure, attorno ai detentori dell’imperium, a cui venivano date competenze specifiche. Parallelamente, la lotta degli ordini rappresentava la rivendicazione plebea di accedere al consolato. La questione della specializzazione e quella politica ebbero un momento decisivo nel 367 a.C., quando il plebiscito Licinio-Sestio impose il ripristino dell’elezione dei consoli, che per quasi un secolo erano stati sostituiti da tribuni militari con potere consolare, e che almeno un posto fosse riservato ai plebei. Alla nobiltà patrizia fu concesso anche il praetor, che esercitasse la giurisdizione, inoltre, di fronte al rifiuto degli edili plebei di sostenere spese per i ludi votivi, si elessero, sempre tra i patrizi, gli edili curuli. Vi sono dei tratti tipici e caratteristici della magistratura. - Onorarietà à rispetto al titolo che era loro conferito e aveva come risvolto la gratuità, per cui, ciò che ricavavano i magistrati dal loro servizio, poteva misurarsi in termini di autostima e prestigio e non di reddito; infatti non percepivano remunerazione. L’onorarietà quindi implicava una posizione che garantisse entrate sufficienti. - Insegne dei magistrati à in particolare, per i consoli, la veste orlata di porpora (praetexta), il corteo di 12 littori, la sella curule. - Elettività à fu una conquista graduale. Consoli, pretori e censori erano eletti dai comizi centuriati; edili curuli, questori e magistrati minori dai comizi tributi; tribuni ed edili plebei dal concilio. - Temporaneità à la permanenza al potere era temporanea; la durata in carica dei censori, eletti ogni 5 anni, era di 18 mesi; il dittatore e il magister equitum restavano in carica il tempo necessario per svolgere il compito per il quale erano stati nominati e comunque non più di 6 mesi. La temporaneità assicurava l’avvicendamento al potere di membri della classe dirigente evitando concentrazioni dannose agli equilibri interni. - Interregno à nell’eventualità venissero tutti i consoli e pretori e non vi fossero designati, subentrava momentaneamente e solo fino alle elezioni l’interregno, cioè per 5 giorni l’imperium era detenuto a turno da senatori patrizi e la rotazione durava finché uno di loro non avesse provveduto alle elezioni. - Proroga à quando il magistrato era impegnato fuori città la scadenza comportava la cessazione della carica ma non la direzione degli affari che continuava fino all’arrivo del successore. Si basò su tale principio la pratica di conferire al magistrato il potere oltre la naturale scadenza della carica, dapprima con una legge, successivamente con un semplice decreto del senato, la prorogatio. - Responsabilità à alla scadenza, il titolare poteva essere chiamato a rispondere del proprio operato, sia patrimonialmente sia criminalmente. - Pluripersonalità à la magistratura romana, eccetto la dittatura, era collegiale, ciascun titolare deteneva interamente il potere inerente alla carica e lo esercitava disgiuntamente dal o dai colleghi; ogni titolare aveva comunque il diritto di veto nei confronti dell’attività di un collega. - Auspicia à sia sui poteri dei magistrati sia sul loro esercizio influivano, oltre alla tradizione e alle leggi, le idee religiose dei romani, in particolar modo la dottrina degli auspicia à tecnica di interpretazione di segni inviati dagli dei per il consenso o per l’opposizione di un determinato atto. Per quanto concerne le varie figure magistratuali: - Magistrati dotati di imperium à svolgevano principalmente compiti militari: dirigere operazioni militari, comandare l’esercito, condurre la guerra, indire la leva, ordinare gli esborsi per condurre la guerra. I più tipici detentori dell’imperium erano i consoli e i pretori, di cui i primi si collocano alla nascita della repubblica mentre i secondi si aggiunsero nel 367 a.C. Ma di imperium erano dotati anche il dictator, istituito in casi straordinari, come emergenze belliche o compiti particolari, e il suo collega subalterno, il tempo la possibilità fu estesa anche alle magistrature inferiori). L’organo si riuniva e deliberava su iniziativa di un magistrato che ne aveva per tradizione il potere (dittatore, console, pretore). La seduta avveniva tra l’alba e il tramonto in un tempio, luogo delimitato dagli auguri; il magistrato presidente esponeva la questione su cui discutere, facendo una relazione e poi interrogava i singoli senatori seguendo un ordine dettato dall’importanza delle cariche investite. Terminato il giro di consultazione, dove di solito i senatori minori si rimettevano a quelli più anziani, il presidente sceglieva due o più tra le sentenze prospettate e le poneva ai voti. La preferenza avveniva lasciando il proprio posto e avvicinandosi al senatore che aveva enunciato il parere preferito; la sentenza diveniva senatoconsulto. Secondo Livio, Romolo istituì il senato affermando di dover dare un intelletto alle forze, alla moltitudine attirata in Roma. I cento senatori furono chiamati patres, patrizi i loro discendenti. Il senato aveva il primato nel formulare decisioni politiche (tant’è che secondo Polibio, la vittoria contro i Cartaginesi deriva dal loro saper deliberare). Oltre che sull’importanza in decisioni politiche, la centralità del senato nella costituzione romana si basava sulle competenze assegnategli dalle consuetudini. Polibio individua la superiorità decisionale del senato, sostenendo che quando il console parte con l’esercito, per prendere qualsiasi decisione, stabilire piani ed obiettivi, ha bisogno delle delibere del senato (ad esempio in materia di rifornimenti all’esercito); inoltre, il senato detiene pieni poteri sull’erario, ordinando entrate ed uscite e gestendo spese di questori e censori, si occupa di delitti per cui si avvia un’inchiesta statale e di risoluzioni di controversie o condanne per una città o un privato; detiene anche ruolo di ambasciatore in luoghi esteri, quindi di relazioni con re, città e popoli stranieri e ogni anno determinava i compiti dei magistrati (sia civili, come la iurisdictio urbana dei pretori, che bellici) e il numero delle legioni e gli effettivi da affidare al comando dei magistrati. I compiti da assegnare ai consoli, con la lex Sempronia di Gaio Gracco, furono stabiliti prima dell’elezione dei consoli stessi, onde evitare favoritismi. In stati di emergenza il senato invitava i consoli a provvedere che la res publica non subisse alcun danno, dando ad essi pieno potere di allestire l’esercito, condurre la guerra, reprimere alleati e cittadini traditori, avere sommo potere di comando nella sfera sia civile che militare. Il senato ebbe anche grande influenza sull’attività delle assemblee popolari, che, inizialmente avveniva mediante auctoritas patrum (i patres, quindi solo i patrizi, avevano autorità sui comizi, potere però impoverito dalla diminuzione dei patrizi nel nuovo senato misto), e che poi si attuava attraverso un’attività di iniziative e di controllo preventivo sulle proposte che i magistrati avrebbero sottoposto al voto dei cittadini (controllo probuleutico). Ancora il senato poteva dichiarare l’invalidità di leggi e plebisciti emanati con procedure violente ed esentare un determinato cittadino dall’osservanza di una legge (es. alcuni venivano esentati da leggi che imponevano una data età per accedere ad una carica). Quando i magistrati convocavano il senato per prendere decisioni o richiedere pareri, quest’ultimo rispondeva con il senatoconsulto, che diveniva norma di diritto che vincolava il magistrato che aveva richiesto il parere. Questo è evidenziato nel senatoconsulto sulla repressione dei baccanali, quando i consoli Quinto Marco (figlio di Lucio) e Spurio Postumio (figlio di Lucio) stabilirono il divieto di celebrare baccanali (festività romane propiziatorie) e chiunque ne avesse avuto l’esigenza avrebbe dovuto richiederlo al senato, che avrebbe in seguito deciso. Nei confronti delle attività dei comizi, da un lato i magistrati sottoponevano prima al senato le proposte da fare ai comizi, cosicché il senato potesse prima esaminarle, dall’altro allo stesso senato spettava l’avallo alle decisioni prese dai comizi. I senatoconsulti vanno analizzati in materia di contenuto e valore: quanto al primo, in età repubblicana, i senatoconsulti si limitavano a esprimere consigli e istruzioni per i magistrati dell’anno, che li avrebbero dovuti attuare, fatta comunque eccezione per qualcuno destinato ad un raggio più ampio di magistrati o che si estendesse ai cittadini, come quello sui Baccanali; tuttavia, in quest’ultimo caso, l’efficacia dei senatoconsulti era ancora mediata dai magistrati, che lo trasformavano in editto o in legge. Il valore dei senatoconsulti riguarda essenzialmente i rapporti tra senato e magistrati, e il fatto che essi fossero rispettati grazie a svariati motivi: la comunanza di entrambi sia per il ceto sociale, sia perché i senatori erano ex magistrati, ma anche di interessi economici, di formazione, di stile di vita e solidarietà nobiliare. Comunque, in caso di dissenso dei magistrati, il senato disponeva di mezzi punitivi come il rifiuto di inviare vitto e stipendi all’esercito o l’intervento di un intermediario contro il disertore. Il rispetto delle delibere senatoriali era comunque anche assicurato dal loro essere vincolanti. LE ASSEMBLEE POPOLARI I Romani avevano tre assemblee: contio (venire), comitia (andare), concilium (chiamare a raccolta). - Contio à con essa si parla al popolo senza sottoporre alcuna proposta al suo voto, mentre le altre due forme hanno funzione deliberativa. Assemblea in cui il magistrato che la presiedeva effettuava comunicazioni al popolo senza effettuare rogatio (avanzare formalmente la proposta da mettere ai voti), infatti, scopo primario della contio era la comunicazione al pubblico delle ordinanze dei magistrati, inoltre essa rappresentava il luogo in cui si formavano gli orientamenti politici della massa, vi avevano luogo veri e propri dibattiti, come ad esempio a favore o contro una proposta di legge da sottoporre ai comitia o al concilium. La contio era sottoposta a rigidi controlli, era convocata da un magistrato o da un sacerdote pubblico e spettava al presidente concedere il permesso di parlare (solo chi fosse un magistrato e avesse già fatto carriera poteva prendere parola). - Comitia à (comitium à luogo in cui si va insieme, a Roma era situato nella parte settentrionale del Foro; comitia à assemblea). I comizi erano convocati per esprimere voto su una materia; l’unità di voto era costituita dal gruppo in cui il cittadino era inscritto, quindi curia, centuria o tribù. I comizi curiati votavano in base a gruppi parenterali, i comizi centuriati votavano in base al censo e all’età, i comizi tributi votavano in base alle tribù. Distinguiamo: § Comitia curiata à forma più antica risalente all’età monarchica e consistente nella riunione delle 30 curie, divisioni della popolazione, inserite in 10 tribù territoriali: Tities, Ramnes e Luceres. Le curie emettevano una lex detta curiata, che era un atto di investitura dei magistrati che seguiva l’elezione vera e propria effettuata nei comizi centuriati o tributi. Davanti a questo comizio si teneva inoltre l’adrogatio à atto mediante il quale un cittadino poteva assumere sotto la propria potestas un altro cittadino libero consenziente. La differenza tra comitia e concilium sta nel fatto che nella prima vi è compreso il popolo al completo, nel secondo solo una parte (plebe). La popolazione era divisa secondo il criterio parentelare e di stirpe. § Comitia centuriati à assemblea cui il popolo prende parte inquadrato militarmente, le unità di voto erano le centurie, che costituivano anche le unità di base dell’ordinamento oplitico-falangitico, le unità di leva e i quadri di prelievo tributario. Mentre in età regia la popolazione era divisa nei comizi curiati, ed era stata divisa secondo il criterio parenterale e di stirpe, e solo i patres vi potevano far parte; in età repubblicana, invece, i comizi centuriati erano formati secondo il criterio del censo. L’esercito veniva convocato a suon di tromba in un’area dedicata a Marte esterna al pomerio (Campo Marzio). Le 193 centurie erano distribuite in 5 classi di censo: 80 nella prima poiché, essendo la più ricca in assoluto, aveva più centurie delle altre; 20 nella seconda, nella terza e nella quarta e 30 nella quinta. La situazione economica delle classi determinava anche l’equipaggiamento militare, che era a carico del cittadino privato e non dello Stato (quindi i più ricchi, senatori e cavalieri, erano i più equipaggiati). Entro ciascuna classe le centurie erano divise per età, tra juniores e seniores; 4 centurie aggiuntive erano destinate ai servizi non armati (falegnami e fabbri aggregati ai fini di voto alla prima o alla seconda classe e suonatori di tuba e corno aggregati alla quarta o alla quinta); fra i cittadini più abbienti si aggiungevano 18 centurie di cavalieri e completava il sistema un’ultima centuria nella quale confluivano i cittadini censiti solo come persone. Nel corso del III sec. a.C. una riforma relazionò tale sistema alle tribù territoriali, che divennero in definitiva 35. Il principio costitutivo di quest’ordinamento è quello censitario, è incerto se si tenesse conto solo della ricchezza immobiliare o anche quella mobiliare e premonetaria. Poiché in ogni centuria veniva reclutato lo stesso numero di soldati e prelevato lo stesso tributo complessivo e poiché gli appartenenti alle singole centurie della prima classe erano meno numerosi delle altre, i più abbienti dovevano servire più spesso e pagare una quota di imposta più elevata. Ogni centuria valeva un voto. La prima classe, quella dei ricchi, aveva 98 centurie, quindi in caso di elezioni i loro voti raggiungevano quel quorum necessario a chiudere le votazioni. Quando si cominciava a votare, si cominciava sempre dalla prima classe che era più numerosa, quindi si raggiungeva subito il quorum e non si andava oltre. Questo sistema durò fino ai Gracchi, Gaio Gracco poi propose di estrarre a sorte la classe da dove iniziare. Inoltre, tali comizi erano anche investiti del ruolo di tribunale nei casi in cui c’era in gioco la vita dell’accusato. In particolare avevano competenza esclusiva in materia alto tradimento. Quindi, l’ordinamento centuriato aveva carattere timocratico, dove i maggiori oneri militari e funzioni gravavano sui più abbienti. Il compito di questa assemblea era duplice: dentro e fuori pomerio; dentro: varava le leggi ed eleggeva i pretori e i consoli, le magistrature più alte, celebrava giudizi popolari (assegnare onori e imputato e accusatore partecipavano alla scelta della giuria, che avrebbe emesso il verdetto sotto la presidenza del quaesitor, che era un pretore. L’accusa nella quaestio era un’accusa popolare aperta a tutti. Se più persone ambivano all’accusa il pretore sceglieva chi ammettere preferendo chi avesse ragioni personali, perché parte lesa oppure sostenesse di accusare nell’interesse pubblico. LA CREAZIONE DEL PRINCIPATO E L’ETA’ AUGUSTEA AUGUSTO E LA CREAZIONE DEL PRINCIPATO (29 A.C – 14 D.C.) Nel 29 a.C. Ottaviano aveva preso pieno potere dell’Impero e insieme ai due consiglieri Agrippa e Mecenate cercò la miglior condizione per governare Roma. Scelse una forma repubblicana che però assicurò solo a sé il pieno potere. Nella storiografia moderna c’è chi ritiene che il regime augusteo sia una repubblica riformata, chi una monarchia mascherata. Secondo lo storico Cassio Dione, il principato augusteo pare non fosse nato da un giorno all’altro ma fosse frutto di progressivi aggiustamenti, suggeriti dalla volontà di rispondere ai problemi concreti di gestione che si andavano affacciando. Era un progetto che prevedeva cambiamenti ma nella persistenza dei vecchi valori e nella continuità del regime repubblicano. Il nuovo regime si strutturò in varie fasi: il 13 gennaio del 27 a.C. Ottaviano restituì formalmente la res publica al senato e al popolo romano, conservando il consolato; il 16 gennaio, con un senatoconsulto, gli furono conferiti privilegi e onori, attestati da fregi ed iscrizioni, nonché il cognomen di Augusto (degno di venerazione e onore); lo stesso affermò di essere superiore a tutti per autorità ma senza avere maggiori poteri degli altri colleghi magistrati. Nel 23 a.C. in seguito ad una grave malattia, Augusto depose il consolato ed ottenne la potestà tribunizia e il controllo di costumi e leggi a vita, nonché un imperium decennale su 10 province non pacificate ed un imperium proconsolare senza precisa limitazione territoriale, superiore a quello dei governatori di singole province. L’imperium proconsolare e il titolo di proconsole sono attestati anche da alcuni documenti, quali un editto emanato per una comunità spagnola. Proprio per l’importanza della repubblica Augusto rifiutò delle magistrature straordinarie. Con Augusto continuarono ad esistere le magistrature repubblicane, cui vennero però tolte molte competenze, affidate a funzionari di nomina imperiale. IL NUOVO ORDINAMENTO E LA NUOVA AMMINISTRAZIONE Augusto esercitava il potere avvalendosi di un imperium e di una potestas magistratuali, anche non essendo magistrato e quindi non aveva i vincoli di un magistrato: collegialità e temporaneità. Oltre a gestire i poteri a vita o per lungo tempo e ad avere un imperium maius rispetto agli altri titolari dell’imperium, aveva anche una potestas con maggiore auctoritas rispetto agli altri magistrati; questo gli permetteva piena libertà d’azione. Augusto aveva cura et tutela rei republicae, era cioè una sorta di patrono della res publica, poiché è come se avesse ereditato il ruolo di patrono dei rappresentanti elitari tardorepubblicani, che ottenevano ampio consenso dai cittadini. Dopo il 27 a.C. vi furono tentativi di garantire ad un’ampia cerchia di cittadini il loro coinvolgimento nelle élites cittadine nella gestione del nuovo regime e in particolare delle nuove élites delle colonie augustee in Italia. Augusto ripristinò l’antico potere legislativo ed elettorale dei comizi nel 28 a.C.; nel 5 d.C. si ebbe un’importante riforma con l’introduzione di una nuova procedura di cui però non ci sono pervenute notizie da fonti letterarie ma da documenti epigrafici (Tabula Hebana: città di Heba in Etruria meridionale; Tabula Siarensis scoperta in Andalusia nel 1982). Il sistema della lex Valeria Cornelia del 5 d.C. introduceva una nuova procedura per l’elezione di consoli e pretori: il controllo imperiale sull’attività comiziale si esprimeva con la commendatio (raccomandare determinati candidati), la suffragatio (raccomandazione non vincolante) la nominatio (decisione sull’ammissibilità delle candidature), avendo cura di scegliere uomini capaci. Furono create 10 centurie di senatori e cavalieri (in onore di Gaio e Lucio Cesari, nipoti di Augusto), che avevano il compito di designare i candidati per le elezioni di consoli e pretori. Alle 10 centurie si aggiunsero altre 5 dopo la morte di Germanico, figlio di Druso e nipote di Tiberio e 5 dopo la morte di Druso minore, figlio di Tiberio. Esse parlavano a nome di questi giovani membri della Domus Augusta, morti prematuramente e resi eroi dando così alla riforma un elemento sacrale. I comizi comunque rappresentavano solo una piccola fetta dei cives romani, quella della plebe urbana, derivante dalla distinzione tra cives romani domiciliati in città e cives romani di municipi e colonie, conseguenza delle modifiche del censimento (che conosciamo dalla Tabula Heracleensis) attuate durante la dittatura di Cesare, quando non fu più necessario che i cittadini non residenti venissero a Roma per farsi censire ma sarebbero stati censito nel suo luogo di residenza. Secondo Strabone la riforma augustea aveva introdotto una duplicità nelle forme di governo e amministrazione delle province dell’Impero che, in parte, facevano capo al popolo e in parte erano diretta emanazione del princeps. Egli si giustapponeva cioè alla res publica (non al senato ma al popolo). Il nuovo regime augusteo sarebbe stato diarchico à la sovranità del popolo si sarebbe espressa attraverso i due organi che rappresentavano da un lato tradizione repubblicana e dall’altro innovazione (senato e princeps). Oggi, tale diarchia è inaccettabile, poiché il princeps si considera un organo della res publica, in quanto non è un magistrato la cui legittimazione derivi dalla manifestazione della sovranità popolare. IL PRINCIPE E ROMA A Roma Augusto avviò una riorganizzazione amministrativa e di monumentalizzazione, con funzioni propagandistiche. L’amministrazione era auspicata da magistrature di vecchia tradizione repubblicana e da nuovi funzionari dipendenti dal senato, con specifici compiti. Fece di Roma una monumentale città di marmo e istituì due curatores publicorum per preservare templi ed edifici pubblici. Roma era all’epoca già un’enorme città che contava 600-700mila abitanti, per cui era fondamentale l’approvvigionamento idrico e alimentare e l’ordine pubblico. Spesso vi erano crisi legate a tali problemi e in una di queste, nel 22 a.C., il popolo chiese ad Augusto di assumere pieno potere accettando la dittatura, Augusto rifiutò e assunse la cura annonae (responsabile agli approvvigionamenti); poi tra 7 e 14 d.C. venne avviata una riorganizzazione dell’approvvigionamento granario e si creò la funzione praefectus annonae di rango equestre alle dirette dipendenze del princeps, con funzioni amministrative, affiancato da altri due prefetti per la gestione delle frumentazioni, che in situazioni di emergenza erano pagate direttamente dal princeps ai fini di distribuzioni aggiuntive. Altro grande problema era quello dell’approvvigionamento idrico: i vari acquedotti preesistenti non erano sufficienti, così Augusto diede il compito ad Agrippa di ovviare al problema attraverso la costruzione di due nuovi acquedotti e la loro organizzazione del servizio di manutenzione mediante appositi curatori. Inoltre vi era anche il problema della manutenzione e protezione di strade, templi, edifici pubblici, affidata ad un personale paramilitare inquadrato nelle tre coorti urbane come forza di polizia comandata dal praefectus urbi, di rango senatorio, e nelle sette coorti dei vigiles cui presiedeva un praefectu vigilus; svolgevano servizio antincendi e presidio notturno delle strade. Le coorti dei vigiles erano 7 poiché ognuna sovraintendeva 2 delle 14 regioni in cui Augusto divise Roma. Venne istituito il culto dei Lares Augustii e del genio dell’imperatore. L’ORGANIZZAZIONE DELL’ITALIA E DELLE PROVINCE Augusto creò una nuova ripartizione del territorio italico in 11 regiones che costituivano le circoscrizioni per l’accorpamento dei dati del censimento, compiuto municipalità per municipalità. Nell’amministrazione delle province si attuava maggiormente la bipartizione dei compiti tra organi di tradizione repubblicana e nuovo apparato facente capo al princeps: Le province del populus, pacificate e prive di stanziamenti legionari, erano affidate tramite sorteggio a proconsules (ex consoli ed ex pretori), a seconda dell’importanza della provincia; essi avevano grande potere giurisdizionale, erano affiancati da questori per lo svolgevano compiti di natura finanziaria mentre i procuratores sovraintendevano l’amministrazione dei beni imperiali e dipendevano direttamente dall’imperatore che li nominava. Le province del princeps o provincae Caesaris, non pacificate, ovvero quelle limitanee, in cui erano stanziate le legioni, erano affidate, di solito per tre anni, a legati Augusti pro praetore (ex consoli ed ex pretori di nomina imperiale), comandanti degli eserciti aventi a loro seguito quanto prima. Nel frattempo, venne creata una rete di stati clienti nelle regioni orientali, con i quali vennero stipulati i trattati bilaterali. La politica romana era quella del divide et impera, cercando di evitare che stati clienti si alleassero tra loro contro Roma. L’Impero si faceva anche garante della legittimità del potere esercitato dai re clienti, come nel caso di Erode in Giudea. Iniziative diplomatiche caratterizzarono i rapporti con il minaccioso Impero Partico, per cui, nel 20 a.C., con un accordo Fraate, re dei Parti, restituì le insegne tolte a Crasso a Carre; si risolse anche il problema dell’Armenia, sul cui trono venne messo il fratello di Fraate, Tigrane. Gli stati clienti fungevano come stati cuscinetto, pronti quindi ad assorbire nel loro territorio le incursioni e le invasioni barbariche. I GRUPPI DIRIGENTI: SENATORI E CAVALIERI A livello dirigenziale, con l’avvento del princeps, si rileva una continuità col vecchio regime. I gruppi dirigenti restarono sempre gli stessi; la nobiltà senatoria ebbe sempre molto rilievo nella gestione del governo imperiale. Le cariche magistraturali erano quasi soltanto la precondizione per assumere il governo delle province, anzi, il numero delle cariche aumentò ogni anno per il numero crescente di amministratori che veniva richiesto. Si poteva avere gran numero di ex consoli poiché venivano nominati due consoli ordinari e suffecti, gli ordinari restavano in carica per alcuni mesi, per poi essere sostituiti, e così via. Si determinò una vera e propria gerarchia di funzioni, una carriera che prevedeva prima l’esercizio delle magistrature repubblicane e poi la pretura e il consolato, poi il senatore veniva investito dal governatorato di una provincia del populus o del princeps. Ci fu anche un nuovo ruolo assunto dagli equites, che si occupavano della gestione economico-finanziaria dell’Impero ed ebbero mansioni giudiziarie. Con l’avvento del principato abbiamo una trasformazione in parte determinata dalla necessità di allargare il numero delle persone a cui affidare compiti di governo e amministrazione, per cui i cavalieri vennero sempre più utilizzati, oltre che nelle funzioni militari, anche in quelle amministrative; ebbero anche il comando delle coorti pretorie. Scelse poi ex consoli per il controllo di schiavi e rivoltosi. LA DINAMICA SOCIALE I liberti sono l’elemento più dinamico della società romana. A Roma, spesso, cui il padrone liberava facilmente i suoi schiavi, che non solo acquistavano la libertà ma anche la piena cittadinanza con tutti i privilegi ad essa connessi (liberti). Essi potevano anche aspirare ad un’ascesa sociale ottenuta tramite l’arricchimento dato dal peculium, denaro del padrone che lasciava alla disponibilità del suo schiavo, con cui egli poteva comprarsi la libertà. L’arrivo di migliaia di schiavi, a seguito delle conquiste, diede origine a una grande migrazione che modificò la composizione etnica della società romano-italica. Mutò anche la composizione del ceto dirigente, decimato dalle guerre civili, l’alta mortalità era pericolosa perché poteva comportare l’estinzione delle famiglie elitarie. Augusto, per ovviare al problema e permettere alla classe dirigente di riprodursi, emanò la lex Iulia, che puniva l’adulterio, un’altra lex Iulia, che poneva vincoli matrimoniali, e la lex Papia Poppaea, che nei testamenti penalizzava celibi e coniugi senza figli. LA LEGITTIMAZIONE DEL POTERE IMPERIALE E IL PROBLEMA DELLA SUCCESSIONE Alla morte del princeps bisognava garantire la successione per la continuità dell’impero. Al successore venivano attribuiti imperium proconsulare maius e potestas tribunicia e riceveva, dopo essere stato adottato dall’imperatore ancora in vita, alcune delle prerogative che erano state attribuite al predecessore. Durante il lungo periodo augusteo molti furono i successori che però non sopravvissero. Nel 23 a.C. Augusto superò con difficoltà una grave malattia e dovette quindi pensare al suo successore e forse la sua scelta cadde sul nipote Marco Claudio Marcello, marito di Giulia, unica figlia di Augusto. Marcello morì e Giulia sposò Agrippa e due dei figli maschi nati, Gaio e Lucio Cesari, vennero designati da Augusto in successione. Alla morte di Agrippa Giulia sposò Tiberio, figlio di primo letto della moglie di Augusto. Dopo la morte di Gaio e Lucio Cesari, a cui vennero tributati onori divini, Augusto adottò Tiberio e lo costrinse ad adottare Germanico, figlio di suo fratello Druso. Con la morte di Augusto nel 14 d.C., venne eliminato immediatamente, forse su disposizione di Augusto stesso, Agrippa Postumo, fratello di Gaio e Lucio Cesari, un giovane dal pessimo carattere ma che poteva accampare pretese alla successione. DA TIBERIO ALLA FINE DELLA DINASTIA GIULIO-CLAUDIA IL PRINCIPATO DI TIBERIO (14 – 37) Secondo Tacito, Tiberio accettò l’imperium solo dopo molte insistenze, poiché non si riteneva all’altezza di adempiere a tale compito, ma il senato invero sapeva che erano tutte falsità, perché Tiberio era un gran dissimulatore. Probabilmente solo il suo rifiuto iniziale significò il rispetto per le forme repubblicane, di cui alcune élite avevano nostalgia. Il suo principato iniziò sotto cattivi auspici, infatti ci fu un ammutinamento delle legioni di Pannonia e Germania, che chiedevano aumenti del soldo e migliorie militari. La ribellione venne debellata da Druso minore e Germanico, il quale diventava sempre più popolare suscitando l’invidia dello zio Tiberio. In Germania Germanico ottenne qualche successo ma che non portò a grandi risultati. Tiberio comunque gli accordò il trionfo ed è allora che cominciarono a nascere dissidi tra i sostenitori del princeps e quelli di Germanico; a tal punto l’imperatore gli affidò una missione nelle province orientali perché i Parti avevano cacciato dall’Armenia il re designatogli dai romani; gli conferì imperium maius nei confronti di tutti i governatori di provincia ma gli affiancò un uomo di sua fiducia, che nominò anche legato di Siria, Gneo Pisone, aristocratico superbo. Compiuta la sua missione, Germanico entrò in contrasto con Pisone e di lì a poco, nel 19, fu trovato morto. Pisone venne accusato di averlo avvelenato addirittura sotto ordine di Tiberio perché era geloso e preoccupato di garantire al figlio Druso minore la successione. Pisone invero godette della morte di Germanico, fu richiamato a Roma sotto scorta per essere processato. Questo fu un momento difficile per Tiberio, che dovette fugare da lui tutti i dubbi del popolo che amava Germanico e al quale vennero tributati onori eccezionali. Pisone fu processato ma, prima che si emettesse la sentenza, nel 20 si uccise. Tiberio divenne sempre più diffidente e sospettoso di possibili congiure, nel frangente emerse la figura di Seiano, prefetto al pretorio, che acquisì grande potere anche accrescendo le possibilità di intimidazione delle coorti da lui comandate e che, secondo Tacito, tramava ai danni dei membri della casa imperiale. La morte di Druso minore nel 23 avvelenò ulteriormente la situazione, dando vita a una stagione intensa di processi politici contro oppositori accusati di cospirazione e tradimento. Nel 27 Tiberio si ritirò a Capri, lasciando la gestione dell’imperium a Seiano. Tiberio chiamò a Capri Gaio, detto Caligola, terzo figlio di Agrippina (che fu deportata) e Germanico, destinato a divenire suo successore, mentre i primi due loro figli, Nerone e Druso, furono imprigionati. Quando Seiano venne denunciato dalla madre di Germanico, Tiberio, che già sospettava di Seiano, decise di nominare un nuovo prefetto al pretorio, Macrone, inviandolo a Roma al senato con le denunce contro Seiano, che venne incarcerato e giustiziato. Secondo Tacito, Tiberio, per vari anni, si mostrò un saggio uomo di governo, preoccupato, per esempio di evitare di lasciar spazio ad amministratori corrotti; mostrò inoltre cautela nella politica di spesa pubblica. Ciò però non evitò il malcontento, specialmente nelle province. Nel 21 si ebbe in Gallia una rivolta dovuta per il malcontento contro il tributo; nel 33 a Roma vi fu una crisi del credito nel quale restarono coinvolti molti senatori. La crisi venne però superata e si risolse quando lo stesso Tiberio mise a disposizione di banche pubbliche una cospicua quantità di denaro da prestare senza interesse ai debitori, consentendo loro di sanare la propria situazione. Una legge emanata sotto il suo impero (lex Visellia) impediva ai liberti di accedere alle magistrature e ai senati locali. CALIGOLA (37 – 41) Alla morte di Tiberio nel 37, e dato che Germanico era morto, gli successe Gaio, detto Caligola, figlio superstite di Germanico e Agrippina (il nonno paterno era Druso, fratello di Tiberio). Egli a sua volta adottò Tiberio Gemello, figlio di Druso minore. La successione non era “costituzionale”, in quanto Caligola non era stato adottato da Tiberio. La pressione Neronia, giochi a cadenza quinquennale a cui i senatori erano costretti a partecipare. Nel 58 concepì un progetto per abolire le imposte indirette ma fu poi dissuaso dal farlo. Nel 64 progettò una riforma monetaria diminuendo il peso della moneta d’oro e d’argento, potendo così coniare maggior numero di monete e un’invariata quantità di metallo (forse voleva che il valore delle monete d’oro e d’argento fosse meglio corrispondente al valore dei metalli sul mercato, per evitare la speculazione dei privati). Egli accrebbe il suo patrimonio con le confische e l’incriminazione dei senatori più ricchi. Nel 64 un enorme incendio distrusse una grande estensione di Roma e per la sua ricostruzione Nerone progettò grandi opere, tra cui la Domus Aurea. Il popolo attribuì a Nerone l’incendio, per poter attuare il suo grandioso progetto di ricostruzione, ma egli si difese incolpando i cristiani e dando il via alla prima persecuzione. Per portare a conclusione il principato neroniano, e di conseguenza la dinastia Giulio-Claudia, fu necessaria una sollevazione militare: nel 68 il governatore della Gallia Lugdunense Gaio Giulio Vindice, la cui famiglia aveva ottenuto la cittadinanza da Cesare, si ribellò alla testa delle sue legioni, apparentemente per sostenere Sulpicio Galba, esponente della nobiltà di grandi doti militari, come candidato all’Impero. Si scontrò con gli eserciti della vicina Germania, capeggiati da Virginio Rufo, ma, vinto in battaglia, si tolse la vita. Rufo rifiutò il principato che andò a Galba. Nerone fu dichiarato nemico pubblico, si uccise aiutato da un liberto. DAI FLAVI AGLI ANTONINI: IL CONSOLIDAMENTO DEL REGIME IMPERIALE IL LONGUS ET UNUS ANNUS (68 – 69) Morto Nerone, e quando seppe di esser stato riconosciuto da senato e pretoriani come princeps, cui era stato promesso un compenso, Galba marciò verso Roma nel 68 ma le truppe della Germania non lo riconobbero imperatore, acclamando il loro comandante Aulo Vitellio, allora Galba designò alla successione un giovane esponente dell’élite senatoria, Pisone Liciniano. Ma ciò non andò avanti, poiché i pretoriani, che non avevano ricevuto il compenso promesso loro, acclamarono l’ex legato di Lusitania ed ex marito di Poppea, Otone, e Galba e Pisone furono eliminati. A questo punto fu inevitabile uno scontro tra due eserciti cittadini romani, che si ebbe nella primavera del 69 a Bedriaco, con la prevalsa delle truppe di Vitellio, mentre Otone si uccise. Ma Vitellio scontentò presto sia le truppe che la popolazione dell’Italia. Intanto emergeva la figura di Tito Flavio Vespasiano, di origini modeste, che era comandante delle legioni in Giudea. Fu acclamato imperatore dalle truppe d’Egitto, Giudea e Siria. Intanto a Bedriaco vi fu un altro scontro tra le truppe danubiane e le truppe vitelliane, Cremona fu saccheggiata e a Roma fu incendiato il Campidoglio. A Roma stazionò intanto il figlio secondogenito di Vespasiano, il diciottenne Domiziano, come reggente, finché non venne raggiunto dal padre, che fu fatto console dal senato, nel 70, assieme al primogenito Tito. Quest’anno in cui si scontrarono i vari imperatori proposti è chiamato il longus et unus annus. VESPASIANO (69 – 79): DA UNA NUOVA LEGITTIMAZIONE DEL POTERE IMPERIALE AD UN NUOVO ORDINE SOCIALE Gli ultimi eventi interruppero la continuità dinastica nella successione imperiale, facendo emergere quel che Tacito definì il “segreto dell’Impero” à era possibile acclamare l’imperatore da parte delle truppe e lontano da Roma, quindi, senza una sanzione legittimante da parte del senato. Ne è la prova che il giorno dell’imperatore coincide, sotto la dinastia Flavia, con la data dell’acclamazione, non con quella dell’attribuzione dei poteri. Non essendoci più un erede designato, ci fu bisogno di un apposito atto normativo che gli attribuisse l’imperium consulare e la tribunicia potestas: la lex de imperio Vespasiani, un senatoconsulto fatto però votare come legge dai comizi, in cui venivano indicati i poteri e le prerogative di Vespasiano nella politica interna come in quella estera (concludere trattati, convocare il senato, presentare proposte, raccomandare aspiranti alla magistratura, modificare i confini del pomerio) e gli conferiva gli stessi poteri che avevano avuto Augusto, Tiberio e Claudio, gli “Augusti buoni”. Ne ricordiamo una copia in bronzo fatta esporre da Cola di Rienzo nel 1347 per scopi di propaganda politica. Una clausola della legge dava all’imperatore diritto e potere di fare qualsiasi cosa ritenesse necessaria per il bene dello Stato, conferendogli quindi poteri eccezionali in casi d’emergenza. L’ascesa al potere di Vespasiano rappresentava l’esito eccezionale dell’ascesa sociale di una famiglia di modeste origini. Nel 73 egli, con Tito, investì la censura e procedette ad una revisione radicale dell’albo senatorio e dell’ordine equestre, ammettendo tra i senatori e i cavalieri i migliori candidati italici e provinciali che fossero disponibili. Vespasiano fu un uomo all’antica, modesto e parsimonioso. Egli estese alla comunità della Spagna la ius Latii, che ammetteva alla cittadinanza romana le comunità peregrine e comportava l’acquisto della cittadinanza romana per magistrati e membri dei senati locali. LA POLITICA FISCALE E FINANZIARIA. L’ORGANIZZAZIONE DELLA DIFESA Vespasiano si trovò a dover affrontare tutta una serie di problemi economici. Poiché trovò le casse imperiali vuote procedette ad un’oculata gestione finanziaria delle risorse. Si ebbero duri inasprimenti fiscali, furono raddoppiati i tributi provinciali e ci fu l’introduzione di imposte e tasse su specifiche attività o servizi (come la tassa sui gabinetti), nonché la rivendicazione al fisco imperiale dei territori abusivamente occupati. Oltre a limitare gli eccessi nelle spese, senza però rinunciare alla costruzione di opere pubbliche, tra cui il Colosseo, fu anche necessario un lieve svilimento della moneta argentea aumentando la quantità di rame (ciò consentiva una più cospicua emissione di denarii). In più si assisté ad una trasformazione della strategia di difesa dell’impero: nella prima fase del principato gli eserciti stazionavano dentro le province non ancora pacificate dove esercitavano un presidio permanente vi era tutta una serie di stati clienti che avevano la funzione di stati “cuscinetto” che ora furono inglobati nell’impero. Quindi bisognò cambiare le strategie difensive: si creò una linea continua di difesa, presidiata dalle truppe legionarie e ausiliarie, il limes dell’Impero, strada fortificata parallela al confine. Si vollero quindi evitare anche le minacce a bassa intensità, ovvero sconfinamenti e scorrerie. Lo spostamento delle truppe sul limes fu il prodotto della generale pacificazione delle aree provinciali ancora turbolente nei primi decenni del principato. Dove vigeva ancora sentimento antiromano furono prese misure militari, come ad esempio nel 70 quando, con la rivolta giudaica, Tito espugnò Gerusalemme e distrusse il tempio e il contributo che gli ebrei pagavano al loro tempio ora sarebbe andato al tempio di Giove capitolino a Roma. Gli Ebrei reagirono però con la diaspora, disperdendosi ed opponendo resistenza. Negli anni seguenti, dopo il trionfo alla resistenza ebraica, che richiese un impiego ulteriore di forze romane, trionfo congiunto di Vespasiano e Tito, il Tempio di Giano fu chiuso, ed il mondo romano fu in pace per i restanti nove anni del regno di Vespasiano, che morì nel 79. TITO (79 – 81) E DOMIZIANO (81 – 96) A Vespasiano successe suo figlio Tito, che già aveva la tribunicia potestas e il comando delle coorti pretorie per avere la lealtà delle truppe che avevano ruolo decisivo per la sua successione. Il suo regno fu breve ed esemplare fu il suo atteggiamento di grande umanità rivelato in occasioni di grandi calamità che colpirono l’impero in quegli anni, come l’incendio a Roma, che distrusse anche il tempio di Giove, la pestilenza e lo scoppio del Vesuvio nel 79 Tito intervenne con la ricostruzione istituendo una commissione di curatores restituendae Campaniae, ex consoli. Egli si comportò da ottimo imperatore tanto da avere il titolo da alcuni storici di “delizia del genere umano”; inoltre fu favorito dal senato anche per l’allontanamento dell’amante, la principessa giudaica Berenice. Alla morte di Tito gli successe suo fratello Domiziano, che con Tito fu nominato Cesare ma che non godette del medesimo favore di cui aveva goduto Tito poiché riaffermò nuovamente una concezione autocratica del potere imperiale, legittimando la propria autorità anche in chiave religiosa (voleva essere considerato dominus et deus), guadagnandosi così l’odio degli autori cristiani che videro in lui un grande persecutore dopo Nerone, perseguitando tra l’altro anche molti esponenti di primo piano della classe dirigente, accusati di essere filocristiani. Assunse la censura perpetua, determinando la definitiva scomparsa della figura del censore. Per questo suo carattere aspro il principato di Domiziano fu scandito da congiure (egli stesso morì per una congiura). Comunque, pare che Domiziano fu un valente generale ed efficiente amministratore: rafforzò la burocrazia imperiale sostituendo i liberti con procuratori dell’ordine equestre, cui fu affidata l’opportunità di arretrare il limes e fece edificare imponenti opere di difesa, tra cui il vallo in Britannia, che porta il suo nome, che serviva a fermare le incursioni provenienti dalla Scozia. Il vallo era un fossato costruito da un muro di 4,5mt di altezza con un camminamento per le ronde sulla sommità e con alcuni fortini che si scaglionavano per tutta la lunghezza della muraglia. Sotto il profilo dell’organizzazione della difesa, Adriano garantì un migliore status giuridico e migliori condizioni di vita ai soldati; incentivò il reclutamento legionario nelle stesse aree dove le legioni servivano ed estese la cittadinanza ai figli illegittimi dei legionari, poiché a questi era vietato sposarsi. Anche se Adriano non intraprese attività belliche di rilievo, dovette affrontare nel 132 il problema degli Ebrei che si ribellarono all’intenzione da parte dei Romani di creare una colonia a Gerusalemme e costruire un tempio di Giove. La repressione fu durissima; agli Ebrei non fu permesso neanche di avvicinarsi a Gerusalemme. Adriano compì molti viaggi in tutte le regioni dell’Impero: Gallia, Germania, Britannia, Africa, Egitto, Grecia e Oriente, dove le lunghe permanenze affermarono il carattere filoellenico dell’imperatore, che si ripercosse anche esteriormente: fu il primo imperatore a farsi crescere la barba alla maniera dei filosofi greci, diffondendone poi l’uso nelle classi alte. Con Adriano si ebbe un boom edilizio non solo a Roma e in Italia; vennero fondate nuove città, come quella in onore del favorito dell’imperatore Antinoo in Egitto, e nuove imponenti realizzazioni che interessarono molte città (terme, palazzi, teatri); tra le principali opere ricordiamo: Villa Adriana a Tivoli e la Mole Adriana e la ricostruzione del Pantheon a Roma; tali opere furono possibili grazie a una situazione finanziaria particolarmente florida. Furono prese misure per incentivare l’estensione delle colture in varie zone di terreni già occupati o da dissodare: una disposizione di Adriano assicurava il diritto perpetuo di possesso e sfruttamento dei terreni, trasmissibili per eredità, per chi avesse intrapreso la coltivazione dei terreni incolti nelle zone predesertiche dell’Africa. Adriano proseguì l’opera di Domiziano nella sostituzione dei liberti imperiali con funzionari dell’ordine equestre, per cui il numero dei procuratori equestri imperiali aumentò con la stabilizzazione di una vera e propria carriera equestre che prevedeva un avanzamento fisso e compensi differenti per vari gradi. Un altro campo nel quale si esplicò l’attività di Adriano fu quella della formazione del diritto e dell’amministrazione della giustizia: egli affidò al giurista Salvio Giuliano la revisione e la pubblicazione dell’editto che raccoglieva le norme alle quali i pretori si uniformavano nella propria attività. Istituì 4 distretti per l’amministrazione della giustizia in Italia. Non avendo figli maschi, Adriano adottò nel 136 Lucio Elio Cesare, che però morì dopo poco e quindi venne scelto il senatore Antonino, che proveniva dalle province della Gallia Narbonese, adottò a sua volta il figlio di Elio Cesare, Lucio Elio Commodo, e il nipote di sua moglie, Marco Aurelio. Antonino ricevette l’appellativo di Pio per la sua pietà e il rispetto nel padre adottivo. A differenza di Adriano non si mosse mai da Roma, non ci sono molte notizie rilevanti sugli anni del suo governo poiché portò anni floridi e tra i più felici dell’Impero, periodo che fu definito “estate indiana”. Antonino fece edificare poche opere pubbliche e riuscì a contenere la spesa pubblica. L’univo evento militare del suo regno fu l’avanzata in Britannia con la costruzione di un secondo vallo, poi abbandonato. Tuttavia si intravedevano debolezze della compagine imperiale: l’organismo imperiale si reggeva sulle élites cittadine; mentre la base produttiva dell’impero era costituita in sostanza dalla popolazione contadina, che dal surplus produttivo doveva pagare le rendite ai proprietari, i quali, a loro volta, dovevano destinare una quota di questo surplus al pagamento dell’imposta fondiaria, per cui la contrapposizione sociale tra ricchi e poveri, tra proprietari terrieri e contadini, era netta. Per garantire il benessere ai contadini, non bisognava togliere loro molto surplus; d’altro canto per mantenere vitali le élite cittadine, e quindi l’organismo imperiale, era necessario non elevare le imposte tanto da mettere a repentaglio le rendite dei proprietari, e questo equilibrio era precario. L’IMPERO NEL SECONDO SECOLO L’IMPERO ROMANO E LA DINAMICA DELL’INTEGRAZIONE Il secolo degli Antonini viene considerato il secolo d’oro dell’impero, quello della massima fioritura della civiltà cittadina del mondo antico. Contemporaneamente vi si scorge una certa debolezza dell’organismo imperiale e la persistente natura delle società antiche, caratterizzate da rapporti di dominio o di subordinazione sull’uomo. Tale duplice atteggiamento esprimeva giudizi contrastanti non solo sulla natura dell’impero ma anche sulla dinamica della romanizzazione, quel processo che porta le regioni unificate da Roma ad una certa misura di omogeneità sociale e culturale, tale omogeneità era imposta da Roma contro una resistenza delle popolazioni soggette. L’età antonina è quella in cui pare essersi realizzato al meglio l’equilibrio tra centro e periferia (non a caso nella classe dirigente romana furono presenti esponenti di tutte le province dell’impero e gli imperatori provenivano anche dalle province) e su vari piani: quello economico, etnico-sociale, linguistico-culturale. Attraverso questo equilibrio Roma ha costruito strutture uniformi con l’organizzazione provinciale e soprattutto con l’urbanizzazione. Il processo di integrazione è dovuto soprattutto al movimento di popolazione a seguito della colonizzazione e paradossalmente della schiavizzazione dell’Oriente (gli schiavi che vengono a Roma e poi vengono liberati) e dalla mobilitazione di coloni e veterani verso le province orientali; ma è basato anche sull’esportazione del modello urbano di Roma. Ovviamente non tutti accettarono di integrarsi tacitamente al modello imperiale romano; ci furono forti resistenze soprattutto da parte del popolo ebraico. LE DINAMICHE ECONOMICHE Negli ultimi due secoli dell’età repubblicana, Roma e l’Italia si erano arricchite al massimo con vari bottini: oro, argento, schiavi, metalli vari, opere d’arte e le popolazioni vinte erano costrette a pagare enormi tributi. A ciò si era anche accresciuta l’economia agraria della penisola con grandi colture ed enormi allevamenti ovini. Lo sfruttamento della Sila e dell’Aspromonte consentiva la produzione della pece. Prodotti agricoli e manufatti artigianali alimentavano un mercato in espansione. Roma non solo sfruttava le province con la sottrazione di risorse ma cominciò anche ad esportare prodotti agricoli oltre i confini dell’Impero. Per pagare i tributi a Roma queste province dovevano pur acquisire il denaro con cui pagare, quindi dovevano cominciare a esportare loro stessi per potere garantire questo flusso di denaro. Le province capirono che conveniva di più esportare in Italia, essendo più ricca e con una domanda più alta di beni e prezzi più alti. A questo punto i produttori italici si resero conto che conveniva di più produrre in provincia e vendere in Italia. Nel II sec. Spagna, Gallia e Africa conobbero una prosperità senza precedenti. Nell’Italia tardorepubblicana l’espansione economica si giovava del lavoro servile: villa schiavistica, ovvero un’unità produttiva che si avvaleva sia dal lavoro servile che di quello libero nei momenti di picco, come la vendemmia. In provincia gli schiavi erano in minoranza rispetto all’Italia, per cui fu il lavoro dei liberi a sostenere la crescita dell’economia agraria. In Africa ci fu un notevole avanzamento delle colture con incentivi da parte dell’autorità imperiale attraverso misure che favorivano coloro che occupavano e facevano fruttare terreni incolti. Le unità fondiarie in Africa erano quelle delle grandi proprietà date a piccoli affittuari che pagavano un canone ai padroni della terra. GLI EQUILIBRI ETNICI E SOCIALI L’arrivo di schiavi in Italia aveva dato il via a un’immigrazione forzata di un grosso numero di persone e non solo di orientali, per cui la composizione etnica italiana mutò integrando tali individui facilmente, poiché i pregiudizi razziali erano assenti nella società romana. Tale integrazione fu anche culturale, con la diffusione di pratiche religiose e di culto, particolarmente in quelle regioni italiane legate da stretti rapporti con l’Oriente, come ad esempio le città della Campania, in cui si diffusero gli Isei (culto di Iside) e i Serapei (culto di Serapide). L’integrazione andò ad interessare anche le province dove stazionavano gli eserciti, che ebbero un ruolo decisivo nella dinamica integrativa, diffondendo la cultura romana e la lingua latina. Importante fu l’integrazione delle classi dirigenti dell’Impero, infatti senatori e cavalieri cominciarono a provenire dalle regioni più precocemente romanizzate (Gallia, Spagna, Africa). L’integrazione conobbe però un limite, poiché fu più un’integrazione orizzontale che verticale, con disparità in termini di condizioni sociali e maggiori difficoltà per i livelli bassi della società di integrarsi agevolmente nella cultura romana, come invece accadde per le élites. Nel II sec. la distinzione tra ricchi e poveri si acuì ulteriormente quando ci si avvalse di un criterio di discriminazione nella repressione criminale: il giudizio per i reati più gravi era godevano di popolarità, vi era quello di Cibele e del suo sposo Attis (Asia Minore), di Giove Dolicheno e di Giove Eliopolitano (Siria), di Iside (Egitto), di Mitra (Mesopotamia), quest’ultimo si diffuse nel limes danubiano renano e britannico e quindi tra i militari ma anche a Roma e Ostia. Alcuni di questi avevano punti di contatto con il cristianesimo, specie il mitraismo, senza però il libro sacro e una teologia. In tali culti ruolo primario aveva l’astrologia, basata sulla vita terrena e sul futuro. La propagazione in Occidente dei culti orientali fu anche il risultato dei movimenti di popolazione all’interno dell’impero, legati in larga misura alla pratica della schiavitù. Tali culti infatti si diffusero particolarmente nella classe servile e libertina. I culti egiziani non furono subito accolti dalle autorità, anche se venivano colpiti rituali specifici, come pratiche magiche o l’astrologia estrema, e non i seguaci della religione, come accadde per i cristiani. Incominciavano a farsi strada concezioni monoteistiche che si incontravano con quelle filosofiche della tradizione greca, con l’idea di un essere supremo razionale e buono, che ordina l’universo con le sue regole. Era prescritta la purezza morale per concepire la vita come un continuo perfezionamento di sé; si riteneva che al di sopra di tutte le divinità adorate ci dovesse essere un’entità suprema. Il bisogno di una nuova spiritualità si scontrava con la religione tradizionale. LA DIFFUSIONE DEL GIUDAISMO E DEL CRISTIANESIMO La religione degli Ebrei e il cristianesimo ebbero con il potere romano un grande motivo di disagio, per il loro radicalismo monoteista e la loro mancata propensione ad accettare la soggiogazione romana. Gli ebrei di Palestina si dividevano per il loro credo religioso e per le loro propensioni ideologiche in varie sette: i sadducei, legati alle leggi scritte, la Torah, non credevano alla vita oltre la morte e alla resurrezione ed erano quelli più disposti ad accettare il potere dei Romani; i farisei, si preoccupavano di integrare, precisare e adattare a legge scritta utilizzando la tradizione orale dei padri; gli esseni, vivevano in comunità monastiche e seguivano rigide prescrizioni rituali; gli zeloti, volevano la liberazione di Israele dai Romani. Essi erano stati tolleranti e rispettosi verso gli Ebrei, che nel frattempo si erano sparpagliati dopo la diaspora, e verso i loro obblighi religiosi, permettendo loro di osservare il sabato e continuare ad inviare la decima al Tempio; inoltre essi non erano costretti all’arruolamento. Gli Ebrei alessandrini (impiantati ad Alessandria), poi, godevano di posizione privilegiata. Anche a Roma in età tardo-repubblicana la comunità ebraica era notevole; nel 63 a.C. con le vittorie di Pompeo in Oriente erano giunti a Roma molti ebrei ridotti in schiavitù. Nel 19 si ebbe un’espulsione dalla città che accomunava i giudei ai seguaci dei culti egiziani, che pare godessero di molto favore tre le classi più elevate, ma, con la caduta di Seiano, tale provvedimento fu revocato. Nel 49 si ebbe una nuova cacciata degli Ebrei da Roma e per la prima volta furono accomunati ai Cristiani. In Palestina il sentimento antiromano era forte, esso si rifaceva all’attesa messiaca di un liberatore. I cristiani inizialmente apparivano come una setta ebraica di interpretazione delle leggi di Mosè, essi credevano che il Messia era Colui che avrebbe portato il regno di Dio sulla Terra e che l’atteggiamento di Gesù fosse neutrale nei confronti dell’Impero, anzi, nella sua celebre frase: “rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, si riconosceva, secondo molti, il potere imperiale ma soprattutto della riaffermazione della netta separazione tra il potere politico e l’autorità di Dio, in tale separazione si può vedere l’aspetto più rivoluzionario della nuova religione e la ragione fondamentale dell’ostilità del potere nei confronti dei cristiani (che si sentivano estranei ad ogni politica e comunità e che avevano un solo culto, senza quindi legittimare il culto dell’imperatore), che si sarebbe poi espresso nelle persecuzioni. Il cristianesimo si diffuse rapidamente, soprattutto nelle città greco-orientali dell’Asia Minore e della Grecia. La prima grande diffusione del cristianesimo si ebbe già nei primi due decenni dopo la morte di Gesù e soprattutto ad opera di Paolo, un ebreo di Tarso, greco di lingua e cittadino romano, il quale fu un grande persecutore dei cristiani, finché sulla via di Damasco ebbe la visione del Cristo risorto e fu per questo definito l’ultimo degli apostoli. Proprio le sue lettere inviate ai cristiani delle varie città costituiscono gli scritti del NT. Furono i Giudei ad accusare Paolo, forse perché voleva sanare vecchi contrasti, al proconsole di Acaia ed è proprio a Gerusalemme che egli, di ritorno da uno dei suoi viaggi, rischiando il linciaggio, fu arrestato. Gli insegnamenti della dottrina cristiana suscitarono ostilità nell’opinione pubblica pagana e nel potere imperiale; i cristiani, infatti, venivano considerati una strana setta dedita a pratiche mostruose quali: l’incesto, il cannibalismo e il sacrificio dei bambini. Anche gli uomini più colti furono ostili, soprattutto per il credo della vita ultraterrena e il conseguente atteggiamento nei confronti della morte. Oltre all’accusa, rivolta ai cristiani, di sacrilegio e lesa maestà, proprio il cristianesimo in sé fu considerato un crimine, a partire, forse, dal regno di Tiberio. Furono avviate molte persecuzioni nei loro confronti, a partire da Nerone, quando furono martirizzati Pietro e Paolo; altra grande persecuzione si ebbe con il regno di Domiziano. Con l’avvento degli Antonini la situazione si mitigò un po’, nel senso che i cristiani non andavano ricercati ma se denunciati dovevano dimostrare di non essere cristiani, offrendo agli dei, per non essere puniti. I CARATTERI DELL’ECONOMIA IMPERIALE ECONOMIA ROMANA ED ECONOMIE PREINDUSTRIALI Alla fine dello scorso secolo ci sono stati vari dibattiti, soprattutto nel mondo accademico tedesco, riguardo l’economia dell’età imperiale di Roma e la sua comparabilità con quelle successive, sino alla rivoluzione industriale. Spiccano due scritti in particolare: - “L’origine dell’economia nazionale” à di Bucher, in cui si prospetta un’interpretazione unitaria delle economie del mondo antico e dell’alto medioevo, riconducibili all’economia domestica chiusa, ovvero, in antichità, secondo lo scrittore, prevaleva l’autoconsumo. - “L’evoluzione economica dell’antichità” à di Meyer, in cui l’autore equipara l’economia antica a quella europea dell’età moderna, paragonando le fasi della storia economica di Roma e di Atene a quelle dell’Europa. Egli asseriva che si riconosceva nel mondo antico addirittura l’esistenza di una produzione industriale di massa, paragonando poi lo schiavo antico al proletario moderno. Meyer era sicuro che vi fosse una concezione ciclica dello sviluppo storico dell’economia in netta contrapposizione a Bucher, che vedeva l’economia caratterizzata come un percorso rettilineo segnato da tappe caratterizzate da un’organizzazione della produzione e della distribuzione di beni. Da qui la contrapposizione tra modernisti e primitivisti. Comunque, sulla base di più ampie conoscenze, ciò che permette di fare una comparazione tra economia romana e quelle preindustriali si può così schematizzare: - prevalenza della produzione di beni primari; - carattere duale dell’economia à presenza di beni destinati all’autoconsumo e beni destinati allo scambio commerciale; - limiti quantitativi della produzione di manufatti à a parte qualche eccezione, le aziende artigiane erano piccole, non erano mai fabbriche vere e proprie ed impegnavano pochi operai; la limitatezza della produzione di manufatti si rifletteva sulla distribuzione: il settore mercantile era esiguo e caratterizzato da un’estrema varietà nei modi di funzionamento e nell’organizzazione dei mercati; - difficoltà ed elevati costi dei trasporti, in particolare dei trasporti merci via terra, per questo grandi concentrazioni urbane si stabilivano sulle coste o lungo i corsi dei fiumi navigabili. UNA PECULIARE ECONOMIA PREINDUSTRIALE Ciò che influì sull’economia romana imperiale fu soprattutto l’urbanizzazione diffusa caratterizzata anche da grandi centri urbani tra cui la stessa Roma, che già allora contava più di un milione di abitanti. Moltissime altri erano i centri, villaggi o città, che formavano l’Impero. Tra le aree più urbanizzate vi era l’Italia, con 430 città in età augustea, ma ve ne erano molte anche in Gallia, Africa, Egitto. Tale urbanizzazione era dovuta al fatto che lo sviluppo delle città e il popolamento urbano presupponeva, in uno scenario preindustriale di limitata produttività, un forte popolamento rurale, che garantisse la sopravvivenza alla popolazione urbana che non produceva beni primari. La popolazione veniva censita cosicché si poteva sapere quanti cittadini erano presenti in determinate aree geografiche, anche se si i dati si riferivano solo ai maschi adulti atti alle armi, quindi non a tutta la dell’economia (forse così si spiega la crisi del credito nel 33). Va detto comunque che, sino al collasso del sistema monetario nel III sec., la moneta prodotta era adeguata ai bisogni dell’economia e che, secondo le fonti, la quantità di monete prodotte dalla zecca imperiale fu molto consistente. Con l’acquisizione di enormi bottini di guerra e la presa di possesso di nuove aree minerarie ci fu l’accrescersi delle possibilità di coniazione e dunque di ampliamento della spesa pubblica (pare che con le miniere della Dacia si siano risolti i problemi finanziari dell’organizzazione politica imperiale con effetti espansionistici per l’economia imperiale nel suo complesso). Buona parte della spesa si concentrava sulle frontiere dove stazionava l’esercito e a Roma con le opere pubbliche e le distribuzioni di denaro, fatto che fece sì che la presenza di moneta variasse da zona a zona, e dunque vi era conseguente differenza di prezzi e saggio d’interesse. Il sistema fiscale ebbe un forte impatto sulle condizioni economiche delle varie aree, poiché non in tutte le regioni la spesa pubblica era ugualmente cospicua e perché non tutte le regioni erano ugualmente colpite da tributi, anzi vi erano territori immuni, come l’Italia. La tassazione pesava in modo disuguale tra vai ceti e tra le varie aree, e bisogna anche tener conto del maggior aggravio rappresentato dalle tasse locali. Nelle zone colpite da tassazione, il tributo rappresentava un particolare incentivo per migliorare l’efficacia produttiva, in quanto i ricchi proprietari terrieri non volevano lasciare i loro terreni incolti se dovevano pagarci su una tassa, mentre il piccolo proprietario doveva aumentare le proprie colture per venderle e guadagnare il denaro necessario per pagare l’imposta. L’amministrazione imperiale interveniva nella vita economica anche attraverso lo sfruttamento dell’immensa proprietà fondiaria imperiale che andava sempre più ampliandosi, attraverso la confisca e l’inglobamento dei terreni pubblici, sfruttandovi sia il lavoro dei contadini liberi sia l’intermediazione dei ricchi, che mediante contratto pagavano le rendite all’amministrazione fiscale e a loro volta ricevevano pagamenti dai contadini. L’EVOLUZIONE ECONOMICA DELL’IMPERO NEI PRIMI TRE SECOLI Una lunga tradizione storica ha contrapposto la crescita economica delle province, particolarmente Gallia, Spagna e Africa, ad una presunta crisi che avrebbe toccato l’Italia; e se dai reperti archeologici risulta eclatante la crescita economica delle province è più difficile riconoscere in tali reperti i segnali di una crisi dell’economia italiana, prima, forse di un evento che ha comunque toccato tutte le regioni dell’impero, la pestilenza, che ebbe impatto sulla demografia, sulla finanza imperiale e sulla situazione produttiva. Probabilmente a rovinare l’Italia fu la concorrenza delle province, la cui crescita economica fu la conseguenza di un aumento di efficienza della produzione necessaria al pagamento del tributo monetario a Roma. LA CRISI DELL’ORGANISMO IMPERIALE DA MARCO AURELIO (161 – 180) A COMMODO (161 – 169): GUERRE E PESTILENZE I due figli adottivi di Antonino Pio, Marco Aurelio Vero e Lucio Elio Commodo (che assunse il cognome del fratello adottivo, cioè Vero), condivisero interamente il potere. I due imperatori si distribuirono i compiti: Marco lasciò gli impegni bellici a Lucio Vero. Il nuovo regno iniziò con una ripresa dell’attività bellica: il re partico Vologese III aveva approfittato della morte di Antonino per invadere l’Armenia, ma Lucio lo sconfisse nel 166. La guerra comportò delle conseguenze disastrose, poi, sull’impero. L’esercito fu colpito dal vaiolo e i reduci della campagna portarono la malattia in moltissime regioni dell’impero. Inoltre, approfittando del fatto che la campagna partica aveva lasciato gli altri fronti sguarniti, le popolazioni germaniche di Quadi e i Marcomanni sfondarono il limes presso il fronte renano e danubiano e invasero i territori provinciali. Si dovettero reclutare nuove legioni e lo stesso Marco assunse il comando delle operazioni sul fronte danubiano. Nel 169 morì Lucio Vero e l’anno seguente i barbari invasero l’Italia settentrionale e assediarono l’importante città di Aquileia, strategica per i collegamenti con il limes; giunsero poi sino in Grecia. Nel 175 si ebbe poi una rivolta del governatore della Siria Avidio Cassio, che si autoproclamò imperatore, ma la rivolta fu dubito domata. Fu difficile anche reclutare nuove truppe, viste le decimazioni, tanto che si arruolarono anche i barbari, che si insediarono non solo nelle aree di confine ma nella stessa Italia. Nel frattempo l’epidemia imperversò per almeno 25 anni; da un documento papiraceo sappiamo che nel Fayum, in Egitto, morì circa un terzo dei contribuenti, determinando l’aumento del carico fiscale sulle spalle dei sopravvissuti. La pestilenza portò quindi ad una crisi demografica, con un conseguente calo della produzione e delle entrate dello stato, cui si aggiunse l’impossibilità dei contribuenti di pagare le imposte, portando così i superstiti a fuggire dai villaggi, per cui si cercò di ridurre alcune spese e vendere beni imperiali, dato che non era possibile gravare ulteriormente sui contribuenti sopravvissuti, tanto che l’imperatore dovette condonare 45 anni di tasse arretrate, nonché ricorrere alla manipolazione monetaria ritoccando il peso o il contenuto di metallo della moneta. A Marco restò in vita un solo figlio, Commodo (180-192), che nel 177 associò al potere e alla sua morte nel 180, mentre era impegnato nella guerra contro i barbari, gli successe a soli 18 anni, ripristinando così di nuovo criterio dinastico, poiché da Nerva gli imperatori erano morti senza figli maschi. Commodo concluse la pace con le tribù barbariche. Le fonti hanno un atteggiamento ostile verso questo imperatore. Egli, alle guerre, pare preferisse i piaceri della vita romana e i giochi, mostrando agli occhi della classe dirigente, che lo riteneva irresponsabile ed incapace, una condotta immorale e tale classe mise in atto una serie di complotti e congiure, a ciò si aggiunsero le difficoltà economiche, che si aggravarono con le spese di Commodo, che per recuperare ricorse, da un lato, introdusse nuove tasse, come le donazioni obbligatorie del giorno del suo compleanno, dall’altro ridusse il contenuto di argento della moneta, che però secondo alcuni studiosi determinò un’inflazione, a cui l’imperatore avrebbe cercato di rimediare imponendo un calmiere, che ebbe però scarsa efficacia. Il 31 dicembre del 192 Commodo venne ucciso da una congiura alla quale partecipò anche la sua concubina Marcia. Gli successe un anziano senatore, Publio Elvio Pertinace, che tentò di attuare varie misure per risanare le finanze (le casse imperiali erano quasi vuote) mediante tagli alle spese, soprattutto quelle imperiali superflue, da cui derivò anche un abbassamento dei prezzi, e mise all’asta i beni imperiali, specie quelli di Commodo. Tra le tante altre misure: stabilì premi per i soldati, fissò un tetto di spesa per le opere pubbliche, stanziò denaro per restauri cittadini, pagò stipendi arretrati. Per il rilancio agricolo concesse poi, in Italia e province, di occupare tutte le terre incolte e abbandonate e chi se ne fosse preso cura sarebbe divenuto proprietario e avrebbe goduto di immunità fiscale per 10 anni; per il rilancio del commercio eliminò i tributi imposti da Commodo sul traffico commerciale, Una legione in Siria acclamò imperatori due familiari di Severo, Vario Avito Bassiano, cugino di Caracalla, e Gessio Alessiano Bassiano, cugini di Vario, che furono però presentati come figli illegittimi di Caracalla. Nello scontro che ne seguì Macrino venne ucciso. Gli successe Vario, detto Elagabalo (218-222), dal nome del dio sole di Emesa, di cui era sacerdote, e suo cugino fu nominato Cesare. Portò a Roma il suo culto esotico orientale e fu estraneo alla tradizione romana, basti guardare il suo matrimonio con una vergine vestale e il suo cattivo rapporto con l’esercito, tale da portarlo alla sua uccisione, istigata dalle stesse donne di famiglia. Gli successe il cugino, che prese il nome di Aurelio Severo Alessandro (222-235), che fu un principe mite e preoccupato di non pesare troppo sulle tasche dei contribuenti, riducendo le imposte grazie ad un’attenta gestione finanziaria ed eliminando l’aurum coronarium, stabilendo che nessuno doveva più contribuzioni di quanto potesse dare. Tali riduzioni furono aiutate anche dalla riduzione del personale di corte, tenendone solo il numero necessario. Ancora, Severo sarebbe intervenuto in campo agricolo mediante prestiti ad interessi bassi o nulli pur di permettere di acquistare le terre pubbliche messe in vendita; fu attento ai rifornimenti annonari e di olio, sostenendoli se necessario anche a proprie spese ed effettuò distribuzioni straordinarie e probabilmente prese misure di diminuzione del costo della carne. Infine, diede vita a molte attività edilizie, quali costruzione di terme, restauri di vecchie opere e abbellimenti vari. Negli anni del suo governo nacque una nuova dinastia persiana: i Sasanidi, che fondarono un nuovo impero persiano su quello partico. Il nuovo stato ebbe una politica aggressiva verso Roma, così, dopo aver attaccato l’Armenia, la Cappadocia, la Mesopotamia e la Siria, i Persiani ebbero la meglio sull’esercito romano, tanto che il prestigio dell’imperatore cominciò a vacillare, senza contare che ora vi era anche la minaccia di invasione di popolazioni barbariche. Severo Alessandro fu ucciso con la madre Iulia Mamea, che influenzò sempre molto i suoi anni al potere, e al suo posto fu acclamato dalle truppe Giulio Vero Massimino, un ufficiale. LA GESTIONE DEL POTERE IMPERIALE IN ETA’ SEVERIANA Gli ultimi imperatori, Elagabalo e Alessandro Severo, opposti in quando uno cercava nuova legittimazione, anche religiosa, del potere imperiale, l’altro seguì la tradizione, non ebbero l’appoggio dell’elemento militare e tra l’altro la loro giovane età fece sì che una grande fetta di potere la detenessero le donne della Domus Augusta, come di Giulia Domna (moglie di Settimio), Giulia Mesa (sorella di Settimio), Giulia Soemiade (figlia di Settimio) e Giulia Mamea (madre di Severo Alessandro e figlia di Settimio). In tale epoca ebbero grande potere anche grandi giuristi, quali Papiniano, Paolo, Ulpiano, in quanto gruppo di consiglieri dell’imperatore che Severo Alessandro trasformò in un organo rappresentativo dei due ordines di senatori e cavalieri e anche come detentori di altre cariche, come quella del prefetto al pretorio. Con la loro grande autorità provvidero ad una generale risistemazione del diritto. Con la Constitutio Antoniniana del 212, Caracalla diede la cittadinanza a tutti gli abitanti liberi dell’impero. Da papiri pervenutici pare che l’imperatore avesse escluso da tale provvedimento una determinata categoria di persone, i dediticii. E’ l’esito di un processo che iniziò con la grande conquista imperiale. Il possesso della cittadinanza era comunque ormai più un segno di distinzione sociale che di godimento di determinati diritti e privilegi. Tra l’altro, in quanto a diritti, non tutti i cives Romani erano uguali di fronte alla legge (honestiores e humiliores). Le fonti, specie Cassio Dione, gettano un’ombra sul provvedimento di Caracalla: non sarebbe stato preso per generosità, ma determinato dalla volontà di aumentare le entrate imponendo ad altri le imposte dei cives romani, raddoppiandole. MASSIMINO (235 – 238) E I GORDIANI A Severo Alessandro successe Giulio Vero Massimino, detto Massimino il Trace, primo soldato imperatore e primo imperatore a non recarsi proprio a Roma per poterla difendere da minacce esterne. Dalle fonti apprendiamo che fu un uomo rozzo e semibarbaro ma abile militarmente, tanto che ottenne subito successi sul fronte germanico e danubiano, tanto che lì sbaragliò gli Alamanni e fece incursioni contro i altri popoli. Contro di lui ci fu molta ostilità da parte di contribuenti, vessati da forti pressioni fiscali da lui imposte, sia dell’élite che dal resto dei cives, che dai contadini. Massimino si appropriò tra l’altro di ciò che apparteneva al popolo, confiscando il denaro destinato ai rifornimenti e alle distribuzioni di viveri o all’amministrazione della vita pubblica. Dopo di lui iniziò il periodo dell’anarchia militare: 50 anni in cui imperatori e usurpatori si uccisero e si susseguirono ad un ritmo impressionante. Il triennio di Massimino si concluse con una rivolta che partì dall’Africa, di coloni e proprietari terrieri del ceto senatorio, nel 238 venne acclamato imperatore Gordiano, proconsole d’Africa, che il senato riconobbe, ma la rivolta fu domata e Gordiano fu ucciso. Il senato allora nominò un collegio di 20 consolari per provvedere alla res publica, e tra questi Pupieno e Balbino vennero nominati Augusti; inoltre, su pressione della plebe, venne nominato Cesare il nipote di Gordiano, Gordiano III. Massimino nel frattempo era giunto in Italia, ma venne ucciso dai soldati mentre tentava di prendere la città di Aquileia. Anche la coppia di imperatori, avendo contro molte ostilità, vennero uccisi, e venne acclamato il giovanissimo Gordiano III (238-244), che ebbe come tutor prima il prefetto al pretorio Timesiteo e poi il prefetto Filippo l’Arabo. GLI SCONTRI CON I PERSIANI E CON I GOTI Nel 243 Roma si trovò a combattere contro i barbari danubiani e sulla fascia orientale contro i Persiani che erano giunti in Siria per riprendersi le aree mesopotamiche che avevano perso. Si ebbero diversi scontri con iniziali successi, ma poi Giordano III morì nello scontro di Mesiche (odierna Baghdad) e i romani dovettero ritirarsi. Venne eletto imperatore Filippo l’Arabo (244-249), egli ebbe contro l’ostilità della tradizione romana, anche perché simpatizzava con i cristiani, e fu ritenuto responsabile della morte di Gordiano. Filippo stipulò la pace con i Persiani, cui fu pagata un’indennità, e rientrò a Roma, dove il 21 aprile 248 celebrò il millenario della sua fondazione. Dopo una breve tregua la minaccia giungeva da un popolo barbarico, i Goti, che invasero la Mesia. Si dice che Filippo avesse a tal punto deciso di abdicare rendendo ciò noto al senato e gli successe Decio (249-251), che aveva sconfitto i Goti e che prima si oppose all’abdicazione, poi acclamato Augusto, sconfisse e uccise Filippo. Ma in una battaglia contro i Goti, nel 251 anche Decio cadde e gli successe Treboniano Gallo (251-253), che adottò il figlio di Decio, Ostiliano, ma al suo posto nel 253 venne però elevato a grado di imperatore delle sue truppe Emiliano, governatore della Mesia inferiore che sconfisse i Goti. Ma ad egli si opposero ancora le truppe di Valeriano (253-260), che associò al potere suo figlio Gallieno (260-268) nominato Cesare dal senato. LA GRANDE CRISI DEI DECENNI CENTRALI DEL III SECOLO Valeriano pare che con due editti scatenò una persecuzione che sembrò non voler colpire più i singoli individui ma la Chiesa come istituzione, mediante l’eliminazione fisica delle gerarchie e la confisca dei beni immobili. Gallieno vi pose fine dopo la cattura del padre. L’impero conobbe due decenni di grande crisi, dal 250 al 270, sia per le pestilenze e le carestie sia per i continui conflitti bellici: i Goti con gli Alamanni, i Franchi e gli Eruli premevano sui confini renano-danubiani con incursioni nell’Impero romano, spingendosi in Spagna, in Italia settentrionale e in Asia Minore e nel 267 arrivarono anche in Grecia. Mentre i Persiani prendevano Antiochia, Valeriano si recò in Oriente, lasciando l’Occidente al figlio Gallieno. Valeriano, nel 260 rispose ad un’offensiva persiana ad Edessa, dove fu catturato da re persiano Shabjur. Il figlio Gallieno non riuscì a liberarlo. Gli successe come imperatore e vietò al senato il servizio militare, per impedire a qualche valoroso esponente di prendere l’Impero. Accettò l’affermazione, all’interno dell’Impero, di due entità separate: Imperium Galliarum con centro a Treviri, nato nel 260 dopo l’usurpazione del generale Postumo che non attaccò Gallieno perché pressato dalla necessità di difendere le regioni da lui controllate; l’altra entità sorse per iniziativa del signore di Palmira, Odenato, che effettuò due spedizioni in Persia, riportando all’Impero la Mesopotamia. Ucciso Odenato il potere passò a suo figlio Vaballato con la tutela della madre Zenobia nel 267. La crisi imperiale fu tanto militare quanto finanziario-monetaria, produttiva e sociale. Negli anni di Gallieno si assisté al tracollo monetario, determinato dall’impossibilità di far fronte a spese accresciute quando la riscossione delle imposte non poteva più effettuarsi dappertutto con regolarità. L’unica moneta ad essere ancora emessa era l’antoniniano (moneta di Caracalla). La crisi colpì economicamente le classi dell’élite che non poterono più assolvere ai propri compiti nei confronti delle proprie comunità. tetrarchia, poiché l’Impero era molto vasto. Diocleziano aveva comunque preminenza. La tetrarchia fu rafforzata da vincoli matrimoniali: Galerio sposò la figlia di Diocleziano e Costanzo la figlia di Massimiano. Le aree occidentali furono affidate a Massimiano e Costanzo Cloro, quelle orientali a Diocleziano e Galerio. La tetrarchia facilitò l’esecuzione delle direttive imperiali, garantì un’amministrazione èiù efficiente, maggior presenza militare, preventiva regolazione della successione al trono e rappresentò una valida risposta alle minacce esterne; si consolidò l’impero e si presero iniziative nei confronti dei nemici esterni come la pace di Nasibi nel 298 in Oriente, con il conseguente ampliamento dei territori della Mesopotamia e il controllo sull’Armenia; altre rivolte vennero debellate anche in Egitto e in Britannia. Con la tetrarchia la sede imperiale non fu più a Roma ma in varie residenze: Nicomedia (Bitinia) fu la residenza di Diocleziano; Tessalonica e Serdica di Galerio; Milano di Massimiano e Treviri di Costanzo. Con Diocleziano si afferma l’assolutismo imperiale: per rafforzare il nuovo regime vi furono nuove forme di legittimazione del potere, anche attraverso pratiche religiose e di culto: Diocleziano e Massimiano adottarono i nomi di Giovio e Erculio (associazione a Giove e Ercole) tali da risultare connessi con il divino. Vennero cambiati tratti del cerimoniale, infatti chi si presentava al cospetto dell’imperatore doveva compiere l’atto dell’adoratio, cioè inginocchiarsi e baciare l’orlo della tunica e il consilium divenne consistorium, cioè tutti dovevano stare in piedi di fronte all’imperatore. Vi furono anche riforme militari e fiscali. Per le prime, l’esercito vide l’incrementarsi il numero dei suoi effettivi e fu quindi necessario ricorrere alla coscrizione, una forma di imposizione fiscale che gravava sui fondi, infatti i proprietari terrieri furono costretti a fornire molti dei loro coloni all’esercito. Si ebbe una moltiplicazione delle legioni, numerose ma di conseguenza più piccole; accanto alle truppe collocate lungo i confini fu istituito il comitatus, contingente mobile che seguiva l’imperatore negli spostamenti. Lungo il confine orientale si edificarono opere di fortificazione per la difesa. Tutto ciò prevedeva una riorganizzazione della fiscalità e della finanza imperiale. LA NUOVA FISCALITA’ E LE RIFORME AMMINISTRATIVE Per far sì che entrate e uscite fossero pari e che i rifornimenti per l’esercito fossero regolarizzati, furono necessarie delle riforme amministrative. Diocleziano introdusse un nuovo sistema impositivo: le requisizioni per l’esercito vennero regolarizzate e rappresentarono la parte più cospicua delle entrate, ciò consentì di calcolare in anticipo l’entità delle spese. In tal modo, per la prima volta il governo imperiale redisse una sorta di bilancio preventivo. Per poter ripartire il carico fiscale fu necessario un nuovo censimento della popolazione dell’impero e una revisione catastale per misurare l’estensione dei fondi agricoli, sistemandone il diverso rendimento a seconda del tipo di coltura adottato. La spesa si ripartiva tra tutti i contribuenti con il sistema della capitatio-iugatio, una procedura censitaria che combinava in maniera non chiara le unità di terreno imponibile e il numero dei coloni in una data area, determinando anche le diverse capacità contributive delle varie aree. Tale opera richiedeva un consistente e capillare apparato amministrativo, così si procedette ad una serie di riforme: netta separazione tra carriere civili e militari; divisione delle province esistenti in entità territoriali meno estese, così il numero delle province fu raddoppiato, avvicinando il potere imperiale agli abitanti dell’Impero, esercitato attraverso i suoi rappresentanti. I governatori continuarono ad esercitare funzioni giurisdizionali, finanziarie e civili; mentre il comando militare nelle provincie fu affidato a duces. Riorganizzando le province cadde la distinzione tra le province del populos e quelle imperiali. Le province furono a loro volta riaccorpate in 12 grandi circoscrizioni territoriali, le diocesi, con a capo funzionari tratti dall’ordine equestre, i vicari, che svolgevano vari compiti civili a livello locale, supervisionavano i governatori di provincia e riscuotevano l’annona. Vi fu chiaramente un ampliamento della burocrazia, contribuendo ad aggravare i costi dell’organizzazione imperiale. LA MONETA E L’INFLAZIONE: L’EDICTUM DE PRETIIS Tra il 294 e 296 il governo tetrarchico attuò una riforma complessiva di emissione monetaria che ricreava la vecchia moneta d’argento di elevato contenuto, come il denarius neroniano (96 pz. per libbra) mentre il peso della moneta d’oro venne fissata a 60 pz. per libbra. Si introdusse anche un nuovo nominale di rame argentato che ebbe la funzione del sesterzio, a tale moneta si accompagnarono nominali più piccoli con la funzione di spiccioli. Tuttavia tale riforma non fu in grado di fermare l’incremento generale dei prezzi, tra cui i prezzi degli stessi metalli nobili, per cui, l’autorità dovette attribuire alla nuova moneta emessa un valore nominale che era divenuto inferiore a quello intrinseco, la moneta veniva dunque emessa in perdita. Venne poi attuata un’altra riforma che cercò di arginare la precedente, incrementando il valore nominale dei vari pezzi, rischiando però di innescare un’ulteriore inflazione. Così, nel 301, per bloccare l’inflazione, si pensò di congelare i prezzi con un editto, l’edictum de pretiis, che conteneva un dettagliato resoconto dei prezzi dei generi alimentari, manufatti, salari e trasporti. Per impedire che i commercianti fornissero merci alle truppe a prezzi troppo elevati, l’imperatore ne aveva fissato i prezzi. La pena di morte era la pena per chi avesse trasgredito le norme. Tuttavia, il risultato fu la scomparsa delle merci e il mercato nero, e l’editto fu lasciato cadere. Frammenti del decreto sono stati trovati solo in Oriente, e forse è quindi stato applicato nelle sole regioni governate da Diocleziano. Lattanzio ci dipinge Diocleziano come grande nemico dei cristiani e colpevole di aver innestato una tale spirale inflazionistica che il governo imperiale non sarebbe più stato in grado di fermare. LA PERSECUZIONE ANTICRISTIANA Diocleziano tentò, pur fallendo, di restaurare l’Impero pagano perseguitando i cristiani per 10 anni. Nel 303 e 304 vennero emessi degli editti contro i cristiani seguiti da nuove persecuzioni, che continuarono in Occidente sino al 306 e in Oriente fino al 313. Vennero distrutte chiese, fu loro vietato di riunirsi, vennero limitati alcuni diritti civili, venne arrestato il clero e fu imposto ai cristiani di sacrificare agli dei e all’imperatore. Le conseguenze della persecuzione furono differenti in ogni area controllata dai tetrarchi, ad esempio Costanzo Cloro si distinse per la moderazione, Galerio fu il più accanito, ma vi pose fine in punto di morte con l’editto di Serdica del 311, che concedeva ai cristiani la libertà religiosa. LA DISSOLUZIONE DELL’ORDINAMENTO TETRARCHICO Nel 305, per volontà di Diocleziano, i due Augusti abdicarono, lasciando l’Impero a Costanzo Cloro (Occidente) e Galerio (Oriente). Furono nominati due nuovi Cesari: Massimino Daia (Oriente) e Severo (Occidente), ma aspiravano alla successione imperiale anche Massenzio, figlio di Massimiano, e Costantino, figlio di Costanzo. Alla morte di Costanzo Cloro, Costantino e Severo furono riconosciuti rispettivamente Cesare d’Occidente e Augusto d’Occidente. Ma Massenzio si autoproclamò Augusto. Alla morte di Severo e la minaccia di Galerio di intervenire contro Massenzio e Massimiano, quest’ultimo chiese l’appoggio di Costantino. Nel 308 si tentò di ricostruire la tetrarchia mediante un convegno, cui partecipò anche Diocleziano. Oltre Galerio e Massimiano fu nominato Augusto Licinio; mentre Massenzio continuava a essere considerato un usurpatore, furono riconosciuti Cesari Massimino (Oriente) e Costantino (Occidente). Costantino, dopo aver vinto e ucciso Massimiano che gli si era rivoltato contro, venne riconosciuto Augusto, insieme a Massimino, da Galerio, prima che quest’ultimo morisse. Sicché ora c’erano tre Augusti e un usurpatore. Alleandosi con Licinio, Costantino mosse contro Massenzio nel 312 e, dopo aver aggiunto, a seguito di un sogno, alle sue insegne il monogramma cristiano ed essersi così posto sotto la protezione del Dio dei cristiani, vinse la battaglia di Ponte Milvio, in cui Massenzio morì annegato nel Tevere e Costantino divenne padrone di Roma.