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Geraci, Marcone, "Storia romana", Sintesi del corso di Storia Romana

sintesi dettagliata del manuale di storia romana

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019
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Caricato il 17/09/2019

Elena.na95
Elena.na95 🇮🇹

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Scarica Geraci, Marcone, "Storia romana" e più Sintesi del corso in PDF di Storia Romana solo su Docsity! RIASSUNTI “STORIA ROMANA” GERACI , MARCONE -- PARTE PRIMA: I POPOLI DELL'ITALIA ANTICA E LE ORIGINI DI ROMA CAPITOLO 1: L'ITALIA PREROMANA Tra l'età del bronzo (3000 – 1200 a.C) e l'età del ferro (1200 -1000) si passa da una situazione caratterizzata dalla presenza di una miriade di gruppi umani di piccole dimensioni al sorgere di forme complesse di organizzazione protostatale. L'Italia nell'età del bronzo presenta siti dislocati lungo la dorsale appenninica; un fenomeno importante che si realizza in questo periodo è un incremento demografico accompagnato da uno sfruttamento più intensivo delle risorse disponibili. Questo è evidente nella cultura terramaricola che si sviluppò nella pianura emiliana immediatamente a sud del Po tra il XVIII e il XII secolo a.C. Tale cultura diede vita a insediamenti di capanne che poggiavano su una sorta di impalcatura di legno per isolarle dal terreno acquitrinoso. Il nome “terramare” è il termine con il quale si definiscono i grossi tumuli di terra grassa e scura, formati dai depositi dei primitivi insediamenti. Nell'età del bronzo è documentata un'intensa circolazione di prodotti e anche di persone; i contatti favoriscono il formarsi di aggregazioni più consistenti. Con l'inizio dell'età del ferro quindi l'Italia presenta un quadro di diverse culture locali, che si differenziavano per la modalità di sepoltura. Le diversità delle culture presenti in Italia all'inizio del primo millennio a.C ha un riscontro importante in un quadro linguistico assai variegato, riconducibile all'arrivo nella penisola di gruppi etnici di varia provenienza. Queste lingue si possono ricondurre a due grandi famiglie: quelle indoeuropee e quelle non indoeuropee, divise a loro volta in altri gruppi. Un posto importante tra le culture dell'Italia preromana è riservato alle colonie della Magna Grecia, fondate nell'Italia meridionale a partire dal VIII a.C (Taranto, Crotone, Napoli, Siracusa, Agrigento). Le fonti letterarie ci danno alcune notizie sulle origini dei popoli italici; sono soprattutto notizie di storici greci che iniziano a scrivere nel V sec a.C, come Dionigi di Alicarnasso, che ci parla degli Arcadi che si stanziarono in Enotria (Campania, Basilicata, Calabria) intorno al 1700 a.C. Le ricerche archeologiche hanno dimostrato che difficilmente può esserci stato l'arrivo di una popolazione dell'Arcadia, ma lasciano presupporre la presenza di una civiltà indigena. Ma nel racconto di Dionigi c'è un residuo di verità storica perché è proprio in quel periodo che per la prima volta inizia la frequentazione commerciale delle coste del meridione italico da parte di genti di provenienza orientale. Tra l'VIII secolo e il V secolo a.C si assiste un grande fenomeno espansivo delle popolazioni dell'Appennino centro meridionale. È un fenomeno che interessa diverse zone: il versante tirrenico con i Sabini, gli Equi, gli Ernici e i Volsci e più tardi i Sanniti; sul versante adriatico si sviluppa la civiltà picena in Abruzzo che è fondata sulla prevalenza di una elite che si distingue dal resto della società per il lusso che persegue , con a capo principi e re. CAPITOLO 2: GLI ETRUSCHI Gli Etruschi sono la più importante popolazione dell'Italia preromana. Sulle loro origini ci sono teorie antiche come quella di Erodoto che nel V sec a.C diceva che si trattava di un gruppo di Lidi che provenivano dalla regione dell'Asia Minore; Dionigi di Alicarnasso, nel I secolo a.C., li riteneva genti autoctone indigene. La ricerca archeologica e storica moderna propende a spiegare l'origine etnica degli Etruschi, che si colloca tra l'VIII e il VII secolo a.C, come il punto di incontro tra due processi: un'evoluzione della struttura interna delle società e delle economie locali, dall'altro si riconosce l'importanza che su queste esercitarono influenze esterne, in primo luogo i rapporti con le colonie greche presenti dell'Italia meridionale. L'origine della civiltà etrusca sembra essere riconducibile a uno sviluppo autonomo realizzatosi nelle regioni delle attuali Toscana, Umbria e Lazio settentrionali. Tale sviluppo risentì di apporti importanti di gruppi etnici extraitalici. Nella fase della loro massima espansione (VII – VI secolo) controllavano gran parte dell'Italia centro occidentale, ma essi non diedero mai vita a uno stato unitario. Essi si organizzarono fin dalle origini in città indipendenti governate da sovrani (i lucumoni) che furono poi sostituiti da magistrati eletti annualmente (ziliath). L'unica forma di aggregazione delle comunità etrusche consiste nella lega delle città principali, che era un unione con scopi essenzialmente religiosi. La società etrusca si distinse per un carattere profondamente aristocratico. Il processo di espansione degli etruschi subì una prima battuta d'arresto intorno al 530 a.C a seguito di una battaglia navale ingaggiata con i Focei; una seconda battuta d'arresto venne nel 474 a.C quando vennero sconfitti a Cuma dai Greci. Decisivi per la decadenza etrusca furono però la presa di Veio, avvenuta nel 396 a.C dai Romani e la perdita dei possedimenti in Val Padana caduti in mano dei celti. Nel corso del III secolo a.C infine l'Etruria passò progressivamente in mano romana. La divinità del pantheon etrusco sono assimilabili a quelle greche e sono sistemate in un sistema simile a quello dell'Olimpo ellenico, ordinate secondo gerarchie. Per gli etruschi aveva un'importanza particolare la concezione dell'aldilà, perchè il defunto continuava la propria esistenza nell'aldilà. Agli Etruschi premeva molto la corretta interpretazione dei segni della volontà divina visibili in terra, e l'arte di interpretare tale volontà era l'aruspicina. L'alfabeto etrusco è un riadattamento di quello greco ma non possiamo conoscere l'etrusco perchè i testi che ci sono giunti sono costituiti per lo più da brevi formule, sono pochi i testi di una certa estensione: c'è solo il liber linteus di Zagabria (testo scritto su bende di lino che ricoprivano una mummia acquistata in Egitto e contenente un calendario religioso), la tegola di Capua (che riporta un rituale funerario), e la Tavolo cortonense che riproduce un documento legale con indicazione dei confini di due proprietà. I siti delle città etrusche hanno lasciato una traccia archeologica relativamente modesta se si fa eccezione per grossi centri come Volterra, Vetulonia e Tarquinia, e delle necropoli che erano organizzate come vere e proprie abitazioni sotterranee. Per quanto riguardava le attività economiche gli Etruschi praticarono con successo oltre all'agricoltura anche la metallurgia e l'artigianato artistico. Erano abili anche nell'estrazione dei minerali e nel trattamento dei metalli grezzi. CAPITOLO 3: ROMA A partire dalla fine dell'Ottocento l'archeologia ha accertato la precocità e l'importanza dell'influenza greca e orientale su Roma e sul Lazio che si manifesta molto presto, a partire dall'VIII sec a.C, senza un ruolo significativo di mediazione da parte degli Etruschi. Le testimonianze delle fonti letterarie rappresentano il primo blocco di informazioni con cui ci si deve confrontare per ricostruire la storia di Roma arcaica. Si tratta di opere che risalgono a epoche molto posteriori e in cui hanno largo spazio elementi leggendari. I primi storici a occuparsi dell'Italia Meridionale furono i Greci, i anche i primi storici romani (Fabio Pittore e Cincio Alimento) scrissero in greco. Ci sono pervenute poche iscrizioni che non ci danno grandi informazioni; la tradizione orale deve aver giocato un ruolo di rilievo. La situazione non muta neppure per la prima parte dell'età repubblicana; l'esistenza di documenti scritti è sicura ma ci si deve interrogare sulle modalità della loro utilizzazione da parte di chi ha elaborato la più antica La prima forma di aggregazione che si sostituisce al primitivo legame basato sui vincoli di sangue è l'organizzazione familiare. A Roma facevano parte della medesima familia tutti quelli che ricadevano sotto l'ausilio di uno stesso capofamiglia, il paterfamilias. Il vincolo di fondo della famiglia romana era la potestas esercitata dal pater sulle persone che rispettavano la sua autorità. Il fine principale della famiglia romana era la perpetuazione della stessa. Tra i vincoli fondamentali della famiglia romana primitiva c'era quello religioso. I riti familiari si trasmettevano originariamente di padre in figlio e la loro osservanza era ritenuta doverosa. Gli antenati del ramo paterno furono i primi manes , oggetto di culto all'interno della famiglia romana. Il ruolo della donna aristocratica, che riceveva anche una educazione intellettuale non si esauriva solo nella vita domestica, ma la moglie accompagnava il marito nella vita pubblica e condivideva con lui il compito dell'educazione dei figli. Comunque la supremazia era quella dell'uomo, il potere del marito sulla moglie era senza limiti. Intorno all'VIII secolo si passa da un regime di seminomadismo, con una transumanza disorganizzata, a uno di regolare trasferimento del bestiame in altura. L'agricoltura di Roma arcaica era limitata dalle condizioni poco favorevoli del terreno, cui si aggiungeva la bassa qualità delle tecniche agricole. Il cereale maggiormente coltivato era il farro. Allevamento e agricoltura sono compresenti secondo caratteristiche specifiche dovute alle particolari condizioni de territorio. La prima forma di proprietà era limitata solo alla casa e all'orto circostante (heredium), mentre la sors era la nozione di proprietà trasmissibile per via ereditaria. Gli indoeuropei sono una popolazione vissuta in epoca molto remota, in una regione che si colloca nella grande pianura russa. Ci sono studi che dimostrano come Roma si basi su schemi narrativi e scenari ereditari dal sostrato indoeuropeo, la cosiddetta “ideologia trifunzionale”: dagli indoeuropei le cose erano sempre riferite a tre ambiti cioè la potenza del sovrano, la forza fisica e la fecondità degli uomini. L'eredità indoeuropea sarebbe visibile nel ratto delle Sabine e nella teologia romana. Alla fine del XIX secolo nel Foro è stato scoperta una pavimentazione in marmo nero (LAPIS NIGER) distinta dalla restante pavimentazione in travertino; al di sotto del pavimento fu scoperto un complesso monumentale arcaica, comprendente una piattaforma sul quale sorgeva un altare con una dedica fatta al re. Nel corso del VII secolo , secondo la tradizione, Tullio Ostilio, distrutta Alba Longa avrebbe fatto passare sotto il diretto dominio romano tutta la fascia compresa tra Roma e il mare. Le località comprese in quest'area furono prese da Anco Marcio. Queste conquiste aprirono la strada al prezioso possesso delle saline che si trovavano nei pressi della costa. Il secolo che intercorre tra l'accessione al regno di Tarquinio Prisco e la cacciata di Tarquinio il Superbo ha un riscontro in un documento del 508 a.C che lo storico greco Polibio asserisce di aver visto nell'archivio pubblico di Roma. Da questo testo si deduce che la crescita della potenza romana nel secolo dei Tarquini sarebbe stata molto rilevante. POMA, CAPITOLO 1: L'ETA MONARCHICA La Roma delle origini è ancora per noi in gran parte sfuggente; abbiamo le pagine di Tito Livio, di Dionigi di Alicarnasso e di Diodoro Siculo, che sono autori della fine dell'età repubblicana. L'annalistica repubblicana iniziò comunque a elaborarsi tardivamente, nel III sec a.C con Fabio Pittore e Cincio Alimento, esponenti della nobilitas che redassero i primi libri di storia romana, in lingua greca. Inoltre molti testi furono distrutti nell'incendio di Roma del 390 a.C. Bisogna cercare di capire da dove attinsero le informazioni sul passato della città i primi annalisti: dai documenti antichi come gli Annali dei pontefici, gli archivi pubblici e privati, tradizioni popolari e familiari, trasmesse anche in forma orale dai carmina convivalia, opere di storici greci e forse anche etruschi. Un problema è rappresentato dall'attendibilità di queste opere, perchè spesso la storiografia romana era al servizio di interessi gentilizi e ci sarebbero quindi stati degli interventi di falsificazione importanti nella narrazione delle vicende dei primi secoli dell'età repubblicana. La produzione annalistica che è alle spalle degli storici del I secolo a.C è fondamentalmente di età graccana (da metà II sec a.C) e età sillana (primi decenni del I sec a.C); in questo periodo abbiamo un grande numero di annalisti anche se dei loro Annali restano solo scarsi frammenti. Anche i dati archeologici possono contribuire a foggiare un quadro più definito dell'antica storia di Roma. Alcuni tra i più significativi dati archeologici sono: – il ritrovamento a Roma, al Foro Boario, di iscrizioni etrusche databili alla fine del VII sec a.C, che attestano la presenza di genti immigrate dalle città etrusche – nel territorio dell'antica Veio, nel santuario di Minerva, nel 1939 fu rinvenuta un'iscrizione etrusca portante il nome di Vipiennas; la sua datazione è riferibile al 580 a.C, ossia all'epoca delle imprese dei fratelli Vibenna, di cui parla anche l'imperatore Claudio. Claudio parla anche di un fedele compagno delle avventure di Vibenna, che porta il nome etrusco Mastarna: questo personaggio è Servio Tullio. – Nel 1980 a Satrico è venuta alla luce una dedica fatta a Marte da parte dei sodales di un Poplios Valesios. Siamo intorno al 500 a.C e si pensa che sia riferita al primo console di Roma, Publio Valerio Publicola. Intorno all'origine di Roma ci sono due cicli di leggende: quello troiano latino incentrato su Enea, capostipite del popolo romano, che sviluppa la vicenda dei Latini fino a Numitore, padre di Rea Silvia, re di Albalonga. E il ciclo romuleo che propriamente presenta il mito di fondazione (i gemelli, l'uccisione di Remo a la fondazione della città) intrecciato con la leggenda sabina (il ratto delle Sabine, la guerra e poi la fusione dei due popoli). Queste leggende offrono alcuni punti di riferimento precisi: il nome del fondatore (Romolo), il luogo di fondazione (il colle Palatino), la data (753 a.C), il rituale (il solco del pomerio tracciato attorno al Palatino). Si tratta di un insieme di dati che per i Romani rappresentavano elementi di certezza. Fin dagli anni finali dell'Ottocento, gli scavi di Giacomo Boni, nell'area archeologica del Foro e del Palatino hanno portato testimonianze archeologiche di portata innovativa, che mettono in luce tracce di popolamento sul Palatino fin dal X sec a.C , sul Quirinale e anche sul Campidoglio. Negli anni Cinquanta sono state trovate tracce di un abitato di capanne negli strati più profondi del Foro, sotto la prima pavimentazione e quindi prese forza una nuova teoria su Roma, secondo la quale l'evento che avrebbe dato origine alla città sarebbe avvenuto nel 575 e successivamente sarebbe avvenuta la fusione in un organismo unitario degli abitati esistenti fin dall'800 a.C sull'Esquilino, qui Quirinale e sul Palatino, con la distruzione delle capanne e la successiva pavimentazione, e il Foro sarebbe diventato allora il centro politico, religioso ed urbanistico della nuova città. Secondo un'altra ipotesi la nascita di Roma si sarebbe stato un graduale formarsi della città, attorno al centro naturale della valle del Foro, che, alla metà del secolo VIII a.C avrebbe assunto le funzioni di raccordo religioso, economico e politico dei diversi villaggi insediati sui colli. L'ipotesi più condivisa pone cronologicamente al 900 – 830 a.C cioè all'inizio dell'età del ferro, il periodo in cui sarebbe avvenuta la fusione in un unico abitato dei villaggi del Palatino e della Velia. Il centro palatino esquilino sarebbe giunto ad inglobare l'abitato capitolino quirinale di lì a poco, circa alla metà dell'VIII sec a.C. Conosciamo la struttura monarchica di Roma solo attraverso fonti tarde ed indirette: il primo libro delle “Storie” di Livio, la prima parte della “Storia di Roma arcaica” di Dionigi di Alicarnasso, frammenti della “Biblioteca storica” di Diodoro siculo. Sotto al livello leggendario emerge qualche tratto di storicità, come la successione dei re latini – sabini ed etruschi. La tradizione antica sostiene che Romolo avrebbe dato le leggi fondamentali alla nuova città, stabilendo un assetto costituzionale basato sul re, sul senato e sull'assemblea popolare (i comizi curiati); egli avrebbe introdotto anche la distinzione tra patrizi e plebei. Romolo fu quindi il legislatore politico; il secondo re, il sabino Numa Pompilio, sarebbe stato il creatore delle istituzione religiose, che avrebbe stabilito l'insieme dei culti e delle festività e avrebbe costituito i corpi sacerdotali. Non si può mettere in dubbio la realtà storica di una fase monarchica di Roma. Ci sono tanti segni in età repubblicana che portano in tale direzione: la presenza del rex sacrorum che era il sacerdote alla testa della gerarchia sacerdotale romana; l'istituto dell'interregnum che prevedeva che il sommo potere ritornasse al senato, in caso di vacanza dei sommi magistrati repubblicani; l'esistenza del Foto della Regia, sede prima del rex sacrorum , in seguito del pontefice massimo. Più arduo è definire l'estensione e la qualità dei poteri del re: fondamentali erano i poteri militari (egli decideva da solo della guerra e della pace, acquisiva il bottino, lo ripartiva). Al suo fianco ci sono ausiliari nel comando dell'esercito e collaboratori giudiziari. Gli studiosi moderni ritengono improbabile una funzione legislativa del re. Il re è l'intermediario tra gli uomini e gli dei, che consulta attraverso gli auspici; è il garante della pax deorum, fa sacrifici in nome della città, fissa il calendario. L'intervento divino ha un ruolo centrale nella fondazione di Roma: Romolo attende il segno augurale per tracciare il solco e all'avvento di ogni re era necessario ricercare l'assenso divino attraverso la procedura della inauguratio. La monarchia a Roma era personale, elettiva, aperta agli stranieri e a vita. Alla morte di un re è il senato a prendere nelle mani il potere attraverso l'istituto dell'interregnum: dieci senatori patrizi, a turno, ogni giorno, assumono le insegne del comando, fino al momento in cui i segni divini sono favorevoli all'elezione. La tradizione attribuisce a Romolo la definizione delle principali strutture istituzionali e sociali della nuova comunità, una volta delimitata l'area urbana della città divise tutta quanta la popolazione in tre ripartizioni e poi nuovamente suddivise ciascuna delle tre in altre dieci ripartizioni e chiamo le ripartizioni maggiori tribù e le minori curie. Divise poi le curie in dieci parti e vi era un capo detto decurione. attraverso lo strumento del censo, al duplice fine dell'imposizione delle imposte e del reclutamento militare. Le riforme serviane, già nel loro nucleo originario attribuibili al VI sec a.C e lo sviluppo della città centuriata portarono ad una svolta decisiva nell'assetto istituzionale di Roma,, non solo sul piano militare ma anche su quello politico. La difesa delle persone e dei loro beni dagli atti di violenza doveva essere competenza del singolo offeso o del gruppo cui apparteneva; è il sistema della vendetta privata. L'intervento del re dovette avere lo scopo di porre dei limiti all'esercizio della forza e di mediare tra i conflitti, sopratutto, quando essi dovevano interessare la collettività. È indubbio che già in età arcaica esistesse un complesso di consuetudini e di comportamenti che dovette presumibilmente essere accolto dall'intera comunità. In età monarchica su iniziativa dei re sarebbero state votate delle leggi dai comizi curiati, le legies regiae. Molte infrazioni prevedono per il trasgressore sanzioni di carattere essenzialmente religioso. Il reo, senza più nessuna tutela, era diventato sacer e poteva essere ucciso da qualsiasi persona senza che essa incorresse nel reato di omicidio. Così si purificava l'intera collettività e si recuperava la condizione di accordo tra la comunità e gli dei, che garantiva a Roma la prosperità. Nell'insieme delle legies regiae si poteva identificare un nucleo arcaico di norme che si erano venute fissando per via consuetudinaria, anche col supporto del collegio sacerdotale dei pontefici. Nella primitiva età monarchica il diritto è strettamente connesso alla religione, poiché essendo essa religione dell'intera comunità e non dei singoli compenetrava tutta l'attività sociale della città. I pontefici intervenivano anche come assistenti al fianco del re, come interpreti e consiglieri in ogni momento della vita giuridica. Il solo strumento con cui rendevano noto il loro sapere era quello dei responsa , ossia i consigli tecnici pronunciati in forma sintetica e oracolare. GERACI, MARCONE -- PARTE SECONDA: LA REPUBBLICA DI ROMA DALLE ORIGINI AI GRACCHI CAPITOLO 1: LA NASCITA DELLA REPUBBLICA La storiografia antica sulla nascita della Repubblica è rappresentata per noi da Tito Livio e da Dionigi di Alicarnasso, ed entrambi ci presentano un quadro chiaro: Sesto Tarquinio, figlio dell'ultimo re etrusco di Roma, respinto dall'aristocratica Lucrezia la violenta: lei narra il misfatto al padre, al marito e a due amici. Scoppia quindi una rivolta ad opera di questi aristocratici che porta alla caduta della monarchia, un evento canonicamente fissato al 510 a.C. Tarquinio il Superbo impegnato in una campagna militare non è in grado di rispondere e nel 509 i poteri del re passano a due magistrati eletti dal popolo: i consoli. Gli storici moderni pongono comunque dei dubbi riguardo a questa storia e cercano di risalire ai fatti certi come I FASTI: sono le liste dei magistrati eponimi della Repubblica, cioè di quei magistrati che davano il nome all'anno in corso. Essi ci sono giunti sia attraverso la tradizione letteraria sia attraverso alcuni documenti epigrafici. I più importanti tra essi sono i Fasti Capitolini nei quali trova riflesso una cronologia elaborata negli ultimi anni della Repubblica da Varrone, che fissava la fondazione di Roma al 753 a.C e il primo anno della Repubblica al 509 a.C. Le datazioni varroniane assumono un valore quasi canonico e forniscono l'ossatura cronologica degli studi moderni sul primo periodo repubblicano. I diversi Fasti presentano alcune incongruenze tra di loro: l'inserimento di alcuni anni di anarchia in cui non vennero eletti magistrati, oppure dei dittatori o la comparsa di consoli eponimi della prima metà del V sec a.C di diversi personaggi con nomi di gentes plebee. Tuttavia nessuno di questi elementi consente di rigettare in blocco la credibilità dei Fasti. La storia della violenza subita da Lucrezia non si sa se sia autentica o frutto della fantasia, ma non spiega comunque i motivi profondi della caduta del regime monarchico a Roma. Il ruolo preminente esercitato dagli aristocratici in questa vicenda e il dominio che il patriziato sembra aver esercitato sulla prima Repubblica, inducono a pensare che la fine della monarchia sia da attribuire a una rivolta del patriziato romano contro un regime che aveva accentuato notevolmente i suoi carattere autocratici. L'odio che l'aristocrazia romana dimostrò in tutto il corso dall'età repubblicana contro la monarchia sembra che la caduta della stessa sia stata causata da una vera e propria rivoluzione. Alla caduta dei Tarquini comunque non seguì immediatamente un regime repubblicano: si pensa che alla cacciata di Tarquinio il Superbo sia succedete un breve e confuso periodo in cui Roma appare in balia di re e condottieri. La sconfitta inflitta dai Latini ad Arrunte, figlio di Porsenna, inflisse un duro colpo all'influenza politica degli Etruschi sul Lazio. Fu probabilmente grazie a questo evento che Roma ebbe occasione di dare sviluppo alle sue nuove istituzioni repubblicane. C'è una curiosa coincidenza cronologica tra la storia di Roma e quella di Atene: il 510 a.C era anche l'anno in cui il tiranno Ippia era stato cacciato da Atene. C'è quindi il sospetto che la cronologia della caduta di Tarquinio il Superbo sia stata adattata per creare un parallelo con le vicende della più celebre polis greca. Diversi studiosi hanno quini proposti di collocare la nascita della Repubblica qualche decennio più tardi, notando che intorno al 470 – 450 a.C la documentazione archeologica proveniente da Roma dimostri una interruzione dei contati culturali con l'Etruria, da ricollegare con la cacciata dei Tarquini. Un primo argomento a sostegno della datazione tradizionale è desumibile da una singolare cerimonia ricordata da Livio: secondo una legge scritta in carattere arcaici il massimo magistrato della Repubblica doveva infiggere un chiodo nel tempio di Giove Capitolino, ogni anno alle idi di settembre, a scopo di scongiurare pestilenze e carestie. Il tempio di Giove sul Campidoglio era stato solennemente inaugurato nel primo anno della Repubblica: il numero di chiodi conficcati nel tempio era un riferimento cronologico. Nel 304 a.C l'edile Cneo Flavio, nell'inaugurare il tempio di Concordia, potè datare l'evento 204 anni dopo la consacrazione del tempio Capitolino , riportandoci al 508 a.C. Un secondo elemento ci viene dal la documentazione archeologica: l'edificio della Regia, nel Foro romano, presenta verso la fine del VI sec a.C una pianta caratteristica di un edificio templare e non di una residenza reale. La Regia sarebbe divenuto la sede del rex sacrorum, il sacerdote che avrebbe ereditato alcune delle competenze religiose del monarca. I MAGISTRATI, I LORO POTERI E I LORO LIMITI – I consoli. I poteri un tempio propri del re sarebbero passati immediatamente e in blocco a due CONSULES, o meglio PRAETORES, come erano chiamati all'inizio. Venivano eletti dai comizi centuriati e i loro compiti erano quelli di comandare l'esercito, mantenere l'ordine, l'esercizio della giurisdizione civile e criminale, il potere di convocare il senato e le assemblee popolari, la cura del censimento e la compilazione delle liste dei senatori. Di competenza dei consoli era anche il controllo sugli auspici cioè il potere di interpretare la volontà degli dei riguardo le decisioni più importanti della vita pubblica. La carica consolare era limitata a un anno ed era collegiale (non da soli). Ogni cittadino inoltre si poteva appellare al giudizio dell'assemblea popolare contro le condanne capitali inflitte dal console, tramite il procedimento noto come provocatio ad populum. – Le competenze religiose dei precedenti monarchi vennero trasferite a un sacerdote, il REX SACRORUM = re delle cose sacre, che non poteva rivestire cariche di natura politica. A lui vennero affiancati altri sacerdozi di maggior peso politico come i pontefici e gli auguri. – I QUESTORI: due, assistevano i consoli nella sfera delle attività finanziarie; prima venivano scelti dai consoli, poi la carica divenne elettiva. In qualche rapporto con i questori finanziari erano i quaestores parricidii che erano incaricati di istruire i processi per i delitti di sangue che coinvolgessero parenti. – I CENSORI: avevano il compito di tenere il censimento, a partire dal 443 a.C. Tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C ai censori venne affidato anche il compito di redigere le liste dei membri del senato. Avevano anche il compito di una generale supervisione sulla condotta morale di cittadini, la cura morum, che conferiva ai censori ampi poteri di intervento su diversi aspetti della vita pubblica e privata. Di regola questi magistrati venivano eletti ogni 5 anni e la loro carica durava 18 mesi. – IL DITTATORE: in caso di necessità i supremi poteri della Repubblica potevano essere affidati a un dittatore. Egli non veniva eletto da un'assemblea popolare ma era nominato proprio a discrezione da un console, da un pretore o da un interrex, su istruzione del senato. Il dittatore non era affiancato da colleghi con eguali poteri, ma assistito da un magister equitum (comandante della cavalleria). Contro il volere del dittatore non valeva l'appello al popolo. La sua durata venne limitata a un massimo di sei mesi. L'originario titolo di magister populi (comandante dell'esercito) fa capire che egli veniva nominato sopratutto per risolvere crisi di carattere sopportare il peso più consistente delle guerre. I capite censi privi di ruolo nell'assemblea centuriata, di regola furono esentati dal servizio militare durante tutta la prima e media età repubblicana. La presa di coscienza della plebe fu il risultato di un mutamento nella struttura dell'esercito: nel V secolo a.C si afferma un nuovo modello tattico, secondo il quale fanti con armatura pesante (gli opliti) combattono l'uno a fianco dell'altro in una formazione chiusa, la falange; questo modello eclissa progressivamente il modello di combattimento aristocratico, fondato su una cavalleria di nobili seguiti da una turba di clienti con armamento leggero. Il nerbo dell'esercito romano sarà costituito dalla fanteria pesante, reclutata tra le classi di censo in grado di sostenere i costi dell'armamento oplitico. L'antichissimo esercito repubblicano si basava sulla fanteria pesante fornita dalle centurie di iuniores delle prime tre classi di censo: queste 60 centurie (40 di iuniores della I classe + 10 di iuniores della II classe + 10 di iuniores della III classe) potevano fornire 6000 uomini, gli effettivi di due legioni. Le forze armate della prima Roma repubblicana erano completate dalla cavalleria. Il conflitto tra i due ordini si apre nel 494 a.C quando la plebe ordina lo sciopero generale che lascia la città priva della sua forza lavoro e indifesa contro le aggressioni esterne. Questa forma di protesta viene attuata dalla plebe ritirandosi sull'Aventino = secessione dell'Aventino. In occasione di questa prima secessione la plebe si diede propri organismi: un'assemblea generale che dal 471 inizia a votare per tribù ed è nota con il nome di concilia plebis tributa. Il meccanismo di voto assicurava la prevalenza dei proprietari terrieri iscritti nelle più numerose tribù rustiche. L'assemblea poteva emanare dei provvedimenti che prendevano il nome di plebiscita (decisioni della plebe) che non avevano valore vincolante per tutto lo stato romano ma solo per la plebe stessa, solo più avanti verranno assimilati i poteri dei plebisciti alle leggi dello Stato (atto finale è la legge Ortensia del 287 a.C). Vennero anche scelti come rappresentanti ed esecutori della volontà dell'assemblea i TRIBUNI DELLA PLEBE, che avevano il diritto di venire in soccorso di un cittadino contro l'azione di un magistrato dal quale si sviluppò il potere di porre il veto a un qualsiasi provvedimento di un magistrato. I tribuni avevano anche il potere di convocare e presiedere l'assemblea della plebe. La plebe accordò loro l'inviolabilità personale. Vennero creati anche altri due rappresentanti della plebe, gli EDILI plebei che si occupavano dell'organizzazione dei giochi, della sorveglianza sui mercati, del controllo sulle strade, i templi e gli edifici pubblici. Questo in età repubblicana, ma le loro funzioni originarie sono oscure; una indicazione viene dal loro nome aediles da aedes “tempio, casa”; quindi probabilmente erano i custodi del tempio di Cerere, Libero e Libera nel quale venivano conservate le somme delle multe inflitte a coloro che avevano recato offesa alla plebe, nonché copia dei plebisciti. In generale si pensa che fossero assistenti dei tribuni della plebe. La prima secessione approdò a un risultato essenzialmente politico: il riconoscimento da parte dello Stato a guida patrizia dall'organizzazione interna della plebe, con la sua assemblea e i suoi rappresentanti, ma il problema dei debiti rimase insoluto. Della crisi economica cercò di approfittare il console del 486 a.C, Spurio Cassio, che propose una legge per la ridistribuzione delle terre sembra anticipare situazioni posteriori (quella dei Due Gracchi); ma Cassio venne accusato di aspirare alla tirannide ed eliminato. Ci sono due tratti caratteristici del confronto tra patrizi e plebei: in primo luogo la protesta nata da motivazioni economiche raggiunge un risultato politico; il fallimento di Spurio Cassio ci mostra come la plebe non intendesse giungere a una rivoluzione dell'assetto economico e istituzionale dello Stato, ma aspirava a una riforma dall'interno dell'ordinamento vigente, che riservasse il giusto peso a tutte le componenti della cittadinanza. Successivamente la plebe iniziò a premere affinché fosse redatto un codice di leggi scritto. Nel 451 a.C si giunse a un compromesso: venne nominata una commissione composta da dieci uomini (Decemvirato), scelti tra il patriziato e incaricati di stendere in forma scritta un codice giuridico. Il nuovo collegio avrebbe assunto il controllo completo dello Stato: le tradizionali magistrature repubblicane vennero sospese. Nel corso del primo anno di attività i decemviri compilarono un complesso di norme che vennero poi pubblicate su dieci tavole di legno esposte nel Foro. Rimanevano da trattare ancora alcuni punti, per cui venne eletta per il 450 a.C una seconda commissione nella quale sarebbe stata rappresentata anche la plebe. Quindi venne completata la loro opera con altre due leggi di tavole di leggi, le leggi delle XII tavole. Come già ai tempi della monarchia è la violenza da parte di Appio Claudio nei confronti di una giovane, Virginia, a far precipitare la situazione. Questo provocò la seconda secessione, a seguito della quale i decemviri sono costretti a deporre i loro poteri. Il consolato viene ripristinato e i massimo magistrati dell'anno successivo (449 a.C) fanno approvare un pacchetto di leggi in cui si riconosce l'apporto della plebe nella lotta contro il tentativo rivoluzionario dei decemviri: vi si ribadiva l'inviolabilità dei rappresentanti della plebe, si proibiva la creazione di magistrature contro le quali non valesse il diritto di appello e si rendono i plebisciti votati dall'assemblea della plebe vincolanti per l'intera cittadinanza. Pochi anni dopo, nel 445 a.C in base al plebiscito Camuleio viene anche abrogata la norma che proibiva i matrimoni misti tra patrizi e plebei. Il contenuto delle leggi delle XII tavole è in parte noto da citazioni sparse di autori posteriori; i frammenti tramandati riguardano sopratutto la sfera delle relazioni tra gli individui. Il codice legislativo elaborato dai decemviri intendeva dare una regolamentazione complessiva alla vita della prima Roma repubblicana. Nelle XII tavole è ravvisabile un'influenza del diritto greco, perchè è probabile che questi elementi siano venuti dai codici giuridici delle città greche dell'Italia meridionale. Il plebiscito che riconosceva la legittimità dei matrimoni misti ebbe come conseguenza di rimuovere la principale obiezione che il patriziato aveva opposto all'accesso dei plebei al consolato perchè il sangue delle famiglie plebee poteva ora mescolarsi con quello delle stirpi patrizie e quindi diveniva difficile escludere un plebeo, nelle cui vene scorresse almeno un poco di sangue patrizio. Il patriziato, visto minacciato il suo monopolio sul consolato, ricorre a un espediente: a partire dal 444 a.C il senato decide se alla testa dello Stato vi debbano essere due consoli, con il diritto di prendere gli auspici e provenienti dal patriziato, oppure un certo numero di tribuni militari con poteri consolari che possono anche essere plebei, ma non hanno il potere di tratte gli auspici. Il nuovo ordinamento rimane in vigore fino al 367 a.C. Creando il tribunato consolare accessibile alla plebe, i patrizi di fatto perdevano comunque il controllo sulla massima magistratura repubblicana. Inoltre, se l'istituzione della nuova magistratura fosse stata la conseguenza di una forte pressione della plebe per avere accesso alla suprema carica dello Stato , difficilmente si riesce a capire per quale motivo il primo tribuno militare con poteri consolari di condizione plebea sia stato eletto solamente nel 400 a.C. Tra le diverse spiegazioni possibili una ritiene che nel periodo 444 – 367 a.C, i consoli non siano stati sostituiti ma affiancati dai tribuni consolari. I due consoli, in possesso del diritto agli auspicia ed esclusivamente patrizi, sarebbero stati assistiti nei loro compiti da alcuni dei tribuni militum, i comandanti dei reparti che componevano le legioni, dotati per l'occasione di poteri equiparati a quelli dei consoli. Il tribunato militare doveva essere già nel V secolo accessibile ai plebei ma di fatto i patrizi riuscirono a riservare i poteri consolari unicamente ai tribuni militum provenienti dal loro ordine. Ad ogni modo nessuna riforma della plebe poteva porre rimedio alle difficoltà economiche della plebe povera, tuttora gravi. La promulgazione del primo codice scritto di leggi e l'istituzione della nuova carica dei tribuni militari lasciavano aperti i due nodi, politico ed economico, del confronto tra due ordini. Nel 387 a.C per rispondere alla fame di terra della plebe indigente, il territorio di Veio e di Capena, conquistato pochi anni prima, viene suddiviso in piccoli appezzamenti e distribuito ai cittadini romani, con la creazione di quattro nuove tribù territoriali. Ma il provvedimento non fu sufficiente ad alleviare la crisi economica: quindi pochi anni dopo il patrizio Manlio Capitolino propose una riduzione o la totale cancellazione dei debiti e la nuova legge agraria, sperando così di inaugurare un regime personale. Ma ancora una volta davanti alla minaccia della tirannide si rinsaldò un fronte patrizio plebeo, che portò alla rapida liquidazione di Capitolino. Era ormai chiaro che la risposta ai problemi di Roma non sarebbe venuta da un mutamento di regime, ma da una riforma interna all'ordinamento repubblicano. Qualche anno dopo il tentativo di Capitolino , i tribuni della plebe Caio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano, che già contavano su qualche appoggio tra gli esponenti più moderati del patriziato, presentarono un ambizioso pacchetto di proposte concernenti il programma dei debiti, la distribuzione delle terre di proprietà statale e l'accesso dei plebei al consolato. Dopo una fase di anarchia politica nel 367 a.C. il vecchio Marco Furio Camillo venne chiamato alla dittatura per sciogliere una situazione divenuta ormai insostenibile, e le proposte di Licinio e Sestio assunsero dunque valore di legge. Le Leges Liciniae Sextiae, prevedevano in particolare che gli interessi che ai debitori avevano già pagato sulle somme avuto in prestito potessero essere detratti dal totale del capitale dovuto e che il debito residuo fosse estinguibile in tre rate annuali. Stabilivano inoltre la massima estensione di terreno di proprietà statale che poteva essere occupato da un privato; infine sancivano l'abolizione del tribunale militare con potestà consolare e la completa reintegrazione alla testa dello stato dei consoli, uno dei quali avrebbe dovuto essere sempre plebeo. Nel 366 a.C. vennero create due nuove cariche, inizialmente riservate ai soli patrizi: il pretore, che aveva il compito di amministrare la giustizia tra i cittadini romani poteva in caso di necessità essere messo alla testa di un esercito, anche se i suoi poteri erano subordinati a quelli dei consoli. E gli edili curuli, che erano due, chiamati così dalla sella curulis cioè lo scranno sul quale sedevano i magistrati Patrizi che li distingueva dagli edili della plebe; il loro compito era di organizzare i Ludi maximi. Le leggi Licinie Sestie del 367 a.C. segnarono la fine della fase più acuta della contrapposizione tra patrizi e plebei, anche se il processo attraverso il quale si raggiunge un nuovo equilibrio interno fu lungo e faticoso. Negli anni successivi spesso entrambi i consoli furono patrizi; nel 342 a.C. vediamo però comparire regolarmente nei Fasti un console patrizio e uno plebeo. L'obbligo di scegliere uno dei due massimi magistrati della plebe risale dunque probabilmente solo al plebiscito del 342 a.C. La prima coppia di consoli entrambi plebei compare soltanto nel 172 avrebbero dovuto emigrare in un'altra regione seguendo le indicazioni di un animale: i Piceni avrebbero seguito un picchio, gli Apuli si erano diretti verso la Puglia e i Sanniti avevano occupato quasi tutte le vecchie città etrusche e greche della costa campana, dando origine a un nuovo popolo, detto Campani. Durante il V secolo ci furono una serie di conflitti tra Roma e gli Equi e i Volsci, ma non si giunse mai a una svolta definitiva, si trattava piuttosto di razzie. Partendo dal meridione il primo popolo che si incontra è quello dei Volsci che verso la fine del VI secolo riuscì a occupare tutta la pianura Pontina e alcune città latine come Velletri e altre nella parte meridionale del Lazio , che era ormai andata perduta per Roma. Nell'area dei colli Albani l'avanzata dei Volsci si saldò con quello degli Equi che avanzarono conquistando la regione dei monti prenestini. Gli alleati romani, latini ed Ernici riuscirono a bloccare gli Equi ai colli Albani in particolare al passo dell'Algido, teatro di un'importante vittoria contro gli eserciti coalizzati di equi e Volsci. Più a nord erano i Sabini a minacciare direttamente Roma. Il conflitto con Veio Roma dovette anche fronteggiare da sola un avversario meglio organizzato delle tribù appenniniche: la potente città etrusca di Veio, sua rivale nel controllo delle vie di comunicazione lungo il basso corso del Tevere e delle saline che si trovavano alla foce del fiume. Il contrasto tra Roma e Veio attraversò tutto il V secolo a.C. e si concluse solo all'inizio del quarto, e sfociò in tre guerre: - nella prima (483 474 a.C.) i Veienti occuparono un avamposto sulla riva sinistra del Tevere, la riva latina: Fidene. Il tentativo di reazione di Roma finì con una tragedia perché l'esercito romano venne massacrato sul fiume Cremera. - Nella seconda (437 426 a.C.) i romani riuscirono a vendicare la sconfitta e uccisero il tiranno di Veio; Fidene venne riconquistata e distrutta. - Nella terza (405 396) il teatro delle operazioni si spostò lungo le mura della stessa Veio, assediata per 10 anni dai romani ed emerse la figura del suo conquistatore, Marco Furio Camillo, che secondo la leggenda, privò la città della sua divinità protettrice, Giunone, promettendo alla dea un tempio un culto a Roma. Alla fine del lungo assedio la città venne presa e distrutta e la presa di Veio segnò una svolta molto importante per Roma: il lunghissimo assedio aveva tenuto per molti anni i soldati romani lontani dai loro campi. Per questo motivo si rese necessaria l'introduzione di una paga, detta stipendium, e per far fronte alle spese militari venne introdotta una tassa straordinaria chiamata tributo. Ogni centuria doveva versare la medesima somma così che la tassazione colpiva più pesantemente le classi di censo più facoltose, che costituivano la maggioranza delle centurie. La vittoria su Veio fruttò però soprattutto la conquista di un ampio e fertile territorio. L'invasione gallica Roma venne però travolta da un evento improvviso e drammatico: la calata dei Galli sulla città. Nei decenni precedenti diverse tribù galliche si erano insediati nell'Italia settentrionale; l'ultima tribù era stata quella dei Senoni che avevano occupato la Romagna meridionale e le Marche settentrionali e nel 309 i Senoni attaccarono Roma. Il loro primo obiettivo fu la città etrusca di Chiusi: da qui essi si diressero su Roma. L'esercito romano frettolosamente arruolato si dissolse letteralmente al primo contatto avvenuto sull'Allia, un piccolo affluente del Tevere. Roma rimasta priva di difese venne così presa e saccheggiata ma poi i Galli scomparvero tanto rapidamente quanto erano comparsi. La tradizione storiografica tentò di salvare l'onore e di non presentare la battaglia dell'Allia come quello che effettivamente fu: un massacro e una rotta generale. Roma però si riprese molto in fretta e ci fu un nuovo impulso che animò la sua politica estera a partire dal 390 a.C. Gli effetti della conquista e della distribuzione ai cittadini romani del vasto e fertile territorio di Velio, organizzato in quattro nuove tribù si rivelarono più decisivi dell'umiliazione subita dai Galli. Negli stessi anni iniziò anche la costruzione delle mura serviane che furono decisive per scoraggiare ogni assedio da parte di invasori futuri come Pirro e Annibale. L'atteggiamento di Roma e comunque improntato a un azione offensiva che trova il suo esecutore in Camillo. I primi ad essere annientati saranno gli Equi; più lunga e difficile invece sarà la lotta contro i Volsci che trovarono un appoggio inaspettato nei vecchi alleati di Roma, gli Ernici ed alcune città latine. Nel 381 a.C. la città latina di Tusculum venne annessa al territorio romano senza che la sua identità venisse cancellata perché la città conservo le sue strutture di governo e la sua autonomia interna, ma ai suoi abitanti vennero assegnati medesimi diritti e doveri dei cittadini romani. Questa città divenne il primo municipium, termine con il quale sono designati le comunità indipendenti incorporate nello stato romano. Nel 358 i Volsci furono costretti a cedere la piana Pontina e gli Ernici parte dei loro territori nella valle del fiume Sacco e in entrambi territori vennero insediati cittadini romani. Il primo confronto con i Sanniti Nel 354 a.C. Roma firmò un trattato con i sanniti nel quale il confine tra le zone di egemonia delle due potenze veniva fissato al fiume Liri. I sanniti occupavano un'area assai più vasta di quella controllata in quegli anni da Roma però era un'area prevalentemente montuosa, che consentiva poco lo sfruttamento agricolo. Il territorio era infatti relativamente povero e incapace di sostenere una forte crescita demografica e l'unico rimedio alle carestie era la migrazione verso le terre più fertili. Dal punto di vista politico il Sannio era organizzato in pagi (cantoni) entro i quali si trovavano uno più villaggi, governati da un magistrato elettivo. Più pagi costituivano una tribù e quattro tribù formavano la lega sannitica che possedeva una sorta di assemblea federale e poteva nominare in caso di guerra un comandante supremo. Nel corso del V secolo a.C. alcune popolazioni staccatesi dai sanniti avevano occupato le ricche regioni costiere della Campania: qui, sotto l'influenza di etruschi e greci, si allontanarono progressivamente dal punto di vista culturale e politico dei loro connazionali rimasti nel Sannio, adottando l'organizzazione politica delle città stato. Alcune di esse erano riunite nella Lega campana che aveva il suo centro principale nella grande città di Capua e con gli anni i contrasti politici tra sanniti e campani si vennero sempre piu acuendo. La tensione sfociò in una guerra aperta nel 343 a.C., quando i sanniti attaccarono la città di Teano, nella Campania settentrionale, occupata da un'altra popolazione osco - sabellica, i Sidicini. Costoro si rivolsero per l'aiuto alla lega campana e a Capua , la quale chiede l'aiuto di Roma; la decisione di intervenire contro i sanniti, contravvenendo al trattato da poco concluso, sarebbe venuta soltanto quando i capuani , disperati, decisero di consegnarsi totalmente a Roma mediante un atto formale di deditio. Inoltre a Roma si giudico imperdibile l'occasione che si offriva di impadronirsi della regione più ricca e fertile d'Italia, nonostante i patti. La prima guerra sannitica vide un parziale successo dei romani, ma Roma non fu in grado di proseguire energicamente l'offensiva quindi firmò la pace con i sanniti nel 341 a.C. e l'alleanza venne rinnovata. L'accordo del 341 a.C. portò a un ribaltamento delle alleanze, costringendo Roma a fronteggiare i suoi vecchi alleati Latini, Campani, Sidicini e Volsci. L'insoddisfazione dei Campani e dei Sidicini per gli esiti della prima guerra sannitica si saldò alla volontà dei Latini distaccarsi da un'alleanza con Roma che ormai era divenuta soffocante, e al desiderio dei Volsci di prendersi un rivincita dopo le sconfitte subite. Il conflitto che durò dal 341 al 338 a.C. è noto come grande guerra latina e fu durissimo. Il successo arrise ai romani, la lega latina venne disciolta: alcune delle città che ne avevano fatto parte vennero incorporate nello Stato romano in qualità di municipi, altre conservarono la propria indipendenza formale, ma non poterono più intrattenere alcuna relazione tra di loro. Alle vecchie città latine ben presto si aggiunsero le nuove colonie latine, composti sia da cittadini romani sia da alleati: costoro perdevano la precedente cittadinanza per acquistare quella della nuova colonia. Lo status di latino perdette dunque la sua connotazione etnica e venne a designare una condizione giuridica in rapporto con i cittadini romani. I latini erano obbligati a fornire truppe a Roma in caso di necessità e ottennero il diritto di voto. La nuova concezione dello status latino è chiaramente dimostrata dal caso di due tra le città che si erano ribellate a Roma: Tivoli e Preneste. Gli abitanti vennero privati dei privilegi di connubium, commercium e migratio e divennero semplici alleati (socii) di Roma. Il rapporto veniva creato da trattati che lasciavano alle comunità alleate una completa autonomia interna, ma le legavano strettamente a Roma per quanto concernente la politica estera e le obbligavano a fornire un contingente di truppe in caso di guerra. Questi trattati consentirono a Roma di ampliare la propria egemonia e il proprio potenziale militare senza che si assumesse i compiti di governo locale perché le strutture politiche rimasero le stesse. Nelle città dei Volsci e dei campani, Roma attuò la concessione di una forma parziale di cittadinanza romana, la civitas sine suffragio. Gli obblighi erano gli stessi dei cittadini romani, cioè il servizio di leva e il pagamento del tributo, ma non avevano diritto di voto nelle assemblee popolari di Roma, ne potevano essere eletti alle magistrature dello Stato romano. Ad Anzio venne creata una piccola colonia i cui abitanti conservarono la piena cittadinanza romana. Alla conclusione della grande guerra latina Roma aveva dunque legato a sé tutte le regioni che andavano dalla sponda sinistra del Tevere a nord, al Golfo di Napoli a sud, dal Tirreno a ovest, ai contrafforti degli Appennini a est. La seconda guerra sannitica (326 304 a.C.) I romani fondarono colonie di diritto latino nei territori sulla sponda orientale del fiume Sacco, che i sanniti consideravano di propria pertinenza, e questo provocò una nuova crisi tra le due potenze. La causa concreta della seconda guerra sannitica è da ricercare nelle divisioni interne di Napoli, l'ultima città greca della Campania rimasta indipendente; a Napoli si fronteggiavano le masse popolari, favorevoli ai sanniti e le classi più agiate, di sentimenti filo romani. I romani sconfissero rapidamente la guarnigione che i sanniti avevano installato a Napoli e conquistarono la città, ma il tentativo di penetrare nel Sannio falli , quando nel 321 gli eserciti romani vennero circondati al passo delle Forche Caudine e vennero costretti alla resa. Dopo questo disastro i romani rinforzarono le proprie posizioni in Campania, dove vennero create due nuove tribù e allacciarono una serie di rapporti con le comunità dell'Apulia e della Lucania, nella speranza di isolare e circondare la lega sannitica. Le ostilità si riaccesero nel 316, per la responsabilità dei romani che attaccarono la località di Saticula: le prime operazioni furono nuovamente favorevoli ai sanniti ma negli anni successivi Roma inizio a recuperare il terreno perduto e la città venne conquistata nel 315, le comunicazioni con la Campania ristabilite e migliorate grazie alla costruzione del primo tratto della via Appia. In questi stessi anni Roma procedette a preparare il suo esercito al Cartagine era per loro pericolosa e decise quindi di concludere una pace e di schierarsi dalla parte di Roma. Il sostegno di Ierone e di Siracusa si rivelò indispensabile per il rifornimento degli eserciti romani già dal 262. Grazie alla netta superiorità delle sue forze navali, Cartagine conservava un saldo controllo su molte ecco località costiere della Sicilia: Roma si costruì quindi per la prima volta una grande flotta e nel 260 la flotta romana ottenne una clamorosa vittoria nelle acque di Milazzo. Allora a Roma si penso di poter assestare un colpo mortale a Cartagine attaccandola direttamente in Africa: l’invasione inizio nel 256 e la flotta romana sconfisse quella cartaginese al largo di capo Ecnomo e fece sbarcare l’esercito nella penisola di capo Bon in Africa. Le prime operazioni furono favorevoli ai romani che però non seppero sfruttare i successi perché fecero fallire le trattative di pace che erano state avviate e rafforzarono la determinazione dei cartaginesi che nel 255 sconfissero i romani; per completare il disastro la flotta romana incappò in una tempesta. Il duplice smacco allontanò l’idea di una rapida conclusione della guerra: nel 249 a seguito della sconfitta nella battaglia navale di Trapani e dell’ennesimo naufragio Roma era ormai priva di forze navali. Ma i cartaginesi, anch’essi esausti, non seppero sfruttare la loro superiorità sui mari, mentre sulla terra furono costretti a limitarsi ad azioni di disturbo degli eserciti romani brillantemente condotte del loro nuovo generale, Amilcare Barca. Solo dopo qualche anno Roma fu in grado di costruire una nuova flotta che sconfisse quella cartaginese alle isole Egadi nel 241 a.C. A Cartagine si domandò la pace: le clausole prevedevano lo sgombero dell’intera Sicilia e delle isole Lipari ed Egadi, e il pagamento di un indennizzo di guerra. La prima provincia romana Il sistema con il quale Roma integro i nuovi possedimenti ottenuti dalla guerra segnò una svolta nella sua storia istituzionale. In Sicilia alle comunità un tempo soggette a Cartagine venne imposto il pagamento di un tributo annuale, consistente in una parte del raccolto di cereali (un decimo della produzione). L’amministrazione della giustizia, il mantenimento dell’ordine interno e la difesa dalle aggressioni esterne dei nuovi possedimenti siciliani vennero affidati a un magistrato romano inviato annualmente nell’isola; a partire dal 227 a.C. vennero eletti due nuovi pretori che andarono ad affiancarsi al pretore urbano e al pretore peregrino: uno dei due nuovi magistrati venne inviato in Sicilia e l’altro in Sardegna. Da questo momento il termine provincia, che originariamente indicava semplicemente la sfera di competenza di un magistrato, viene ad assumere il significato di territorio soggetto all’autorità di un magistrato romano. La prima provincia romana di Sicilia non si estendeva sull’intera isola: c’erano ancora stati formalmente indipendenti come il regno siracusano di Ierone e Messina. Tra le due guerre Il periodo che va dalla fine della prima guerra punica allo scoppio della seconda nel 218 a.C., vide uno consolidamento delle posizioni delle due grandi avversarie, Roma e Cartagine. Per Cartagine i primi anni dopo la sconfitta furono drammatici: la città non riusciva a pagare i mercenari che si ribellavano. I cartaginesi inoltre allestirono una spedizione per recuperare la Sardegna ma si dovettero scontrare con l’opposizione di Roma che accuso Cartagine di prepararsi ad aprire le ostilità contro Roma stessa e si disse pronta a dichiarare guerra; allora i cartaginesi si piegarono accettando di pagare un indennizzo supplementare e cedere la Sardegna che insieme alla Corsica andò a formare la seconda provincia romana dopo la Sicilia (237 a.C.). Pochi anni dopo Roma intervenne direttamente anche nell’Adriatico: il regno di Illiria aveva esteso verso sud la sua influenza sulla costa dalmata. Le scorrerie dei pirati illirici avevano arrecato danni alle città greche della costa orientale dell’Adriatico e il senato inviò proteste alla regina, che però rifiutò di far cessare le azioni ostili dei suoi sudditi; allora Roma nel 229 a.c dichiarò guerra. La prima guerra illirica si risolse rapidamente a favore di Roma e agli illiri fu proibito di navigare con più di due navi disarmate e dovettero rinunciare a ogni pretesa sulle città greche della costa adriatica che divennero una sorta di protettorato di Roma. Demetrio, un collaboratore di Teuta, che era passato dalla parte di Roma, venne ricompensato con la concessione di possedimenti intorno alla sua patria, l’isola di Faro. Qualche anno dopo Roma intervenne nuovamente in Illiria perché Demetrio intraprese atti ostili, alleandosi anche forse con Filippo V di Macedonia: anche la seconda guerra illirica fu impresa di poco conto e Demetrio fuggì presso Filippo V; Farò entro nel protettorato romano ma in tal modo però si gettarono le premesse per un’ostilità tra Roma e la Macedonia. Maggiori sforzi richiese la conquista dell’Italia settentrionale; l’attenzione di Roma in questa zona viene richiamata da un’incursione di Galli, che si arrestò a Rimini nel 236 a.C. Quattro anni dopo venne emanata la legge Flaminia che proponeva di distribuire ai singoli cittadini romani l’ager gallicus ; questo provvedimento consentiva di sorvegliare meglio il corridoio Adriatico attraverso il quale i Galli potevano penetrare nell’Italia centrale. Per questo motivo la legge Flaminia destò l’allarme dei galli Boi (Bologna) e fu una delle cause della guerra gallica. Nello scontro le due principali popolazioni della Galia cisalpina (i Boi e gli insubri stanziati a Milano) ottennero l’appoggio di galli Gesati, mentre i galli cenomani (Brescia) e i veneti si schierarono con i romani. I galli nel 225 a.C. vennero annientati e a Roma ci si rese conto che la conquista della Valle padana era possibile e necessaria. La breve ma violenta campagna venne coronata dalla vittoria a Casteggio nel 222 e la conquista di Milano e Roma procedette alla definitiva sottomissione della pianura padana, che aprì un territorio vasto e fertile. Tra la fondazione di numerose colonie è importante ricordare quella di Aquileia. Si costruì anche una rete stradale: nel 220 la via Flaminia da Roma a Rimini, nel 187 la via Emilia da Rimini a Piacenza. Intanto Cartagine cercava di costruire una nuova base per la sua potenza in Spagna. La conquista della Spagna potrebbe apparire quasi un affare privato della famiglia Barca, ma questo non significa che i Barca agissero in Spagna senza il consenso o addirittura in contrasto con il governo cartaginese. L’avanzata dei Barca destò l’allarme di Marsiglia (città greca), Che nella Spagna settentrionale aveva interessi economici. Nel 226 a.C. un ambasceria del senato concluse con Astrubale un trattato secondo il quale gli eserciti cartaginesi non potevano oltrepassare a nord il fiume Ebro. Un potenziale elemento di contrasto tra Roma e Cartagine era costituito dal trattato di alleanza stretto da Roma con la città iberica di Sagunto che si trovava a sud dell’Ebro. LA SECONDA GUERRA PUNICA La questione di Sagunto venne abilmente sfruttata da Annibale per far esplodere il conflitto nel momento che egli riteneva più favorevole. Alle prime minacce di un attacco cartaginese i Saguntini chiesero l'aiuto di Roma. Roma di fatto si preparò concretamente alla guerra solo quando Annibale aveva già espugnato Sagunto (218 a.C.). Il piano di Annibale era rischioso: Roma doveva la vittoria nella prima guerra punica all'immenso potenziale umano e finanziario assicurato dal suo dominio sull'Italia; Annibale pensava dunque che era necessario colpire il nemico nella base della sua potenza, cercando di staccare Roma dai suoi alleati italici. L'invasione dell'Italia poteva avvenire soltanto via terra, attraverso le sue frontiere settentrionali. Annibale partì nella primavera del 218 con un imponente esercito; valicati i Pirenei il suo esercito riuscì ad attraversare le Alpi riscuotendo l'immediato successo dei Galli Boi e degli Insubri. Il primo grande scontro si ebbe sul fiume Trebbia dove vinse Annibale. Nell'anno seguente l'esercito romano venne annientato in un'altra battaglia sul lago Trasimeno. Quinto Fabio Massimo venne immediatamente nominato dittatore e secondo la sua strategia era necessario evitare le battaglie campali e limitarsi a controllare le mosse di Annibale, impedendo che da Cartagine o dalla Spagna giungessero degli aiuti, perché prima o poi si sarebbe arreso. Per questo motivo egli veniva chiamato "il temporeggiatore". E la sua strategia alla lunga avrebbe portato alla vittoria ma a breve termine significava che Roma avrebbe dovuto assistere impotente alla devastazione dell'Italia; per questo motivo scaduti i sei mesi della dittatura di Fabio Massimo, a Roma si decise di passare nuovamente all'offensiva, sperando di poter schiacciare Annibale con la semplice superiorità numerica: ma nel 216 Annibale riuscì ad annientare gli eserciti romani nella piana di Canne tramite una perfetta manovra di accerchiamento. La guerra pareva ormai persa per Roma ma i suoi alleati gli rimasero fedeli e il ritorno alla strategia attendista di Fabio Massimo consentì a Roma di riguadagnare le posizioni perdute nel mezzogiorno. Taranto continuava ad essere sorvegliata impedendo ad Annibale di ottenere via mare i rinforzi e nel 211 anche Capua venne riconquistata. Nel 212 le forze romane e riuscirono a conquistare e a saccheggiare Siracusa dopo un lungo assedio. La svolta decisiva della guerra si ebbe in Spagna: dopo la sconfitta subita al fiume Trebbia, Publio Cornelio Scipione aveva raggiunto nella penisola iberica suo fratello e i due riuscirono a impedire che Annibale ricevessi aiuti dalla Spagna. Ma nel 211 i due fratelli vennero sconfitti e uccisi e i romani riuscirono a ritirarsi con quanto rimaneva del loro esercito e difendere la Spagna settentrionale, fino a quando venne nominato comandante delle truppe in Spagna il figlio omonimo di Publio Cornelio Scipione, che sarà noto col cognomen di Africano. Nel 209 riuscì a impadronirsi della principale base cartaginese nella penisola iberica, Nova Carthago, e l'anno seguente sconfisse il fratello di Annibale, Asdrubale, nella località di Baecula. Ma Scipione non riuscì a impedire che Asdrubale eludesse la sorveglianza romana e ripetendo l'epica marcia di Annibale tentasse di portare aiuto al fratello in Italia; ma la spedizione venne affrontata dagli eserciti congiunti dei due consoli e distrutta sul fiume Metauro, nelle Marche settentrionali nel 207. Nel 206 Scipione sconfiggeva in modo decisivo gli eserciti cartaginesi di Spagna nella battaglia di Ilipa e Annibale ridotto all'impotenza si vide costretto a ritirarsi nel Bruzio. Scipione fu eletto console per il 205 e iniziò i preparativi per l'invasione dell'Africa che avvenne nel 204: ci fu un importante vittoria nella battaglia dei Campi Magni. Ma le trattative di pace allora avviate fallirono per le dure condizioni dettate da Scipione; la battaglia che pose fine al conflitto si svolse nel 202 nei pressi della città di Zama e vinsero i romani. Il trattato di pace siglato nel 201 prevedeva la consegna di tutta la flotta cartaginese e il pagamento di una fortissima indennità; inoltre Cartagine doveva rinunciare a tutti i suoi possedimenti al di fuori dell'Africa (in particolare in Spagna). LA PRIMA GUERRA MACEDONICA Nell'Adriatico una flotta romana si rivelò sufficiente per impedire un'invasione dell'Italia da parte di Filippo V e un suo congiungimento con le forze di Annibale. Roma riuscì a paralizzare l'azione del re macedone creando una coalizione di Stati greci a lui ostili, tra i quali primeggiava la lega etolica. Nel 205 a.C. firmarono una pace con Filippo, nota come pace di Fenice. LA SECONDA GUERRA MACEDONICA monarchica, prima di essere eliminato nel 148. Scongiurata la minaccia macedone, il Senato si occupò delle questioni concernenti gli achei, ordinando che fosse staccata dalla lega non solo Sparta ma anche altre importanti città come Argo e Corinto; questo avrebbe significato la fine della Lega achea, e l’assemblea della lega allora decise la guerra, che fu brevissima. I romani invasero il Peloponneso e sconfissero definitivamente l’ultimo esercito acheo. Corinto venne saccheggiata e distrutta nel 146 a.C. e la Macedonia venne ridotta a provincia romana; tutte le leghe in Grecia vennero sciolte o ridotto all’impotenza. LA TERZA GUERRA PUNICA Dopo la rovinosa sconfitta nella seconda guerra punica Cartagine si era ripresa con sorprendente rapidità, ed era riuscita a saldare il pagamento della fortissima indennità di guerra. Anche dal punto di vista politico lo Stato cartaginese si era comportato in modo irreprensibile. Nonostante Annibale si fosse concentrato su una riforma interna, un'ambasceria giunta da Roma lo accuso di preparare un'alleanza con Antioco III di Siria e Annibale fu costretto alla fuga in Oriente. Un elemento che poteva turbare la situazione dell'Africa settentrionale era costituito delle dispute di confine tra la Numidia e Cartagine. Il re numida, Masinissa , nel corso della prima metà del II secolo avanzò pretese sempre più ambiziose e Cartagine che non aveva il potere di dichiarare guerra senza il consenso di Roma, si rivolse alla potenza egemone ma Roma non acconsentì. Nel 151 a.C. a Cartagine prevalse il partito della guerra e un esercito fu inviato contro Masinissa. La mostra si rivelò però disastrosa perché l'esercito cartaginese venne fatto a pezzi e allo stesso tempo la violazione della clausola del trattato del 201 fece sì che anche a Roma dichiarasse guerra Cartagine. L'esercito romano nel 149 prese d'assedio Cartagine fino al 146 sotto il comando di Publio Cornelio Scipione emiliano, figlio del vincitore di Pidna, Lucio Emilio Paolo, entrato per adozione nella famiglia degli Scipioni. La città fu saccheggiata e rasa al suolo e il suo territorio trasformato nella nuova provincia d'Africa. LA SPAGNA In tutto questo tempo Roma non era riuscita a venire a capo della situazione in Spagna. All'indomani della seconda guerra punica i romani si erano stabiliti in due zone della penisola iberica: nel meridione intorno a Cadice e nel settentrione nella zona costiera a nord dell'Ebro. Nel 197 a.C. le due aree vennero organizzate in due province: la Spagna Citeriore a nord e la Spagna Ulteriore a sud, soggette a Roma, che dovevano pagare un tributo detto stipendio e fornire truppe ausiliarie. Ma la penetrazione verso l'interno si rivelò lenta e difficile, tanto che la sottomissione della penisola iberica venne completata solo con Augusto. Roma lascio quasi costantemente in Spagna forti eserciti: le sconfitte furono numerose ma le vittorie mai decisive e il malcontento nell'esercito serpeggiava, dando vita a clamorosi episodi di renitenza alla leva tanto da creare nel 149 un tribunale speciale e permanente incaricato di giudicare il reato di concussione, la questio perpetua de repetundis. Vediamo l'atteggiamento assunto da due grandi figure di governatori delle province spagnole: Catone e Sempronio Gracco padre. Catone venne inviato nella Spagna Citeriore nel 195 a.C. in qualità di console e procedette con implacabile energia alla sistematica sottomissione delle tribù della valle dell'Ebro. Differente fu la politica di Sempronio Gracco, governatore della Spagna Citeriore tra il 180 e il 178; egli assunse un atteggiamento conciliante e cerco di rimuovere le ragioni dell'ostilità verso Roma. La sua strategia portò alla conclusione di trattati di pace con alcune tribù che assicurarono a Roma qualche anno di respiro. La lotta si concentrò intorno alla città di Numanzia. Nel 137 sotto le mura di questa città si consumò un episodio emblematico delle difficoltà di Roma in Spagna: il console Caio Ostillio Mancino, sconfitto, per evitare la distruzione del suo esercito, fu costretto a firmare una pace umiliante per Roma. Il trattato siglato da Mancino fu disconosciuta dal Senato e la guerra fu affidata a Scipione emiliano che strinse d'assedio la città, la conquisto e la distrusse nel 133 a.C. GERACI, MARCONE – PARTE TERZA: LA CRISI DELLA REPUBBLICA E LE GUERRE CIVILI (DAI GRACCHI AD AZIO) CAPITOLO 1: DAI GRACCHI ALLA GUERRA SOCIALE La tradizione storiografica aristocratica dominante nelle fonti, ha identificato nell'età dei Gracchi l'origine della degenerazione dello stato romano e l'inizio del tempo delle guerre civili. La guerra contro Annibale aveva percorso l'Italia e inferto ferite profonde alla sua agricoltura; le campagne belliche avevano tenuto i romani e gli alleati a lungo lontano dalle loro case e dei loro poderi, e le conquiste esterne avevano comportato un afflusso di ricchezze nelle mani di pochi. Erano caduti in possesso di Roma bottini di guerra molto consistenti e le tasse riscossi nelle province avevano fatto affluire a Roma ingenti capitali che avevano progressivamente modificato una struttura sociale ed economica rimasta fino ad allora essenzialmente agricola. I romani e gli italici si erano introdotti nel grande commercio e avevano intrapreso anche professioni bancarie; tali attività avevano fatto fare fortuna a molti senatori e avevano favorito l'ascesa dei cavalieri, la cui ricchezza era un tempo fondiaria, finanziaria e mobiliare. Essi comprendevano figli e fratelli di senatori, e ricchi proprietari terrieri e uomini d'affari che erano esclusi dalle cariche pubbliche ma interessati a difendere i propri interessi e a entrare a far parte del tribunale permanente che perseguiva le estorsioni dei magistrati nelle province. Tutti questi ambienti, in seguito all'infittirsi dei loro contatti con l'Oriente, avevano contribuito potentemente alla diffusione in Italia e a Roma dell'ellenismo. Nel tempo si era modificata la fisionomia dell'agricoltura italica: il ricorso alla manodopera servile, l'importazione di grandi quantità di grano, la spinta verso colture più speculative costituirono una concorrenza sempre più rovinosa per la tradizionale agricoltura di autosussistenza. I piccoli proprietari terrieri si erano spesso trovati nella necessità di vendere le loro proprietà. Nasceva la tendenza verso un agricoltura incentrata sui prodotti destinati alla commercializzazione più che all'autoconsumo, bisognosa di vaste superfici coltivabili e fondata su grandi capitali: il modello di proprietà diventava la grande azienda agricola (la villa rustica) basata sullo sfruttamento intensivo di personale schiavi e diretta da schiavi manager. Per le piccole proprietà tradizionali l'unica possibilità era la riconversione delle colture ma ciò esigeva forti spese di impianto quindi un numero sempre crescente di piccoli proprietari era stato costretto a vendere. Molti affluivano a Roma attirati dalla possibilità che la città offriva e questo contribuì a creare una massa urbana sempre più consistente e a trasformare Roma in una grande metropoli. Il moltiplicarsi delle grandi tenute a personale schiavi e il dilatarsi delle zone destinate al pascolo, furono i presupposti per l'esplodere di rivolte servili. Teatro dei moti schiavi più gravi fu la Sicilia dove ma se servili si sollevarono nel 140 132 e di nuovo nel 100 400 a.C. Roma fu costretta a inviare nell'isola tre consoli e solo nel 132 riuscì a domare l'insurrezione. A Roma cominciarono a delinearsi due fazioni, entrambe scaturite dalla nobilitas: gli optimates e i popolares. I primi si richiamavano alla tradizione degli avi, si autodefinivano Boni, ispirati da buoni principi e volti al bene dello Stato. I secondi, ugualmente scaturiti dei quadri dell'aristocrazia si presentavano come i difensori del popolo che conduceva un'esistenza miserevole e propugnavano la necessità di ampie riforme in campo politico e sociale. basi per la nuova provincia Narbonese. Consolidato il possesso delle isole verso la Spagna nel 123 furono conquistate anche le Baleari. I COMMERCIANTI ITALICI E L'AFRICA; GIUGURTA; CAIO MARIO [18:18, 31/10/2018] nena �: Scipione Emiliano aveva regolato le questioni africane con la costituzione di una piccola ma ricca provincia e i rapporti di buon vicinato con le città libere e con i figli di Massinissa. Tra di essi si era progressivamente imposto Micipsa che era divenuto unico re di Numidia. La politica filo romana sua e del padre aveva attirato in Africa commercianti e uomini d’affari romani e italici. Morto nel 118 a.C. Micipsa , il regno numidico fu conteso tra i suoi tre eredi principali: il più spregiudicato di essi era Giugurta che si sbarazzò di un fratello; l’altro fu costretto a rifugiarsi a Roma e a chiedere l’aiuto del Senato che nel 116 a.C. optò per la divisione della Numidia tra i due superstiti: ad Aderbale sarebbe andata la parte orientale più ricca mentre a Giugurta quella occidentale più vasta. Ma nel 122 Giugurta volle impadronirsi anche della porzione di fegno assegnata al fratello e ne assediò la capitale, importante base operativa di molti mercanti romani e italici. Giugurta presa la città fece però trucidare non solo il rivale ma anche i romani e italici presenti così Roma si vide costretta a scendere in guerra nel 111 a.C. Le operazioni militari furono condotte molto fiaccamente fino al 109 a.C tra grandi smacchi per le armi romane, quando al comando della guerra fu posto il console Quinto Cecilio Metello, del cui seguito faceva parte come legato Caio Mario. Metello non riusci a concludere la campagna e allora le reazioni degli ambienti commerciali non si fecero attendere: i mercanti del Nordafrica tempestarono i loro rappresentanti romani di proteste; Caio Mario allora venne eletto console nel 107 e gli venne affidato il comando della guerra contro Giugurta. Mario era un uomo novus , imparentato con un’antica anche se decaduta famiglia patrizia perche aveva sposato Giulia, zia del futuro Giulio Cesare. Mario, bisognoso di nuove truppe a lui fedeli apri l’arruolamento volontario ai nulla tenenti cioè coloro senza il minimo bene patrimoniale. Con il suo nuovo esercito Mario ritorno in Africa ma gli occorsero quasi tre anni per mantenere l’impegno di porre fine al conflitto e catturare Giugurta. Più che alcune vittorie valsero le trattative diplomatiche per rompere l’alleanza tra Giugurta il suocero Bocco, re di Mauritania. Bocco tradi Giugurta e nel 105 lo consegno ai romani; Giugurta fu trascinato prigioniero a Roma e Mario fu rieletto console per il 104 a.C. CIMBRI E TEUTONI Nel frattempo due popolazioni germaniche, i Cimbri e i Teutoni avevano iniziato un movimento migratorio verso sud spinti da problemi di sovrappopolamento o da maree rovinose. Furono affrontati aldilà delle Alpi dal console Cneo Papirio Carbone presso Noreia nel 113, però i romani subirono una disastrosa sconfitta. Intorno al 110 cimbri e teutoni comparvero in Galia e i ripetuti tentativi di respingerli si risolsero in altrettanti catastrofi che culminarono nel 105 nella clamorosa disfatta di Arausio. A Roma aumentava il terrore che cimbri e teutoni e potessero invadere l’Italia, Mario venne rieletto console nel 104 e gli fu affidato il comando della guerra. Mario riorganizzò l’esercito e tutti gli aspetti dell’attività militare, dall’addestramento all’equipaggiamento. Egli era coadiuvato dai suoi luogo tenenti tra cui Silla. Così quando i germani ricomparvero, nel 103 a.C, i romani si rivelarono in grado di sostenere l’urto: Cimbri e Teutoni si erano divisi e mentre i teutoni avanzavano verso la Galia meridionale, i timbri si accingevano a valicare i passi delle Alpi centrali. Mario affrontò dapprima i teutoni nel 202 sterminandoli ad Aquae sestiae, l’anno dopo mosse contro i Cimbri che furono annientati presso i Campi Raudii. Eclissi politica di Mario; SATURNINO E GLAUCIA Mentre era costantemente impegnato sul fronte militare, Mario aveva creduto utile appoggiarsi a Lucio Apuleio Saturnino, un nobile entrato in rotta con le fazioni conservatrici del Senato. Mario l'aveva aiutato a essere eletto tribuno della plebe nel 103 a.C. e in cambio Saturnino aveva fatto approvare una distribuzione di terre in Africa a ciascuno dei veterani delle campagne africane di Mario. Nel 100 a.C. Mario venne eletto al suo sesto consolato; saturnino era tribuno della plebe e Caio Servilio Glaucia pretore. Contando sull'appoggio di Mario, Saturnino presento una legge agraria che prevedeva l'assegnazione di terre nella Gallia meridionale. Saturnino aveva fatto approvare una clausola che obbligava i senatori a giurare di osservare la legge. Saturnino venne rieletto come tribuno anche l'anno successivo mentre Glaucia si candidava al consolato; ma durante le votazioni scoppiarono tumulti e il Senato non attendeva altro per proclamare il senato consulto ultimo. Saturnino e Glaucia furono uccisi e il prestigio di Mario uscì fortemente compromesso dalla vicenda tanto che gli preferì allontanarsi da Roma. Pirati, schiavi; Cirenaica L'istallarsi di Roma in Anatolia l'aveva condotta a stretto contatto con un problema di quelle zone: la pirateria. L'attività piratica sulla costa minacciava pesantemente l'asse marittimo che dall'Egeo conduceva a Cipro e alla Siria Fenicia. L'azione dei pirati fu avvertita come virulenta e pericolosa per la sicurezza e per gli affari romani nei mari greci e nell'Egeo orientale; nel 102 a.C. si decise quindi di intervenire, inviando il pretore Marco Antonio con il compito di distruggere le principali base anatoliche dei pirati ed impadronirsene. L'azione si protrasse per un paio d'anni, accompagnata dalla costituzione di una provincia costiera di Cilicia, con la principale funzione di proteggere il commercio marittimo d'Asia. Il gravoso impegno militare richiesto dalle guerre cimbriche indusse Mario a domandare contingenti di soldati agli alleati italici; Nicomede III di Bitinia declinò l'invito sostenendo che una cospicua parte degli uomini del suo regno era stata presa dei pirati o ingiustamente sequestrata e venduta in schiavitù per debiti; a Roma si volle porre rimedio con un provvedimento che ordinava ai governatori provinciali di condurre inchieste rigorose in merito. Ma la misura non venne applicata e ne seguirono numerose rivolte servili. MARCO LIVIO DRUSO e la concessione della cittadinanza agli italici Marco Livio Druso fu eletto tra i tribuni della plebe nel 91 a.C. ed egli tentò di destreggiarsi tra le varie parti con una politica di reciproca compensazione. Da un lato promulgò provvedimenti di evidente contenuto popolare, come una legge agraria volta alla distribuzione dei nuovi appezzamenti ma dall'altro restituì ai senatori i tribunali per le cause di concussione, proponendo però l'ammissione dei cavalieri in Senato che veniva aumentato da 300 a 600 membri. Infine vuole proporre la concessione della cittadinanza romana agli alleati italici ma ancora una volta l'opposizione fu vastissima e Druso venne misteriosamente assassinato. LA GUERRA SOCIALE La differenza di Stato giuridico e sociale tra cittadini di Roma e alleati latini e italici non aveva suscitato grandi contestazioni all'inizi del II secolo a.C., quando essa trovava riscontro in differenze etniche e culturali e quando l'orizzonte della maggioranza di tali comunità era limitato a un quadro politico locale o regionale. Ma essa aveva perso molta della sua ragion d'essere via via che l'Italia era penetrata in uno spazio mediterraneo sempre più unificato. La condizione di cittadino romano era divenuta sempre più vantaggiosa e ciò aumentava l'irritazione e le rivendicazioni degli italici, consci di avere ampiamente contribuito ai successi militari di Roma. Essi erano sempre in funzione subalterna rispetto ai cittadini e spesso vessati dai cittadini romani. Non avevano parte alcuna nelle decisioni politiche, economiche, e militari anche se vedevano largamente coinvolti anche i loro interessi. L'assassinio di Druso fu per gli alleati italici il segnale che non vi era altra possibilità di difendere le proprie rivendicazioni che la rivolta armata contro Roma. L'insurrezione si estese sul versante adriatico, nell'Appennino centrale e nell'Appennino meridionale. La guerra fu lunga e sanguinosa perché i romani si trovarono a combattere contro gente armata e addestrata al loro stesso modo. Gli insorti si diedero anche istituzioni federali comuni, una capitale e una moneta propria ma i loro scopi non erano unitari: in alcuni ambienti prevaleva l'esigenza di conseguire la cittadinanza romana, in altri dominava lo spirito di rivalsa contro Roma. Furono messe in campo tutte le forze migliori e si spartirono tra i due consoli del 90 a.C. i due principali settori di operazione: a settentrione il console Publio Rutilio Lupo che aveva come propri legati Strabone e Caio Mario, dovette fronteggiare Silone il capo dell'intera federazione italica. A meridione l'altro console Lucio Giulio Cesare aveva tra i suoi luogo tenenti Lucio Cornelio Silla. Si ebbero sconfitte e distruzioni su entrambi i fronti. A Roma con un primo provvedimento si erano già autorizzati i comandanti militari ad accordare la cittadinanza agli alleati che combattevano ai loro ordini. Venne poi approvata una legge che concedeva la cittadinanza romana agli alleati rimasti fedeli e alle comunità che avessero deposto le armi. Strabone quando divenne console nell'89 fece attribuire il diritto latino agli abitanti a nord del Po (transpadana). Strabone riuscì a espugnare Ascoli e Silla riconquistò la maggior parte del Sannio e della Campania;nell'88 eletto console ne assediava l'ultima roccaforte, Nola. Con la concessione della cittadinanza a tutta l'Italia fino alla transpadana si inaugurava un processo di unificazione politica, anche se per esercitare i loro diritti i neo cittadini dovevano recarsi personalmente all'assemblea. Questo fece sì che molti di loro iniziassero a trasferirsi in città e Roma iniziava a diventare una grande metropoli cosmopolita. CAPITOLO 2: I PRIMI GRANDI SCONTRI TRA FAZIONI IN ARMI Mitridate VI Eupatore Mentre i romani affrontavano gli italici nella guerra sociale, una situazione allarmante si era creata in oriente, dove i Parti che si erano insediati nell’altopiano iranico, si erano estesi fino occupare stabilmente la Mesopotamia e la Babilonia; nel 95 a.C avevano imposto come loro vassallo quale re d’Armenia Tigrane. Nella penisola anatolica Roma aveva creato la provincia d’Asia, nella quale si erano sviluppati molti piccoli Stati dinastici. Mitridate VI divenne te del Ponto a partire dal 112 a.C. e strinse accordi con la vicina Bitinia per dividersi le zone limitrofe; aveva anche esteso il suo regno a sud impadronendosi della Colchide. Il Senato era divenuto quindi molto attento le sue mosse e quando Mitridate si impossessò anche della Cappadocia Mario si era recato presso di lui. Nel 92 a.C. era toccato a Silla spettasse uno solo dei principali reati: estorsione, concussione, alto tradimento, appropriazione di beni pubblici, assassinio e avvelenamento. Furono totalmente ridimensionati i poteri del tribuno della plebe, limitato il loro diritto di veto e annullato quello di proporre leggi. Compiuta la riorganizzazione dello Stato, Silla abdicò dalla dittatura e si ritirò a vita privata nel 79 a.C. Marco Emilio Lepido Già nel 78 a.C. uno dei consoli, Marco Emilio Lepido, padre del futuro triumviro, tentò di ridimensionare l’ordinamento silano proponendo il richiamo dei proscritti in esilio, il ripristino delle distribuzioni frumentarie a prezzo politico e la restituzione gli antichi proprietari delle terre confiscate da Silla. L’opposizione incontrata dai sui progetti scatenò una rivolta in Etruria; Lepido si fermò in Etruria nel 77 dove fece causa comune con i ribelli e marciò poi su Roma, reclamando un secondo consolato e la restaurazione dei poteri dei tribuni della plebe. Il Senato rispolverò contro di lui l’arma del senato consulto ultimo, ordinando di difendere lo Stato con qualsiasi mezzo. Venne eccezionalmente conferito a Pompeo l’Imperium, senza che egli avesse ancora rivestito alcuna magistratura superiore, la rivolta venne rapidamente stroncata e Lepido fuggì in Sardegna. L’ultima resistenza Mariana: Sertorio Sertorio si era distinto nelle guerre a fianco di Silla e nell’82 aveva raggiunto il suo posto di governatore della Spagna Citeriore. La egli aveva creato una sorta di Stato mariano in esilio, coagulando altri esuli della sua fazione, romani e italici residenti in Spagna. Tutti i tentativi di abbatterlo si erano rivelati vani grazie anche alla conformazione del territorio che gli aveva permesso di mettere in atto una stremante guerriglia contro le truppe comandate dal governatore silano della Spagna ulteriore Quinto Cecilio Metello Pio. Verso la fine del 77 si erano congiunti a Sertorio che controllava ormai praticamente tutta la penisola iberica, anche le truppe superstiti di Lepido e egli istituì a Osca, sua capitale, un senato di 300 membri e una scuola dove i capi delle tribù spagnole potevano inviare i loro figli perché fossero educati alla romana. A questo punto il Senato decide di ricorrere un’altra volta a Pompeo. Arrivato in Spagna nel 76 a.C. Pompeo si trovò in una posizione alquanto difficile, subendo da Sertorio alcune sconfitte e sollecitando al Senato l’invio di rifornimenti e rinforzi. Ottenutili nel 74 la situazione andò migliorando perché nel campo avversario cominciavano a manifestarsi dissapori e la popolarità di Sertorio veniva rapidamente calando. Furono orditi complotti contro di lui finché venne assassinato a tradimento nel 72. Spartaco Nel 73 era anche scoppiata la terza grande rivolta di schiavi; la scintilla era scoccata a Capua in una scuola per gladiatori, una settantina dei quali siano ribellati e si erano asserragliati sul Vesuvio. La furono raggiunti da altri gladiatori e schiavi e posero a capo due gladiatori Spartaco, e Crisso. La rivolta si estese rapidamente a tutto il sud dell’Italia dove gli insorti riuscirono a tenere in scacco alcuni pretori e due consoli del 72 inviati contro di loro. Ma mancava tra i ribelli un piano preciso e unitario e il Senato decise allora di affidare un comando eccezionale e un considerevole esercito a Marco Licinio Crasso. Crasso riuscì a isolare Spartaco i suoi in Calabria; essi tentarono di passare in Sicilia ma traditi dei pirati che non li traghettarono furono costretti a spezzare il blocco di Crasso che li sconfisse in Lucania. Migliaia di prigionieri furono fatti crocifiggere da Crasso lungo la via Appia. Una consistente schiera di superstiti tentò la fuga verso nord ma fu intercettata da Pompeo che tornavo dalla Spagna e annientata. Pompeo si candidò al consolato per il 70 a.C. con Crasso ed entrambi furono eletti consoli. Fu allora portato a compimento lo smantellamento dell’ordinamento sillabò. Pompeo e Crasso restaurarono i poteri dei tribuni della plebe: essi poterono di nuovo proporre leggi all’assemblea popolare e opporre il veto alle iniziative degli altri magistrati; furono eletti i censori che epurarono il Senato di 64 membri giudicati indegni. Infine il pretore Lucio Aurelio Cotta fece modificare la composizione delle giurie dei tribunali permanenti togliendo l’esclusiva ai senatori e ripartendole in proporzioni uguali tra senatori, cavalieri e tribuni aerarii. Contemporaneo fu il processo per malversazione contro Caio Verre, propretore in Sicilia dal 73 al 71 e Cicerone che conduceva l’accusa lo aveva trasformato in una denuncia contro il mal governo senatorio nelle province. Pompeo in Oriente Negli anni tra l’80 e il 70 a.C. in oriente erano riemerse due minacce: i pirati e Mitridate. La pirateria aveva ripreso forza per l’instabilità e l’indebolimento delle strutture politiche locali e per l’importanza assunta dal commercio degli schiavi. Le sue basi principali erano disseminati lungo le coste dell’Asia minore, di Creta e del litorale africano. Attaccavano le navi commerciali depredandole dei loro carichi e riuscivano a dileguarsi e di conseguenza il trasporto delle merci era divenuto sempre più difficile , rischioso e costoso. Nel 78 75 a.C. si tentò di rafforzare la presenza romana in Cilicia, tramite le campagne di Vatia che si spinse all’interno dell’Isauria espugnando le roccaforti dei pirati. Nel 74 a.C. fu inviato contro i pirati con un comando speciale Marco Antonio (padre del futuro omonimo triumviro) che preferì concentrare i suoi sforzi sull’isola di Creta che nel 68 67 divenne provincia romana. Nel frattempo era divenuta inevitabile una nuova guerra contro Mitridate. Alla morte di Nicomede IV di Bitinia nel 74 a.C risultò che questo re aveva lasciato il suo regno in eredità ai romani. La deduzione della provincia diede ai romani il controllo dell’accesso al Mar Nero e alterava gli equilibri di forza in Asia; allora Mitridate decise di invaderla. Contro di lui furono mandati i due consoli a 74 a.C. e Lucullo sgomberata la Bitinia occupò il Ponto costringendo Mitridate a rifugiarsi in Armenia da Tigrane. Lucullo invase anche l’Armenia assediandone e conquistandone la capitale e da qui si lanciò all’inseguimento di Mitridate ma i suoi soldati erano stanchi e si rifiutarono di proseguire. I finanzieri romani sdegnati dei provvedimenti da lui assunti per alleviare la situazione economica dell’Asia fecero pressioni perché forse destituito e i sui comandi gli furono produttivamente revocati; ne approfittarono Mitridate e Tigrane per riprendere le ostilità nel 67 a.C. Nel 67 un tribuno della plebe propose che si assumessero misure drastiche contro i pirati e per questo fu attribuito a Pompeo per tre anni un imperium infinituum su tutto il Mediterraneo. Pompeo cacciò rapidamente i pirati del Mediterraneo occidentale costringendoli ad asserragliarsi e sconfiggendoli in Cilicia. Nel 66 a.C un altro tribuno della plebe Caio Manilio propose che venisse esteso a Pompeo il comando della guerra contro Mitridate. Pompeo marciò indisturbato verso il Ponto e sconfisse Mitridate che si rifugiò a nord fino a che ,abbandonato anche da suo figlio, si fece uccidere. Intanto Pompeo aveva conquistato la Siria, togliendola a Tigrane, dove istituì uno stato autonomo nel 63; così la Siria diventava provincia romana. Il consolato di Cicerone e la congiura di Catilina Durante l’assenza di Pompeo a Roma si era verificata una grave crisi: Lucio Sergio Catilina, discendente da una famiglia aristocratica si era molto arricchito durante gli eccidi dell’eta sillana ma aveva dilapidato somme enormi per mantenere un elevato tenore di vita. La sua campagna per ottenere il consolato nel 65 gli era costata una fortuna ma all’ultimo momento la sua candidatura venne respinta per indegnità. Egli tentò di farsi ripresentare alle elezioni consolari per il 63, politicamente finanziariamente sostenuto da Marco Licinio crasso ma venne invece eletto console un uomo novus di Arpino, Marco Tullio Cicerone. Ma Catilina non demorse e tentò un nuovo piano per il 62 ma venne di nuovo battuto alle elezioni. Mise allora mano a un’ampia cospirazione che mirava a sopprimere i consoli, terrorizzare la città e impadronirsi del potere ma il piano fu scoperto e sventato da Cicerone. Catilina venne affrontato in una battaglia da un esercito consolare e cadde combattendo. Egitto; Cipro; Cirenaica I tre nuclei principali costitutivi del regno d’Egitto (Egitto, Cirenaica, Cipro) a partire dal II secolo a.C. avevano avuto fasi in cui si erano trovati uniti sotto un unico sovrano e altre in cui sono stati retti da differenti monarchi. Alla morte dell’ultimo sovrano le contese tra i successori fecero sì che ci si rivolgesse ripetutamente a Roma come garante del trono. Nel 96 a.C. per testamento a Roma venne lasciata la Cirenaica. E anche Tolomeo X Alessandro I legò per testamento l’Egitto i romani. Tale atto è stato spesso in passato attribuito a causa dell’omonimia a suo figlio. Questi, fatto prigioniero da Mitridate era riuscito a fuggire e si era rifugiato presso Silla. Ritornato in Egitto nell’80 era salito al trono riconosciuto dallo Senato romano e per garantire la sua vita avrebbe redatto il testamento, che oggi si tende però ad ascrivere a suo padre. Gli unici tolomei rimasti nell’80 erano i due figli di Tolomeo IX, il maggiore dei quali gli alessandrini proclamarono re d’Egitto e il minore re di Cipro. La principale preoccupazione politica del re d’Egitto fu quella di farsi riconoscere da Roma e ci mise vent’anni, riuscendoci sono nel 59 con l’appoggio di Cesare. Il problema egiziano ridivenne attuale per Roma solo nel 64 63 quando Pompeo ridusse la Siria a provincia romana e una legge agraria pareva includere anche l’Egitto in un vasto progetto di assegnazioni fondiarie ma Cicerone riuscì a farla bloccare. Nel 58 seguì la rivendicazione di Roma su Cipro e la conseguente annessione. CAPITOLO 3: DAL “PRIMO TRIUMVIRATO” ALLE IDI DI MARZO Nel 62 a.C. sbarcato a brindisi Pompeo, convinto di ottenere dal Senato la ratifica degli assetti territoriali e provinciali da lui decisi in oriente; ma in Senato i suoi avversari politici non glieli volevano concedere. Pompeo si avvicinò allora a Crasso e al suo alleato Cesare, con i quali nel 60 a.C. strinse un accordo di sostegno reciproco chiamato primo triumvirato, su modello dell’unico triumvirato che sia effettivamente esistito cioè quello del 43 a.C. di Ottaviano, Antonio e Lepido. Fu un accordo privato e segreto in base il quale Cesare avrebbe dovuto essere eletto console per il 59 e avrebbe dovuto varare una legge agraria che sistemasse i veterani di Pompeo. Anche Crasso avrebbe ottenuto vantaggi per i cavalieri e gli appaltatori che gli erano particolarmente legati. L’accordo fu cementato anche col matrimonio tra Pompeo e la figlia di Cesare Giulia. Cesare fu eletto console per il 59 e fece votare in successione due leggi agrarie che prevedevano una distribuzione ai veterani di Pompeo di tutto l’agro pubblico rimanente in Italia ad eccezione della Campania che venne aggiunta in un secondo momento; furono poi fatte ratificare tutte le decisioni assunte da Pompeo in oriente e, com’era desiderio di Crasso, fu ridotto ad un terzo il canone d’appalto delle imposte della provincia d’Asia. Fu approvata una legge per i Ma il Senato votò il senato consulto ultimo affidando ai consoli e a Pompeo il compito di difendere lo Stato. Vennero inoltre nominati i successori di Cesare. Appresa questa decisione Cesare varcò in armi il torrente Rubicone dando così inizio alla guerra civile. Pompeo con i consoli e buona parte dei senatori fuggi per imbarcarsi verso l’oriente. Cesare percorse rapidamente l’Italia ma non riuscirò ad arrivare in tempo per fermare il piano di Pompeo di trasferirsi in Grecia, quindi ritornò a Roma e comincio ad affrontare la minaccia occidentale, rivolgendosi contro le forze pompeiane in Spagna che assalì e sconfisse presso Ilerda. Tornato a Roma negli ultimi giorni del 49 egli vi rivestì la carica di dittatore al solo scopo di convocare i comizi elettorali che lo elessero console per il successivo anno 48. Pompeo nel frattempo aveva posto il suo quartier generale a Tessalonica; Cesare compì la traversata dell’Adriatico in pieno inverno e riuscì a porre l’assedio a Durazzo ma fu duramente respinto. Avanzò allora verso la Tessaglia sempre inseguito da Pompeo che venne sconfitto a Farsalo nel 48. Pompeo fuggì allora verso l’Egitto ma in Egitto era in corso una contesa dinastica tra il giovane Tolomeo XIII la sorella maggiore Cleopatra; i consiglieri del re, giudicando compromettente raccogliere Pompeo, lo fecero assassinare non appena sbarcato. Cesare arrivo ad Alessandria dove non gli rimase che compiangere la misera fine del rivale e si trattenne in Egitto per oltre un anno allo scopo di assicurarsi l’appoggio di quel regno ricchissimo e di dirimere la contesa fra i due fratelli; Cleopatra fu confermata regina d’Egitto e, partito Cesare, diede alla luce un figlio di lui, a cui impose il nome di Tolomeo Cesare. Nell’autunno del 47 Cesare sostò brevemente a Roma e poi riparti per l’Africa dove si erano rifugiati e riorganizzati i pompeiani vinti, che Cesare sconfisse a Tapso. Ritornato a Roma celebrò suoi trionfi. Cesare aveva ricoperto per cinque volte il consolato, a metà del 46 gli venne conferita la dittatura e a partire da febbraio del 44 ottenne il titolo di dittatore a vita. Inoltre egli aveva anche dei poteri straordinari: dopo Tapso era stato fatto per tre anni prefectus moribus, con incarico di vigilare sui costumi; gli fu riconosciuta la facoltà di sedere tra i tribuni della plebe e poi la potestà tribunizia; gli fu attribuito il potere di fare i trattati di pace o dichiarazioni di guerra senza consultare il Senato e il popolo; infine gli vennero offerti gli onori del primo posto in Senato, del titolo di imperatore a vita e di quello di padre della patria. Già dal 49 a.C. aveva messo mano a un insieme vastissimo di riforme: erano stati concessi il perdono e il richiamo in patria a tutti gli esuli e condannati politici; vennero accordate facilitazioni ai debitori sia per il pagamento di canoni arretrati sia per le modalità di rimborso dei prestiti; il diritto di ottenere la cittadinanza romana venne esteso agli abitanti della transpadana. Tra il 46 e 44 il Senato fu portato da 600 a 900 membri, i questori da 20 a 40, gli edili da quattro a sei, i pretori da 8 a 16, per garantire maggiori possibilità di carriera politica e i suoi sostenitori. Vennero abbassate le qualifiche censitarie per l’ammissione all’ordine equestre e furono introdotte sanzioni più severe nei confronti di quanti si fossero resi colpevoli di malversazioni. Vennero sciolte le associazioni popolari e i collegia vennero riportati alle loro funzioni originarie di corporazioni religiose o di mestiere. Furono confermate le distribuzioni gratuite di grano ma il numero dei beneficiari fu ridotto a 150.000. Venne promossa una considerevole attività di ristrutturazione urbanistica ed edilizia e un’ambiziosa serie di lavori pubblici; inoltre venne riformato il calendario civile. L’eccessiva concentrazione di poteri, il moltiplicarsi degli onori senza precedenti, taluni atteggiamenti suoi e dei suoi collaboratori che parvero rivelare un’inclinazione verso la regalità, finirono per creare allarmi anche tra i suoi stessi sostenitori. Nei primi mesi del 44 Cesare aveva preparato una grande campagna militare contro i Parti con l’intenzione di ristabilire l’egemonia romana in Asia; a Roma venne messo in giro un oracolo secondo il quale il regno dei Parti avrebbe potuto essere sconfitto solo da un re, e questo andò ad aumentare le voci e sospetti di aspirazioni monarchiche di Cesare. Fu allora ordita una congiura a e alle Idi di marzo, 15 marzo del 44 a.C., egli cadde trafitto dei pugnali dei cospiratori nella curia di Pompeo. CAPITOLO 4: AGONIA DELLA REPUBBLICA Abbattuto Cesare i cesaricidi non si erano preoccupati di eliminare anche i suoi principali collaboratori: Marco Emilio Lepido e Marco Antonio. Dopo un primo sbandamento questi ultimi cominciarono a riorganizzarsi, mentre i cesaricidi dimostrarono la totale mancanza di un programma. Antonio riusci a imporre una politica di compromesso, che venne ratificata dal Senato: l’amnistia per i congiurati ma anche la convalida degli atti del defunto dittatore. Fu stabilito che, dopo il consolato, ad Antonio sarebbe toccata la Macedonia. Antonio si fece consegnare i documenti e il testamento di Cesare e trasformò le esequie in una grandiosa manifestazione di furore popolare; egli approfittò del possesso delle carte private di Cesare per far passare nel corso dell’anno tutta una serie di progetti di legge che egli sostenne di avervi trovato. Alla lettura del testamento di Cesare si scoprì che gli aveva nominato suo erede effettivo suo figlio adottivo, un giovane di non ancora 19 anni, Caio Ottavio che era il suo pronipote. Alle idi di marzo il giovane Ottavio si trovava ad Apollonia tra i soldati che stavano affluendo per la campagna partica. Appena saputo del testamento, Ottavio si diresse verso l’Italia e giunse a Roma per reclamare l’eredita. Entratone in possesso onorò li ingenti lasciti in denaro previsti del testamento, ponendo come caposaldo del suo impegno politico la celebrazione della memoria del padre adottivo e la vendetta per la sua uccisione. Ottenne così l’appoggio dei cesariani più accesi e il Senato scorse il lui un mezzo per arginare lo strapotere di Antonio che si era fatto assegnare dai comizi al posto della Macedonia le due province della Galia cisalpina e della Gallia Comata per la durata di cinque anni. Quando però Antonio mosse verso la Cisalpina il governatore originariamente designato, Decimo Bruto, rifiutò di cedergliela e si rinchiude a Modena, assediato da Antonio. Ebbe così inizio la guerra di Modena (43 a.C.); il Senato ordinò ai due consoli del 43 di muovere in soccorso di Decimo Bruto e vicino a Modena Antonio fu abbattuto e costretto a ritirarsi verso la Gallia Narbonese dove contava di unire le sue forze a quelle di Lepido. Successivamente Ottavio chiese al Senato il consolato per se e ricompense per i suoi soldati. Al rifiuto non esitò a marciare su Roma. Nell’agosto del 43 venne eletto console insieme al cugino; i due consoli fecero revocare tutte le misure di amnistia e istituirono un tribunale speciale per perseguire gli assassini di Cesare; Ottavio fece anche ratificare la sua adozione dai comizi curiati fregiandosi da allora del nome Caio Giulio Cesare. In Gallia Antonio si era congiunto con Lepido e Decimo Bruto, isolato e abbandonato anche dei suoi soldati, fu ucciso mentre cercava di passare le Alpi orientali per congiungersi con gli altri cesaricidi. Annullato il provvedimento senatorio che aveva dichiarato Antonio nemico pubblico, nell’ottobre del 43 a.C. Ottaviano, Antonio e Lepido si incontrarono nei pressi di Bologna dove stipularono un accordo, poi fatto sancire da una legge votata dei comizi tributi (Lex Titia). In base a essa veniva istituito un triunvirato per la riorganizzazione dello Stato (rei publicae constituendae), che diveniva una magistratura ordinaria per la durata di cinque anni fino alla fine del 38. Essa conferiva il diritto di convocare il Senato e il popolo, di promulgare editti e di designare i candidati alle magistrature; Antonio avrebbe conservato il governatorato della Gallia cisalpina e della Gallia Comata, Lepido avrebbe ottenuto la Gallia Narbonese e e le due Spagne, Ottaviano l’Africa, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica che costituivano la parte peggiore perché erano minacciate da Sesto Pompeo, che recava con le sue azioni non pochi intralci ai commerci romani nell’Italia meridionale. Vennero resuscitate le liste di proscrizione, con i nomi degli assassini di Cesare e dei nemici dei triumviri e dei loro seguaci; centinaia di senatori e cavalieri furono uccisi e una delle vittime più note fu Cicerone. Nel 42 si provvide alla divinizzazione di Cesare e all’istituzione del suo culto: ne beneficiò soprattutto Ottaviano che divenne così divi filius (figlio di un dio). I triumviri potevano ora rivolgere le armi verso l’oriente, verso Bruto e Cassio che si erano costituiti una solida base di potere. Antonio e Ottaviano partirono alla volta della Grecia e lo scontro decisivo si ebbe Filippi in Macedonia nell’ottobre del 42: Cassio battuto da Antonio e credendo anche Bruto sconfitto si tolse la vita e Bruto vinto definitivamente deciso di seguirlo. Le proscrizioni, le guerre intestine e Filippi avevano decimato l’opposizione senatoria più conservatrice: molte famiglie della più antica aristocrazia si erano dissolte. Il loro posto fu preso da una nuova aristocrazia composta da membri delle classi dirigenti municipali italiche e da persone di fiducia dei triumviri. Un effetto con simile ebbero le epurazioni di ricchi e influenti esponenti delle comunità locali, che furono sostituiti dai seguaci dei triumviri, provenienti di solito dai ranghi dell’esercito. Si realizza così un mutamento radicale nella composizione e nella mentalità delle elite di governo, assai più inclini a rapporti di dipendenza politica personale. Dallo scontro con i cesaricidi usciva rafforzato il prestigio militare di Antonio. Egli si riservò, accumulandolo a quello sulle Gallia, il comando tutto l’Oriente da cui intendeva intraprendere un piano di conquista del regno partico come fedele continuatore dell’opera di Cesare. A Lepido fu assegnata l’Africa e Ottaviano ebbe la Spagna, il compito di sistemare in Italia i veterani delle legioni, e quello di vedersela con Sesto Pompeo che dominava la Sicilia. L’incarico di procedere all’assegnazione di terre ai veterani era tra i più difficili perché, non essendo rimasto più agro pubblico da assegnare, si trattava di espropriare terreni; venivano colpiti soprattutto gli interessi dei piccoli e medi proprietari terrieri. Le proteste sfociarono nel 41 a.C. in aperta rivolta e Ottaviano fu costretto ad affrontare gli insorti a Perugia nell’inverno del 41 40 a.C.; dopo un feroce assedio la città fu espugnata e abbandonata al saccheggio. Molti fuggirono a infoltire le fila di Sesto Pompeo che, impadronitosi anche della Sardegna della Corsica, batteva i mari e impediva rifornimenti dell’Italia e di Roma, provocando carestia e fame. Profilandosi la possibilità di un’alleanza tra Antonio e Sesto Pompeo, Ottaviano si avvicinò a quest’ultimo sposando Scribonia, sorella del suocero di Sesto Pompeo. Preoccupato, Antonio si mosse dall’Oriente verso l’Italia e incontro Ottaviano a Brindisi, dove nell’ottobre del 40 venne sottoscritta un’intesa in forza della quale ad Antonio veniva assegnato l’Oriente, a Ottaviano l’Occidente. Antonio inoltre sposava Ottavia, sorella di Ottaviano. La situazione venne però di nuovo complicata dalle rivendicazioni di Sesto Pompeo che escluso dagli accordi di Brindisi, aveva ripreso a bloccare le forniture di grano che venivano a Roma dalle regioni oltre mare, creando scarsità di viveri. Antonio fu costretto a tornare ancora una volta dalla Grecia per presenziare con Ottaviano all’accordo di Miseno (39 a.C.): Sesto Pompeo vedeva riconosciuto da Ottaviano il governo di Sicilia, Sardegna e Corsica a cui veniva aggiunto da parte di Antonio il Peloponneso. Ma anche questo equilibrio durò poco perché di fronte alle difficoltà frapposte da Antonio alla consegna del Peloponneso, Sesto Pompeo riprese le azioni di scorreria contro l’Italia. Ottaviano allora ripudiò Scribonia e l’anno successivo passò a nuove nozze con Livia. Sesto aveva perduto la Sardegna e la Corsica che un suo luogo tenente aveva consegnato a Ottaviano; divampo’ presto la lotta per il possesso della Sicilia. Ottaviano la iniziò con una sconfitta e fu costretto a POMA, CAPITOLO 2: L’ETA REPUBBLICANA Dal 509 a.C alla fine del I sec a.C si parla di età repubblicana che si snoda in diversi punti: la fase del conflitto tra patrizi e plebei alla fine del IV sec a.C, il processo di creazione delle magistrature e di definizione dei poteri del senato e delle assemblee nel corso del III sec a.C, e la ricerca di soluzioni che potessero rispondere alle esigenze di governo dei territori conquistati, le lotte interne che iniziarono dalla metà del II secolo a.C. 1. LA NASCITA DELLA REPUBBLICA La nascita della repubblica viene identificata dalla tradizione con l’istituzione del consolato, che assunse i poteri del re alla fine della monarchia. Ma forse il processo di transizione da una all’altra fu più complesso; la repubblica che nasce ha caratteri aristocratici e vide il sorgere del conflitto tra patriziato e plebe. - La libera res publica: Livio ci parla di “popolo romano libero” e identifica la libertà nell’introduzione della magistratura annua, non nella rottura con il regno (tutti i primi consoli ebbero i diritti e le insegne del re). La res publica è la res populi, la cosa del popolo, termine che marca il consenso del popolo a un ordinamento giuridico. A partire dal IV secolo a.C quando si fissò la tradizione relativa al passato monarchico maturò una ideologia repubblicana di cui uno dei più saldi fondamenti fu l’aspetto anti monarchico, espresso dall’odium regni, cioè una avversione verso tutto ciò che richiamava un regime monarchico. L’ideologia repubblicana si sviluppò sull’antitesi libertas – regnum e nelle fonti l’elemento discriminante tra i due è la libertas. Il momento in cui la res publica diventa organizzazione politica è il momento della proclamata restaurazione augustea della “costituzione repubblicana”. Augusto infatti rivendica il merito di aver recuperato la res publica alla libertà. Egli si presenta nelle vesti del riconquistatore della libertà, restauratore dello stato. Per Polibio Roma offre il perfetto esempio di una costituzione mista, che contempera i tre poteri, monarchico (consoli), oligarchico (senato) e democratico (popolo). - Dalla monarchia alla repubblica: dalle parole liviane si ricava che la sostituzione dei magistrati al re non sarebbe stata accompagnata da alcun conflitto o discussione; secondo Livio il mutamento sarebbe avvenuto in continuità e nel quadro delle istituzioni precedenti, in conformità a quello che c’era scritto nei commentarii di Servio Tullio. I commentarii in età repubblicana erano per i consoli, i censori, i questori e contenevano le istruzioni i precetti rituali da osservare. Per questi commentarii di Servio Tullio si può supporre che contenessero istruzioni per la tenuta dei comizi. Alcuni indizi ci fanno però pensare che questo cambiamento non fu così semplice: si ricorda un pretore “maximus” e alcuni studiosi ritengono che il titolo indichi quello dei due consoli che detiene i fasci e quindi l’autorità massima. Altri identificano il pretore massimo col dittatore; mentre per altri ancora il collegio in origine sarebbe stato a tre e il pretore massimo sarebbe stato un primus inter pares. - Il patriziato e il conflitto patrizi plebei: i patrizi in età repubblicana erano coloro che possedevano le terre, che potevano accedere al consolato e ai sacerdozi, che avevano il monopolio degli auspici e della gestione dell’interregno. Con la nascita della repubblica il conflitto tra patrizi e plebei entra per la prima volta nella storia di Roma. Dopo la cacciata dei re, i patrizi assunsero nelle loro mani tutto il potere politico e religioso e solo nel 367 a.C i plebei riuscirono ad accedere al consolato. In età regia il tratto distintivo dell’aristocrazia gentilizia era stato la sua capacità di accogliere nei propri ranghi i nobili provenienti dalle altre città (nel 495 a.C Appio Claudio è un esempio perché migrò dalla Sabina con gran seguito di clienti, ricevette terre e venne accolto inter patres giungendo ad alte cariche). Ci si potrebbe chiedere se questi innesti individuali possano essere identificati in quella categoria dei senatori conscripti che il primo console P. Valerio iscrisse nel numero dei senatori. I conscripti entrano in senato per scelta consolare dettata da opportunità politica, cioè quella di consolidare il nuovo regime con gruppi esterni al patriziato. 2. LA REPUBBLICA DIVISA: GLI ORGANISMI PLEBEI La plebe inizia ad emergere nei primi decenni dell’età repubblicana, ponendo con forza alcune questioni: il problema economico dei debiti, le rivendicazioni agrarie, il rifiuto della leva, la richiesta di equiparazione politica. Con le secessioni giungono a strutturare propri organismi, a darsi magistrati e a fondare un centro religioso autonomo. - La condizione sociale della plebe: il termine “plebe” ricopre una realtà non identificabile in toto con la massa dei piccoli proprietari in crisi, degli artigiani e dei commercianti caduti in miseria dopo la contrazione degli scambi commerciali dell’area etrusca. Nell’ambito della plebe c’erano famiglie in grado di sostenere una attività politica e di porsi alla pari, socialmente ed economicamente, al mondo patrizio. Se la plebe fece del rifiuto di militare uno degli strumenti del conflitto, evidentemente esistevano le condizioni di censo che permettevano l’inquadramento dei plebei nell’esercito, come pedites (fanti). Nelle rivendicazioni plebee ha primaria importanza il tema dei debiti che è il motore primo della secessione plebea del 494/495 a.C. Troppo limitati erano i margini di autosufficienza dell’economia agricola e c’erano quindi frequenti carestie; una crisi economica che colpì Roma si ebbe nel V secolo a.C.. La richiesta di distribuzione delle terre irrompe nel 486 a.C a seguito della proposta del console Spurio Cassio di una divisione dell’ager publicus aperta anche ai Latini e agli Ernici. L’unica concessione agraria che la plebe ottenne fu però la destinazione ad edificazione plebea del colle Aventino nel 456 a.C ; il primo sostanzioso incremento di territorio si ebbe solo con la presa di Veio nel 396 a.c e la prima legge agraria su cui può essere sicuri è del 367 a.C. Probabilmente c’erano due situazioni di proprietà delle terre: quella dei gentiles (grandi proprietari di terre sostenuti dai loro clienti) e quella dei piccoli e medi agricoltori indipendenti. - Secessioni e tribunato della plebe: i plebei partecipavano ai comizi centuriati e militavano nei ranghi della fanteria; ma non avevano alcuna forza per imporre le loro richieste a causa del meccanismo di voto che privilegiava le prime classi di censo. Non ottenendo nulla dai patrizi furono costretti a misure rivoluzionarie e nel 494 i plebei in armi uscirono da Roma e si accamparono sull’Aventino, dichiarando che sarebbero rientrati solo se le loro richieste fossero state accolte. È la prima secessione della plebe che si accompagnò al rifiuto del servizio militare e questo mise davvero in crisi i patrizi perché li privava della fanteria oplitica. Si raggiunse un accordo che previde che la plebe avesse i suoi proprio magistrati, i tribuni della plebe e gli edili plebei, suoi propri organi assembleari (i concili plebei), in cui prendere provvedimenti legislativi (i plebisciti), un proprio centro religioso (il tempio di Cerere sull’Aventino). I tribuni non erano magistrati e non avevano imperium, ma godevano di diritto di veto su ogni atto magistratuale in forza del quale potevano sia opporsi preventivamente alle decisioni dei magistrati sia bloccarle, se già prese. Avevano un potere di coercizione che li autorizzava ad arrestare ogni cittadino e a portarlo in giudizio davanti alla plebe. I poteri che gli erano riconosciuti erano l’auxilium plebis = difensori degli interessi plebei e dei singoli plebei contro l’arbitrio di un magistrato patrizio. L’ambito della loro azione era limitato all’interno del pomerio, al di fuori vigeva l’imperium illimitato del comandante dell’esercito. La persone dei tribuni fu decretata sacrosanta ossia sacra ed inviolabile; un tribuno poteva essere bloccato solo se un altro tribuno opponeva il suo veto. Accanto ai tribuni, i plebei posero, come assistenti e colleghi gli edili che ebbero il compito di amministrare il tesoro depositato presso il tempio di Cerere sull’Aventino e di provvedere alle necessità del centro religioso plebeo. Era quindi loro compito curare i ludi in onore della divinità, controllare i mercati e le fiere, dare multe ai trasgressori. Il momento assembleare, in cui la plebe si riuniva e votava, era rappresentato dai concilia plebis: tali assemblee eleggevano tribuni ed edili della plebe e votavano deliberati (i plebisciti) che inizialmente vincolavano solo i plebei. Le assemblee della plebe avvenivano secondo la ripartizione in tribù. - Le leggi delle XII Tavole: nel 450 a.C la plebe ottenne che un apposito collegio di dieci uomini (i Decemviri) eletto dai comizi centuriati assumesse in via eccezionale i poteri consolari e redigesse un codice di leggi. La giustizia era in mano patrizia quindi i plebei vollero redigere un codice che stabilisse con certezza diritti e doveri di tutti e che da tutti fosse controllabile. Con le leggi delle XII Tavole si affermò la laicizzazione del diritto. Una norma decemvirale prevedeva che i colpevoli di reati gravi venissero portati davanti alla massima assemblea popolare, altre stabilivano una pena pecuniaria. Le Leggi delle XII Tavole furono incise su lastre di bronzo e furono sempre considerate dai romani alla base del loro diritto; non erano la raccolta completa di tutto il diritto ma traducevano per iscritto solo quella parte del diritto consuetudinario relativo ai rapporto di vicinato, i crimini, i danni, i tassi di interesse ecc. Le Leggi delle XII Tavole rappresentarono una delle conquiste più importanti della plebe perché posero anch’essa sotto la protezione della legge, anche se confermarono ancora il divieto di matrimonio tra patrizi e plebei che venne abolito solo nel 445 a.c. - Le legis actiones : a Roma era necessario impiegare nelle azioni legali parole e gesti immutabili. C’era un calendario giudiziario in cui erano fissati i giorni in cui era lecito presentarsi di fronte ai magistrati. Ogni parola errata, ogni gesto non corretto comportava la nullità della procedura e la perdita del processo. Di queste conoscenze erano depositari i pontefici, da tempo chiamati ad interpretare e applicare il diritto e la loro mediazione restò necessaria fino al 304 a.C. quando Cneo Flavio, divenuto edile, rese pubbliche le formule d’azione (legis actiones) e il calendario pontificale con i giorni fasti e nefasti. Questa delle legis actiones è la prima forma di processo civile che apparve in età monarchica e si conservò durante tutta l’età repubblicana. Per actio legis si intende l’insieme delle formalità da rispettare durante lo svolgimento di un processo. Una volta davanti al magistrato, le parti dovevano pronunciare formule fisse nomi proposti. La procedura attribuiva al magistrato il ruolo fondamentale sia nella convocazione dei comizi sia nella loro conduzione, con un’ampia facoltà di incidere politicamente sulla decisione finale. Il confronto politico poteva svolgersi in altre sedi preliminari alla riunione assembleare; la contio, ossia la riunione di massa, di cittadini e non cittadini, convocata da un magistrato o da un sacerdote che si svolgeva in maniera informale con il solo scopo di discutere vantaggi e svantaggi di una legge proposta o di una candidatura. Il voto non era egualitario nei comizi centuriati: se le classi sociali più elevate erano ripartite in centurie di cento componenti, man mano che si scendeva nelle classi di censo inferiori, le centurie raggruppavano un numero sempre crescente di cittadini. La classi dominanti, dei senatori e dei cavalieri, disponevano dunque di un numero di voti superiore a quello che avrebbero dovuto in un sistema non censita rio e gerarchizzato. Un altro elemento di disparità era dato dal meccanismo elettorale dei comizi centuriati, che prevedeva che, una volta raggiunta la maggioranza, la votazione fosse sospesa. Per votare il popolo veniva convocato almeno sette volte all’anno per elezioni che potevano durare più di una giornata. Ma non esisteva l’obbligo di votare; interessava ai cittadini cercare di garantirsi appoggi consistenti: non era necessario avvicinare l’intero corpo elettorale, era sufficiente avere la certezza del voto favorevole in un certo numero di tribù e nelle centurie della prima classe e degli equites. I comizi erano più frequentati dalla popolazione urbana rispetto a quello rurale che era più lontana. Augusto nel 27 a.C ristabilì il ruolo dei comizi: a Roma non è la res publica ma il populus che legifera; sta nel populus la volontà e la potestà di agire. Augusto era consapevole della necessità di intervenire a favore di un recupero della partecipazione popolare. Si trattava di individuare metodi in grado di dislocare in periferia dal centro il voto. Egli applicò alle colonie romane un genere di scrutinio che permetteva ai decurioni delle colonie di votare ciascuno nella propria città per l’elezione dei magistrati di Roma e di far pervenire a Roma il loro voto. Ma con Augusto ormai il potere al di là delle apparenze dal popolo era passato al princeps. - Corruzione e brogli elettorali: diffusa dai ripetuti interventi legislativi è la pratica della corruzione elettorale. A partire dal II sec a.C comincia a trovarsi traccia di legislazione in materia, ma l’istituzione di una prima corte permanente per i reati di corruzione risale solo a Silla che con una legge stabilì che i colpevoli di corruzione fossero interdetti dalle cariche pubbliche per un periodo di dieci anni. Secondo le leggi sui brogli erano illegali tutti quegli strumenti di campagna elettorale che segnalavano la potenza del personaggio. - La provocatio ad populum: l’appello al popolo era la maggiore garanzia costituzionale di cui godevano i soli cittadini romani. Ogni cittadino minacciato di essere condannato a morte o di essere sottoposto a multe, aveva il diritto di invocare il popolo e di essere sottoposto al giudizio dei comizi. Il diritto di provocare ad populum valeva solo domi, ossia a Roma, ed entro mille passi al di là del pomerio. Invece non valeva in campo militare, perché qui l’imperium del console era assoluto. Nel corso del II sec a.C la provocazione fu estesa dall’Italia e alle province. Ma il diritto dei tribunali di intervenire a difesa della plebe e la provocatio ad populum sono diverse e indipendenti l’una dall’altra: la prima era una istituzione rivoluzionaria plebea che dava ai tribuni il potere di opporsi all’azione dei magistrati. La provocatio era un diritto che apparteneva al cittadino e di cui poteva valersi contro la coercizione, ritenuta arbitraria dei magistrati. 5. LE MAGISTRATURE ORDINARIE E STRAORDINARIE E LE PROMAGISTRATURE Il sistema magistratuale si formò nel corso dei secoli, in modo casuale, senza alcuna legge di istituzione. Solo a partire dal III sec a.C vennero votate leggi istitutive di magistrature straordinarie o con poteri speciali, che ci offrono il contenuto specifico di tali cariche. Le magistrature più importanti (consolato, pretura, censura, dittatura) affondano le loro radici all’inizio della repubblica. - Le funzioni dei magistrati: nel III sec a.C i magistrati principali ordinari annuali sono 28: due consoli, 4 pretori, 4 edili, 10 tribuni della plebe, 8 questori, cui si aggiungono ogni 5 anni due censori. C’erano poi anche le magistrature speciali come i triumvirati o con poteri straordinari come l’interrex, il collega del dittatore (il magister equitum), i tribuni militum. Nessuna fonte ci presenta il quadro completo dei magistrati romani espressamente designati come tali. Solo Varrone ci dà una lista ma solo di coloro che sono normalmente autorizzati a convocare il senato ed indica solo dittatore, consoli, pretori, tribuni della plebe, interrex e prefectus urbi. A Roma il magistrato è un organo della città che deve agire nell’interesse della res publica, ma ci sono regole che ne limitano il potere, che egli assume in quanto eletto dal popolo. Ogni tipo di potere discende da un mandato del popolo, anche se la dittatura e l’interrex sfuggono a questo schema. Il sistema magistratuale romano cancella un altro numero di sistemi di magistrature etrusche, osco umbre, e greche perché a livello centrale il sistema era quello romano, e ad esso si adeguarono le comunità diverse entrate nella repubblica. Magistratus indica chi si trova in una condizione di prevalenza rispetto ad altri, perché è colui che può di più. In opposizione a privatus è dunque il detentore di un potere di comando, l’imperium. In origine si trattava di una capacità di comando, fondata sulla forza e il prestigio del capo, che, in età repubblicana, assunse un valore giuridico più preciso e divenne patrimonio solo di alcuni magistrati superiori. Implicava il potere di comandare l’esercito, di imporre tributi, di esercitare il diritto di vita e di morte e per il comandante vittorioso di celebrare il trionfo e di essere salutato con il titolo di imperator. Le prerogative militari dell’imperium potevano essere esercitate solo al di fuori della linea sacrale del pomerio. Sul piano giuridico si distingue tra un imperium militiae (funzioni militari) e un imperium domi (funzioni civili). Sul piano civile, l’imperium dà ai magistrati il diritto di convocare e presiedere i comizi e il senato, di intervenire contro il cittadino che non rispetta le istituzioni della città. Accanto all’imperium i magistrati hanno la potestas che è tipica dei magistrati minori e possono dettare prescrizioni obbligatorie. I compiti complessivi dei magistrati sono rilevantissimi: governare la res publica, amministrare le province, guidare gli eserciti, tenere relazioni con le potenze estere. Ma non esisteva un apparato burocratico. - L’accesso alle magistrature e il cursus honorum. I magistrati sono eletti dall’assemblea; quelli maggiori, consoli, pretori, censori dai comizi centuriati e quelli minori come edili curuli e questori dai comizi tributi. Tribuni ed edili plebei dai concili della plebe. Fa eccezione il dittatore che è dictus dal console e che nomina il magister equitum. Per tutte le altre magistrature spetta al magistrato in carica proporre i candidati al voto del popolo e l’assemblea è vincolata ad eleggere il candidato. Come si poteva accedere alle magistrature? Erano esclusi coloro che esercitavano una professione remunerata con un salario e i liberti. Non c’era una chiara gerarchia tra le magistrature, non esistevano norme che fissassero i singoli rapporti, anche se sono diverse per rango e per singole attribuzioni. Solo nel 180 a.C si ebbe una legge, la Villia annalis, che stabilì un’età minima per l’accesso alle diverse magistrature e un intervallo di due anni fra le stesse, non previsto però per le magistrature che superavano l’anno come la censura o le magistrature straordinarie. Silla intervenne poi a regolamentare i requisiti per l’assunzione delle varie magistrature con una legge che fissa la sequenza delle magistrature, gli intervalli necessari tra le varie tappe del cursus e le età minime per la pretura e il consolato. Nel I sec a.C per accedere alla questura era necessario avere compiuto dieci anni di servizio militare come fante o sei come cavaliere. Il cursus honorum prevedeva in successione questura, tribunato, edilità, pretura, consolato, censura. - Annualità e collegialità delle magistrature. Le magistrature romane sono caratterizzate dall’annualità e dalla collegialità, ad eccezione della censura (erano eletti ogni 5 anni e stavano in carica 18 mesi) e della dittatura. I dittatori e i magistri equitum appena svolto il compito per cui erano stati eletti abdicavano e comunque la loro carica non durava più di 6 mesi. In questa limitatezza della durata temporale Livio pone la differenza tra monarchia e repubblica. Le disposizioni vietavano di iterare le cariche se non con un intervalle decennale e di assumerne due contemporaneamente. Alla scadenza, la magistratura cessava automaticamente e entravano in carica i neoeletti designati con grande anticipo. L’annualità rende possibile la chiamata in responsabilità del magistrato dopo la fine della sua funzione. Durante tutta la durata delle loro funzioni, i magistrati non potevano essere posti sotto accusa. La magistratura è un honos, una carica pubblica volontariamente accettata e non un obbligo: esserne investiti è fonte di distinzione e quindi i magistrati lo facevano gratuitamente: non avevano remunerazioni, stipendi o indennità. Questo indica che dovevano avere risorse sufficienti, infatti era necessario avere un patrimonio di 400 mila sesterzi. La caratteristica della collegialità nacque dall’esigenza di evitare il riproporsi di poteri assoluti in una sola persona. Ma la collegialità non prevede una gestione unitaria del potere perché ogni magistrato ha la pienezza del proprio imperium ed agisce separatamente, senza bisogno di concordarsi col collega. Ogni magistrato può esercitare nei suoi confronti il diritto di veto. - Il ruolo degli auspici: l’importanza degli auspici è centrale ed essi assicuravano ai magistrati e solo a loro la competenza a presiedere i comizi e il senato, a comandare l’esercito e a svolgere i compiti loro assegnati. Gli auspici davano inoltre il potere di annullare una decisione del popolo ritenuta ingiusta, cioè politicamente non gradita. Nella consultazione degli auspici e nell’interpretazione dei segni favorevoli o favorevoli i magistrati erano assistiti dagli auguri: essi avevano il potere di sospendere un’assemblea popolare o di rinviarne la deliberazione o di annullare un’elezione o una legge,se a loro assegnazioni delle terre e delle deduzioni delle colonie. Fino al 167 fissava anche l’imposta straordinaria di guerra, dovuta a seconda dei beni, che i cittadini mobilitabili versavano per lo stipendium dei mobilitati. Fissavano anche le uscite: ogni somma a destinate a chiunque veniva controllata dal senato. Sono i senatori i giudici dei più importanti processi pubblici e privati. Si occupano dei rapporti con l’estero, ratificavano le leggi emanate dai governatori per le popolazioni provinciali, designavano l’interrex. Le deliberazioni comiziali furono a lungo soggette alla ratifica da parte del senato ; in origine essa doveva essere data ad una legge o ad una elezione di un magistrato dopo il voto, il che significava un forte potere di controllo sull’attività assembleare. Nel 339 una legge la trasformò in una autorizzazione data in via preliminare ad ogni proposta sottoposta al voto assembleare. Dopo poco ci fu un’altra legge che spostò l’auctoritas a prima del voto anche per le elezioni. I senatori furono designati inizialmente dai re e poi, in età repubblicana, dai magistrati superiori e dalla fine del IV secolo dai censori. Diversi personaggi aumentarono o diminuirono il numero del senato (Silla, Cesare, Augusto). I senatori dovevano avere almeno il censo della prima classe. I senatori si distinguevano dai comuni cittadini perché portavano il laticlavio, una striscia larga di porpora cucita all’orlo della toga. - L’attività del senato: il senato era il consiglio permanente della res publica, doveva essere riunito in un luogo inaugurato cioè delimitato dagli auguri. I deliberati del senato hanno pieno valore giuridico. Ma questa non è una condizione che riguarda solo il senato: ogni atto assunto dalla comunità deve essere in accordo con la divinità, per cui anche i luoghi di riunione del populus, i rostri, le piattaforme degli oratori, sono dei templa. In età repubblicana c’erano almeno 16 luoghi di riunione del senato. La sala delle riunioni era la Curia Hostilia, demolita nel 44 e rimpiazzata dalla Curia Iulia. Il senato non può riunirsi di sua iniziativa né fissare il suo ordine del giorno; è necessaria l’iniziativa di un magistrato che convoca la seduta e che presenta gli argomenti da dibattere al voto. Normalmente una seduta si apriva con la relatio (ossia la formulazione dei temi da dibattere) e proseguiva con l’interrogazione dei senatori da parte del presidente perché esprimessero il loro parere. Il voto avveniva sia individualmente, su interrogazione di ognuno dei senatori in ordine di grado, sia per discessionem nel qual caso i senatori si disponevano da una parte o dall’altra della Curia subito dopo la relazio. Aulo Gellio afferma che l’antico costume era quello di iniziare ad interrogare colui che fosse stato iscritto dai censori in testa alla lista del senato, ossia il princeps senatus. Il primo voto pronunciato era carico di una grande forza di orientamento. Il risultato finale diventa il senato consulto. Il senato poteva proclamare una sorta di stato di emergenza, che autorizzava i magistrati ad impiegare ogni mezzo ritenuto necessario per la tutela dello stato: era il senato consulto ultimo. - Società e politica: in base al posto che si occupava in un gruppo ciascuno era incluso in un sistema di diritti completi o di diritti minori. Per secoli l’assetto politico istituzionale romano fu caratterizzato dall’ordinamento centuriato che fino alla metà del II secolo a.C era calibrato su valori di censo piuttosto modesti. Col formarsi delle grandi ricchezze il solco tra ricchi e poveri divenne maggiore. Tutti i cittadini erano elettori ma non tutti erano eleggibili, poiché per essere candidati alla prima carica del cursu honorum era necessario un censo minimo di 400 mila sesterzi che era circa 16 volte il censo della prima classe. Le funzioni dirigenti appartenevano ad una classe politica composta di due ordini dominanti, senatorio ed equestre; il primo aveva come base di ricchezza essenzialmente la terra e aveva funzioni pubbliche. Il secondo che si venne a formare dai Gracchi in poi, dominava il mondo dei negotia, dei commerci. Ma lo stesso ordine senatorio non era omogeneo perché al suo interno si distingueva un gruppo ristretto di famiglie patrizie, discendenti dai magistrati più importanti, che consideravano il consolato come loro privilegio e si accaparravano le magistrature principali. Era la cosidetta nobilitas, costituita su una funzione istituzionale quale la gestione di una magistratura, che monopolizzava gran parte delle attività politiche, militari, religiose e finanziarie. Ma questo gruppo ristretto non era comunque unitario poiché al suo interno si distinguevano i patrizi dei plebei. Il cursus prevedeva una gradazione di cariche; chi invece si affacciava, per la prima volta in una famiglia, alle cariche era considerato homo novus, privo della dignitas e della auctoritas che derivava dalla famiglia. Dopo la guerra sociale, la composizione delle classi dirigenti si trasformò in profondità, con l’aristocrazia tradizionale rimpiazzata progressivamente da una nuova classe politica venuta dai municipi d’Italia e dalle colonie e scaturita dal notabilato municipale. A partire da Pompeo si ebbe una forte avanzata dei cavalieri che si arricchirono con le proscrizioni e gli appalti. Solo Cesare seppe attirare dalla sua parte i cavalieri ed utilizzarli al servizio della res publica, come ufficiali del suo stato maggiore o collaboratori di governo o banchieri, a sostegno delle sue campagne. Cominciò così per i cavalieri un’integrazione nei compiti di governo e di amministrazione che con il principato di Augusto si sviluppò rapidamente. Al di fuori di senatori e cavalieri, i ceti inferiori erano tutti compresi nel termine plebs, che comprendeva plebe urbana e rurale. La prima erano i proletari, la seconda era legata alla campagna e al lavoro agricolo. Politicamente questa plebe non formava un gruppo compatto, ma divenne massa di manovra e preda delle lotte tra fazioni e gruppi contrapposti a partire dall’età dei Gracchi. - Roma fu una democrazia? Qual era il ruolo del popolo e quali sono gli spazi ad esso realmente concessi? Polibio, Cicerone, Livio e Dionigi non consideravano Roma una città democratica. Polibio vi vide una realizzazione della costituzione mista dove i tre elementi della costituzione romana (consolato, senato, assemblee) rappresentavano le tre forme semplici delle costituzioni (monarchia, oligarchia, democrazia). Cicerone la presentava come una oligarchia moderata. Come avveniva allora la rappresentazione degli interessi collettivi? Un canale importante era quello della clientela: il patrono per ricevere sostegno politico nella sua carriera, accoglieva le sollecitazioni dei singoli o delle comunità. Abbiamo fonti ricche e dettagliate soprattutto per le vicende politiche del I secolo a.C e sul piano lessicale si incontrano due termini: factio e partes. Il primo indica un gruppo che agisce politicamente e viene usato con valore peggiorativo; la factio era un gruppo attivo e potente ma a cattivi fini. Il secondo rappresenta raggruppamenti più vasti; l’origine fu data dalla morte di Tiberio Gracco che divise il popolo in optimates e populares. I populares erano gli amici del popolo, che focalizzavano la loro azione su alcuni grossi temi, di interesse per il popolo (distribuzioni di grano, leggi agrarie, immissione di nuovi cittadini nelle tribù). Gli optimates erano “i buoni”, “i migliori”, i soli legittimati al governo poiché preoccupati unicamente del bene comune. Sostenevano l’autorità del senato e il mantenimento dei tradizionali privilegi della nobilitas. In conclusione il sistema repubblicano era un sistema aristocratico, in cui un’oligarchia censitaria fu in grado per secoli di impedire che la pressione delle masse in difficoltà economica o le ambizioni personali di un politico portassero a rivolgimenti radicali dell’ordinamento. Il sistema elettorale era diretto ma filtrato per gruppi e rendeva inutile una partecipazione universale. - Religione e politica. A Roma sono strettamente connesse. I culti pubblici sono gestiti dai magistrati e dai sacerdoti incaricati della loro celebrazione, a spese e nell’interesse del popolo intero. Il sacerdote non è estraneo alla vita della città, pur essendo vincolato a rispettare le norme del culto. Egli opera costantemente a scopi politici e in un quadro politico; non a caso è o sarà un magistrato o un senatore. Il pontificato massimo in genere rappresenta il culmine di una brillante carriera politica. In epoca repubblicana la gestione delle cose sacre era affidata ai grandi collegi sacerdotali dei pontefici, degli auguri, dei decemviri, degli epuloni. I primi due collegi, i più antichi erano in origine riservati ai soli patrizi, fino al 300. Anche dopo questa data però la carica di rex sacrorum e i tre flamini maggiori rimasero sempre riservati ai patrizi. Gli altri due collegi sono di istituzione più recente: i duumviri, poi divenuti decemviri sacris faciundis furono creati dal re Tarquinio il Superbo allo scopo di consultare i libri Sibillini. Gli epuloni, tre all’inizio e infine dieci, erano specializzati nella gestione dei banchetti sacri. Questi grandi collegi sacerdotali sono custodi di una scienza religiosa di grande spessore acquisita da libri e commentarii, raccoglievano formule di preghiere, disposizioni sui modi corretti di compiere i diversi tipi di cerimonie. I pontefici sono la pietra angolare dell’intera struttura religiosa romana. Capeggiati dal pontefice massimo, i membri del collegio, avevano il controllo completo sui culti pubblici e privati, consigliavano e assistevano i magistrati nello svolgimento delle cerimonie, sovraintendevano al culto, fissavano annualmente il calendario. I magistrati avevano il possesso esclusivo degli auspici, ma erano gli auguri che li interpretavano. 7. L’ESPANSIONE IN ITALIA E NEL MEDITERRANEO E L’ORGANIZZAZIONE DELLA CONQUISTA Roma conquistò territori e sottomise popoli e fin dal V secolo dovette affrontare il problema di come porsi nei confronti dei popoli vinti. - La progressione territoriale: Roma non seguì schemi rigidi, optando di volta in volta per l’uno o per l’altro a seconda delle differenti situazioni. La diversità delle soluzioni era imposta dalla varietà etnica e politica delle comunità e dall’ineguale grado di sviluppo dei paesi conquistati. La sua politica non fu accogliente nei confronti dei Latini, degli Italici o dei provinciali. I socii furono costretti ad una guerra per vedere riconosciuto il diritto alla cittadinanza. Roma non poteva immediatamente accordare a tutti i popoli vinti la piena cittadinanza e l’integrazione della res publica romana, perché le sue istituzioni non sarebbero state in grado di sostenere un governo diretto su aree troppo vaste. Roma era e restò la sede delle istituzioni centrali, il senato, le magistrature, le assemblee del popolo. Roma gestì con grande cautela facevano parte di una civitas autonoma, ne erano cittadini a pieno diritti; se la loro città era stata distrutta essi non godevano più dei loro diritti locali e la loro condizione era fissata da Roma. Se erano peregrini dediticii, ossia appartenenti a popoli nemici che, vinti, avevano fatto deditio in fidem populi romani non potevano accedere in alcun modo alla cittadinanza. Lo straniero mancava di una tutela giuridica. Roma, per tutta l’età repubblicana, procedette con grande cautela nella concessione della cittadinanza agli stranieri; le concessioni individuali avevano un carattere personale. I socii italici restarono peregrini fino all’89 a.C ed ottennero l’integrazione nella civitas romana solo con lo scontro militare. Si dovette attendere Cesare nel 49 a.C perché la cittadinanza fosse data anche a tutta la Gallia Cisalpina che nel 42 a.C cessò di essere una provincia e divenne parte dell’Italia. Il 242 a. segnò un punto importante perché venne creato il pretore peregrino, col compito di risolvere il contenzioso giudiziario tra Romani e stranieri. Tale istituzione era una conseguenza del fatto che il dominio del Mediterraneo proiettava Roma in una dimensione di scambi commerciali vasti e richiamava persone dall’Italia e dai paesi mediterranei, commercianti ecc. 9. LO STATUTO DELLE COMUNITA Le comunità locali si trovano in una condizione giuridica diversa in relazione alla loro appartenenza o meno alla comunità romana. - I municipi e le prefetture: la definizione di municipium creava difficoltà già alla fine del II secolo d.C. Le fonti non ci danno una definizione univoca; a lungo si è sostenuto che la condizione di municipes si identificasse con quella di cives sine suffragio. Sono attestati però municipi a piena cittadinanza e municipi di cittadini senza suffragio. Humbert nel termine “municipio” vede definita una piccola comunità locale, che ha un’amministrazione civica autonoma e che tale amministrazione conserva. Il municipium prevede la coesistenza dell’integrazione nella civitas romana con il mantenimento dell’appartenenza ad una res publica distinta e autonoma. Roma non lasciò a tutti i municipi lo stesso grado di autonomia interno; tenne conto delle situazioni pregresse locali e dei vari modi con cui le comunità si erano rapportate a Roma. Il municipio veniva costituito attraverso una lex, emanata da Roma e che doveva contenere le norme cui attenersi nel governo locale. In alcuni casi invece veniva stipulato un foedus. Molti municipi conservarono le originarie magistrature, altri dovettero accogliere magistrature di tipo romano, altri ancora furono del tutto privati di ogni autonomia. Oltre alle magistrature elettive, nei municipi c’erano le assemblee popolari e il senato, costituito da ex magistrati che aveva competenze amministrative, religiose e anche militari. Nell’ager romanus vennero inviati dei praefecti; si vennero così costituendo dei distretti territoriali di natura giudiziaria che comprendevano municipi, con o senza suffragio, colonie e altri agglomerati minori privi di carattere cittadino in cui i prefetti esercitavano la giurisdizione, entro limiti superiori a quelli dei magistrati locali. - Le colonie romane e latine Roma si servì molto presto anche di un altro mezzo per accrescere il proprio controllo sul territorio dell’Italia: la deduzione di colonie sia romane che latine. La distribuzione di terre ai coloni avveniva attraverso il sistema della centuriazione. I terreni venivano disboscati e prosciugati per renderli coltivabili; poi venivano misurati e ripartiti dagli agrimensori per renderli coltivabili. Quando venivano misurati venivano delimitati da un reticolo di strade; i lotti erano distribuiti per sorteggio. Le colonie di cittadini romani erano piccole riproduzioni di Roma: il loro territorio era considerato parte del territorio cittadino, non avevano leggi proprie ma fruivano di quelle romane, e i coloni, iscritti alle tribù, potevano esercitare il loro diritto di votare (ma solo recandosi a Roma). La colonizzazione latina che Roma venne attuando fra il IV e il III secolo a.C, avvenne dopo lo scioglimento della Lega latina nel 338 a.C. Per costruire le sue colonie Roma perdette i propri cittadini e non pochi perché concesse ai suoi cittadini di andare a stabilirvisi, purchè rinunciassero alla cittadinanza romana per acquisire uno status giuridico particolare, la latinitas. Roma perdeva cittadini ma acquistava potenziali soldati di sicura lealtà. Le colonie latine erano città autonome con proprie leggi ed ordinamenti, con magistrature ed assemblee, sul modello di quelle centrali; avevano l’obbligo di fornire a Roma contributi in denaro e in uomini. I coloni romani invece, essendo cittadini, conservavano il diritto di votare nelle assemblee a Roma e la colonia romana era una parte ramificata di Roma. I coloni latini avevano solo alcuni privilegi: quello di sposare donne romane e di commerciare con i romani. La deduzione delle colonie era decisa da una legge, di norma un plebiscito dove si stabiliva il numero dei coloni, i lotti di terra da assegnare a ciascuno. La fondazione della colonia era fatta Etruscu ritu: uno dei tresviri tracciava con l’aratro il solco primigenio che segnava il perimetro delle mura, dopo aver preso gli auspici; poi un secondo solco definiva il perimetro complessivo del territorio coloniale. - Gli agglomerati minori: nei territori popolati dai cittadini romani ma privi di municipi e colonie si formarono centri di aggregazione di minore dimensione, i conciliabola e i fora. Talora sorsero spontaneamente, talora per iniziativa di magistrati da cui prendevano il nome. Erano il punto di incontro tra abitanti di villaggi e fattorie sparse. Col tempo, questi centri minori ebbero una loro organizzazione. Nella maggior parte dei territori italici e in ampie zone dell’Italia centro meridionale, esisteva un sistema di insediamento incentrato intorno ad un pagus, il punto di riferimento territoriale e amministrativo. Nei territori periferici, popolazioni cittadine prive di organizzazione, gruppi etnici e tribali, potevano essere amministrativamente aggregati ad un vicino centro urbano, di cui però non condividevano lo stato giuridico. - Le province: fin dall’indomani della conquista della Sicilia (241 a.C) Roma creò la provincia. Il termine indicava in origine la sfera di competenza di un magistrato fornito d’imperium. Il significato territoriale del termine si precisa tra il II e I secolo a.C. Per la prima volta il concetto di provincia venne associato stabilmente a territori quando la Sicilia e la Sardegna vennero affidate a due pretori; passò poi a designare un distretto territoriale che, dopo la conquista, era affidato all’amministrazione di un magistrato e poi di un pro magistrato che aveva nelle sue mani poteri militari e civili. Lo statuto della provincia era fissato, in genere, da una legge data dal generale vittorioso o dal magistrato incaricato del governo. Alcune province ricevettero la lex provinciae soltanto molto tempo dopo la loro costituzione. La situazione delle province quindi non fu mai del tutto omogenea. Le città provinciali potevano avere tre tipi di statuti: civitates foederatae, liberae et immunes, stipendiariae. Gli abitanti erano dei peregrini. Il suolo restava in godimento degli antichi proprietari ma dietro il pagamento di un tributo. Il governatore della provincia, che a partire dalla metà del II secolo a.C, è un pro magistrato, era assistito da legati e da un questore incaricato dell’amministrazione finanziaria. Governatore e collaboratori non erano retribuiti dallo stato e per questo cercavano tutti i mezzi per recuperare il denaro perso; il sistema con cui Roma raccoglieva le imposte era piuttosto singolare e si prestava a molti abusi. Infatti lo stato affidava l’incarico di riscossione a privati appaltatori, che anticipavano le somme a Roma, prendendo poi dai provinciali denari in più come loro guadagno. In origine per la persecuzione di tali abusi non esisteva una via legale ben definita; in certi casi, i danneggiati fecero ricorso al senato, in altri ai tribuni della plebe. Una svolta si ebbe nel 149 a.C quando venne approvata una legge che prevedeva che le accuse di malversazione mosse contro magistrati romani dovessero essere portate davanti a una corte di giustizia permanente composta da senatori e presieduta dal pretore peregrino. Da un lato si offrì ai provinciali la garanzia di un organo stabile cui rivolgersi, dall’altro però il fatto che le giurie fossero di senatori portò a tante scandalose assoluzioni. 10. LA GUERRA SOCIALE E IL PROCESSO DI MUNICIPALIZZAZIONE DELL’ITALIA All’inizio del I sec a.c scoppiò una crisi politica che coinvolse gran parte del mondo italico. Al centro era la richiesta degli alleati di partecipare ai quei benefici che spettavano solo ai cittadini romani. La guerra che ne derivò si concluse con la concessione della cittadinanza ai socii. Questo portò a una nuova organizzazione amministrativa. - La concessione della cittadinanza ai socii latini e italici Gli alleati cominciarono a richiedere, con sempre maggiore insistenza, la cittadinanza romana, che avrebbe significato la soppressione del tributo, la partecipazione alle concessioni di grano a basso prezzo, la distribuzione di bottino e terre, un ruolo attivo nella politica romana. Dal 91 a.C all’88 si svolse la guerra detta appunto sociale. Roma si trovò in gravi difficoltà, mentre il territorio dell’Italia subì molte devastazioni e si moltiplicarono gli episodi di massacri della popolazione civile. Fu quindi costretta a cedere e con una serie di leggi accordò la cittadinanza agli alleati. Prima, con la legge Iulia del 90 a.C, divennero cittadini tutti i latini e gli alleati che non avevano preso le armi contro Roma. Altre due leggi successive completarono queste concessioni: il risultato fu che tutti gli abitanti liberi d’Italia in pochi decenni divennero cittadini romani. - La riorganizzazione amministrativa dell’Italia A seguito della concessione della cittadinanza ai soci latini ed italici, Roma dovette avviare un profondo processo di riorganizzazione amministrativa dell’Italia peninsulare, dal momento che si trattava di incorporare territori e collettività diverse storicamente. Il modello fu quello del municipium. Nelle zone in cui erano già da tempo presenti ordinamenti cittadini autonomi, l’intervento di Roma consistette nel trasformare le comunità cittadine in municipi, sopprimendo o riadattando le costituzioni vigenti e riorganizzando le magistrature preesistenti e ridefinendo il ruolo dei consigli locali. Nelle zone in cui erano diffusi insediamenti Roma dovette intervenire in modo più complesso: tra i villaggi vennero guidare lo stato e ispirarne la politica, e proponeva sé stesso per quel ruolo; ma nel 43 a.C Antonio lo fece uccidere. - La monarchia di Cesare: Cesare, rientrato a Roma, dopo aver battuto Pompeo a Farsalo nel 48 a.C e sbaragliato in Africa e in Spagna gli ultimi resti dei pompeiani, ottenne poteri eccezionali: nel 49 a.C disponeva ancora dell’imperium proconsolare e ad esso si aggiunse una dittatura. Nel 48 a.C ottenne regolarmente il consolato ma dopo la battaglia di Farsalo nel 47 gli fu attribuita la dittatura con poteri costituenti. Nel 48 a. c si fece dare i poteri dei tribuni della plebe, tra il 45 e il 44 il valore della loro sacrosanctitas e in tal modo associò quindi la doppia legittimità delle magistrature del popolo e di quelle della plebe. All’inizio del 44 si fece nominare dittatore a vita. Cesare si era quindi assicurato un potere assoluto come mai nessuno aveva avuto. Le soluzioni a cui Cesare ricorse sul piano istituzionale sono le stesse che avevano usato i suoi predecessori. A Cesare mancava solo la corona di re, che aveva rifiutato, ma i segni di una monarchia ellenistica c’erano tutti: battere monete con la sua effigie, sue statue nei templi, attribuzione del nome ad un mese. Tutti gli organi tradizionali erano piegati ai suoi voleri; le assemblee popolari erano svuotate di valore, i magistrati erano designati da Cesare. Ci furono anche forti interventi sul piano sociale (distribuzione di terre ai veterani, deduzione di colonie, riorganizzare le distribuzioni gratutite di grano); estese anche ai Cisalpini la cittadinanza romana, unificando così l’Italia. Fu assassinato il 15 marzo del 44 a.C perché i congiurati non avevano altro progetto che uccidere un monarca e restaurare la libertà repubblicana. - Il triumvirato costituente: nel 43 a.C per Antonio, Ottaviano e Lepido che miravano a spartirsi il potere fu inventata una nuova magistratura, il triumvirato rei publicae constituendae, per la necessità di dividere per tre il potere. Il loro potere era quello di governare gli affari dello stato senza il concorso del senato e del popolo, di ripartirsi le province, di ordinare senza processo o motivazione legale l’uccisione di un cittadino romani. Le legge Titia del 43 a.c doveva attribuire ai triumviri tutte le prerogative dell’imperium consolare e proconsolare. Il regime instaurato dai triumviri si poneva al di fuori del quadro politico e istituzionale. 12. LO SVILUPPO DELLA GIURISPRUDENZA E LE PROCEDURE GIUDIZIARIE - Il diritto giurisprudenziale: i pontefici furono i primi conoscitori delle regole del diritto. Nel corso del IV secolo a.C il diritto si laicizzò, ma resta all’interno delle famiglie aristocratiche. Negli ultimi decenni del III secolo ci fu il passaggio importante dall’oralità alla scrittura. Quinto Mucio Scevola scrisse un trattato in 18 libri che diventerà il punto di riferimento per i successivi scrittori di diritto civile. La fine della repubblica segnò un mutamento del reclutamento dei giuristi: le carriere giuridiche si aprirono a cavalieri, agli italici dei municipi. - L’editto del pretore: fra il III e il II secolo a.C venne assumendo sempre più spazio il ruolo del pretore nel processo di produzione del diritto. Già nel 242 o poco dopo il pretore peregrino iniziò a redigere il suo editto che era il suo programma giudiziario per il suo anno in carica; in esso fissava i criteri in base ai quali avrebbe amministrato la giustizia. Alla fine della repubblica questo editto aveva assunto sempre più importanza e l’ordinamento giuridico aveva assunto una struttura bipartita: si fondava sia sul diritto civile (fondato intorno al 140 a.C) che su quello pretoriano. - Il processo per formulas: era una nuova procedura processuale che dovette sorgere dapprima nella prassi del pretore peregrino, nei processi tra stranieri e cittadini. Che cos’è la formula? Si tratta delle istruzioni che il magistrato fissa, in collaborazione con le parti, e che affida al giudice, determinando l’oggetto della causa. Il magistrato avvia azioni nuove, creando un diritto nuovo. Sparirono le formule rigide e fisse e tutto ciò portò a una sempre maggiore valorizzazione del ruolo dei giuristi, chiamati ad elaborare formule idonee. - Le quaestiones perpetuae: nel corso del II secolo a.c. furono istituiti commissioni speciali e tribunali, per indagare su questioni particolari che mettevano in gioco gli interessi di Roma. Nel 149 alcune leggi avevano istituito altre quaestiones, questa volta perpetuae, destinate ad essere permanenti. Una di queste era la quaestio de repetundis che aveva avuto l’incarico di intervenire in caso di malversazioni. I giudici erano senatori ed erano più indulgenti quando si trattava di altri senatori, quindi i tribunali divennero luoghi di conflitti politici violenti. Nel 103 a.C il tribuno della plebe Saturnino istituì una nuova corte criminale, la questio de maiestate, incaricata di giudicare i magistrati colpevoli di aver attentato ai diritti del popolo. Silla disegnò un sistema penale chiaro e netto, tale da potere garantire in tempi rapidi la repressione di quei reati di forte valenza politica che erano pericolosi per l’equilibrio della res publica. GERACI MARCONE – PARTA QUARTA: L’IMPERO DA AUGUSTO ALLA FINE DEL II SECOLO CAPITOLO 1: AUGUSTO Nel 31 a.C. Ottaviano si trovò a essere padrone assoluto dello Stato romano e ad affrontare la difficile questione della veste legale da dare al suo potere. Egli rappresenta una cesura fondamentale nella storia romana e le forme che scaturirono dalla duratura presenza del primo imperatore sulla scena politica sono state frutto di continui aggiustamenti e ripensamenti connessi a una logica di fondo; ciò che noi chiamiamo impero non è stato fondato e concepito unitariamente in un solo momento ma si è definito e consolidato per tappe successive. Convenzionalmente con il 31 a.C. si suol fare iniziare il principato, cioè il regime istituzionale incentrato sulla figura di un reggitore unico del potere, il princeps. Arriva così a compimento il processo di personalizzazione della politica che era iniziato nella tarda Repubblica con l'emergere di figure di politici e generali che avevano affermato il proprio potere personale. La razionalizzazione dell'amministrazione attuata da Augusto e dei suoi successori, la progressiva integrazione in Senato dell'Elite delle diverse regioni dell'impero fa sì che la storia romana a partire da Augusto divenga sempre più storia dell'impero, intesa come storia del rapporto dell'integrazione di territori e popolazioni rispetto al centro del potere. Il ritorno in Italia di Ottaviano in agosto del 29 fu segnato dalla celebrazione di tre trionfi: per le campagne dalmatiche del 35 33, per la vittoria di Azio, per la vittoria sull'Egitto. Dell'anno 31 al 23 a.C. Ottaviano Augusto venne interrottamente eletto console; il processo di riconoscimento giuridico della nuova forma istituzionale iniziò solo nel 27 a.C. quando il 13 gennaio in una famosa seduta del senato egli rinunciò formalmente a tutti i suoi poteri straordinari, accettando solo un Imperium proconsolare per 10 anni sulle province non pacificate cioè la Spagna, la Gallia, la Siria, la Cilicia, Cipro e l'Egitto. Qualche giorno dopo il Senato lo proclamò Augusto, epiteto che lo proiettava in una dimensione sacrale e religiosa. Si aggiunsero la concessione della corona civica fatta di foglie di quercia, e l'onore di uno scudo d'oro sul quale erano elencate le virtù di Augusto. Per comprendere meglio il suo potere egli scrisse anche le Res Gestae, cioè un vero testamento politico che egli redasse verso la fine della sua esistenza. Indubbio è l'alone carismatico che circondava la sua persona e che ne faceva davvero il principe cioè il primo uomo dello Stato. La nuova organizzazione dello Stato rappresentava il definitivo superamento delle istituzioni, ormai non più adeguate, della città stato. Il principe era il punto di riferimento di questa nuova realtà imperiale composta dall'esercito, dalle province, dal Senato e dalla plebe urbana. La crisi del 23 a.C Augusto alternava dei periodi di circa tre anni di permanenza nelle province e periodi di circa due anni di permanenza a Roma, per dimostrare di provvedere con solerzia alla pacificazione dei territori provinciali che gli erano stati assegnati dal Senato. Nel 23 a.C. si verificò una grave crisi in Spagna perché egli si era seriamente ammalato e questo chiamava in causa un problema delicato: la successione del principe. Il linea di principio il problema non esisteva perché i poteri conferiti ad Augusto non erano trasmissibile ad altri quindi con la sua morte la gestione della cosa pubblica sarebbe tornata agli organi istituzionali dello Stato. La situazione che si era venuta creando presupponeva però che alla testa dello Stato ci fosse una sola persona. La scomparsa prematura di Augusto avrebbe potuto riaprire il flagello delle guerre civili ed egli, essendone consapevole, aveva già iniziato a far progredire politicamente alcuni membri della sua famiglia per farli diventare suoi successori. In assenza di figli maschi Giulia, sua unica figlia, era divenuta il fulcro delle sue strategie politiche: i suoi progetti puntarono prima sul genero Marcello che aveva sposato Giulia ma Marcello morì e Giulia fu data in moglie ad Agrippa. Per questa ragione Augusto introdusse delle correzioni che definirono la sostanza dei poteri imperiali: egli depose il consolato e ottenne un imperio proconsolare maius che gli consentiva di agire con i poteri di un magistrato su tutte le province. anche opere di storici come Tito Livio o Virgilio che nelle sue opere canta la pace che il nuovo regno ha garantito e nell'Eneide celebra Enea come antenato di Augusto. Anche in Orazio, Properzio, e Ovidio si riflette la propaganda dell'epoca con temi come l'estensione del dominio di Roma, la sottomissione dei popoli non ancora assoggettati, la vendetta sui parti. L'adesione degli intellettuali al programma del principe si doveva in gran parte a Mecenate. C'erano anche voci dissidenti come Asinio Pollione o lo storico greco Timagene. Altri momenti importanti di esaltazione della figura di Augusto furono le celebrazioni di particolari ricorrenze e l'istituzione di un vero e proprio culto della sua persona: per le prime possiamo ricordare la celebrazione dei Ludi secolares tenutisi nel 17 per proclamare la rigenerazione di Roma mentre per quanto riguarda la celebrazione della persona di Augusto il suo nome era inserito nelle preghiere del collegio sacerdotale dei Salii, il suo compleanno era celebrato pubblicamente e nelle province orientali venne istituito un vero e proprio culto. CAPITOLO DUE: I GIULIO CLAUDI La morte di Augusto avvenne in Campania nel 14 d.C. e le sue ceneri furono tumulate nel mausoleo fatto costruire in Campo Marzio. Tiberio in Senato fece presente come per lui sarebbe stato difficile assumere la somma dei poteri del padre e suggerì al Senato di affidare la cura dello Stato a più persone; ma il Senato lo spinse ad accettare i poteri e le prerogative che erano stati di Augusto e Tiberio alla fine acconsentì. Questo rivelò l’impossibilità da parte del Senato di concepire un ritorno alla repubblica senza la presenza di una parallela autorità di un singolo che ereditasse l’auctoritas e l’iniziativa politica di Augusto. Tra il 14 e il 68 d.C. per circa mezzo secolo il potere rimase all’interno della famiglia Giulio Claudia, cioè di discendenti della famiglia degli Iulii(Augusto e Cesare) e di quella dei Claudii (della famiglia di Tiberio Claudio Nerone il primo marito di Livia, l’ultima moglie di Augusto). Augusto aveva precostituito una successione affiancando al figlio di Tiberio, Druso minore, Germanico, figlio di Druso maggiore e di Antonia figlia di Marco Antonio di Ottavia, la sorella di Augusto, facendolo adottare da Tiberio; ma Germanico morì nel 19 d.C., Druso minore nel 23 e la successione andò a favore di Gaio detto Caligola, il figlio di Germanico e Agrippina. Caligola non era stato adottato da Tiberio e non aveva condiviso con lui né Imperium proconsolare ne potestà tribunizia. Era una designazione che si basava solo sulla linea familiare attingendo dal ramo della famiglia di Germanico piuttosto che da Tiberio. Caligola discendeva dunque per linea femminile da Augusto e per linea maschile dai Claudii e per ironia della sorte anche da Marco Antonio. Alla morte di Caligola il potere rimase nella famiglia di Germanico passando a un membro della generazione precedente sempre però all’interno del ramo familiare discendente da Antonio e Druso maggiore, cioè a Claudio, fratello di Germanico. L’ultimo esponente della dinastia fu Nerone con cui entrò nella storia una famiglia nobiliare diversa, quella dei Domizi. Nerone infatti era figlio di un aristocratico estraneo alla famiglia di Augusto, Cneo Domizio Enobarbo; fu erede della famiglia Claudia e di quella Giulia solo per parte di madre, in quanto figlio di Agrippina minore e per adozione: fu adottato infatti da Claudio. TIBERIO 14-37 d.C Anche se le fonti storiografiche sono ostili a questo imperatore, il suo governo fu sostanzialmente una positiva prosecuzione di quello augusteo; la volontà di Tiberio era quella di rispettare le forme di governo repubblicano già valorizzate da Augusto e ebbe un’attenta gestione dello Stato, sia per quanto riguarda la libertà di magistrati a Roma, sia nel vegliare che le province non venissero sfruttate dai governatori. Tiberio fu un amministratore accorto dello Stato e con lui arrivò a definitivo compimento la modifica del sistema elettorale, con il passaggio delle votazioni dai comizi a partecipazione popolare al Senato; Tiberio si trovò a fronteggiare una opposizione che rivendicava l’autonomia decisionale del Senato. Tiberio non perseguì ampliamenti territoriali ma all’interno del suo regno si ebbe la stabilizzazione della frontiera Renana. Per impedire a Germanico di proseguire il suo disegno di conquista in Germania lo mandò in Siria dove dovette condividere il comando dell’esercito con il pro console Calpurnio Pisone; tra i due insorsero gravi contrasti cosicché quando Germanico morì improvvisamente si sospetto che fosse stato ucciso su istigazione di Pisone. Morto Germanico si aprì a Roma un contrasto politico tra Tiberio e Agrippina e si trattava di affrontare anche il problema della successione alla quale erano candidati il figlio di Tiberio, Druso minore, ma anche uno dei tre figli di Germanico. La svolta nel regno di Tiberio si ebbe a partire dal 23 d.C., quando il prefetto del pretorio Seiano inizio a crearsi un forte potere personale. Discendente di una famiglia di potenti cavalieri Seiano accrebbe il suo potere concentrando le truppe pretoriane a Roma e guadagnandosi la fiducia di Tiberio. Tiberio nel 26 aveva deciso di lasciare Roma per rifugiarsi a Capri ma Seiano riuscì a monopolizzare i contatti con lui e dopo la morte di Livia nel 29 d.C. dominò di fatto la vita politica di Roma influenzando in modo determinante le decisioni dell’imperatore. Aspirò anche alla successione perché chiese di sposare Livilla, la vedova del figlio di Tiberio Druso e nel 31 dichiarò Agrippina nemico pubblico e imprigionò i suoi due figli maggiori. Antonia, la madre di Germanico, riuscì allora a risvegliare in Tiberio i sospetti su sei Jano che fu arrestato, processato e giustiziato. Gli ultimi anni del regno di Tiberio non furono felici: ci fu una crisi finanziaria e si acuirono i contrasti con il Senato. Agrippina si suicidò i suoi due figli maggiori furono uccisi quindi come possibili successori rimanevano Tiberio Gemello, figlio di Druso minore, e Gaio, detto Caligola unico sopravvissuto dei figli di Germanico. Tiberio nominò entrambi eredi congiunti ma alla sua morte nel 37 d.C. il Senato riconobbe come unico erede Caligola che adottò Tiberio Gemello, ancora minorenne ma il ragazzo fu eliminato in quello stesso anno. CALIGOLA 37 - 41 d.C L’impero di Caligola fu breve ed è ricordato per le sue stravaganze. Inizialmente fu accolto con grande entusiasmo e si appoggiò al consenso dei pretoriani e della popolazione di Roma, inaugurando una politica di donativi, spettacoli e piani edilizi, che portò all’esaurimento delle riserve finanziarie lasciate da Tiberio. Ma l’atteggiamento del Senato era freddo e Caligola era considerato un folle tiranno, scarsamente interessato al governo dell’impero e preoccupato solamente di rafforzare il suo potere personale. Le fonti imputano alla malattia mentale di Caligola la sua inclinazione verso forme di dispotismo orientale ma la storiografia attuale tende a mettere in luce la tradizione familiare gentilizia dell’imperatore, che ereditava la linea di Antonio e di Germanico e faceva propri elementi della concezione orientale monarchica. Si colloca forse in questo contesto la decisione di fare uccidere nel 40 d.C. il re di Mauritania l’ultimo discendente di Antonio; l’episodio diede inizio a una guerra che si concluse solo sotto Claudio. In politica estera Caligola si curò di ripristinare in oriente un sistema di Stati cuscinetto, con i cui sovrani aveva relazioni personali di amicizia ereditate da Marco Antonio, attraverso la nonna Antonia. Con gli ebrei nacque uno dei conflitti meglio documentati dell’età di Caligola: l’imperatore volle porre una propria statua nel tempio di Gerusalemme suscitando le proteste della popolazione che lo considerava un gesto sacrilego. Nel gennaio del 41 d.C. Caligola cadde vittima di una congiura organizzata dei pretoriani. La sua morte evitò che scoppiasse il conflitto in Giudea e pose fine ai dissidi nelle città orientali. CLAUDIO 41 54 d.C Il successore di Caligola fu suo zio Claudio, presentato delle fonti antiche come uno sciocco e un inetto, dedito a manie erudite. In realtà il suo regno sembra contraddire questa presentazione per le sue realizzazioni in politica interna e per quelle in politica estera. A Claudio si deve una significativa riforma: l’amministrazione centrale fu divisa in quattro grandi uffici: un segretariato generale e altri tre, uno per le finanze, uno per le suppliche, e uno per l’istruzione dei processi da tenersi davanti all’imperatore. A capo di questi dipartimenti vennero chiamati dei liberti. Egli cercò anche nuove soluzioni ai problemi di approvvigionamento granario e idrico che periodicamente affliggevano Roma; costruì il porto di Ostia per consentire l’attracco alle navi granarie e l’organizzazione del servizio delle distribuzioni granarie fu tolta alla responsabilità del Senato e assegnata al prefetto dell’annona. Costruì un nuovo acquedotto e bonificò la piana del Fucino. Mostrò anche interesse per le province infatti tenne un’orazione per la concessione ai notabili della Gallia Comata del diritto di accesso al Senato; concesse la cittadinanza ad alcune popolazioni alpine. Nella prima parte del suo principato Claudio dovette risolvere le questioni lasciate aperte da Caligola: affrontò la guerra in Mauritania a cui pose fine con l’organizzazione del regno in due province. I privilegi delle comunità ebraiche nelle città orientali furono ristabilite, tutelando allo stesso tempo le città greche, in modo da evitare conflitti tra i due gruppi. Per evitare disordini e tumulti espulse gli ebrei da Roma nel 49 d.C. La sua imprese militare più rilevante fu nel 43 la conquista della Britannia meridionale che fu ridotta a provincia. Il regno di Claudio è caratterizzato dagli intrighi di corte: egli aveva sposato in terze nozze la dissoluta Messalina da cui ebbe un figlio, Britannico. Accusata di intrigare contro il marito, Messalina fu messo a morte nel 48 d.C. e allora Claudio sposò la nipote Agrippina, la quale riuscì a far adottare dall’imperatore il figlio avuto da suo precedente matrimonio. Nel 54 Agrippina per assicurare al figlio la successione al trono avvelenò Claudio. La società imperiale Alla base della concezione antica della società vi era l’assunto che vi dovesse essere una articolazione e una differenza formalmente riconosciuta dello status giuridico delle persone. Augusto aveva provveduto a differenziare le condizioni e le prerogative dei ceti dirigenti a Roma, senatori e cavalieri. Egli introdusse degli elementi di distinzione anche per i ceti dirigenti dei municipi. La schiavitù era divenuta un fenomeno caratteristico della società: schiavi erano impiegati nell’agricoltura dai proprietari di vaste tenute, ma vi era anche una notevole presenza di schiavi domestici, impiegati in attività artigianali e, soprattutto tra gli schiavi di origine greca più istruiti nell’ambito dei servizi. Una categoria particolarmente origini modeste. L’esercito e le province iniziavano ad avere un ruolo sempre più rilevante. La crisi del 69 d.C. con quattro imperatori (Galba, Ottone, Vitellio e Vespasiano) esponenti il primo dell’aristocrazia senatoria, il secondo dei pretoriani e gli ultimi due dell’esercito che si combatterono contro l’altro mostra come l’asse dell’impero si fosse spostato lontano da Roma e come le legioni fossero in grado di imporre il loro volere. L’alternativa che si pone tra successione dinastica la successione per adozione e tipica del II secolo d.C. GALBA: egli era un anziano senatore, governatore della Spagna Tarraconense. I suoi soldati lo proclamarono Cesare ma egli rifiutò il titolo imperiale, ritenendo che i militari non avessero alcun diritto a conferirlo. Galba fu riconosciuto imperatore e accettò il titolo da una delegazione di senatori, che lo incontrò nel suo viaggio di ritorno a Roma. Egli tuttavia non seppe guadagnarsi la popolarità e gli appoggi necessari per mantenere il potere. OTONE: egli era popolare soprattutto fra i pretoriani e l’ordine equestre. Dopo che i pretoriani ebbero linciato Galba nel foro ebbe anche il riconoscimento del Senato. Fu proclamato imperatore il 15 gennaio del 69 d.C. ma contemporaneamente le legioni sul Reno, non riconoscendo la sua autorità, proclamarono imperatore il proprio comandante, il legato della Germania inferiore Aulo Vitellio. VITELLIO: Egli era un senatore di rango consolare che aveva rivestito incarichi importanti sotto tutti i Giulio Claudi. Ebbe presto il sostegno degli altri eserciti della Germania ma anche della Gallia e della Spagna. I suoi legati sconfissero le truppe di Otone il 14 aprile del 69 d.C., nella battaglia di Bedriaco, presso Cremona prima che le legioni danubiane potessero arrivare in sostegno di Otone, il quale il giorno successivo alla battaglia si suicidò. Vitellio ebbe grandi difficoltà a frenare i soldati che avevano combattuto per Otone e anche a controllare la disciplina dei propri, che si diedero a saccheggi e devastazioni. I pretoriani furono congedati in gran numero e rimpiazzati con soldati provenienti dalle regioni renane. A questo punto le legioni orientali e quelle danubiane si ribellarono a Vitellio proclamando imperatore Vespasiano. VESPASIANO: Egli apparteneva a una famiglia italica di Rieti. Nerone lo aveva mandato a sedare la rivolta scoppiata in Giudea nel 66 e il 1 luglio del 69 d.C. il prefetto di Egitto organizzò la sua proclamazione a imperatore da parte delle truppe stazionate ad Alessandria. Segui l’acclamazione da parte degli eserciti presenti in Giudea, dove effettivamente si trovava, poi dalle legioni della Siria. Le legioni danubiane e quelle siriane marciarono verso l’Italia e sconfissero i vitelliani e il 21 dicembre Vitellio fu ucciso. Mentre si trovava ancora in Egitto vespasiano fu riconosciuto imperatore dal Senato. La dinastia Flavia 69-96 d.C Con Vespasiano iniziò la dinastia dei Flavi che comprende il periodo di impero di Vespasiano stesso e dei suoi due figli Tito e Domiziano. L’idea della trasmissione dinastica del potere sarà celebrata attraverso l’esaltazione dell’eternità dell’impero, ovvero della stabilità dell’istituzione imperiale. La dinastia durò fino al 96 d.C. quando la politica di Domiziano suscito una tale opposizione da portare alla sua uccisione e alla proclamazione di un nuovo princeps, un esponente del Senato che sapesse conciliare il principato con il rispetto della Libertas senatoria. VESPASIANO (69 79 d.C) I tre imperatori della dinastia Flavia ebbero un’indole diversa tra loro ma tutti si contraddistinsero per un rigido impegno dell’amministrazione imperiale. Il principato di Vespasiano rappresenta un sensibile progresso nella razionalizzazione dei poteri dell’imperatore e nel definitivo consolidamento dell’impero come istituzione. Vespasiano si associa già nel 71 d.C. il figlio Tito con il titolo di Cesare e indica il suo orientamento per una rigida successione dinastica. L’autorità del nuovo princeps fu definita da un decreto del Senato approvato dei comizi e nel decreto si elencano tutti i poteri del princeps che erano stati via via acquisiti da Augusto e dai Giulio Claudi. Vespasiano dovette fronteggiare il grave deficit nel bilancio provocato dalla politica di Nerone della guerra civile. I provvedimenti presi gli diedero nelle fonti la fama di imperatore tirchio ed esoso ma in realtà si rivelò un ottimo amministratore: estese ai cavalieri la responsabilità di alcuni uffici della burocrazia, estese la cittadinanza ai provinciali e reclutò sempre più spesso i legionari dalle province. Concesse il diritto latino alle città peregrine della Spagna e immise in senato numerosi esponenti delle elite delle province occidentali. Il denaro per la ricostruzione del Campidoglio e per le nuove opere edilizie a Roma, tra cui la costruzione del Colosseo e del Foro della pace, venne anche dal bottino di guerra, specialmente quella giudaica. Nel 70 d.C. Tito si impadronì di Gerusalemme e distrusse il famoso tempio. Gli ultimi focolai di resistenza furono annientati nel 73 74 d.C. con la distruzione delle ultime fortezze. All’inizio del suo regno fu stroncata anche la rivolta di un capo batavo , Giulio civile, che nel 70 d.C. aveva dato vita a un impero Gallico lungo la valle del Reno. Negli anni del suo impero Vespasiano ristabilì definitivamente l’ordine nelle zone di confine, sul Danubio e in Britannia. In quest’ultima provincia riprese una politica di estensione, opera che fu portata a termine da Cneo Giulio Agricola sotto il principato di Domiziano. In oriente abbandonò definitivamente la politica dei regni clienti, aggregandoli i territori alle province esistenti o creando delle nuove province. TITO 79 - 81 d.C Anche per la successione Vespasiano segui il sistema avviato da Augusto. Tito ricoprì incarichi importanti insieme al padre, fu proconsole dal 71 d.C. e ricevette anche la potestà tribunizia, i titoli di Augusto, il padre della patria; nel 79 d.C. alla morte del padre l’avvicendamento avvenne senza problemi. Il breve regno di Tito fu funestata da gravi calamità naturali, tra cui la rovinosa eruzione del Vesuvio. La popolarità di Tito era legata a una politica di munificenza. DOMIZIANO 81-96 d.C La fama di Domiziano risente dell’ostilità della tradizione storiografica perché il suo regno è contraddistinto da uno stile di governo autocratico ma la sua azione politica fu efficace e benefica per l’impero. Egli si preoccupò infatti dell’amministrazione delle province, di reprimere gli abusi dei governatori e di promuovere i compiti burocratici e del ceto equestre. La scelta di rinunciare a ulteriori conquiste militari a favore di operazioni di consolidamento della frontiera sul Reno,sul Danubio, in Britannia risultò realistica e lungimirante. Dopo una campagna combattuta nell’83 d.C. in Germania il territorio conquistato fu controllato attraverso l’impianto di accampamenti fortificati, collegati tra loro da una rete di strade. In questo periodo fu segnata la linea esterna di confine oltre il Reno attraverso la costruzione di imponenti opere difensive. Domiziano provvedeva anche alla sicurezza di tutta la zona sud della linea del limes. Si inaugura così un sistema di difesa dei confini che a partire da Adriano fu impiegato in tutto l’impero. La parola limes, che nel I secolo disegnava le strade che si incontravano nei territori non ancora conquistati, posso adesso ad assumere il significato di frontiera artificiale, in cui le strade limitanee servivano a collegare tra loro gli accampamenti e di fatto a disegnare la linea di separazione tra l’impero e territori esterni. In alcune zone l’articolazione delle strade militari e dei forti che costituivano il limes fu tracciata a rete così da includere le zone in cui erano ancora possibili le coltivazioni agricole ma da consentire il controllo delle popolazioni nomadi e dedite alla pastorizia. In altri casi come in quello del vallo di Adriano il limes fu costituito da una linea di castra fortificati, collegati tra loro e difesi a nord da un vero e proprio muro di pietra. Nell’85 d.C. si andò profilando il problema della Dacia, la regione trans danubiana corrispondente all’attuale Romania, nella quale il re Decebalo, aveva unificato le tribù e le aveva guidate in incursioni contro il territorio romano. Una prima campagna non ebbe successo e la seconda guidata da Domiziano in persona non portò a risultati definitivi a causa della rivolta di Saturnino, governatore della Germania superiore, proclamato imperatore dalle sue legioni. Domiziano fu costretto a stipulare una pace provvisoria e Decebalo a concludere un foedus in cui accettava di dipendere dall’impero romano, ricevendo in cambio una corresponsione in denaro. La rivolta di Saturnino fu domata dal legato della Germania inferiore, ma Domiziano si recò in Germania per punire severamente i rivoltosi. La rivolta di Saturnino ebbe pesanti ripercussioni sulla politica di Domiziano, che anche nel periodo successivo inaugurò persecuzioni ed eliminazioni di persone sospettate. Lo stile autocratico costò caro a Domiziano che cade vittima nel 96 d.C. di una congiura. Il Senato dopo la sua morte ne proclamò la damnatio memoriae e decretò che fossero abbattute tutte le statue, cancellato il suo nome dalle iscrizioni, distrutto ogni suo ricordo. Il sorgere del cristianesimo Il cristianesimo nasce dall’ebraismo e viene formandosi come religione strutturata nel corso del I e del II secolo, scaturita dalla predicazione del suo fondatore, Gesù Cristo. Le prime comunità cristiane sorsero in seguito alla predicazione di Gesù, alla diffusione del suo messaggio e all’annuncio della sua risurrezione dei morti. Il cristianesimo primitivo iniziò come movimento all’interno del giudaismo, in un periodo in cui gli ebrei già da tempo si trovavano sotto la dominazione straniera. Ci furono due grandi rivolte ebraiche contro i romani negli anni 66 70 d.C. con la caduta del tempo di Gerusalemme e del 132 135 d.C. quando fu rasa al suolo Gerusalemme stessa. Per la maggior parte degli ebrei si trattava dunque di scegliere tra i farisei e il cristianesimo; i primi si dedicavano alla meticolosa osservanza della legge di Mosé, il secondo proponeva la religione che aveva il suo fondamento nella fede in Cristo come valida per tutto l’umanità. Nel I secolo d.C. la figura che si impone sugli altri è a quella dell’apostolo Paolo di Tarso che si convertì repentinamente alla fede cristiana. Le comunità cristiane si organizzarono in un primo tempo in forme diverse nelle singole città. L’autorità romana imperiale aveva affrontato la questione giudaica senza distinguere tra i vari momenti, considerandolo un problema di nazionalità piuttosto che di religione. Augusto aveva infatti garantito a tutte le comunità ebraiche dell’impero la possibilità di conservare i propri costumi ancestrali, di praticare il proprio culto e di mantenere i legami con il centro di riferimento che era costituito dal tempio di Gerusalemme. In questo modo le comunità giudaiche nelle città dell’impero, non erano assimilate al resto della cittadinanza. In diverse occasioni le comunità ebraiche furono avvertite come elemento estraneo: sotto Tiberio gli ebrei furono espulsi da Roma perché la diffusione dei culti stranieri veniva vista in contrasto con il mos maiorum; Caligola provocò una crisi gravissima nei rapporti con i giudei a causa del culto dell’imperatore vivente; Claudio nel 49 espulse gli ebrei pubbliche e sociali sia in Italia che nelle province. Egli mostrò grande interesse anche per la frontiera orientale e istituì la provincia d’Arabia, grazie alla quale Roma acquisiva anche il controllo della via commerciale di mare per l’India. Nel 114 d.C furono anche occupate l’Armenia, l’Assiria e la Mesopotamia. Nessuna di queste conquiste però ad eccezione della Dacia ebbe fortuna; Traiano, chiamato ad affrontare una rivolta degli Ebrei scoppiata in Mesopotamia, decise di abbandonare le nuove conquiste, ma morì in Cilicia dopo essersi ammalato sulla via del ritorno verso Roma. Le truppe acclamarono il governatore della Siria, Adriano. Secondo alcune fonti Traiano lo adottò come suo successore sul letto di morte, ma molti altri autori sostengono che l’atto di adozione sarebbe stato completato dalla moglie di Traiano. Il regno traianeo è caratterizzato anche da un marcato interesse per i bisogni dell’Impero e della stessa Italia. La piena attuazione del programma di sussidi alimentari ideato forse già da Nerva documenta la liberalità dell’imperatore che si prendeva cura dei ragazzi bisognosi dei comuni italici, ma indirettamente anche le difficoltà che l’agricoltura stava incontrando. ADRIANO 117 – 138 d.C Per il regno di Adriano non disponiamo di un’adeguata opera storiografica; possediamo l’epitome di Cassio Dione e una biografia contenuto nella Historia Augusta, una raccolta di vite degli imperatori del II e del III secolo. La famiglia di Adriano si era affermata nell’aristocrazia italica ed egli aveva percorso la carriera senatoriale a Roma, probabilmente grazie all’aiuto di Traiano che lo aveva voluto al suo fianco già nella prima guerra dacica come questore e in seguito come collaboratore nella guerra partica , assegnandogli l’incarico di governare la provincia di Siria. Adriano subito dopo la proclamazione da parte delle truppe e il riconoscimento da parte del Senato, decise di abbandonare la politica di controllo diretto delle nuove province orientali e preferì affidarle a sovrani clienti, mettendo fine alle guerre di espansione volute da Traiano. Tale nuovo corso probabilmente suscitava l’opposizione degli uomini che erano stati vicini a Traiano e quindi per acquistarsi la pubblica benevolenza Adriano si preoccupò di alleviare il malessere economico, cancellando i debiti arretrati contratti a Roma e in Italia con la cassa imperiale, facendo distribuzione al popolo, reintegrando il patrimonio di senatori che avevano perduto il censo e proseguendo il programma alimentare. Adriano fu un amministratore attento e un riformatore della disciplina militare, anche se aveva di mira più la pace che la guerra. Da profondo conoscitore dell’esercito ne rinvigorì la disciplina e favorì il reclutamento dei provinciali; creò infine delle nuove unità chiamate numeri, formate da soldati che conservavano gli armamenti e i sistemi di combattimento tradizionali delle popolazioni non romanizzate tra le quali erano reclutati. Adriano fu anche uomo di grande cultura e favori in ogni modo l’arte, la letteratura, dimostrando una spiccata predisposizione soprattutto per la civiltà ellenica. Fu un appassionato costruttore di palazzi e fondatore di nuove città. Volle restituire splendore ad Atene e alle Polis greche e passò gran parte del suo regno viaggiando attraverso le province; in Britannia iniziò la costruzione del vallo a difesa della zona meridionale e anche in Africa iniziò un’opera di fortificazione che aveva lo scopo di controllare gli spostamenti delle popolazioni nomadi. Nel 130 d.C. scoppiò in Palestina una gravissima rivolta, provocata dall’intenzione di Adriano di assimilare gli ebrei alle altre popolazioni dell’impero, manifestatasi attraverso la fondazione sul sito di Gerusalemme della colonia di Aelia Capitolina. Qui Adriano stesso avrebbe dovuto essere oggetto di culto in un tempio dedicato a Giove; la ribellione ebraica dovette essere avvertita come una grave minaccia per l’esistenza dell’impero. Adriano grazie ai sui viaggi acquisì una conoscenza dettagliata non solo delle diverse situazioni locali ma anche dei meccanismi del funzionamento finanziario amministrativo dell’impero. Si adoperò per una efficiente amministrazione della giustizia e a tale scopo l’Italia fu divisa in quattro distretti giudiziari assegnati a senatori di rango consolare. Inoltre egli avverti l’importanza del ceto equestre per l’amministrazione finanziaria e riorganizzò la carriera attraverso tappe di promozione prefissate. Introdusse una distinzione tra carriera civile e carriera militare ed estese il campo di azione dei cavalieri con l’impiego di procuratori equestri. Come successore Adriano scelse il console del 136 d.C. Lucio Elio Cesare che adottò; ma costui morì prematuramente quindi scelse un senatore della Galia Narbonense, Ario Antonino, il quale adottò a sua volta Lucio Vero, insieme al nipote della propria moglie cioè il futuro imperatore Marco Aurelio. ANTONINO PIO 138 - 161 d.C A differenza di Adriano questo imperatore privilegiò gli incarichi amministrativi piuttosto che i viaggi nell’impero. Il periodo del suo regno è sostanzialmente privo di grandi avvenimenti; egli ebbe rapporti buoni con il Senato, dal quale riuscì con qualche difficoltà a far divinizzare il suo predecessore e fu un coscienzioso e parsimonioso amministratore. Non furono recate minacce alla sicurezza dell’impero ma per sua volontà il vallo di Adriano in Britannia fu avanzato nella Scozia meridionale. Lo statuto delle città La città era il segno distintivo della civiltà rispetto alla barbarie. Nell’impero romano vi era una grande varietà di tipologie cittadine e soprattutto una grande diversità di statuti. Civitates in Occidente e Polis in Oriente erano organizzate secondo tre tipologie fondamentali: - Le città peregrine: erano quelle preesistenti alla conquista e alla loro riorganizzazione all’interno dell’impero. All’interno di questo gruppo si distinguono in città stipendiarie le quali pagano un tributo a Roma, città libere con diritti speciali, città libere federate cioè le città libere che hanno concluso un trattato con Roma su un piede di eguaglianza. - I municipi: un municipio è una città cui Roma ha concesso di elevare il suo status precedente di città peregrine e a cui abitanti è accordato o il diritto latino o quello romano. - Le colonie: in origine sono città di nuova fondazione con apporto di coloni che godono della cittadinanza romana su terre sottratte a città o popoli vinti. La colonia adotta il pieno diritto romano ed è organizzata a immagine di Roma. A partire da Claudio le città potevano ricevere lo status di colonia anche come privilegio onorario, senza che ci fosse un effettivo trasferimento nella città di nuovi coloni. L’estensione del diritto latino o della cittadinanza romana provocava l’integrazione dei provinciali nell’impero; ciò poteva avvenire per gradi, privilegiando i ceti dirigenti oppure attraverso il riconoscimento di uno statuto superiore accordato a singole città o intere regioni. Le città erano il punto di riferimento delle attività economiche e nuclei della vita culturale e riflettevano la molteplicità di culture, tradizioni, lingue e religioni che convivevano nell’impero. Le città fungevano da raccordo tra Roma e le diverse realtà locali dell’impero. MARCO AURELIO 161 - 180 d.C Marco Aurelio succedette ad Antonino ma appena salito al trono divise il potere con il fratello adottivo Lucio Vero. È il primo caso di doppio principato cioè della piena condivisione collegiale del potere da parte di due imperatori, posti su un piano di perfetta uguaglianza. All’inizio del regno di Marco si riaprì la questione orientale con il potente vicino partico. La guerra, condotta da Vero, si concluse vittoriosamente nel 166 d.C. ma fu causa indiretta della crisi che travaglio l’impero negli anni successivi. Infatti l’esercito tornato dall’Oriente portò con sé la peste che causò lutti e devastazioni. Lo sguarnimento della frontiera settentrionale creò le condizioni perché i barbari del Nord si facessero pericolosi e arrivassero ad assediare Aquileia. Marco Aurelio e Lucio Vero furono allora impegnati nella difesa della frontiera danubiana. Come risposta a questa situazione di emergenza si creò la praetentura Italiae et Alpium cioè la “difesa avanzata dell’Italia delle Alpi“. Morto Lucio Vero mentre tornava dall’Illirico nel 169 Marco Aurelio riuscì a stabilizzare la situazione preesistente e respingere i barbari a nord del Danubio. Marco Aurelio è passato alla storia come l’immagine dell’imperatore filosofo, con un’alta concezione del proprio dovere verso i sudditi. Egli era seguace della dottrina storica e autore di un’opera di riflessione morale dal titolo “A se stesso”. Con lui si ritorna alla successione dinastica ma il caso vuole che il figlio Commodo risultasse indegno della carica. COMMODO 180 - 192 d.C Divenne imperatore a soli 19 anni e si dimostrò la perfetta antitesi del padre. Il suo primo atto fu quello di concludere definitivamente la pace con le popolazioni che premevano sul Danubio. Le sue inclinazioni dispotiche, le sue stravaganze e le sue innovazioni in campo religioso provocarono una rottura con il Senato. Dal 182 al 185 d.C. il governo fu di fatto in mano al prefetto del pretorio Tigidio Perenne. Quando questi fu ucciso nel 185 d.C. il suo ruolo fu preso da un liberto, Cleandro, che arrivò nel 189 all’ordine equestre facendosi nominare prefetto del pretorio senza aver percorso le precedenti tappe. La necessità di rimpinguare le casse dell’imperatore, prodigo di lussi e di giochi offerti alla plebe di Roma, fu anche alla base di processi di tradimento, con conseguente confisca di beni di lusso a senatori e cavalieri. Furono sospese le somme per i sussidi delle istituzioni alimentari per i donativi ai soldati. Una carestia che colpì Roma nel 190 d.C. fece cadere il potere di Cleandro. Tra il 190 e la sua morte avvenuta nel 192 l’imperatore lasciò il governo in mano un cortigiano, Eclecto , e al prefetto del pretorio Leto, che completarono il dissesto delle finanze e a ordire una congiura che mise fine al regime nel 192 d.C. Commodo non dimostrò cura assidua per le province né per i soldati degli eserciti stanziati nell’impero che non venivano pagati. Il consenso interno era fondato sulla plebe di Roma e sui pretoriani ma nemmeno all’interno della domus principis vi era completa adesione alla sua linea politica. Tuttavia sotto il principato di Commodo vi furono importanti fenomeni di integrazione della cultura provinciale, con l’accoglimento di molte divinità straniere che entrarono alla pari nel Pantheon romano come Serapide, Mitra e altre divinità orientali e africani. Si venne così a creare una sorta di provvedimenti idonei alle necessità finanziarie). Uno degli elementi cardine del nuovo sistema fu l’assunzione a vita della tribunizia potestas, ma non del tribunato, nel luglio del 23; i poteri forti di tale carica discendevano dalle tre prerogative dell’antica magistratura plebea: sacrosanctitas (mettere a morte chiunque gli avesse osato violenza senza diritto di processo), intercessio (diritto di veto ad ogni decisione dei magistrati o del senato), ius auxilii (portare aiuto a ogni cittadino minacciato dall’azione dei magistrati). Dal 23 ebbe anche il diritto di convocare il senato. Nel 19 assunse i poteri consolari a vita, egli esercitò funzioni consolari: ha il comando sulle truppe urbane, nomina il praefectus urbi, accetta le candidature per le elezioni, agisce in campo giurisdizionale. A questi ai aggiunsero anche altri poteri come il diritto di emanare editti e leggi e la cura dell’annona. Il princeps accompagnò alla riforma istituzionale una riforma morale intesa a recuperare gli autentici valori della romanità: cercò di frenare la crisi delle nascite dovute agli scarsi matrimoni, decretò l’adulterio delle donne un crimine punibile con la relegazione in un’isola. Il cumulo di cariche creò un rapporto particolare ed unico con il sacro, facendo di Augusto il mediatore tra gli dei e gli uomini. Ogni momento dell’ascesa politica di Augusto ebbe la sanzione del sacro: rivestì tutte le cariche sacerdotali, la sua stessa casa divenne luogo ci culto ospitando le due divinità di Apollo e Vesta, e l’Ara pacis, inaugurata nel 13 a.C dette fondamento religioso al ruolo dell’intera domus augusta. La rivoluzione dell’ordinamento politico portò anche ad una radicale trasformazione della pratica religiosa , nel senso che l’autorità religiosa, un tempo ripartita tra sacerdoti, magistrati e senato si trovò concentrata nelle mani del princeps, al pari del potere politico. Il princeps era garante della pace tra uomini e dei ed era inevitabile che le pratiche religiose e i favori degli dei che da esse discendevano si concentrassero sulla persona di Augusto: preghiere e sacrifici per la sua fortuna e prosperità divennero l’elemento più importante del culto pubblico. L’ascesa al potere è riproposta con un itinerario tutto interno all’ordinamento della Repubblica, che mira a ritrovare in esso la ragione della sua legittimità. Infatti è il popolo che conferisce le magistrature tradizionali e il pontificato massimo; alle leggi e quindi alle assemblee popolari e attribuita la determinazione dei modelli di comportamento. Il sistema dei poteri pubblici delineato da Augusto è in continuità con i principi e con i modelli secondo i quali si era venuto articolando l’ordinamento della Repubblica durante la crisi. Il principato non può rompere con il passato. La libertà repubblicana, secondo Tacito, era approdata a discordie senza tregua finché finalmente Augusto aveva dato una costituzione e permesso di vivere in pace sotto un princeps. Questo nome ci riporta in primo luogo a Cicerone e alla sua teoria del princeps come rector rei publicae, l’uomo saggio che deve ispirare il governo dello Stato. Augusto nella sua opera, le Res Gestae , utilizza questa parola sempre riferita ad atti connessi con le imprese militari, di allargamento e consolidamento dei confini. In ambiti di politica interna Augusto fa riferimento all’Imperium, alla potestas, all’auctoritas, alla sacrosancritas ma non usa il termine princeps. Egli dunque non si dice mai princeps dei suoi concittadini ma solo dei non romani. Tacito sostiene che tuttavia si trattava del governo di uno solo e sottolinea però come questo ruolo avesse in sé qualcosa di nuovo; questo termine ebbe grande fortuna per cui nessun successore l’abbandonò e entrò nella nomenclatura ufficiale accompagnato da qualificativi di esaltazione. Il regime del principato sovrappose alla Repubblica il potere e l’autorità di un solo uomo, che divenne l’interlocutore privilegiato dei cittadini. Augusto chiarisce subito il suo ruolo e i suoi intenti esprimendo l’auspicio di poter dare alla Repubblica un assetto sicuro e stabile e si presenta come colui che, solo, può esserne l’artefice. Il Senato e il popolo scompaiono ed egli resta il solo creatore e il solo responsabile di quell’azione di stabilizzazione delle strutture che ne possa garantire la continuità. Il nuovo regime nacque nell’ambiguità, basandosi da un lato sulla auctoritas augustea e dall’altro su una serie di poteri vitalizi o ripetutamente rinnovati e concessi da regolari deliberazioni del Senato e del popolo. Tale ambiguità non poteva non generare il problema della successione che infine approdò a Tiberio. Tiberio poneva la funzione del princeps su un piano diverso da quella di un’ordinaria magistratura; il princeps non è più colui che salva e restaura la Repubblica ma è colui che ha funzioni sue proprie. Di una legge per il conferimento dei poteri all’imperatore noi conosciamo un unico esempio: la Lex de imperio Vespasiani. Contiene norme di estremo interesse come la clausola discrezionale che conferisce al principe il potere di compiere tutti gli atti che ritiene necessari. Sancisce l’onnipotenza del principe, riconoscendogli il diritto e la potestà di agire come riterrà opportuno in un qualsiasi campo dell’attività pubblica e privata. Tutti gli imperatori a partire da Augusto sarebbero stati di diritto al di sopra delle leggi e le loro deliberazioni sarebbero state esse stesse leggi. Dal testo epigrafico si evince che a Vespasiano fu concesso il diritto di agire secondo la propria volontà, così come era stato concesso ai suoi predecessori. Già Augusto, secondo il testo epigrafico, sarebbe stato legittimamente posto al di sopra delle leggi. Tiberio non assunse alcuna delle prerogative del predecessore, professando anzi una iniziale intenzione di restaurazione effettiva della Repubblica. I redattori della Lex de imperio Vespasiani volevo sottolineare che il diritto quasi illimitato di agire era di fatto detenuto da tutti i principi a partire da Augusto. Dalla seconda metà del I secolo a.C. alla fine del secondo dopo Cristo, la pax romana fu assicurata perché l’impero potesse sviluppare il suo ruolo di civiltà amalgamatrice. Ci fu un processo di acculturazione che portò a una riduzione ad unità politica e omogeneità culturale di un complesso di popoli vinti con le armi ma associati poi in vari modi alle funzioni di governo. Il processo di integrazione non fu rigido ma fu una integrazione progressiva il cui punto di arrivo era il diventare romani, anche se non tutti i vinti accettarono la sconfitta e il dominio romano senza opporre resistenza o manifestare ostilità. - Dal principato al dominato Gli studiosi moderni hanno collocato al III secolo il passaggio dal principato al dominato; il dominato segna il graduale declino del potere senatorio di contro all’ascensione dell’ordine equestre e del ceto militare alla rafforzarsi del potere imperiale. Il mutare delle strategie militari e dei metodi di reclutamento portò a una provincializzazione delle legioni stanziate ai confini e a una sempre più marcata immissione in esse di elementi locali; l’esercito divenne organismo senza più identità e interessi di ordine generale. Dal 193 furono sempre più soldati a imporre gli imperatori (Settimio severo, Massimino il Trace). In realtà il prevalere dell’elemento militare già da tempo era evidente a scapito delle prerogative del Senato. Alla caduta di Nerone generali rivali come Vitellio e Vespasiano erano stati acclamati dai loro eserciti e riconosciuto imperatores prima che potessero ottenere dal Senato e del popolo il riconoscimento dei poteri costituzionali. Era già allora divenuto chiaro che quello che gli eserciti avevano proclamato imperatore già era ritenuto investito del potere e doveva essere accettato dal Senato. Avvenne sempre di più che gli eserciti si ritenessero competenti ad attribuire con la propria acclamazione il diritto di assumere il titolo di imperatore e quello connesso di Augusto. C’era la credenza della partecipazione del principe alla natura divina o almeno in una convivenza naturale tra la divinità e i suoi rappresentanti nel mondo degli uomini. Nel momento in cui si attribuisce al Sole una funzione di governo del cosmo, ad immagine del sovrano terrestre, quest’ultimo diviene il protetto dell’astro maggiore. Alcuni sovrani furono particolarmente volti al culto del sole come Elagabalo, che portò che con sé il betino divino che i latini chiamarono Sol Invictus e che fu collocato in un nuovo tempio sul Palatino. Un secondo forte tentativo di introdurre il culto pubblico del sole fu con Aureliano. - Lo sviluppo delle istituzioni in età imperiale: i poteri tradizionali Gli organi politici tradizionali (Senato, magistrature, assemblee) rimasero. Il loro ruolo andò però scemando nel tempo e il rapporto del princeps col Senato divenne uno dei punti più cruciali della politica in età imperiale. Le leggi erano ispirate dall’imperatore, che le presentava direttamente ai comizi o poteva farle proporre dai magistrati; i comizi si videro limitare il loro ruolo alla semplice conferma per acclamazione delle proposte. Lo stesso avvenne per le funzioni dell’assemblea che continuavano a eleggere i magistrati ma su proposta, in sostanza, dell’imperatore. Egli poteva intervenire in due modi, attraverso la commendatio (la raccomandazione) oppure attraverso l’uso della destinatio (la designazione). Quest’ultima procedura durò per poco; la scelta passo rapidamente al Senato e, di fatto, all’imperatore; il ruolo dei comizi divenne di semplice ratifica. Il prestigio del consolato resto intatto, i candidati erano numerosi poiché la magistratura apriva la strada al governo delle province più importanti. I consoli continuavano a convocare il Senato e i comizi, ma non avevano più poteri politici. I pretori conservarono le loro funzioni giudiziarie e la questura restava il primo gradino per la carriera politica, ma fu privata delle sue funzioni finanziarie. L’edilità conservava il controllo dei mercati ma perdette il compito dell’approvvigionamento alimentare e di polizia. Le funzioni di censore e di tribuno furono assunte dall’imperatore. Probabilmente con Claudio comincia a svilupparsi la nozione di fiscus Cesaris, che comprendeva le entrate e le uscite del patrimonio personale del principe e delle province imperiali, accanto al tradizionale erario del popolo romano. Un secondo erario, quello militare, venne istituito da Augusto nel 6 d.C. per provvedere alle pensioni dei militari congedati, con risorse tratte del suo patrimonio privato ed alcuni tasse. Le imposte dirette pesavano solo sulle province. La tassa fondamentale era il tributum soli ; solo i non cittadini pagavano anche il tributum capitis. Le imposte indirette gravavano su tutti gli abitanti dell’impero: le più importanti erano i portoria, il dazio, di entità variabile, riscosso nei porti e alle dogane ai confini dell’impero e delle province e persino all’interno di una stessa provincia. Accanto alle tasse le entrate per lo Stato erano garantite dalle rendite dell’ages publicus e dalle miniere di proprietà statale; già ai tempi di Augusto tra le risorse si poneva anche il patrimonio personale del principe. - L’organizzazione del territorio Roma aveva fatto ben poco, fino ad Augusto, per organizzare e per difendere le sue province. Augusto intervenne a ridisegnare il sistema provinciale romano, operando al suo interno una frattura tra province senatorie e imperiali, che si rivelò definitiva. Solo a partire da Silla ogni provincia aveva avuto alla propria testa un governatore ma la principale preoccupazione di questi magistrati era troppo spesso quello di arricchirsi. Da Augusto venne attribuita al Senato l’amministrazione delle province completamente pacificate. Il potere che loro competeva consisteva in via formale nell’Imperium e nella potestas, ma normalmente era limitato all’amministrazione civile e alle funzioni giurisdizionali. Al loro fianco c’erano altri magistrati, legati e questori che avevano le competenze finanziarie. Augusto si riservò il governo delle province in cui erano stanziate legioni, in virtù del suo Imperium proconsolare che gli conferiva il comando degli eserciti. In esse inviò propri legati assistiti dai procuratori che si occupavano dell’amministrazione finanziaria, dal momento che i provinciali dovevano pagare due imposte, una il tributum capitis era uguale per tutti, L’altra il tributum soli era dovuta in diversa misura ai proprietari di terre. In generale le province venivano amministrate in forma monocratica dai governatori. L’eccezione fu l’Egitto che era amministrato da un prefetto di rango equestre. Il sistema provinciale diventò stabile e a partire dalla metà del I secolo d.C. il numero delle province affidate al Senato restò fisso. I compiti di un governatore di provincia erano assicurare l’ordine nel territorio e amministrare la giustizia. Solo a partire da Adriano cominciarono ad operare nelle province il curatores rei pubblicae nominati dall’imperatore e incaricati di rimettere ordine nelle finanze cittadine. Un’intensa corrispondenza cominciò a intrecciarsi tra le province e gli uffici centrali ab Epistulis. Il risultato di questi scambi individuali fu che, nel corso del tempo, il governo centrale elaborò nuove regole procedurali e nuove soluzioni, anche sul piano giudiziario, spesso contenuti nei mandati, vincolanti per chi amministrava le province. Per i primi secoli dell’impero la gestione delle province procedettesenza troppe turbative e con una certa efficienza. L’inclusione di un territorio nel quadro politico amministrativo romano non avveniva una volta per tutte, ma rappresentava una fase dinamica e continua, in cui norme e modelli imposti dalla dominazione romana venivano a definire i punti di riferimento secondo i quali gli individui e le comunità si conformavano a Roma. Il latino era la lingua del potere e linguaggi dell’impero erano tanti quindi il latino svolgeva una funzione di unificazione culturale. Nelle province occidentali dell’impero il latino ha lasciato un’impronta ferma. Mentre nel mondo delle province orientali l’acquisizione del latino è ricercata solo dalle elite locali. L’Italia ritrovò rapidamente la prosperità, poiché le conquiste augustee aprirono mercati nuovi ove esportare vino e olio, ceramiche e bronzi. I capitali abbondavano, frutto dei bottini in Oriente e delle rendite delle grandi proprietà terriere dei ricchi italici. Durante l’età imperiale la situazione dell’Italia fu caratterizzata da due elementi di grande rilievo: l’esenzione dalle tasse e l’autonomia delle comunità locali. Fin dal 167 a.C. gli abitanti dell’Italia erano stati esentati dal tributum, una tassa diretta sulle persone e sul patrimonio. Tuttavia Augusto sottopose anche gli italici a nuove tasse. L’Italia ormai tutta fino alle Alpi di cittadini romani era divenuta una realtà omogenea e Le lingue locali erano sparite rapidamente davanti al latino. L’Italia non era una provincia. La giurisdizione penale passò presto dagli organi municipali a funzionari dell’Urbe , il prefectus urbe il prefetto del pretorio. Dall’inizio del II secolo d.C. il cattivo stato delle finanze cittadine determinò la creazione di nuovi funzionari imperiali, i curatores, che ebbero il compito di intervenire nella gestione finanziaria, nel servizio dell’annona, nell’amministrazione dei beni pubblici. Adriano divise poi l’Italia in cinque distretti giudiziari, a cui capo mise dei consolari che, con Marco Aurelio, divennero giuridici di rango pretorio incaricati di rendere giustizia e autorizzati a ingerirsi negli affari interni delle città. Sotto i severi compaiono anche in Italia le figure del correctores, già presenti nelle province da tempo, incaricati inizialmente del controllo delle finanze. Il processosi conclude sotto Diocleziano che incorpora l’Italia nel sistema provinciale. - Il mondo delle città e le loro condizioni giuridiche La città dell’epoca imperiale era uno snodo obbligato tra il potere centrale e gli abitanti dell’impero e rappresentava il quadro di vita cui la cultura antica faceva riferimento. La città doveva essere stabile e garantire quello che il governo imperiale richiedeva. Questo assetto passava di necessità attraverso il coinvolgimento delle elite locali, che furono portate prima a una collaborazione interessata poi all’adesione convinta, premiata dall’ingresso della cittadinanza romana e dall’integrazione progressiva nel ceto dirigente. La città divenne sempre di meno sede di partecipazione alla gestione degli affari comuni, dal momento che la direzione politica e militare era a Roma; restò luogo della decisione politica solo ai livelli minimali locali e sempre più si conformò come struttura di integrazione secondo una gamma di doveri diritti e privilegi sottilmente dosata dal potere romano. L’urbanizzazione modelló con moduli costruttivi unitari i volti delle città, con gli edifici monumentali pubblici e privati, in una sorta di trasposizione dell’Urbs. Non è agevole definire le diverse situazioni giuridiche delle città, poiché variavano in relazione alla loro origine e quindi alle condizioni pre esistenti alla romanità, ai rapporti che si vengono a stabilire col potere centrale, nelle varie epoche. Nelle zone provinciali la situazione è complessa e possiamo individuare due principali categorie di città: le comunità di tipo romano, municipi e colonie, che erano ricalcate su Roma e le città peregrine che erano estranee al mondo romano e conservavano i loro diritti civici. Le città peregrine rappresentavano la gran parte delle comunità cittadine nelle province;i loro cittadini erano rispetto a Roma stranieri in quanto non avevano la cittadinanza romana ma vivevano secondo i loro propri diritti. Le peregrine si dividevano in altre sotto categorie, come le città libere: avevano tale condizione non garantita da un trattato ma da un atto di concessione unilaterale di Roma. Si riconosce un rapporto particolare a città di territori non annessi ma soggetti a controllo. Se le città libere avevano tra i loro privilegi l’essere esentati dal pagare tasse, erano dette immunes. C’erano poi le città libere e federate che avevano assicurata questa loro condizione da un foedus, cioè un trattato in cui erano stati fissati i loro diritti. Poi c’erano le stipendiarie che erano città soggette a tributo, che dipendevano dall’autorità del governatore della provincia ed erano obbligate al rispetto della legge provinciale. Queste città godevano di un’autonomia di fatto perché Roma concedeva che continuassero a vivere con le loro istituzioni e il proprio diritto. Municipi e colonie romane sono molto simili anche sul piano delle istituzioni; Plinio il Vecchio ci dà informazioni sulla situazione giuridica delle varie città e ci dice che lo statuto di colonia era avvertito come superiore, più onorifico; infatti i municipi potevano essere promossi a colonie. Però i municipi godevano dei diritti e di leggi proprie mentre la colonia era una copia di Roma. I diritti dei municipi sono oscuri e dimenticati e diventare colonia significava crescere importanza e dignità rispetto al municipio. I municipi erano delle città peregrine ai cui abitanti Roma aveva concesso la qualità di cittadini. Nel I secolo compaiono i municipi di diritto latino. Lo statuto di colonie latine era stato concesso nell’89 alle città della transpadana e il diritto latino fu esteso e poi da vespasiano all’intera Spagna. Ci si è chiesti se accanto alla cittadinanza romana sia esistita anche una cittadinanza latina che per alcuni studiosi si tratterebbe di una cittadinanza di secondo ordine rispetto a quella romana. Secondo questa ipotesi il diritto latino sarebbe uno statuto personale indipendentemente dalle comunità. Ci sono note tre principali leggi municipali risalenti all’epoca dei flavi: la lex salpesana, la lex municipi malacitani, la lex irnitana. Il maggior vantaggio che il diritto latino prevedeva era la possibilità di accedere alla cittadinanza romana attraverso l’esercizio di una magistratura municipale. Le colonie dei cittadini romani furono inizialmente formate attraverso la deduzione di gruppi di cittadini, spesso veterani; talora essi andavano a costituire una nuova città, talora si stabilivano in una città già esistente, che veniva innalzata al rango di colonia. Il titolo di colonia poteva essere concesso anche a comunità peregrine, senza che ci fosse un reale invio di coloni. Lo statuto di colonia onoraria fu concesso da Traiano e Adriano in genere a comunità che erano municipi da parecchi decenni. Con Settimio severo si accentuò il movimento di promozione non solo delle città peregrine, ma anche di pagi e vici e di popoli al