Scarica gestire il disagio a scuola e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! Gestire il disagio a scuola Non pochi esperti ed educatori considerano gran parte del disagio come una conseguenza dell’assenza di valori, di validi modelli genitoriali ed educativi, come l’esito della riduzione dell’autorità paterna. Ne ricavano facilmente l’idea, che occorra insistere sull’educazione al rispetto delle regole e dei diritti. Il primo rischio che deriva, è quello di incentrarsi sul comportamento superficiale esterno aspettandosi che cambi attraverso i principi cari al comportamentismo. Una notevole quantità di programmazioni educative individualizzate di soggetti che non rispettano le regole includono molti obiettivi, e quasi tutti, relativi alla conoscenza delle norme. La questione è più complicata e l’inosservanza delle norme, va considerata come uno dei sintomi di un disagio molto più complesso che necessita di risposte qualificate. Il disagio inteso come discrepanza tra sintomo e bisogno, l’esito della frustrazione di un qualche bisogno. Esso viene alimentato, dalla difficoltà cronica, percepita e vissuta da parte del soggetto, di non poter soddisfare determinati bisogni. Nasce dalla difficoltà di intravedere soluzioni per poter soddisfare in modo appropriato i propri bisogni, dalla consapevolezza di non saper fronteggiare le situazioni. I CAPITOLO Il termine “disagio” ha cominciato ad affermarsi alla fine degli anni ’70. Il concetto si presenta inizialmente povero di contenuti ed impiegato per esprimere la perdita di rilevanza delle problematiche giovanili e la consapevolezza del fallimento del grande disegno sociale e politico concepito dalle generazioni settecentesche e post-settecentesche. Soltanto successivamente l’attenzione viene focalizzata sui vissuti che accompagnano il disagio durante i momenti di crescita verso l’età adulta. Il disagio è inteso come esperienza strettamente personale da cui possono derivare dei segni osservabili dall’osservatore o dall’interlocutore. Etimologicamente il termine è costituito dal prefisso “dis” che indica negazione e dalla parola “agio” che significa giacere presso. Disagio designa, quindi, la condizione di chi vive ai margini, si sente escluso dagli altri e da se stesso. Nei dizionari di psicologia e pedagogia, è usato ordinariamente come sinonimo di devianza e di disadattamento. Nella letteratura psicopedagogica, invece, come sintomo dell’incapacità e dell’impossibilità del soggetto di trovare soluzioni soddisfacenti e coerenti alla propria identità. Tali descrizioni sembrano prediligere un approccio descrittivo più che interpretativo del disagio: rispondono più all’esigenza di raccogliere sotto un’unica categoria una molteplicità di forme nelle quali si esprime un diffuso stato di malessere anziché quella di soffermarsi su eventuali meccanismi sottesi. Un’altra tendenza è quella di usare il concetto di disagio con lo stesso significato di disadattamento, frustrazione ed emarginazione. Una prima distinzione riguarda le aree in cui si può manifestare il disagio nella vita del soggetto: intrapsichica, interpersonale e sociale. A livello individuale esso si delinea come una condizione interiore caratterizzata dalla difficoltà a star bene con se stessi. A livello interpersonale, il disagio si manifesta nell’incontro tra persone, da cui derivano ansia, inquietudine, sfida e rabbia. A livello sociale, il disagio si origina e si manifesta in tutte quelle situazioni note come condizione di svantaggio e di emarginazione. Un primo approccio allo studio del disagio è di tipo soggettivo. Esso si focalizza sui vissuti psicoesistenziali che lo accompagnano, come irrequietezza, insicurezza, senso di impotenza. Tali vissuti, anche se sono privati, possono facilmente manifestarsi attraverso vari segni diventando osservabili. Il secondo approccio, invece, è di tipo oggettivo e focalizza l’attenzione prevalentemente sulle situazioni o sulle condizioni di vita che vengono designate come premesse del disagio. Vengono accertati, di conseguenze, disagi evolutivi che ogni soggetto in determinati periodi dello sviluppo vive come componente inerente al passaggio da uno stadio all’altro, come conseguenza delle crisi che ciascuna fase implica; vengono indicati disagi sociali oggettivi legati alle situazioni che il soggetto abita. Il disagio interno soggettivo nasce dalla risposta personale alle diverse situazioni, alle richieste della società, della famiglia. Ciascuno ha un sistema cognitivo, una propria storia, degli stili, e delle opzioni strettamente personali. Pertanto alcuni rispondono alle situazioni in modo incongruente, altri fuori misura o esagerato. Il disagio, in certi casi, può diventare procurato. I percorsi che generano esperienze e risposte incongruenti sono influenzati da una notevole quantità di fattori e di variabili. Le auto-attribuzioni sono sostanzialmente spiegazioni causali che il soggetto formula in merito alla relazione tra sé e le situazioni e possono variare per internalità - esternalità, stabilità e controllabilità. La dimensione internalità-esternalità riguarda il fatto che il soggetto può attribuire la sua condizione, il suo disagio a cause prevalentemente interne, come ad esempio, le proprie capacità, o cause esterne su cui ha il senso di aver poco o nessuno controllo come, ad esempio fortuna-sfotuna, la malattia. La dimensione stabilità-instabilità riguarda il fatto che certe cause sono considerate momentanee ed altre, invece, giudicate durevoli. La controllabilità riguarda la possibilità percepita da parte del soggetto, di poter determinare il proprio destino, di modificare o di guidare il corso degli eventi. La convinzione personale di posseder dentro di sé il potere di autodeterminarsi implica un’internalità di locus of control ovvero il soggetto è convinto che i fattori responsabili di quello che gli accade siano dentro di sé. In riferimento al locus of control interno o esterno si possono individuare due tipi di stili: disfattista, secondo cui ogni tentativo di fronteggiare il proprio disagio viene ritenuto inutile e il soggetto rischia di gettare la spugna chiudendosi nell’inazione; e proattivo, in cui gli sforzi personali sono ritenuti utili ed efficaci per gestire e far fronte al proprio disagio. L’intervento educativo dovrebbe promuovere l’internalità del locus of control dinanzi alle situazioni. Il modo di percepire e di sentire dinanzi alle situazioni è influenzata dalla propria storia passata (l’assalto ai supermercati in occasione della guerra del Golfo). Il giudizio sui fatti e i sentimenti presenti vengono in questi casi alimentati da un precipitoso ritorno al passato. In educazione, occorre rilevare e prevenire eventuali comportamenti scenici ( si intende l’interazione osservabile educatore-educando in cui viene inconsciamente attualizzata una qualche scena storica conflittuale presente nel passato del soggetto). Il rischio per l’educatore è quello di trattare l’educando non per quello che è, ma sulla base di situazioni conflittuali irrisolte. Questo può avvenire in due modi o proiettando sugli allievi esperienze personali inconsce o reagendo al comportamento degli allievi in modo difensivo. Alcuni possono creare con l’educatore una relazione analoga a quella originaria vissuta col padre o con la madre. Vengono individuati tre tipi di comportamenti scenici. Il primo è di tipo “Id” e caratterizza un rapporto in cui l’allievo proietta sul docente i suoi bisogni infantili e insoddisfatti. La seconda forma è di tipo “Super-Io” e si realizza quando gli allievi proiettando sul docente, le esperienze irrisolte legate al comportamento di controllo da parte delle figure significative. Il terzo è di tipo “Io” e si realizza quando l’educatore diventa un riferimento di importanza basilare. come se loro stesso o il proprio partner fossero l’unico oggetto d’amore. Questo si rileva attraverso vari segni: regressione, bisogno ossessivo di pseudo intimità, senso di impoverimento personale. L’esperienza soggettiva di patimento quale esito dell’insoddisfazione e della privazione è considerata una delle maggiori costanti che accompagna il disagio che sottende sempre la presenza di bisogni insoddisfatti. A seconda dei bisogni frustrati o insoddisfatti si possono distinguere diversi tipi di disagio. Quando ci si riferisce alle nuove povertà, il riferimento è al disagio derivante dalla frustrazione dei bisogni di tipo primario e agli aspetti qualitativi essenziali legati alla vita. Quando, invece, si parla di emarginazione si fa riferimento ad un’esperienza legata alla frustrazione dei bisogni di integrazione, di appartenenza. Se, ancora si parla di disagio esistenziale, il riferimento va alla frustrazione del bisogno di autorealizzazione, di dare un senso alla propria vita. Il bisogno negato a livello generalizzato è quello di esistere, di essere visti, di essere riconosciuti. Molti atti vandalici e di violenza feroce vengono concepiti da diversi studiosi come modalità ambivalenti, disfunzionali, di soddisfare il diritto e il bisogno di esserci e di esser visti. L’individuazione e la determinazione dei bisogni educativi sono momenti fondamentali della programmazione educativa in quanto su essi vanno progettati gli obiettivi. Il bisogno nasce dalla discrepanza tra come le cose dovrebbero essere e come si vorrebbe che fossero e come di fatto sono. Il bisogno deriva pertanto da uno squilibrio che origina dal raffronto tra la situazione reale e quella ideale. Un modello di riferimento per meglio comprendere il rapporto fra frustrazione dei bisogni e disagio è quello proposto da Weiss. L’assunto di base è che dietro il disagio si può individuare qualche bisogno frustrato a volte in modo persistente e cronico. Secondo lo schema proposto, l’espressione spontanea del bisogno è il passo iniziale per ogni individuo. Una volta giunto alla consapevolezza del soggetto, il bisogno viene appagato oppure no. Nel primo caso la persona, secondo il diagramma, rimane in una posizione sana ed è libera di occuparsi del bisogno successivo. Se, invece, il bisogno rimane frustrato, il soggetto può reagire manifestando, a seconda dei casi, collera, paura o tristezza, mettendo talvolta in atto anche strategie distruttive. I comportamenti problematici, disfunzionali che caratterizzano il disagio, in certi casi rischiano di diventare il modello di risposta privilegiato in analoghe situazioni future. Il modello integrativo prevede che quando un soggetto ha un bisogno può soddisfarlo per passare ad occuparsi del bisogno successivo. Il primo passo è quello di individuare ed accogliere il bisogno dell’educando. Poniamo che la situazione sia quella di un allievo che ha bisogno di riconoscimenti da parte dell’insegnante. Nel caso, in cui, invece, il docente svalutasse tale bisogno, l’allievo potrebbe reagire cominciando ad esprimere rabbia, oppure, rassegnazione, se si rende conto che tale via non è adatta a soddisfare il suo bisogno. Inoltre, può decidere, inconsapevolmente, di mettere in atto, delle strategie per soddisfare almeno parzialmente il suo bisogno. La maggior parte delle strategie banali, automatiche e ripetitive (rimprovero, punizione) hanno in comune il fatto di svalutare il bisogno. Il soggetto portatore di disagio, non avendo totale consapevolezza di sé, dei bisogni, ricorre ai mezzi di cui dispone per comunicare come disturba, non studia, usa parolacce. Consideriamo l’esperienza del bambino appena nato. Non avendo mezzi a disposizione di strumenti comunicativi per esprimere che ha fame, che ha sete ricorre al principale strumento di cui dispone: il pianto. E’ compito di chi si prende cura del bambino, decodificare correttamente il messaggio. Il fatto di rispecchiare adeguatamente il figlio nei suoi bisogni dà un senso di benessere, che costituisce la premessa per l’acquisizione della fiducia di base, ed è la premessa della costituzione adeguata del sé. Erickson asserisce che nella prima fase dello sviluppo il soggetto debba affrontare il compito della fiducia-sfiducia di base. Se il neonato sperimenta un senso di benessere fisico, un ambiente rassicurante ed accogliente svilupperà fiducia ed ottimismo. La risoluzione, invece, negativa della crisi della prima fase, il senso di sfiducia si manifesta ad esempio, attraverso forme di ripiegamento su di sé, di rifiuto di cibo, di confronto, di compagnia. Alla stessa stregua della madre, l’educatore deve affinare la sua capacità di comprensione empatica in modo tale da poter cogliere adeguatamente cosa c’è dietro il disagio. Egli deve affinare la sua capacità di decodificare la “metafora creativa” ovvero il sintomo di cui si serve il soggetto per esprimere il suo disagio. Pertanto tratta di una comunicazione urgente da decodificare e comprendere salvaguardandone i molteplici aspetti. Trattando i bisogni si può fare una distinzione basilare tra processo e contenuto. Se si pone l’accento sul contenuto diventano centrali questioni relative a quali sono i bisogni che risultano inascoltati. Se, invece, ci si incentra sul processo, si presterà maggiore attenzione ai dinamismi psicologici coinvolti, dal momento in cui un bisogno viene percepito fino alla sua soddisfazione o alla sua frustrazione e quali sono le opzioni una volta che i bisogni vengono soddisfatti o ripetutamente non soddisfatti. Si assumerà come quadro di riferimento il modello dei permessi e delle ingiunzioni proposto dall’Analisi transazionale, per evidenziare il ruolo che riveste la risposta dell’ambiente ai bisogni del soggetto. Al di là del disagio, i bisogni inascoltati sono parecchi, tra i più importanti ricordiamo quello di esistere, quello di intimità e quello di vivere secondo la propria età. Permesso di esistere: Quando un bambino viene al mondo la famiglia deve riorganizzare i suoi confini interni ed esterni ed una serie di condotte richiedono adattamenti e accomodamenti a volte considerevoli. I genitori possono dare il permesso di esistere ad esempio comunicando al bambino che sono contenti che ci sia, trattandolo con amore, prestandogli attenzioni e cure. I messaggi possibili da parte delle figure significative possono oscillare tra “va bene che tu ci sia” e “non va bene che tu ci sia”. Studiosi hanno prodotto uno strumento per rilevare permessi ed ingiunzioni che comprende una scala sul permesso di esistere e l’ingiunzione “non esistere” ed una scala “non appartenere”. Gli item della scala non esistere descrivono un radicale atteggiamento di svalutazione di sé, del senso della vita. La scala non appartenere, invece, descrive il vissuto di esclusione e il senso di non appartenenza rispetto all’ambiente e nelle relazioni con gli altri. L’ingiunzione può essere stimolata dai genitori attraverso la loro stessa incapacità di costruire i rapporti sociali o, più direttamente, inviando al figlio messaggi del tipo sei diverso, non sei uguale agli altri. La decisione del bambino in merito è l’esito della transazione tra la percezione dei messaggi e le sue opzioni. Nel momento in cui si inserisce in una nuova famiglia simbolica, costituita dai compagni di classe e dai docenti, è facile che riproponga alcune modalità apprese e metta in atto dei comportamenti scenici volti, ad esempio, a verificare inconsapevolmente che gli altri lo rifiutano e lo respingono. Non essere intimo: Il permesso di essere emotivamente e fisicamente intimi viene appreso primariamente nell’interazione con le figure significative. Pertanto quando il genitore si mostra distratto, assorbito dagli impegni, facilmente invia un messaggio del tipo “non essere intimo”. Frasi del tipo “non disturbarmi” o “lasciami in pace”, insieme ad interazioni in cui il bambino elemosina un po’ d’attenzione, costituiscono alcuni di messaggi più comuni che invitano a non essere intimi. Il soggetto a cui tali permessi sono stati cronicamente negati può decidere di isolarsi, comportandosi in modo da farsi emarginare ricorrendo a modalità ambivalenti e a volte incongruenti. Non essere piccolo: Già Bowlby aveva ampiamente messo in evidenza come dietro molti casi di violenza da parte dei genitori verso i figli facilmente si ritrovano relazioni in cui al figlio è richiesto di comportarsi come se fosse lui il genitori o come se fosse molto più grande di quello che è. Nei casi descritti, viene negato al bambino di vivere secondo la sua età e gli si comunica un’ingiunzione del tipo “non essere bambino”. II CAPITOLO Dinanzi ad un disagio i problemi sono almeno due: uno appartiene all’allievo e l’altro appartiene al docente. Per quanto riguarda il primo un rischio del tutto insidioso è quello di non accorgersi del problema dell’allievo; un secondo tipo di problema riguarda il docente che dinanzi all’allievo che manifesta dei problemi, egli ha bisogno di capire cosa possa fare per evitare di scadere nella banalità, tipica degli interventi improduttivi, ed escogitare, invece, delle opzioni di intervento efficaci e realmente educative. In presenza di una situazione educativa complessa, i docenti intervengono ricorrendo a delle modalità per mettere in ordine, mantenere la disciplina, poter lavorare. Caso: Paolo, giunge in classe con un paio di occhiali da sole. L’insegnante lo invita a mettere via gli occhiali da sole e a riprendere quelli da vista per leggere un testo ad alta voce. Paolo non ha alcuna intenzione di mettere via gli occhiali. L’insegnante inizia ad irritarsi. Una prima reazione comune dinanzi ad un allievo che insiste sul suo comportamento disfunzionale è quella che possiamo definire dispotica, impaziente. L’insegnante potrebbe reagire esplodendo furiosamente, alzandosi dalla sedia, urlando. Il docente intollerante si avvale prevalentemente di una varietà di interventi coerenti con la sua posizione come la critica, il rimprovero. Ritornando alla situazione, il docente si alza, toglie gli occhiali all’allievo e li poggia sulla cattedra, ma non appena si è dovuto allontanare dall’aula, questi ne ha approfittato per riprenderli. Possiamo considerare che l’atteggiamento dispotico può rappresentare dei vantaggi a breve termine. In questo caso il docente potrebbe mettere in atto uno stile polemico e litigioso, attaccando direttamente l’allievo cercando di deriderlo agli occhi dei compagni. Si tratta di un atteggiamento rischioso, in quanto può facilmente innescare dinamiche distruttive a spirale crescente. E’ infatti facile che l’allievo risponda sullo stesso piano cercando di deridere a sua volta l’insegnante. Un altro atteggiamento è quello tipico di chi subisce tollerando il comportamento dell’allievo (stile timoroso). Si tratta di una reazione non molto proficua, letta dagli alunni come un permesso a persistere nel comportamento distruttivo. Una delle conseguenze di tale stile, secondo Ernst, è quella di diventare facilmente depressi, in quanto il docente potrebbe cominciare ad usare le interazioni con gli studenti come occasione per confermare l’idea che il mondo è ostile e che gli altri sono ingrati. Un altro possibile atteggiamento è quello che possiamo definire da calcolatore. Si tratta di uno stile tipico di chi gestisce le interazioni educative ricorrendo ad un atteggiamento ordini e regole, ma allo stesso tempo, tali atteggiamenti rischiano di confermare nell’educatore che l’allievo sia maleducato, immaturo ed aggressivo. Queste strategie esaminate e l’adattamento che intendono realizzare, implicano un processo di apprendimento che si fonda sulle leggi del condizionamento operante di Skinner, nel suo studio classico relativo al ratto bianco collocato in una delle gabbie da lui escogitate. Le parti essenziali di tale dispositivo sono date da una leva che il ratto può premere e da un erogatore di cibo azionando la leva. Il soggetto emette una risposta in vista della soddisfazione di un bisogno o in vista di un dolore; emette una risposta per ottenere o per evitare qualcosa. Ed è quanto sostanzialmente ci si aspetta da un allievo affinché faccia o non faccia una cosa per evitare conseguenze negative, oppure per avere vantaggi e benefici. I tipi di condizionamento possibili, nel nostro caso sono tre: Tipo di ricompensa e ricompensa secondaria: durante il periodo scolastico il concetto di sé dell’allievo è molto dipendente dai risultati scolastici e dal giudizio dei compagni e dei docenti. Il giudizio positivo da parte del docente e l’approvazione dei compagni sono spesso ricercati dall’allievo. La motivazione che spinge l’allievo all’adattamento è un bisogno immediato che intende soddisfare immediatamente oppure in un secondo momento. Tipo di fuga: Allontanare il ragazzo dall’aula, implica una forma di condizionamento che possiamo definire tipo fuga: la motivazione ad adattarsi è quella di evitare una situazione spiacevole che frustra un bisogno attuale. Tipo prevenzione: Molti educatori sono convinti che il modo migliore per gestire il disagio degli alunni sia quello di incutere molto timore. In questo terzo caso, la motivazione dovrebbe spingere l’allievo a fare o non fare certe cose, è quella di prevenire una situazione spiacevole futura. Alcuni studiosi hanno documentato che non fa molta differenza, in alcuni casi, se gli stimoli suscitano piacere o dolore: alcune cavie, in assenza di stimolazione, per raggiungere il cibo preferiscono passare attraverso griglie elettrizzate subendo sgradevoli scosse elettriche, piuttosto che passare attraverso corridoi che non somministrano scosse e consentono soltanto di raggiungere il cibo. Altri studi riferiscono che scimmiette di tenera età preferiscono stare più a lungo con u fantoccio che, nel fungere da madre artificiale, oltre al cibo somministri anche scosse elettriche piuttosto che con quello che eroga soltanto cibo. E’ possibile evidenziare alcuni comportamenti autolesionisti nei portatori di handicap. Secondo gli studiosi, se l’ambiente offre una stimolazione o troppo ridotta o troppo eccessiva (presenza di troppa gente) avvia forme di autolesionismo. Paradossalmente, un alunno sistematicamente punito potrebbe continuare a comportarsi inavvertitamente in modo da ottenere proprio quel tipo di “carezze negative”, visto che non riesce ad averne di positive. Di conseguenza, il tentativo di bloccare un comportamento disfunzionale verrebbe ad essere alimentato proprio dall’intervento che vorrebbe eliminarlo. Và insegnato all’allievo a comunicare il suo messaggio secondo una modalità alternativa socialmente costruttiva e appropriata. L’educatore è invitato, innanzitutto, a verificare e individuare la presenza di bisogni sotterranei manifestati in modo ambivalente. Uno dei presupposti fondamentali è che nel momento in cui un soggetto non riesce a soddisfare i bisogni attraverso le vie ordinarie è facile che ricorra a dei percorsi per così dire straordinari. Dinanzi la ragazzo che si ostinava a tenere gli occhiali da sole in classe, l’ipotesi è che il bisogno sia quello di essere visto, di essere riconosciuto. Si tratta di un aspetto che non è stato adeguatamente colto dal docente che, di conseguenza, l’ha svalutato agendo unicamente per eliminare quel comportamento esterno, incomprensibile, ritenuto fuori luogo e di disturbo. Un secondo elemento portante, riguarda la possibile lettura secondo un doppio livello: superficiale e nascosto, sociale e psicologico. Nel caso del ragazzo con gli occhiali da sole il livello superficiale può riguardare l’ostentazione fuori luogo di un comportamento che non viene approvato in classe. A livello profondo è presente il bisogno di esser riconosciuti. Colta questa valenza del comportamento di disturbo il docente potrebbe piuttosto, che cercare di imporre la sua volontà perseguitando il ragazzo, cominciare a notarlo, a riconoscerlo (Che begli occhiali che hai oggi, complimenti!) Dopo che il ragazzo si sarà sentito importante, facilmente metterà via gli occhiali spontaneamente senza alcuna necessità di insistere. Se, in particolare, un adolescente maschio incontrando una coetanea femmina cerca di mostrarsi forte, secondo il principio del doppio livello è che quanto più il soggetto ostenta un aspetto di sé, tanto più è probabile che sia fragile proprio sotto quell’aspetto. A livello sociale si vedrà l’alunno che vuol apparire forte, che esibisce potenza sessuale; a livello psicologico si può ipotizzare un bisogno di nascondere l’insicurezza. L’età preadolescenziale è carica di ambivalenze ed il soggetto può essere paragonato ad gambero o un’aragosta nel momento in cui perdono il guscio: resta senza protezione fino a quando no ne ha fabbricato uno nuovo. Se nel periodo in cui sono vulnerabili subiscono dei traumi. Il ragazzo di quest’età vive il dramma del gambero e dell’aragosta: lascia situazioni note e si muove verso l’ignoto, lascia sicurezze e protezioni e si avvia verso il rischio dell’autonomia e dell’indipendenza. Il film “Mignon è partita” sottolinea molto bene la condizione preadolescenziale ed adolescenziale (Mignon si alza di notte, con l’atteggiamento di chi se ne vuole andare; Chiara, la cugina, reagisce con assoluta tranquillità. Appena giunta fuori dal cancello, quella sicurezza e quella determinazione ostentate da Mignon si frantumano: scoppia in lacrime. Dietro la manifestazione esterna di sicurezza del preadolescente si celano spesso paura e bisogno di sostegno da parte dell’alunno. Nel film, Mignon si mostra estremamente permalosa e se la prende più del dovuto dimostrando di non tollerare critiche. Vedendo come unica via di uscita quella di andarsene liberandosi della situazione conflittuale. Il bisogno interno, pertanto, è quello di protezione e affetto. E’ plausibile ipotizzare che i soggetti che ostentano la loro competenza,che si prodigano per apparire bravi siano i primi a nutrire dubbi su di sé: mostrandosi bravo forse gli consente dio nascondere a sé e agli altri che teme di essere inadeguato proprio in quel punto. L’educatore che osserva può essere tratto in inganno se focalizza la sua attenzione soltanto sul livello esibito. L’educando vuole soddisfare un suo bisogno psicologico, ma fa questo attraverso un comportamento che spesso determina un effetto paradossale: vuole avere affetto, attenzione e viene spesso isolato, emarginato. L’insegnante che ricorre unicamente agli interventi banali, che rimprovera l’alunno che disturba o che punisce. Fa l’esatto contrario di quello che dovrebbe fare l’educatore. Tempo fa, quando il professore Amenta insegnava ancora Dinamico di Gruppo, mentre faceva lezione, piombò in classe l’insegnante di inglese che voleva sapere il programma del professore con toni sproporzionati e fuori luogo. I due si conoscevano poco e si erano incontrati pochissime volte. In situazioni del genere, l’intervento può tener conto del livello esterno, sociale, o di quello interno, nascosto. Un intervento che si focalizzi sul livello esterno potrebbe accogliere la richiesta e riferirle dei contenuti del programma oppure potrebbe fondarsi sul confronto di quell’atteggiamento tutt’altro che gentile. Alcune opzioni interessanti si possono comunque individuare incentrandosi sul livello nascosto. Infatti, la collega aveva dichiarato di aver bisogno cosa potesse fare con gli allievi e come adattare il suo programma. E’ dunque facile intuire che a livello nascosto possa esser presente preoccupazione, paura di non far bene, bisogno di fuggire dal rischio di fallire, di sbagliare. Se si tiene conto di questo punto di vista forse ha più senso cercare di rassicurare l’interlocutore piuttosto che confrontarlo. Nella situazione reale, il professore ha cercato di tranquillizzarla formulando messaggi del tipo “Io penso che tu stia facendo proprio quello che bisognerebbe fare, oppure, gli studenti hanno dichiarato di essere contenti delle tue lezioni”. Dopo un po’ la collega riprese a sorridere e uscì dall’aula senza mai aver notizia di quale fosse il programma di Dinamica di Gruppo. Il docente frequentemente si imbatte in situazioni di allievi in cui sono presenti degli analfabetismi a cui non può far finta di non vedere. Caso: Una collega riferiva tempo fa di essere rimasto di stucco nell’ascoltare una giovane mamma mentre gli chiedeva come fare per abortire. Era già madre di un bambino, aveva il marito in carcere, ma era rimasta ancora una volta incinta in seguito alla relazione con un nuovo amante. La cosa che fece andare in tilt il collega fu il fatto che la giovane gli avesse raccontato la sua esperienza tutt’altro che piacevole con la massima disinvoltura e col sorriso sulle labbra. Gli studi condotti dagli analisti transazionale da Berne in poi, hanno consentito di mettere in evidenza che esistono sentimenti naturali e sentimenti di ricatto. Si tratta di sentimenti genuini: l’allegria, al posto della tristezza, la paura al posto della rabbia. Fin dalla primissima età, infatti, il bambino viene incoraggiato e scoraggiato nel sentire e nell’utilizzare determinati sentimenti. Dinanzi a tali pretese il bambino si trova dinanzi ad un bivio: adattarsi o ribellarsi. Il bambino scoraggiato dall’esprimere un sentimento come la rabbia può trovare vantaggioso sostituirlo, con la paura. Nelle situazioni in cui il sentimento espresso non risulti congruenti siano dinanzi al primo indizio che denota la presenza di un sentimento di ricatto. Se l’alunno racconta un’esperienza triste mostrandosi allegro è facile che ci troviamo dinanzi ad un modo di sentire distorto: esiste un sentimento superficiale, esterno che ne copre un altro nascosto, naturale. Un altro criterio per individuare i sentimenti di ricatto è dato dal cambiamento di direzione dell’azione attraverso la sostituzione radicale del sentimento, ad esempio, il ragazzo che subisce un sopruso potrebbe passare a tranquillizzare l’interlocutore piuttosto che protestare. I casi in cui si possono accertare dei cambiamenti di direzione sono n numerosissimi come, il caso della madre, che gettò dalla finestra il figlio di pochi mesi perché non sopportava di sentirlo piangere, oppure, l’atteggiamento del genitore che picchia il figlio che si è fatto male cadendo mentre giocava. Un terzo criterio fondamentale per individuare i sentimenti di ricatto è la presenza di una manifestazione esagerata. Caso: ad esempio, in una scuola primaria un bambino di 7 anni, senza motivo apparente, in preda alla crisi di rabbia, strappava quaderni dei compagni. Superata la crisi il bambino prometteva che non l’avrebbe fatto più. La madre, convocata reagiva a sua volta ammonendolo duramente. La rabbia dell’allievo, in questo caso, che risulta sproporzionata, non si può considerare un sentimento genuino. Pertanto, il bambino ha bisogno di socializzare che va bene sentire la rabbia e che in molti casi può risultare una compagna preziosa in quanto da essa può trarre forza e la spinta Gli educatori richiedono ripetutamente suggerimenti per trattare la demotivazione cercano i metodi e rimedi per gestire il disinteresse e a volte il rifiuto palese dell’educando di eseguire quanto proposto. Sebbene variano luoghi, persone e contesti, alcune dinamiche sostanzialmente ricorrono: l’educatore formula una richiesta, l’educando si rifiuta e mostra interesse a fare altro. Bisogna, invitare gli educatori a riflettere su cosa fanno dinanzi ai comportamenti oppositivi e su cosa possono fare di diverso, senza dimenticare che il comportamento degli educandi non dipende in modo lineare dall’azione educativa. Uno degli stili comunemente utilizzati dagli educatori, dinanzi al bambino che rifiuta di accondiscendere alla richiesta di fare una certa cosa, è quello vessatorio. Caso: Durante un laboratorio proposto da 2 insegnanti, mentre tutti accolgono la richiesta di sedersi a terra, Emanuele si rifiuta. Dopo vari richiami, l’insegnante lo trascina con la forza, sgridandolo. Il bambino comincia a piangere. Un altro esempio: Durante una gita scolastica, un allievo ballava sul pullman disturbando l’autista, così il docente, constatato che i ripetuti inviti a smettere non sortivano l’effetto sperato, gli mollava uno schiaffo e il ragazzo sedeva. Poi, l’insegnante si sentì in colpa così chiese scusa ai genitori, ma con soddisfazione notò che grazie al suo intervento il ragazzo si era seduto evitando rischi peggiori. Va rilevato che, la modalità brusca, di certo non aiuta ad accettare la frustrazione legata al divieto, anzi va ad aggiungersi ad essa. Lo stile persecutorio, alimenta facilmente dinamiche distruttive a spirale crescente: inizialmente i toni sono delicati, via via il clima degenera e facilmente diventa ostile e a volte violento. Alcune forme di intervento impiegate per gestire la demotivazione e il rifiuto risultano piuttosto svalutanti e in certi casi si accaniscono nei confronti dell’alunno. Caso: Carlo, trentenne, tende a vivere in maniera catastrofica le separazioni al punto che, comincia a manifestare insofferenza e va in escandescenza: si butta per terra, urla, piange pregando perché tutto torni come prima. Uno degli elementi che colpisce, nel passato di Carlo, è il tipo di interazione con le figure significative caratterizzato, dall’uso dell’inganno per proteggerlo da esperienze traumatiche. Carlo racconta che quando aveva 6 anni, gli hanno nascosto che sarebbe andato dal dentista per tirare il dente,ma gli era stato detto che era solo una visita. L’intenzione della madre, ovviamente, era quella di risparmiare il trauma al figlio e l’eventuale rifiuto. Carlo vive una specie di incubo, maturando così l’idea che gli altri sono falsi e che l’unico modo per evitare di essere imbrogliati sia quello di non fidarsi. Esistono diverse definizioni di conflitto e gli psicologi, a partire da Lewin, ne hanno individuati diversi tipi: intrapsichico, interpersonale ed educativo. Per quanto riguarda il primo la personalità è concepita come un insieme di forze, di polarità, che spesso si scontrano. Per gestire il conflitto intrapsichico viene suggerito di definire e di individuare con precisione le polarità in modo tale che il soggetto ne diventi consapevole. Il principio è che quanto più un soggetto diventa consapevole tanto gestisce sé e gli altri. Al contrario, se rifiuta le parti di sé, inconsapevolmente, attiverà delle difese e metterà in atto dinamiche interpersonali conflittuali allo scopo di risolvere all’esterno, il conflitto interno irrisolto. Il secondo tipo di conflitto è quello interpersonale. Per quanto attiene invece il conflitto interpersonale, Buzzi indica 4 tipi di conflitto: il conflitto emotivo, che origina dai sentimenti che vi sono in relazioni strette di tipo familiare o amicale; il conflitto di dati, che nasce dal possesso di informazione diversi interlocutori da cui originano dei fraintendimenti; il conflitto di valori, che nasce dalla discrepanza tra azione e valori. Esso ha origine interna quando uno degli interlocutori mette in scena dinamiche che originano da problematiche irrisolte di cui non è consapevole. Tra i meccanismi di difesa più importanti, la proiezione e la rimozione, detiene un ruolo dominante. Il conflitto interpersonale ha origine relazionale quando il disaccordo riguarda, al contrario, un problema reale e non risulta da proiezioni e tanto meno da comportamenti scenici. Esso viene considerato “sano”, se si fonda sulla consapevolezza, sull’integrazione di sé. Gli studiosi sono concordi nel ritenere che il conflitto sano contribuisce a migliorare le relazioni. Accanto al conflitto interpersonale va considerato quello educativo che nasce nel rapporto tra educando ed educatore. Torino, individua diverse motivazioni tipiche del soggetto in età evolutiva che possono avviare il conflitto con l’adulto. Alcune delle funzioni tipiche del conflitto educatore/adolescente sono affermare sè stessi, differenziare e distinguere sé stessi dagli altri, emanciparsi dall’adulto e crescere conquistando livelli più elevati di responsabilità e di libertà, esprimere potere e senso di potenza. L’educatore spesso richiama verso un dover essere, l’educando intende conservare tutti i suoi bisogni, desideri e interessi. L’azione educativa, in tal senso, da una parte limita l’azione dell’educando, dall’altra è limitata dalla sua personalità, dallo sforzo del soggetto di diventare ciò che è e vuole essere. L’educatore deve integrare molteplici esigenze interne al soggetto da educare ed esterne derivante dagli aspetti normativi, standard, aspettative di ruolo, esigenze personali. Ne deriva la necessità di una ricerca di equilibrio , tra l’iniziativa dell’educatore e la risposta da parte dell’educando. Gli psicologi e i pedagogisti hanno coniato il principio della discrepanza ottimale per orientarsi in questa ricerca di equilibrio. L’azione educativa non può prescindere dallo sviluppo della libertà e dell’autonomia dell’educando, quindi è necessario, ricercare modalità autorevoli che sostituiscano quelle di tipo autoritario. A parere di Nanni, due sono i rischi comuni: pensare che la relazione educatore-educando comporti necessariamente l’impedimento e il limite della libera crescita personale, come nel classico mito di Edipo che giunge al punto di uccidere il padre per diventare re; o all’opposto, concepire la crescita dell’educando un pericolo per l’assetto sociale esistente, come svela il mito di Laio, che teme di essere privato del potere dal figlio Edipo, o quello di Crono, che divora i figli per evitare che diventati i grandi possano sostituirlo ed estrometterlo. L’alternativa al padre edipico, è quella del padre simbolico liberante che si propone proprio di promuovere l’iniziativa e la libertà del soggetto. Secondo lan proposta della pedagogia di impostazione umanista, l’educando deve essere aiutato ad attualizzare, realizzare e diventare tutto quello che è ed è capace di diventare. D’altro canto le posizioni di ispirazione personalista hanno sottolineato l’importanza del <dover essere> che va integrarsi con quello < dell’essere> dell’educando. L’interazione educativa si realizza in modo costruttivo se si fonda su una sorta di equilibrio tra aspettative personali e sociali. I fattori personali sono costituiti dagli interessi e dai bisogni dei discenti. I fattori sociali riguardano, invece, le aspettative legate alle istituzioni e alla società appartenente. Si possono individuare al riguardo 3 possibili stili: nomo tetico, idiografico, transazionale. Il primo tende ad attribuire il peso maggiore alle aspettative sociali e concepisce l’educazione come trasmissione di conoscenze. Lo stile idiografico, rispetta le aspettative ed i bisogni del singolo educando, consentendogli di scegliere quanto per lui risulta significativo. Il terzo stile, cerca di realizzare una sorta di equilibrio tra aspettative sociali e aspettative personali. Lo stile dell’educatore può essere descritto dalla dimensione denominata convenzionalità vs flessibilità. Secondo la prima polarità, l’educatore parte dal presupposto che l’osservanza, il rispetto delle regole e delle norme, sia prioritario rispetto a qualsiasi altro obiettivo, facendone continuo riferimento nel suo agire educativo. Al contrario, invece, gli educatori cercano di rispettare le condizioni reciproche, non interpretano i ruoli secondo norme, ma manifestano flessibilità, consapevoli che la pressione verso la disciplina e il rendimento provocano facilmente un’esperienza negativa. Anche in didattica si possono individuare tre possibili percorsi per risolvere il dilemma: ascendente,discendente e integrativo. Il primo parte dalla descrizione della situazione scolastica e cerca di innestarvi le finalità e gli obiettivi. Il metodo discendente rovescia la prospettiva in quanto parte dall’individuazione delle finalità e degli obiettivi da alcune grosse aree disciplinari. Il metodo integrativo parte, invece, dal concetto di bisogno e si articola in quattro momenti: identificazione di un largo spettro di possibili obiettivi, ordinamento degli obiettivi secondo un ordine di importanza, valutazione della discrepanza tra obiettivi e situazione degli allievi, determinazione dell’ordine di precedenza nell’attuazione degli interventi formativi. Un primo criterio basilare del successo, quello di invitare l’educando piuttosto che imporre di fare qualcosa. Diversi tipi di intervento tendono ad incoraggiare a fare una certa casa. Risultati analoghi, possono essere sostenuti da motivazioni differenti. Poniamo il caso, ad esempio, che un allievo cominci ad impegnarsi in quanto teme le conseguenze negative (bocciatura). Un secondo alunno, ugualmente demotivato, prende atto che ha la possibilità di portarsi a casa qualcosa. Il risultato sembra identico: entrambi cominciano ad impegnarsi, ma i percorsi interni seguiti per raggiungerlo sono differenti: nel primo è più l’effetto di un condizionamento operante; il secondo è la conseguenza di una scelta libera. Nel caso in cui l’intervento correttivo si dovesse rilevare insufficiente, è ragionevole applicare <<più di prima>> le misure normalizzatrici. Si tratta di una logica comunemente applicata in molte situazioni quotidiane, se utilizzate in ambito relazionale ed educativo è facile che il principio non si riveli del tutto efficace. Dinanzi al problema dell’alcolismo, ad esempio, le strategie impiegate si fondano sulla restrizione dell’alcool. E, quando i metodi impiegati non bastano a risolvere i problema, è coerente, intervenire attuando più severamente di prima le misure normalizzatrici: la restrizione diviene proibizionismo. Però, le conseguenze si rivelano peggiori del male stesso che vorrebbero risolvere: l’alcolismo dilaga ancor più, nasce tutta un’industria clandestina. Appurato che il problema permane, sempre nella logica dell’opposto e del più di prima, facilmente si ricorre all’incremento ulteriore del proibizionismo che diventa sempre più duro. Si può rilevare in parecchie strategie cui ricorrono gli educatori dinanzi al bambino che rifiuta di mangiare, che è iperattivo, che dice parolacce. L’uso di interventi via via decisamente più duri che, a lungo andare, producono effetti paradossali. Ribellione piuttosto che compiacenza. Caso: Giuseppe, docente di scuola elementare, decise un giorno di istituire una piccola biblioteca di classe, dando la possibilità a ciascuno di scambiarsi molti libri. Commise, però, un piccolo errore perché gli allievi che leggevano di più venivano elogiati, mentre quelli che ne prendevano in prestito meno venivano disapprovati. Sembra trattarsi di un dettaglio irrilevante, ma è bastato per attivare u n paradosso che ha reso impossibile il raggiungimento dell’obiettivo prefissato perché I docenti chiedono, strategie e tecniche per attirare e mantenere l’attenzione degli allievi, ma poiché non esistono formule, il docente deve individuare i bisogni degli interlocutori ed escogitare delle strategie in maniera creativa. Quando un relatore viene inviato a tenere una conferenza ai docenti e questi si rende conto che una parte dell’uditorio è demotivata, alla stessa stregua del docente dinanzi alla sua classe può: ricorrere alla critica e all’imposizione oppure mollare tutto e andarsene oppure ancora continuare a parlare senza essere ascoltato. La prima alternativa implica un appello all’adattamento, è possibile che qualcuno si ribelli minacciando di andarsene, oppure è facile che molti facciano altro rifiutando di adattarsi e parlino con chi gli sta accanto. La seconda alternativa: appurato che i destinatari sono distratti e intenzionati a fare altro, potrebbe abbandonare il campo e andarsene. Non mancano docenti che, dinanzi, agli insuccessi nel gestire la demotivazione degli allievi, minaccino di abbandonare il campo andando in pensione o chiedendo il trasferimento. E’ molto comune, invece, che il docenti realizzi la terza possibilità: parlare senza essere ascoltato. E’ ovvio che il modo di farsi ascoltare non può passare attraverso moralismi, rimproveri ed imposizioni. Sotto l’effetto dell’imposizione, dell’obbligo un allievo potrebbe anche mettersi ad ascoltare o a studiare, ma non siamo sicuri di aver stimolato una buona motivazione ad apprendere. Dinanzi agli allievi demotivati, il docente reagisce con la logica dell’opposizione e del più di prima ovvero quanto più il docente incoraggi il cambiamento e stimoli l’ interesse, tanto più l’allievo si depotenzia. Un assunto fondamentale compendiato dagli studiosi della scuola Palo Alto è che nella gestione di situazioni paradossali sia necessario ricorrere a strategie altrettanto paradossali. A parer loro, occorrono strategie sofisticate, altrettanto paradossali, denominate controparadossi. Una delle applicazioni del modello proposto riguarda quella che viene definita prescrizione del sintomo che consiste nel prescrivere al paziente di continuare a comportarsi proprio come si comporta già. La resistenza non va scoraggiata, ma va considerata come un importante veicolo del cambiamento. E’ un po’ come se il soggetto intendesse contrastare il corso d’acqua di un fiume; se egli lo ostacola e cerca di fermarlo, facilmente il fiume potrà soverchiarlo, ma se egli prende atto della forza e la devia in una nuova direzione, la corrente del fiume finirà per scavarsi un nuovo letto. Il tentativo simbolico di contrastare il corso d’acqua di un fiume si può osservare nella gestione del conflitto educativo se realizzato secondo una logica “dell’opposto” e “del più di prima”. Per comprendere meglio questa dinamica, gli studiosi propongono una metafora: sembra di vedere due marinai che si sporgono all’indietro entrambi sul lato opposto di una barca a vela per mantenerla stabile. Quando più l’uno si sporge indietro tanto più l’altro, per compensare la instabilità determinata, deve protendersi indietro in direzione opposto. Se l’uno si spinge ancora più indietro l’altro deve più di prima tendersi indietro in senso opposto. E’ facile immaginare che, dinanzi qualche cambiamento nella direzione desiderata dall’educatore, sia appropriato lodare l’allievo per i progressi raggiunti, ma questo non sembra risultare efficace. Dinanzi ad un gruppo di allievi demotivati il senso comune detterebbe un tentativo di interessare, mostrando, ad esempio, quante cose interessanti si ha da dire. Il risultato non sempre è positivo. Si può considerare controparadossale il messaggio seguente: “immagino che con tutte le cose piacevoli che avete da fare non siete molto contenti di stare qui! Io peggio di voi.” Il messaggio inconsueto stabilisce una relazione atipica: al posto della solita relazione in cui il docente si aspetta delle cose da un interlocutore invitato a corrispondere, il contraparadosso determina una situazione nuova che pone l’altro dinanzi ad un bivio: mostrando che l’educatore avrà avuto ragione oppure reagire cercando di dimostrare il contrario ed effettuando una scelta che segna l’inizio del cambiamento. IV CAPITOLO Un rischio diffuso tra quanti si propongono di alleviare il disagio, di promuovere il benessere dei destinatari del loro intervento è tecnicamente noto come sindrome di burnout, intesa come una modalità di adattamento in risposta allo stress sperimentato in situazioni lavorative. Va concepito come una fuga da una situazione lavorativa vissuta quotidianamente con forte stress in cui non si intravedono vie d’uscita e possibilità di miglioramento. Il burnout viene concepito come una sindrome psicologica caratterizzata da tre dimensioni basilari: esaurimento emotivo, depersonalizzazione, diminuzione del senso di realizzazione e di autoefficacia. L’esaurimento emotivo corrisponde alla sensazione di trovarsi sfiniti e logorati. La depersonalizzazione è accompagnata, invece, da atteggiamenti negativi che scadono talvolta nel cinismo nei confronti dei soggetti a cui è rivolto l’aiuto. Il senso di riduzione dell’autoefficacia e della realizzazione personale, invece, si riferisce alla diminuzione del proprio senso di competenza e di efficacia, ad un pervasivo senso di impotenza di valutazione negativa di sé. Cherniss definisce il burnout come un processo caratterizzato da tre fasi tipiche: stress lavorativo che nasce dalla discrepanza tra richieste e risorse disponibili; la tensione come risposta emotiva allo squilibrio caratterizzata da sensazioni di ansietà, nervosismo ed esaurimento; e conclusione difensiva che costituisce l’accomodamento psicologico caratterizzato da atteggiamenti come rigidità e distacco emotivo. Uno dei modelli interpretativi proposto da Pines considera il desiderio di dare un senso alla vita come la principale forza motivante dell’essere umano. Secondo tale modello quando un professionista risulta considerevolmente motivato, facilmente si propone di realizzare il significato della propria esistenza nell’ambito del lavoro. Di conseguenza, diviene un candidato privilegiato del burnout in quanto il senso di fallimento conseguente potrà produrre una progressiva disillusione. E’ l’eccesso di motivazione che comporta un eccesso di coinvolgimento che determina un aumento di stress, di ansia. Quando il lavoro comporta dei fallimenti, facilmente si innescherà il circolo vizioso che potrà condurre ad una progressiva riduzione della motivazione. Caso: In quinta classe, della scuola primaria una bambina trova, un giorno, diverse oscenità sul suo diario. Dunque lo fa presente alla maestra e dopo alla mamma. Nei giorni seguenti le volgarità vengono trovate dall’allieva anche sui libri e qualche giorno dopo, persino sul diario nuovo acquistato per sostituire quello vecchio. L’insegnante punisce la classe. In seguito, con l’aiuto degli altri bambini capisce che è stata lei, e dopo averla convocata, con atteggiamento inquisitorio riesce a farla confessare, mentre piange disperatamente. Il motivo è che una compagna non aveva perso occasione per farle dei dispetti, per emarginarla ed escluderla dai giochi di gruppo. La maestra di Alessia ha assunto un ruolo ispettivo, avviando degli interventi volti a scoprire l’autore del “reato” per poi farlo confessare e pentire. La logica soggiacente è di tipo moralistico e si concentra su quanto è esternamente visibile aspettandosi un ravvedimento e la promessa di non farlo più. L’educazione in passato era fortemente caratterizzata dall’adultomorfismo, l’educando veniva considerato come il futuro adulto, un essere che doveva essere aiutato a diventarlo. Il criterio fondamentale per giudicare se una persona fosse matura consisteva nel valutare la distanza rispetto all’ideale adulto caratterizzato dalla capacità di giudicare e di discernere il bene dal male. Alla fine dell’800, il gioco era considerato come perdita di tempo, è assimilato all’ozio e considerato con sospetto in quanto poteva generare i vizi. Il disagio, oggi, è letto quasi come una sorta di dispetto da parte dell’educando poco giudizioso e immaturo. L’insegnante è un educatore e dovrebbe lasciare agli altri il mestiere di indagare per far confessare. Educare, vuol dire per prima cosa comprendere come mai l’allieva si metta ad imbrattare diario, libri e quaderni con delle parolacce. Alessia attraverso il suo modo di agire rivela che non può permettersi di sentire e di usare apertamente la sua rabbia. Il clima “poliziesco” creato in classe non consente di perseguire alcun obiettivo educativo, nella direzione dell’alfabetizzazione affettiva, ma rischia di rivelarsi antieducativo in quanto promuove ulteriormente l’analfabetismo di Alessia, infatti, facilmente la bambina può ulteriormente confermare la convinzione che non vada bene arrabbiarsi. E’ fondamentale dal punto di vista educativo insegnare ai bambini che vada bene sentire e vivere la rabbia e che non c’è motivo di nascondersi o ricorrere a percorsi sotterranei per manifestarla, i quali non consentono di soddisfare il proprio bisogno. Concretamente, potrebbe aiutare Alessia ad identificare cosa sente quando la sua compagna tende ad escluderla o a farle dei dispetti. Può successivamente invitarla ad usare in maniera costruttiva quello che sente, ad esempio, esternandolo per intervenire sulla situazione e cambiarla. L’insegnante può, in seguito, intervenire sull’intera classe e, può avviare dei percorsi strutturati volti a promuovere l’alfabetizzazione affettiva in tutti i bambini. Egli potrebbe proporre un esercizio in cui i bambini vengono invitati a sedere a coppie e a rispondere a turno alla seguente questione “vengo emarginato dai giochi di gruppo, cosa sento, cosa penso, cosa faccio? In una seconda fase può chiedere ai bambini quali opzioni hanno prodotto e aiutarli ad identificare i sentimenti più comuni emersi. Oppure può spingersi oltre e proporre una recita in cui i bambini che hanno difficoltà con un sentimento potrebbero essere invitati ad assumere ruoli appartenenti a personaggi che si danno il permesso di sentire, usare, vivere quel sentimento. In un’esperienza è stato proposto ai bambini di scegliere è stato proposto ai bambini di scegliere un animale in cui si identificavano, poi sono stati invitati a mettere in scena un mimo in cui, però, ciascuno esprimesse la polarità opposta. In particolare, se un bambino aveva scelto il leone, ritenendo che gli somigliasse per l’aggressività, veniva invitato a simulare la polarità opposta: dolce e gentile. Caso: Loredana a parere dei docenti, è una bambina difficile sia da contenere che da gestire, suscita dei problemi relazionali per la sua difficoltà persino all’interno del team. Fin dai primi giorni di scuola, la bambina ha manifestato insofferenza, intolleranza e irrequietezza. Nei momenti in cui si cimenta nello svolgimento di qualche compito manifesta agitazione, si dondola e muove le mani in modo improduttivo. In tali occasioni diventa aggressiva fino al punto di distruggere i suoi quaderni, o lanciare oggetti ai compagni. L’insegnante di sostegno si è accuratamente resa conto che il disagio della bambina e i comportamenti che l’accompagnano si moltiplicano a dismisura in concomitanza con l’aumentare delle richieste di maggior impegno da parte degli insegnanti. Un episodio fu particolarmente pregnante: l’insegnante di sostegno fu colpita dalla reazione singolare della bambina in occasione di un suo errore. Loredana reagisce in modo sproporzionato. Non si limita, infatti, a far notare lo sbaglio, ma comincia ad alzare la voce, ad alzarsi più volte facendo e ripetendo continuamente che in nessun modo l’insegnante possa sbagliare. compagni, e prima ancora cosa vive e cosa sente dentro di sé. Facilmente dinanzi a d un bambino come Giuseppe si rischia di non considerare cosa vive e cosa sente. Egli esprime i suoi sentimenti in modo da procurarsi effetti negativi e da stimolare il comportamento persecutorio da parte degli interlocutori. Quella di Giuseppe è una rabbia sproporzionata, distruttiva, trasferita sui compagni che non c’entrano: il bambino si arrabbia prima di andare a scuola, con i genitori perché nonostante le sue insistenze, l’accompagnano sistematicamente a scuola in ritardo. Lui giustamente vuole evitare che l’insegnante lo riprenda e che i compagni lo giudichino per il suo ritardo. I genitori di Giuseppe non lo ascoltano, anzi gli comandano di stare zitto e a volte lo puniscono dandogli qualche schiaffo. Se l’insegnante punisce Giuseppe rischia di fare qualcosa di simile a quel che già fanno i suoi genitori: svalutare quello che sente. Attraverso la sua condotta il bambino manipola insegnanti perché si comportino in modo per lui familiare: svalutino la sua rabbia e lo invitino a controllarsi in modo educato. L’insegnante potrebbe intervenire dicendo “Giuseppe ma cosa ti è successo, come mai sei così arrabbiato / lascia stare il compagno, vieni qui, raccontami cosa ti è successo”. Se il docente persevera e, oltre ad invitarlo a comportarsi in maniera educata, consentirà al bambino di esternare quello che sente, quello che vive senza paura, pian piano gli consentirà di riappropriarsi della sua rabbia, di apprendere che si tratta di sentimenti legittimi e che vanno usato in modo assertivo piuttosto che distruttivo e non per procurarsi svantaggi invitando gli altri a punirlo o ad emarginarlo. Una volta appreso a verbalizzare quanto sente, il bambino potrebbe poi essere educato a raggiungere una seconda finalità educativa: cogliere e usare feed-back da parte degli altri. Il percorso educativo adottato in tal senso deve prevedere la restituzione dell’effetto che il suo comportamento sortisce: “Se aggredisci il tuo compagno, facilmente non vorrà sedere vicino a te”. Potrebbe anche coinvolgere il gruppo classe chiedendo , ad esempio “In quale altro modo può dire quello che sente e chiedere cosa vorrebbe”. Caso: Durante una riunione settimanale per la programmazione, un’insegnante iniziava a piangere. Aveva insistito perché una bambina disabile prendesse parte ad una recita. Durante la recita però la bambina, constata la presenza del pubblico si inibì fino a bloccarsi. L’insegnante si sentiva particolarmente in colpa perché aveva fatto fare un’esperienza umiliante alla bambina. Si tratta di un caso, in cui, l’insegnante si sente responsabile oltremisura dell’accaduto. Nella situazione reale, constata una difficoltà della bambina continuare, poteva fermare la scena e aiutare la bambina o consentirle di ritirarsi, così facendo insegnare a tutti che sentire paura è normale. Oppure, poteva inventare una qualche battuta, fermare la scena, rassicurare la bambina e chiederle se si sentiva di continuare o meno. Un atteggiamento comune dinanzi a persona con handicap o con difficoltà di apprendimento si esprime attraverso un’eccessiva protezione. Tale manifestazione si può osservare, nel tentativo di organizzare le condizione di vita generali dei portatori di handicap in modo tale che non si presentino nemmeno le occasioni perché il soggetto debba incorrere nelle difficoltà. Una seconda manifestazione dell’atteggiamento iperprotettivo riguarda la tendenza di chi si attiva oltre misura per aiutare chi soffre. Canevaro, in particolare, riferendosi al caso di un handicap motorio, osserva che, dinanzi ad un qualsiasi ostacolo come può essere uno scalino, il bambino con handicap, diversamente da un coetaneo normale che, è in grado di fare altro, deve applicare tutto sé stesso. Per poter raggiungere un livello ottimale nella prestazione, il bambino normale sperimenta se stesso dinanzi ad un simile ostacolo, magari cadendo un certo numero di volte prima di acquisire la competenza richiesta, il bambino con handicap subisce i maggiori impedimenti proprio da parte di chi vorrebbe aiutarlo: non pochi educatori, infatti, si precipitano cercano di aiutarlo perché egli non incontri ostacoli. Il rischio è quello i agire al posto di un altro e per un altro e questo può costituire una prigionia continua che rendono difficili molti apprendimenti. Tale atteggiamento alimenta la passività e la conseguente dipendenza. Esso, risulta, in pratica, l’esatto contrario di quello che dovrebbe fare l’educatore: promuovere l’autonomia, l’indipendenza e la consapevolezza dei propri limiti. Le ricerche mettono in evidenza una correlazione significativa tra il grado di sviluppo linguistico nei bambini e il rapporto con la madre. In particolare è documentato che i bambini di livello linguistico elevato interagiscono comunemente con madri disponibili a mantenere quella che viene definita una specie di convergenza di attenzione nell’interazione. I bambini con basso livello di competenze linguistiche, per contro, hanno comunemente con la madre una relazione asincrona a causa dell’eccessivo attivismo che facilmente degenera nella direttività. Dunque la coorientazione visiva della madre e del bambino sullo stesso oggetto, è possibile grazie a un adeguamento dell’attenzione da parte della, madre verso gli oggetti di interesse del bambino. Questo tipo di relazione, possibile grazie all’empatia, tende a mettere il bambino nel ruolo di partner attivo nell’interazione, rispettando le sue proposte. Si rivela paradossale, invece, l’atteggiamento di chi, dinanzi a un bambino si attiva oltre misura moltiplicando il numero degli interventi. Infatti, non rispettano tempi, ritmi, interessi del bambino, tale atteggiamento tende facilmente a stancarlo, a distrarlo e, di conseguenza, a passivizzarlo e a demotivarlo. L’atteggiamento iperprotettivo va messo in relazione con quello che è definito ruolo di salvatore. Karpman contempla tre ruoli tipici: persecutore, salvatore e vittima. Il ruolo di salvatore è quella di prodigarsi più del dovuto, di fare delle cose spesso non richieste, non necessarie e a volte nemmeno gradite. Diventa un salvatore il docente iperprotettivo, quello particolarmente largo nei voti, quello che, per timore di ferire l’allievo, dà giudizi immeritati gonfiandoli in positivo, quello che formula domande particolarmente facili per paura di mettere l’ allievo in difficoltà durante le interrogazione. Se il docente adotta il ruolo di salvatore, facilmente tenderà a incoraggiare oltremisura rendendo inutile la valutazione e la sua essenza che è quella di promuovere una immagine di sé nell’allievo realistica e rispondente alla realtà. Il salvatore mantiene un atteggiamento di superiorità che lo porta a considerare gli altri come incapaci di fare a meno del suo aiuto. Le indagini di Weiner, e un paio di anni più tardi, di Graham segnalano una relazione positiva tra l’atteggiamento indulgente immotivato da parte del docente e l’immagine negativa che l’allievo ne ricava dal punto di vista del sé scolastico. Dinanzi all’indulgenza eccessiva l’allievo facilmente ipotizza che l’insegnante pensi che egli abbia scarse capacità e, di conseguenza, eviterà di continuare ad impegnarsi nello studio. La posizione di vittima è complementare a quella del salvatore ed è mantenuta da molti educandi. Secondo il modello considerato l’allievo agisce da una posizione di vittima perché svaluta le su potenzialità, le sue capacità e, in questo caso attraverso il pianto, chiede di essere salvato e che l’altro faccia le cose al posto suo. La terza posizione del triangolo drammatico è quella del persecutore, tipica di chi nelle interazioni sminuisce il partner, lo svaluta, lo perseguita attaccandolo psicologicamente, e in certi casi, fisicamente. La proposta non è quella di rinunciare ad aiutare gli altri, ma di farlo in modo inadeguato. Occorre, innanzitutto, che l’aiuto sia necessario all’educando e che non gli impedisca, di fare quanto può o che sa fare da sé: è fondamentale evitare di fare delle cose al posto dell’altro. Caso: Luca è descritto dall’insegnante come un bambino vivace, che ama scherzare, ridere e che facilmente esagera nel muoversi fino al punto da non riuscire a fermarsi e a controllarsi. Durante una spiegazione l’insegnante fa una battuta di scherzo. Luca coglie al volo l’occasione per rispondere con una sua battuta umoristica e cominciando a far baccano. Dunque si alza e comincia a ripetere “scherzi a parte”; tira con sé un compagno e, insieme, cominciano a muoversi per tutta l’aula danzando e cantando. A nulla valgono gli inviti dell’insegnante a smettere e a tornare a posto. Così l’insegnante lo prende, lo porta fuori dall’aula e con tono minaccioso gli intima di non permettersi mai più. L’insegnante si sente confusa per la sua reazione, ma soprattutto per l’aumento della rabbia nei confronti del bambino che sente dentro di sé crescere fino a diventare abnorme e pericolosa. Esistono diverse situazioni analoghe, però, in cui la rabbia dell’insegnante viene agita e in certi casi aggressiva o violenta. Gli interventi comuni, solitamente consistono nella convocazione dei genitori, nella richiesta dell’intervento da parte dell’equipe psicopedagogica. E’ facile che ci si focalizzi solo sul bambino e sul suo comportamento, trascurando che esiste anche il problema del docente. Il primo elemento chiave è dato dal fatto che l’insegnante è particolarmente preoccupata che il fare di Luca crei una situazione incontrollabile. Dietro il controllo da parte dell’insegnante è presenta la fantasia del giudizio negativo da parte dei genitori, ma soprattutto l’attribuzione della difficoltà alla scarsa competenza, che porta ad acuire il controllo e determina l’aumento smisurato della rabbia. Se l’insegnante si desse il permesso di rilassarsi potrebbe accogliere la battuta iniziale del bambino, potrebbe ridere insieme a lui e, dopo un po’ potrebbe invitare tutti a tornare a lavorare. Gordon tratta della questione della disciplina in quanto nelle classi non mancano studenti che si comportano in maniera insostenibile creando problemi agli insegnanti e ai compagni. Gli educatori scivolano facilmente in atteggiamenti autoritari ,e a parere dello studioso, l’errore sta negli educatori che trascorrono troppo tempo a cercare di imporre la disciplina inevec di dedicarlo all’insegnamento in quanto incorrono alla minaccia di punizioni, ai rimproveri. Quanti si sono occupati di interazione educativa e di tecniche di comunicazione interpersonale da Lewin a Rogers fino a Franta hanno ripetutamente documentato l’utilità dei metodi non coercitivi per ottenere la disciplina. Franta ad esempio, ha sottolineato che nell’atteggiamento dell’educatore si possono individuare almeno due dimensioni: la dimensione emozionale e la dimensione controllo. La dimensione C. può variare lungo un continuum che oscilla da un massimo ad un minimo. Alti livelli di controllo caratterizzano messaggi e stili autocratici che si esplicitano nell’utilizzo di lodi e di biasimo, messaggi che assumono la forma di comandi o di ordini. Gli stili caratterizzati da bassi livello di controllo denotano atteggiamento di laissez-faire, contrassegnati dalla passività. E’ anche vero però che ci sono casi in cui non è così. Un primo elemento fondamentale è dato dalla presenza di una sorta di casualità lineare tra comportamento dell’allievo e reazione dell’insegnante: il docente è fondamentalmente convinto che se l’allievo smettesse di fare quello che infastidisce, la sua rabbia non lieviterebbe. E’ però il caso di sottolineare che nessuno è in grado di determinare un’emozione, una reazione, in un’altra persona. Ogni emozione nasce dalla risposta personale dinanzi a ciascuna situazione, dinanzi al