Scarica Gestire il Disagio a scuola e più Sbobinature in PDF di Sociologia della devianza solo su Docsity! Cap. 1. Il disagio nei contesti educativi. 1. Definizioni di disagio. Il disagio è ordinariamente inteso come esperienza strettamente personale e soggettiva da cui possono derivare dei segni osservabili e rilevabili dall’osservatore e dall’interlocutore. Disagio designa, la condizione di chi vive ai margini, si sente escluso, isolato, lontano dagli altri e da sé stesso. Nell’ultimo decennio l’uso del termine ha visto una diffusione crescente come categoria descrittiva della condizione giovanile anche se risulta difficile trovare una definizione univoca. Secondo le descrizioni più usate e ricorrenti nella letteratura psicopedagogia italiana il disagio è inteso: - Come sintomo dell’incapacità e dell’impossibilità del soggetto di trovare soluzioni soddisfacenti e coerenti alla propria identità rispetto alla contraddizione esistente tra la centralità soggettiva e la marginalità oggettiva; il disagio, perciò, esprime una specie di impasse insolubile tra ciò che è percepito come possibile e ciò che è percepito come radicalmente negato dalla società; - Come incapacità di tollerare e di gestire la complessità e di sostenere il peso della precarietà, della flessibilità e dell’eccessiva aleatorietà che caratterizzano la società attuale a livello di valori e di possibilità da parte dei soggetti dotati di identità fragili; - Come sintomo di domanda non patologica dei problemi psicologici ed affettivi, delle difficoltà familiari e relazionali, delle difficoltà scolastiche, del malessere esistenziale legato alla costruzione dell’identità; - Come espressione della difficoltà di assolvere ai compiti evolutivi richiesti dal contesto sociale per conseguire l’identità e le abilità necessarie per gestire le relazioni quotidiane; - Come risultato della difficoltà a gestire la complessità e a far fronte alle contraddizioni legate ai processi di socializzazione e di maturazione verso l’età adulta. Le definizioni proposte sembrano prediligere un approccio descrittivo più che interpretativo del disagio: rispondono più all’esigenza di raccogliere sotto un’unica categoria una molteplicità di forme nelle quali si esprime un diffuso stato di malessere, anziché quella di soffermarsi su eventuali meccanismi e dinamismi sottesi. Nelle definizioni offerte dagli studiosi si possono individuare alcuni elementi chiave: il disagio indica comportamenti e atteggiamenti non patologici, indica un malessere diffuso strettamente legato a difficoltà e problemi derivanti dai compiti evolutivi, dalle contraddizioni e dalla complessità relativa alla relazione individuo-società complessa. 2. Caratterizzazi0ni e forme 2.1 Livelli nella rilevazione del disagio. Una prima distinzione riguarda sostanzialmente le aree in cui si può manifestare il disagio nella vita del soggetto: intrapsichica, interpersonale e sociale. A livello individuale esso si delinea come una condizione interiore caratterizzata dalla difficoltà a star bene con sé stessi e dentro di sé. A livello interpersonale, in secondo luogo, il disagio si manifesta nell’incontro tra persone, che il soggetto tende a viere con difficoltà: ne derivano ansia, inquietudine, irritazione, sfida, rabbia diffusa. A livello sociale, in terzo luogo, il disagio origina e si manifesta in tutte quelle situazioni note come condizioni di svantaggio e di emarginazione. 2.2 Disagio oggettivo, soggettivo, “procurato”. Un primo approccio allo studio del disagio è di tipo soggettivo. Esso si focalizza sui vissuti psicoesistenziali che l’accompagnano. Tali vissuti possono facilmente manifestarsi attraverso vari segni divenendo osservabili e misurabili. Il secondo approccio è di tipo oggettivo e focalizza l’attenzione prevalentemente sulle situazioni o sulle condizioni di vita che vengono designate come premesse o antecedenti del disagio. Un’analisi ed uno studio completi del disagio richiedono un doppio livello: soggettivo e oggettivo. Necessitano dell’esame di una fitta rete di relazioni reciproche alquanto particolari e complesse tra i due piani. Fra i due piani possono esserci congruenze o incongruenze e non essendo del tutto semplice determinare con certezza la linea d demarcazione tra disagio oggettivo e soggettivo, cogliere dove finisce il disagio autentico e dove quello procurato, è utile, dal punto di vista operativo, tener conto di alcune indicazioni. 2.3 Disagio sintomatico e asintomatico. Un aspetto fondamentale che caratterizza molti disagi attuali è dato dall’ambiguità. Più recisamente si può distinguere un disagio sintomatico da uno “sommerso”. Mentre il primo è quello classicamente noto e segnalato attraverso i sintomi di vario tipo (tossicodipendenza, alcolismo…), il secondo è “sommerso” in quanto asintomatico e, di conseguenza, meno studiato e analizzato. I soggetti portatori del disagio, nell’uno e nell’altro caso, sono accomunati dalla medesima difficoltà a vivere in quanto le competenze richieste dalla società sono carenti (comportamenti scenici o transferali). I disagi asintomatici richiedono nell’educatore una capacità di lettura e di abilità diagnostica molto raffinata per rilevare ed interpretare sintomi a volte “pluralizzati” e a volte “travestiti” che si diluiscono, si stemperano e si mescolano ai segni di processi, situazioni e accadimenti pressoché normali. L’educatore non può considerare portatori di disagio soltanto coloro che dimostrano sintomi chiari, vistosi, incontrovertibili, è necessario superare l’analfabetismo educativo a partire dalla capacitò di decodificare i segnali esterni del disagio non limitandosi alle sue manifestazioni palesi, dichiarate, oggettivamente accertabili. 3. supposizioni e proposte interpretative Esiste un accordo pressoché unanime, tra gli studiosi, nel considerare il disagio come un fenomeno difficile da delimitare, da descrivere e da interpretare alla cui determinazione concorrono più fattori. Ciascuna causa sembra assumere un ruolo determinante anche se, considerata da sola, non sembra in grado di produrre il disagio. In altre parole, dinanzi allo stesso disagio si possono individuare cause diverse ed una stessa causa può determinare effetti differenti e non sempre prevedibili in quanto i fattori correlati sono molteplici e talvolta aspecifici e ignoti. 3.1 Premesse, antecedenti e luoghi del disagio manifesterà al prossimo, magari in forma indiretta; 4) bisogno come esito del confronto con altre persone o con altre istituzioni simili ma che possiedono qualcosa in più. Un modello di riferimento rilevante per meglio comprendere il rapporto tra frustrazione e disagio è quello proposto da Weiss. L’assunto di base è che dietro il disagio e la sua espressione si può individuare qualche bisogno frustato a volte in modo persistente e cronico. Il modello illustra con chiarezza il processo mediante cui l’espressione sana dei bisogni e delle emozioni diventa in certi casi problematica fino a sfociare nel disagio. Secondo lo schema proposto, l’espressione naturale e spontanea del bisogno è il passo iniziale e naturale per ogni individuo. Una volta giunto alla consapevolezza del soggetto, il bisogno viene appagato oppure no. Nel primo caso la persona, secondo il diagramma, rimane in una posizione sana ed è libera di occuparsi del bisogno successivo. Se, invece, il bisogno rimane frustato, il soggetto può reagire manifestando, a seconda dei casi, collera, paura, o tristezza. Cap.2 Comprendere e gestire il disagio. 2 Interventi comunemente impiegati per gestire il disagio. Alcune strategie comuni adottate in classe per gestire le situazioni educative complesse e per rispondere al disagio degli allievi. Ignorare, sopportare in silenzio: dinanzi ad una manifestazione di disagio comune in classe (es. risata svalutante rivolta ad un compagno) una delle opzioni di cui dispone l’educatore è quella di ignorare quanto accade preoccupandosi esclusivamente della prosecuzione del lavoro. A volte gli educatori ignorano per paura di rinforzare il comportamento problematico. L’atteggiamento dell’educatore che ignora può esprimere l’intenzione di sottovalutare l’episodio e di non dargli troppo valore o rilievo. Dal punto di vista dell’efficacia educativa possiamo osservare che, sebbene le intenzioni dell’educatore che ignora o che sopporta in silenzio possano essere accettabili, non è detto che i risultati siano soddisfacenti. Il silenzio davanti al comportamento disturbante può essere interpretato come un consenso. La predica: si tratta di un intervento genitoriale volto a rimettere ordine, a dare delle norme, a impartire istruzioni, a dettare regole. L’uso della predica rispetto ad un’intera classe, oltre a risultare inutile, facilmente diventa rischioso soprattutto quando ci si rivolge ad un interlocutore unitario, un “tutto” generico in cui i singoli non sono più differenziati e individuati come tali. La predica rischia di diventare più uno sfogo dell’educatore che un dialogo diretto a delle persone in quanto l’anonimato fa sentire al riparo al sicuro i singoli. Critica e rimprovero: la critica, il rimprovero, il richiamo diretto non si possono considerare degli interventi efficaci, in quanto fanno appello sostanzialmente all’addestramento dell’allievo. Il fatto che un intervento del tipo indicato possa produrre dei cambiamenti rapidi va ponderato con una certa cautela. Se i cambiamenti sono dovuti alla compiacenza dell’alunn0, ammesso che questo avvenga, non si può dire che rappresentino un grosso successo per l’educatore, senza considerare che sono di solito provvisori, precari, momentanei. Un altro rischio è che l’allievo possa passare ad architettare le mosse successive di qualche rivincita. La punizione: trattandosi di un intervento volto a “cancellare” il disturbo, la punizione può presentare il vantaggio di ottenere rapidamente dei risultati tangibili. L’uso della punizione presenta delle limitazioni e delle controindicazioni notevoli. Dal momento che interviene sulla manifestazione esterna del problema e fa appello alla volontà dell’educando perché controlli l’espressione del disagio, svaluta l’importanza di alcune parti fondamentali della personalità dell’allievo. La sospensione: la durata della sospensione è variabile in quanto può durare pochi minuti, a diversi giorni, a tutto l’anno. Si ricorre alla sospensione di solito per motivi di “condotta”, anche se non mancano casi in cui le ragioni dell’espulsione sono dettate dallo scarso rendimento. La sospensione risulta molto spesso improduttiva in quanto non risolve il problema. 3 Alcune proprietà degli interventi improduttivi. Le strategie prese in esame, usate per gestire il disagio degli allievi, presentano alcune qualità specifiche: la ripetitività, l’autoperpetuazione, la focalizzazione sui sintomi del disagio, l’appello al controllo volontario, il condizionamento negli interventi improduttivi (tipi di condizionamento possibili: tipo ricompensa e ricompensa secondaria, tipo fuga, tipo prevenzione) 4 Decodificare e gestire il disagio. Una delle proposte più interessanti per comprendere e gestire il disagio e i comportamenti problematici è quella di formulare una lettura in chiave comunicativa. L’idea di interpretare il messaggio che si cela dietro un comportamento problematico e insegnare agli allievi a comunicare la stessa cosa in modi socialmente funzionali e accettabili è suggestiva anche se non sempre facile da realizzare soprattutto quando si lavora con soggetti che hanno scarsa consapevolezza di sé. 4.1 Oltre i sintomi del disagio: esigenze e bisogni. Intervenire sul disagio effettuando, per quanto è possibile, una lettura in termini di bisogni sottesi. Più precisamente l’educatore è invitato innanzitutto a verificare e a individuare la presenza di bisogni sotterranei manifestati in modo ambivalente. Principio del doppio livello. Stampare 4.1, 4.2 per dare lettura. Cap. 3 Opposizione, rifiuto e conflitto educativo. 1.Modalità comuni per gestire la “resistenza” dell’educando. Due tipologie impiegate dagli educatori per far fronte all’opposizione dell’educando: 1) modalità vessatorie, lo stile vessatorio, persecutorio, perentorio, alimenta facilmente dinamiche distruttive a spirale crescente: inizialmente i toni sono delicati, via via il clima degenera e facilmente diventa teso, ostile e a volte violento. Alcune forme di intervento impiegate per gestire la demotivazione ed il rifiuto risultano piuttosto svalutanti e a volte maltrattanti. 2) modalità manipolatorie, il ricorso al sotterfugio non è raro se si pensa ad alcuni messaggi usati dai genitori con i bambini, dai docenti con gli allievi. Ma sembra ancora più diffuso in alcune interazioni non strettamente educative. 2.Il conflitto educativo Gli studiosi ne hanno individuati e descritti diversi tipi: il conflitto intrapsichico, interpersonale e educativo. Per quanto riguarda il primo, sebbene le interpretazioni risultino differenti all’interno dei vari approcci psicologici, la personalità è comunemente concepita come un insieme di forze, di istanze, di polarità, che spesso si scontrano. Il secondo tipo di conflitto è quello interpersonale e può avere origine intrapsichica o relazionale, esso ha origine interna quando uno degli interlocutori mette in scena dinamiche che originano da problematiche irrisolte di cui non è consapevole, tra i meccanismi di difesa più importanti, al riguardo, la proiezione, insieme alla repressione e alla rimozione, detiene un ruolo dominante. Il conflitto interpersonale ha origine relazionale quando il disaccordo riguarda, al contrario, un problema reale e non risulta da proiezioni e tanto meno da comportamenti scenici. Il terzo tipo, quello educativo, che nasce in particolar modo nel rapporto tra educando e educatore. L’educazione è attraversata da alcune antinomie e quella che nasce tra libertà e autonomia riassume l’essenza del conflitto educativo: autorità e libertà, adulto e educando, si incontrano, si confrontano e, sovente, si scontrano. L’educazione implica inevitabilmente il riferimento al livello normativo: finalità, obiettivi, prescrizioni, regole, valori. Nella prassi educativa il dilemma evidenziato si concretizza nella dinamica dell’interazione educatore-educando: l’educatore spesso richiama verso un dover essere, l’educando intende conservare e preservare ciò che è con tutti i suoi bisogni, desideri, interessi. L’azione educativa, in tal senso, da una parte limita l’azione dell’educando, dall’altra è limitata dalla sua personalità, originalità, diversità, dallo sforzo del soggetto di diventare ciò che è e che vuole essere, dal bisogno di autenticità e di essere sé stessi. L’educatore è investito di un compito delicato in quanto, nel processo educativo, deve integrare molteplici esigenze interne al soggetto da educare ed esterne derivanti dagli aspetti normativi, standard, aspettative di ruolo, esigenze personali. Ne deriva la necessità di una ricerca di equilibrio, di gradualità, di proporzionalità tra l’iniziativa dell’educatore e la risposta da parte dell’educando. Appunti: in didattica si possono individuare tre possibili percorsi per risolvere il dilemma: ascendente, discendente, integrativo. Il primo parte dalla descrizione accurata della situazione della popolazione scolastica e cerca di innestarvi le finalità e gli obiettivi. Il metodo discendente rovescia la prospettiva in quanto parte dall’individuazione delle finalità e degli obiettivi desunti da alcune grosse aree disciplinari. Il metodo integrativo parte, invece, dal concetto di bisogno e si articola in quattro momenti: identificazione di un largo spettro di possibili obiettivi, ordinamento degli obiettivi secondo un ordine di importanza, valutazione della discrepanza tra obiettivi e situazione degli allievi, determinazione dell’ordine di precedenza nell’attuazione degli interventi formativi. 3.La ricerca di opzioni efficaci: suggestioni e riflessioni fasi tipiche: a) stress lavorativo che nasce dalla discrepanza tra richieste e risorse disponibili; b) tensione come risposta emotiva allo squilibrio caratterizzata da sensazioni come ansietà, nervosismo, esaurimento; c) conclusione difensiva che costituisce l’accomodamento psicologico caratterizzato da atteggiamenti come rigidità, cinismo, ritiro, distacco emotivo. Interessa sottolineare che i percorsi che conducono al burnout nascono facilmente in quei contesti in cui l’educatore è soggetto a stress e tensione forti e prolungate non facili da risolvere attraverso il fronteggiamento attivo. La perdita di entusiasmo e di interesse conseguenti portano sovente il soggetto alla fuga psicologica come tentativo di difendersi dallo stress sperimentato. 1.Scrivere parolacce sui libri dei compagni Una ha scritto sul diario della compagna parolacce, perché quest’ultima la escludeva sempre da tutto. 1.1.Il ravvedimento e l’atteggiamento moralistico La maestra di Alessia ha assunto un ruolo ispettivo, inquisitorio, avviando degli interventi volti a scoprire l’autore del “reato” per poi farlo confessare e pentire. La logica soggiacente è di tipo moralistico e si concentra su quanto è esternamente osservabile aspettandosi un ravvedimento e la promessa di non farlo più. 1.2. la ricerca di opzioni efficaci È fondamentale domandarsi cosa si possa fare di diverso. Innanzitutto, occorre precisare a quale obiettivo educativo si intenda puntare. Cercare di capire come mai Alessia abbia agito in silenzio. L’insegnante invece di creare un clima poliziesco, dovrebbe spiegare come esprime tutte le emozioni anche la rabbia e il risentimento per promuovere l’alfabetizzazione affettiva. 2.L’agitazione eccessiva dinanzi al compito Loredana mostra agitazione e irrequietezza dinanzi al compito, andando approfondendo si evince che la bambina ha sviluppato una parte interna, tecnicamente nota come Genitore critico, piuttosto esigente, rigida, intransigente fino al punto da non consentirle di accettare che lei o altri possano commettere errori di alcune genere. Probabilmente perché lo stile educativo adottato dai genitori è stato inflessibile e severo, esigente e orientato all’evitamento dell’errore ad ogni costo. Il perfezionismo diventa “paralizzante” fino al punto da determinare in alcuni soggetti l’inazione: non far nulla, non scegliere nessuna cosa, diventano modalità privilegiate per evitare di sbagliare. Poiché risulta pressoché impossibile non sbagliare, il problema non si risolve insegnando ai bambini ad evitare di commettere errori, quando insegnando come crescere sui propri errori, ma soprattutto che tipo di atteggiamento mantenere una volta che si è sbagliato. L’insegnante nel caso considerato darebbe una lezione notevolmente efficace a Loredana se riuscisse a mostrarle come ci si possa dare il permesso di non essere perfetti senza perdere il senso di adeguatezza, come sbagliare senza perdere serenità, come non essere infallibili e al contempo mantenere la certezza interna di essere bravi insegnanti, competenti ed efficaci, come non abbia senso pretendere di essere perfetti e mostrare semplicemente come si possa essere sé stessi. 3.La rabbia e l’irritazione intollerante Il caso che presenta il libro parla di un Giuseppe che arriva in classe arrabbiato e irrequieto che non segue le lezioni che mostra il suo “disagio” durante le ore scolastiche, la nuova maestra Mara chiede ai colleghi che hanno seguito la classe per più tempo cosa poter fare a riguardo e i colleghi le rispondono di fare finta che Giuseppe non sia in classe, ma Mara comincia dei percorsi pedagogici per aiutare Giuseppe e se stessa, per permette di sviluppare in Giuseppe un alfabetizzazione affettiva adeguata. 4.Il tormento inutile Un insegnate che si sente in colpa per tutto e piange. La premessa è che l’insegnante nel caso addotto come esempio attribuisce a sé responsabilità che le appartengono soltanto in parte e la sua reazione, risulta sproporzionata, fuori misura. L’insegnate rischia, di conseguenza, di “procurarsi” un disagio e un tormento in più, inutile. Un atteggiamento comune dinanzi a persone con handicap o con difficoltà di apprendimento, ma anche malate e bisognose di aiuto, si esprime attraverso un’eccessiva protezione. L’atteggiamento iperprotettivo va messo in relazione con quello che nell’analisi transazionale è definito ruolo di “salvatore”. Karpman, nel triangolo drammatico, contempla tre ruoli tipici: persecutore, salvatore e vittima. Il ruolo di salvatore, che ci interessa direttamente, risulta facilmente caro a molti educatori. Una sua caratteristica essenziale è quella di prodigarsi più del dovuto, di fare delle cose spesso non richieste, non necessarie a e volte nemmeno gradite. I discenti vengono visti, dal docente che interpreta questo ruolo, come dei poveretti, bisogno di aiuto, deboli, vulnerabili. La posizione di vittima, in secondo luogo, è complementare a quella di salvatore ed è mantenuta da molti educandi o da molti allievi. La terza posizione del triangolo drammatico è quella del persecutore, tipica di chi nelle interazioni sminuisce il partner, lo svaluta, lo perseguita attaccandolo psicologicamente e, in certi casi, fisicamente. 5.Quando la rabbia dell’insegnate lievita a dismisura Nel caso presente sul libro, Luca ragazzo scherzoso e vivace, durante la lezione fa battute e coinvolge tutta la classe la maestra lo prende di forza, sentendo crescere all’interno di essa una profonda rabbia. 6.Il piagnucolio intollerante