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Gestire il disagio a scuola, Sintesi del corso di Pedagogia

Riassunto completo del libro "Gestire il disagio a scuola"

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 04/10/2023

Nenè09_
Nenè09_ 🇮🇹

4.6

(7)

13 documenti

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Scarica Gestire il disagio a scuola e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! GESTIRE IL DISAGIO A SCUOLA CAPITOLO 1 – IL DISAGIO NEI CONTESTI EDUCATIVI Il termine disagio inizia ad affermarsi intorno la fine degli anni ’70 per qualificare la condizione giovanile. Il concetto viene usato per esprimere le problematiche giovanili e la consapevolezza di un grande fallimento sociale, politico. Successivamente l’attenzione si focalizza sui vissuti che accompagnano il disagio durante i momenti di crescita. Il concetto di disagio, con l’andar del tempo, viene preferito sempre di più perché adatto per essere applicato a molti individui. Secondo la psicopedagogia e la psicosociologia, molti casi di disagio si concentrano sulla fascia di età giovanile, mentre pochi casi riguardano la fascia preadolescenziale o adolescenziale. Molti disagi risultano trasversali, ed altri che si individuano solo in età giovanile, hanno radici antecedenti. I disagi che si manifestano già dall’ingresso della scuola dell’infanzia, se non ricevono risposte adeguate, accompagnano la crescita del soggetto favorendo peggioramenti. 1. DEFINIZIONE DI DISAGIO Il termine è costituito dal prefisso DIS che indica una negazione, e dalla parola AGIO che significa “giacere presso”; quindi il termine viene usato per indicare la condizione di chi vive ai margini e si sente escluso. In sociologia, psicologia e pedagogia, il termine è un sinonimo di disadattamento e devianza, mentre nelle scienze psicologiche indica sofferenza psichica. Negli ultimi 10 anni il termine viene maggiormente usato per descrivere la condizione giovanile; Risulta difficile trovare una sola definizione. Secondo le descrizioni più usate nella letteratura psicopedagogica italiana il termine indica: - Sintomo dell’incapacità del soggetto di trovare soluzioni soddisfacenti e coerenti alla propria identità. Il disagio esprime una specie di impasse insolubile tra ciò che è percepito come possibile e ciò che è percepito come radicalmente negato dalla società; - Incapacità di tollerare e gestire le complessità e di sostenere il peso della precarietà, della flessibilità e dell’eccessiva incertezza che caratterizzano la società odierna a livello di valori e possibilità dei soggetti; - Sintomo di una domanda non patologica dei problemi psicologici ed affettivi, delle difficoltà familiari e relazionali, difficoltà scolastiche, malessere esistenziale; - Espressione della difficoltà di assolvere ai compiti evolutivi richiesti dal contesto sociale; - Risultato della difficoltà a gestite la complessità e a far fronte alle contraddizioni legate ai processi di socializzazione e di maturazione verso l’età adulta. La parola disagio viene anche usata per ricondurci all’ammontare delle inadempienze, degli inganni di cui i giovani sono stati oggetto negli ultimi anni; comprende anche un vissuto soggettivo che implica un ampio ventaglio di elementi, percezioni, sentimenti, valutazioni, bisogni e domande che contengono una sofferenza sommersa. Le definizioni che spesso si danno al termine disagio, vogliono mettere insieme tutte le forme di malessere in una sola categoria piuttosto che soffermarsi su problemi sottesi. Un’altra tendenza è quella di usare il termine per parlare di altri fenomeni come: DISADATTAMENTO, STRESS, DEVIANZA, MARGINALITA’,FRUSTRAZIONE, ECC. Possiamo inoltre dire che, il termine disagio si utilizza per indicare una condizione caratterizzata da incertezza, precarietà. Recentemente si riferisce a quei comportamenti non patologici. 2. CARATTERIZZAZIONE E FORME. Il termine “disagio” sembra avere più valenza descrittiva che interpretativa, tanto da essere usato in contesti diversi per indicare molti vissuti problematici che hanno in comune uno stato di malessere. 2.1. LIVELLI NELLA RILEVAZIONE DEL DISAGIO Una distinzione viene fatta per quanto riguarda le aree in cui si può manifestare il disagio nella vita di un soggetto: • INTRAPSICHICA: una condizione interiore caratterizzata dalle difficoltà a star bene con se stessi; • INTERPERSONALE: il disagio si manifesta nell’incontro tra persone (rapporto genitore-figlio; educatore- educando che il soggetto vive con difficoltà); • SOCIALE: il disagio origina e si manifesta in tutte quelle situazioni note come condizioni di svantaggio ed emarginazione. Cresce il disagio a causa delle “nuove povertà”. Il disagio si origina dal mancato soddisfacimento di tutti quei bisogni fondamentali come ad esempio la realizzazione del sé, la felicità. (REGOLOSI suggerisce di distinguere tre livelli: 1. Evolutivo endogeno: crisi di transizione all’età adolescenziale; 2. Socioculturale esogeno: legato ai condizionamenti della società complessa; 3. Cronicizzante: nasce a causa dell’esposizione ai rischi ed è la forma più grave). 2.2 DISAGIO OGGETTIVO, SOGGETTIVO, “PROCURATO”. Un primo approccio allo studio del disagio è di tipo SOGGETTIVO, esso si focalizza sui vissuti che accompagnano il soggetto, come il malessere o l’insicurezza; tali vissuti sono privati ma anche misurabili perché si manifestano mediante diversi segni. Il secondo approccio è di tipo OGGETTIVO e focalizza l’attenzione sulle situazioni e condizioni di vita che vengono designate come premesse o antecedenti al disagio. Vengono, dunque, accertati disagi evolutivi che ogni soggetti vive in determinati periodo dello sviluppo come componente inerente al passaggio da uno stadio all’altro e quindi come conseguenza delle crisi e dei compiti che ciascuna fase implica. Un’analisi e uno studio del disagio richiedono sia il livello soggettivo, che quello oggettivo. Sicuramente qualunque situazione problematica non è mai indifferente perché tutte hanno degli effetti. La risposta personale, però, risulta variabile e diversa dinanzi allo stesso disagio oggettivo. É importante dire che il disagio interno soggettivo nasce dalla risposta personale alle diverse situazioni e richieste da parte della società o della famiglia stessa, e tra soggettivo e oggettivo può esserci congruenza o incongruenza. Ciascuno, infatti, ha una propria storia, degli stili e modi di sentire personali. Pertanto, alcuni rispondono alle situazioni in modo incongruente, a volte inadeguato, in altri fuori misura o esagerato. Molte volte, però, il disagio può essere procurato. Non è semplice definire dove finisce il disagio autentico e dove inizia quello procurato. Molti tendono attraverso le AUTOATTRIBUZIONI di dare delle spiegazioni causali che il soggetto stesso formula in merito alla relazione tra se e la situazione:  Internalità-esternalità: Il soggetto può attribuire la causa del suo disagio a situazioni interne (il proprio atteggiamento) o esterne (fortuna-sfortuna) a se stesso;  Stabilità-instabilità: alcune cause sono considerate momentanee altre invece sono durevoli;  Controllabilità: il soggetto crede di poter controllare la sorte degli eventi. In un cento senso, esso crede di poter autodeterminarsi, è convinto che quello che gli accade sia dentro di se. In riferimento al locus of control interno o esterno, si possono individuare diversi stili: - DISFATTISTA, ovvero secondo il soggetto non c’è più niente da fare per lui. - PROATTIVO, ovvero esso si sforza per reagire al disagio. Il modo di percepire e di sentire dinanzi alle situazioni è influenzato dalla propria storia passata. La storia personale rischia in certi casi di risultare poco efficace, fuorviante, può diventare patologica quando non si riesce a distinguere quanto appartiene al passato e quanto fa parte del presente. In educazione occorre rilevare e prevenire eventuali comportamenti scenici, cioè l’interazione attuale ed osservabile educatore-educando in cui viene inconsciamente attualizzata una qualche scena storica conflittuale presente nel passato del soggetto. Il rischio che corre l’educatore è quello di trattare l’educando non per quello che è, ma sulla base di situazioni conflittuali irrisolte non simbolizzate. Questo può avvenire in due modi: - Proiettando sugli allievi le esperienze personali inconsce (provocazioni, sfide); - Reagendo al comportamento degli allievi in modo difensivo (manifestando reazioni sproporzionate). Per quanto riguarda gli allievi, è importante che l’educatore tenga conto che egli stesso può diventare oggetto di proiezione; alcuni possono creare con l’educatore una relazione analoga a quella originaria vissuta col padre o madre. In questo caso l’educatore deve evitare di assumere atteggiamenti e comportamenti difensivi. 2.3 DISAGIO SINTOMATI E ASINTOMATICO L’ambiguità può essere un aspetto che caratterizza il disagio. Il disagio può essere: SINTOMATICO: sintomi come ad esempio la tossicodipendenza. SOMMERSO: è ansiomatico quindi meno studiato. In ogni caso chi vive uno dei due disagi lo fa perché la società è carente nelle richieste che fa il soggetto. Per molto tempo la letteratura scientifica sull’adolescenza descrive il disagio come uno stadio caratterizzato da conflittualità, atteggiamenti di ribellione verso il mondo adulto. Le ricerche recenti hanno messo in evidenza uno scenario singolare: il conflitto sembra assumere caratteri più mitigati; l’attuale adolescenza sembra caratterizzata da maggiore armonia tra generazioni e da una ricerca di spazi di realizzazione all’interno della famiglia stessa. La violenza e la delinquenza si manifestano sempre più in età precoce. Gli adolescenti sono di fronte a quelli che vengono definiti disagi asintomatici, che richiedono nell’educatore una capacità di lettura ra nata per rilevare effi interpretare sintomi che alle volte sono “travestiti”. Identificare i problemi è uno dei compiti più delicati o più difficili, e tanti errori educativi derivano da questa incapacità. L’educatore non può considerare portatori di disagio solo coloro che dimostrano sintomi chiari, è necessario superare l’analfabetismo educativo a partire dalla capacità di decodificare i segnali esterni del disagio non limitandosi alle sue manifestazioni palesi. 3. SUPPOSIZIONI E PROPOSTE INTERPRETATIVE Esiste un accordo unanime tra gli studiosi nel considerare il disagio come un fenomeno di cile da descrivere; alloffi stesso disagio si possono individuare cause diverse ed una stessa causa può determinare e etti di erenti e nonff ff sempre prevedibili. Si tratta, dunque, di una problematica che richiede l’utilizzo di modelli multifattoriali- sistematici che si fondano su approcci di tipo statistico-probabilistico. Per evitare perdite di tempo, bisogna progettare interventi qualificati. 3.1 PREMESSE, ANTECEDENTI E LUOGHI DEL DISAGIO Per quanto concerne il disagio vanno considerate le problematiche ricorrenti e gli incidenti a livello di vita e di relazione (in famiglia, a scuola, in strada) che possono ostacolare anche seriamente lo sviluppo del soggetto. Si possono inoltre considerare situazioni quali: svantaggio psicofisico, socio-economico e culturale. 3.1.1 RUOLO DELLE DIFFICOLTA’ E DEGLI SVANTAGGI La presenza di deficit, handicap è una delle premesse principali di disagio obiettivo, lo svantaggio complica il processo di integrazione nei diversi sistemi e sottosistemi. La discrepanza (cioè, la differenza) che intercorre tra le opportunità teoriche e quelle realizzate, non aiuta l’integrazione. Le resistenze e i pregiudizi attivano in molti Il modello integrativo prevede che quando un soggetto ha un bisogno può soddisfarlo per passare a occuparsi del bisogno successivo. Se usiamo questo schema nella gestione del disagio nei contesti educativi, il primo passo è quello di individuare i bisogni dell’educando; CASO : se un bambino in classe ha bisogno di attenzioni, come ad esempio “carezze”, da parte dell’insegnante ed essa svaluta tale bisogno, il bambino potrebbe reagire esprimendo rabbia fi no ad arrivare alla rassegnazione. L’allievo che capisce che il suo bisogno non viene nè compreso nè soddisfatto può attuare delle strategie distruttive per lui e per l’insegnante. L’insegnante potrebbe reagire rimproverando il bambino ma non otterrebbe comunque niente; il soggetto portatore di disagio non avendo totale consapevolezza di sé e dei suoi bisogni ricorre ai mezzi di cui dispone per comunicare: parolacce, disturbo, non studia … Un altro esempio che possiamo fare è quello di un bambino appena nato che come mezzo di comunicazione ha soltanto il pianto, quindi per esprimere ogni suo bisogno ricorrerà ad esso. Sta a chi si prende cura di lui interpretare di che tipo di pianto si tratta; qui entra in gioco l’empatia tra la madre e il figlio, quando il bambino si renderà conto che la madre capisce i suoi bisogni comincerà a fidarsi di lei ed a costruire il proprio sé. Anche l’educatore, come la madre, deve comprendere i bisogni dei suoi alunni, in modo tale da poter cogliere cosa c’è dietro al disagio. Nel caso in cui l’educatore non sappia fare questo, è alto il rischio di comportarsi come il genitore che non capisce quale bisogno esprima quel particolare pianto del figlio e quindi, metterà in attp degli interventi banali, ripetitivi e poco efficaci. 3.5 QUALI BISOGNI E PERMESSI NEGATI Parlando di bisogni è utile fare una distinzione tra: - PROCESSO: si da maggiore attenzione ai dinamismi psicologici coinvolti, dal momento in cui ogni bisogno viene percepito fino alla sua soddisfazione/frustrazione. - CONTENUTO: diventano centrali questioni relativi a quali sono i bisogni che risultano inascoltati. Quali sono i bisogni e i permessi che l’educatore può supporre e scoprire al di la dei sintomi di disagio? Sicuramente non si considerano soltanto la soddisfazione e l’insoddisfazione dei bisogni ma anche il come lo si fa, se essi vengono riconosciuti o meno, o se addirittura vengono negati. Al di là del disagio, i bisogni inascoltati sono molti: A. PERMESSO DI ESISTERE: Quando un bambino viene al mondo la famiglia deve riorganizzare molte cose ma la cosa più importante da considerare è di dare al bambino il permesso di esistere; questo può essere fatto attraverso i messaggi verbali o non verbali, trattandolo con amore, dire “è bello che tu ci sia”.. ogni volta che il soggetto prova ad entrare in un sistema si riattiva la dinamica arcaica del permesso di esistere e di appartenere. B. NON ESSERE INTIMO: il permesso di essere intimo avviene nell’interazione con le figure significative; quando un genitore è distante, troppo impegnato, dà al bambino un messaggio di non essere intimo, usa frasi come “non disturbarmi” o “lasciami in pace”; in questo modo è come se il bambino elemosinasse l’attenzione dell’adulto. Il soggetto a cui tali permessi sono stati negati può decidere se isolarsi o comportarsi in modo da farsi emarginare. C. NON ESSERE PICCOLO: è importante che il soggetto possa agire, pensare in base alla sua età. Bowlby parlava di come molti casi di violenza da parte dei genitori verso i figli vanno incontro a delle relazione invertite; è come se si chiedesse al bambino di essere lui il genitore. Anche questo viene considerato un abbandono psicologico perché trattiamo il bambino come se fosse più grande di quello che realmente è. Viene negato al bambino di vivere secondo la sua età e gli si comunica un’ingiunzione del tipo “Non essere un bambino” o “Non essere piccolo”. CAPITOLO 2 – COMPRENDERE E GESTIRE IL DISAGIO La scuola si preoccupa dell’educazione dell’educando solo “dal collo in su”, non da importanza alla personalità o se lo fa solo occasionalmente. Oggi la situazione è un po’ cambiata, ma la tentazione di preoccuparsi solo dell’apprendimento scolastico e dei programmi non risparmia nessun docente. Il docente è chiamato alla realizzazione dell’alfabetizzazione culturale, ma questo meta non può essere adeguatamente raggiunta se non ci si occupa della persona nella sua totalità e se non si considera l’educando oltre che lo scolaro. La gestione delle problematiche educative è un compito importante del docente, ma non si tratta semplicemente di un compito ma di tradurre in pratica la convivenza tra l’insegnante e l’educatore. Sia il docente che l’allievo devono accorgersi l’uno dell’altro altrimenti la situazione volge nel disagio. Dinanzi a un disagio i problemi sono due: 1. Un rischio del tutto insidioso è quello di non accorgersi del problema dell’allievo. Alcune tragedie nel campo educativo derivano proprio da questo problema. 2. Un altro problema è quello del docente; non si tratta di un problema personale ma di un problema educativo: dinanzi all’allievo che manifesta problemi egli ha bisogno di capire come si può intervenire per non cadere nella banalità. Il docente deve affinare la sua capacita di cogliere i problemi e di dare soluzioni efficaci. 1. ATTEGGIAMENTI COMUNI DINANZI AL DISAGIO I docenti di fronte al disagio degli allievi intervengono con delle strategie per mantenere la disciplina. CASO: Paolo, un ragazzo di 12 anni, arriva in classe con gli occhiali da sole. Si siede in prima fi la e tiene messi gli occhiali da sole sistemando quelli da vista nello stivale. Quando il docente arriva in classe invita il ragazzo a metterli via e ad iniziare a leggere un testo ad alta voce. Paolo non dimostra nessuna attenzione nel volerlo fare cosi l’insegnante inizia ad irritarsi e ad assumere atteggiamenti impositivi. Comincia una s fi da tra il docente e l’allievo, una sorta di tiro alla fune dove nessuno dei due vuole cedere. PRESO DAL RIASSUNTO “I CASI” Paolo C. → ragazzo di 12 anni arriva in classe con un paio di occhiali. l’insegnante lo invita a toglierli ed a rimettere quelli da vista; il ragazzo insiste nel volerli tenere, così inizia una specie di braccio di ferro con il maestro. L’atteggiamento intransigente e dispotico può presentare dei vantaggi a breve termine; è infatti, relativamente facile che l’allievo metta da parte gli occhiali, faccia il “bravo“ e mostri rispetto per le autorità (stile intollerante). Se il docente adottasse uno stile polemico e litigioso, l’alunno potrebbe a sua volta rispondere nello stesso piano (non va bene). ALCUNI STILI:  STILE INTOLLERANTE: La prima reazione che attua il docente quando un allievo lo sfida è quella che possiamo definire impaziente. Nel caso riportato ad esempio l’insegnante si alza dalla sedia gridando “come ti permetti”, “vai fuori”, “maleducato”, “fuori, vai fuori”. Qui il docente si avvale della critica, rimprovero, sospensione. Nella situazione reale il docente ha tolto gli occhiali al ragazzo e li ha poggiati sul tavolo ma appena si è distratto esso li ha ripresi. L’atteggiamento intransigente e dispotico può presentare vantaggi a breve termine. È relativamente facile che l’allievo ceda e metta da parte gli occhiali, faccia il “bravo”, mostri rispetto per l’autorità. L’educatore non può accontentarsi solo della forma, della facciata esterna, dell’adattamento superficiale, della compiacenza.  STILE POLEMICO E LITIGIOSO: Qui il docente si limita a mettere ad esempio la nota sul registro rispondendo cosi alla provocazione. Nel caso riportato potrebbe rispondere dicendo: “sembri un cieco con gli occhiali da sole”, oppure “togli gli occhiali cosi fai vedere il tuo bel viso”. Questo è un atteggiamento molto rischioso con preadolescenti e adolescenti in quanto può facilmente innescare dinamiche distruttive a spirale crescente. CASO – DIALOGO TRA INSEGNANTE E ALLIEVO A: “Ma professoressa, perché ce l’ha sempre con me? I: “Perché tu sei bello” A: “Professoressa, ma quale bello, io non la toccherei neanche con un bastone lungo 3 m. A questo punto l’insegnante sorrise e cominciò a scrivere una bella nota sul registro per chiedere che l’allievo fosse allontanato dalla scuola per 3 giorni. Il clima dell’interazione ambiguo, potrebbe indurre l’allievo a dimenticare che sta interagendo con il suo docente che, non appena si sarà stancato dal gioco o si sentirà offeso, potrà da un momento all’altro punirlo.  STILE TIMOROSO: Questo è un atteggiamento di chi subisce e tollera pazientemente il comportamento dell’allievo; l’insegnante, secondo Ernst, si mostra quasi come un martire e permette tutto. In questo modo qualcuno degli allievi sicuramente abuserà della bontà dell’insegnante. Una delle conseguenze dello stile, secondo Ernst, è quella di diventare depressi in quanto il docente potrebbe cominciare a usare le interazioni con gli studenti come occasioni per confermare l’idea che il mondo è ostile, cattivo e che gli altri sono ingrati. Nell’atteggiamento da martire l’idea del docente che trapela è quella di una persona debole che difficilmente reagirà, permettendo agli allievi di continuare ad abusare.  STILE CALCOLATORE: Questo stile appartiene al docente che ricorre ad un atteggiamento logico e preciso; sarà colui che dimostrerà di non prendersela, anche il suo tono di voce risulterà calmo; possiamo dire che questo tipo di docente è colui che non si lascia sopraffare emotivamente e cerca di discutere con l’allievo sforzandosi di farlo ragionare sul suo comportamento e sugli effetti che sortisce sugli altri. 2. INTERVENTI COMUNEMENTE IMPIEGATI PER GESTIRE IL DISAGIO Vengono usate strategie come: note, silenzio.. queste però anche se vengono tutt’oggi usate, non funzionano. Quando si chiede ai docenti perché utilizzano queste strategie anche sapendo che non portano a niente loro ci rispondono che lo fanno perché sono “stanchi”. 2.1 IGNORARE, SOPPORTARE IN SILENZIO Il docente, di solito, quando si crea una situazione che, ad esempio, suscita la risata svalutante rivolta ad un compagno, tende ad ignorare il soggetto che la provoca. CASO C: “Cosa fa l’allievo, vuoi dirlo?” Ins: “Io vedo Antonio che comincia a sghignazzare e decido di ignorarlo” C: “Cos’è che fa?” Ins: “Si è messo del nastro adesivo in bocca, prende la carta e se la mette in bocca, poi la butta tutta quanta per terra; sghignazza e ride.” C: “E tu cosa fai?” Ins: “Decido di ignorarlo” C: “Come mai?” Ins: “Perché non voglio rinforzare questo suo comportamento”. A volte gli educatori ignorano per paura di rinforzare il comportamento. L’atteggiamento dell’educatore che ignora può esprimere l’intenzione di sottovalutare l’episodio e non dargli troppo valore. L’allievo che prende in giro il docente o che fa baccano vuole soltanto ricevere attenzioni da parte di chi si occupa di lui. Occorre osservare che il silenzio dinanzi al comportamento disturbante può essere interpretato come un consenso. Il fatto di ignorarlo potrebbe portare l’allievo a persistere ed aumentare i suoi comportamenti fintanto che non riceva le attenzioni dovute. 2.2 LA PREDICA: Uno degli interventi più usati in campo educativo è la predica. Dinanzi all’allievo che non studia, che disturba, è facile che l’educatore esordisca con qualche predica. È un metodo poco efficace e più che un metodo può essere considerato uno sfogo dell’educatore. Si tratta di un intervento genitoriale volto a rimettere ordine. L’uso della predica per un’intera classa può risultare dannoso perché gli allievi possono scoprire un’appartenenza, un’identità di gruppo che può diventare perfino pericolosa, e quindi è proprio appropriato. 2.3 CRITICA E RIMPROVERO: La critica e il rimprovero diretto non si possono considerare interventi efficaci perché fanno appello all’addestramento dell’allievo. Se i cambiamenti sono volti alla compiacenza dell’allievo non si può dire che rappresentano un successo per l’educatore. Un altro rischio è che l’allievo possa passare ad architettare le mosse successive di qualche rivincita. La critica accompagnata da sentimenti di preoccupazione o di rabbia da parte dell’educatore, insieme ai messaggi che vorrebbero essere educativi, facilmente veicola dei messaggi distruttivi, svalutanti, degli attacchi alla persona che ha sbagliato. La critica può anche non essere in sé svalutante se ci si limita a considerare il comportamento criticabile. Può capitare che il sentimento spiacevole derivante dalla critica provochi un ripensamento nell’educando, ma può capitare che l’educando ricerchi dei modi per evitare la critica piuttosto che cambiare il suo comportamento. 2.4 LA PUNIZIONE: È un tipo di intervento ormai poco praticato in ambito educativo, ma quando viene utilizzato esso è poco efficace perché funziona solo nell’istante in cui viene usato. Si tratta di un intervento volto a cancellare il disturbo quindi può essere efficace nel momento in cui si utilizza ma svanisce velocemente. La punizione inoltre non si fonda sulla comprensione dell’errore. 2.5 LA SOSPENSIONE: Un’altra strategia usata è quella di dimettere, allontanare, sospendere gli educandi. La durata della sospensione è variabile in quanto può durare pochi minuti (es: si chiede all’educando di uscire e di stare fuori dalla porta dell’aula), a diversi giorni (es: si chiede all’allievo di stare a casa per più giorni), a tutto l’anno (es: l’educando viene dimesso definitivamente). Si ricorre alla sospensione di solito per motivi di condotta, oppure di scarso rendimento. La sospensione non risulta efficace e nemmeno molto sofisticata come strategia di intervento. È improduttiva perché non risolve il problema, intervien meramente sulla manifestazione esterna del disagio e l’allievo è invitato a far appello al suo autocontrollo per evitare le conseguenze negative. La sospensione definitiva da un corso, oltre che banale, ha anche la valenza di rinuncia a gestire la situazione da parte dell’educatore. Si tratta di un intervento che equivale fondamentalmente a gettare la spugna e a rinunciare a lavorare sul problema: dimettere, sospendere, è un modo per “liberarsi di”, che è diverso dall’educare e dal gestire una situazione, dal rispondere ai bisogni speciali d un educando attraverso interventi particolarmente qualificati. Si tratta di un intervento inutile dal punto di vista educativo. 3.1 LA RIPETITIVITA’ (Es. conferenza aula magna dove gli adulti non riescono a stare in silenzio pag. 59) L’episodio rappresenta bene quello che accade in classe: c’è uno che parla, spiega ma gli altri non sempre sono disposti ad ascoltarlo. Vengono usate alcune modalità per ripristinare l’ordine, per invitare ad ascoltare, che non sembrano risultare molto efficaci. L’effetto desiderato, nel nostro caso il silenzio e l’atteggiamento di ascolto, si livello nascosto può essere presente nella collega, preoccupazione, paura di non far bene, bisogno di fuggire dal rischio di fallire, di sbagliare. In situazioni del genere l’intervento può tener conto del livello esterno (sociale) e di quello interno (nascosto). L’intervento che si focalizza sul livello esterno potrebbe semplicemente accogliere le richieste degli altri senza usare quell’atteggiamento tutt’altro che gentile; sul livello nascosto si poteva iniziare chiedendosi cosa ci può essere dietro quell’atteggiamento scorbutico? È facile intuire che a livello nascosto possa esser presente preoccupazione, paura di non fare bene, di sbagliare. Se si tiene conto di questo punto di vista forse ha più senso rassicurare la collega. Nella situazione reale si è agito così: chiesto alla collega cose lei stesse facendo, abbiamo cercato di tranquillizzarla. Dopo un po' la collega riprese a sorridere, ci strinse la mano per ringraziarci ed uscì dall’aula senza mai avere notizia di quale fosse il programma di Dinamica di gruppo. 4.2 LIVELLO SUPERFICIALE, LIVELLO NASCOSTO E VITA AFFETTIVA Gli studi hanno messo in evidenza che l’intelligenza non esiste allo stato puro e distaccato dagli altri processi psichici. Educare puntando alla formazione integrale dell’educando implica la necessaria promozione dell’alfabetizzazione affettiva. CASO: una giovane mamma mentre chiedeva come fare per abortire, al posto di provare sentimenti negativi come rabbia e tristezza, era felice e raccontava della sua esperienza con molta disinvoltura e il sorriso sulle labbra. Questo tipo di analfabetismo affettivo è tutt’altro che inusuale. La lettura dei sentimenti secondo un doppio livello, superficiale e profondo, consente di comprendere reazioni diversamente inspiegabili ed individuare allo stesso tempo possibili ipotesi di sviluppo. Berne dice che estinto sentimenti naturali e di ricatto. Questi ultimi con il tempo hanno sostituito e preso il posto di alcuni sentimenti genuini, originali: l’allegria al posto della tristezza, la paura al posto della rabbia, la tristezza al posto della rabbia, la rabbia al posto della tristezza, ecc. Fin dai primi anni di vita, il bambino viene incoraggiato o scoraggiato nel sentire e utilizzare determinati sentimenti. Vi sono famiglie ad esempio in cui è scoraggiato il pianto e l’uso della tristezza (“non piangere, sembri una femminuccia”); in altre famiglie è scoraggiata la rabbia e in altre ancora la gioia. Il bambino si trova, così, di fronte ad un bivio: adattarsi o ribellarsi. Il bambino scoraggiato dall’esprimere un sentimento come la rabbia, troverà vantaggioso sostituirlo con la paura, quindi nelle situazioni in cui dovrà usare la rabbia, tenderà ad evitare di difendersi, affermarsi, esprimersi in maniera assertiva e tenderà a reagire con la paura. Un primo indizio, della presenza di un sentimento di ricatto, può essere quando l’alunno racconta un’ esperienza triste mostrandosi allegro. Questo è un modo di sentire distorto, disfunzionale e poco autentico: esiste un sentimento superficiale, esterno, che ne copre un altro nascosto, naturale, genuino. Il ragazzo che subisce un sopruso, preso dalla paura potrebbe passare a tranquillizzare l’interlocutore procurandosi ulteriori svantaggi piuttosto che protestare. I casi in cui si possono accertare dei cambiamenti di direzione sono numerosi, ma è particolarmente facile individuarli nelle reazioni fuori misura rispetto all’educando in difficoltà, alla sofferenza, al dolore e al lamento. (Es: caso della madre che, preoccupata per la salute del figlio che rifiuta di mangiare, in preda all’angoscia e alla collera sente talvolta l’impulso di gettarlo fuori dalla finestra e a volte rompe i piatti o colpisce violentemente la carrozzina. Un caso di questi è apparso sui giornali ani fa: la madre gettò dalla finestra il figlio di pochi mesi perchè non sopportava sentirlo piangere). È presente un cambiamento di direzione simile nell’atteggiamento del genitore che picchia il figlio che si è fatto male cadendo mentre giocava, oppure nel comportamento del docente che reagisce furiosamente davanti al fallimento e all’errore degli allievi. Un altro criterio per individuare i sentimenti di ricatto è la presenza di un manifestazione esagerata sproporzionata. CASO: un bambino di 7 anni in preda ad una crisi stappava i quaderni e i capelli dei compagni. Si rendeva conto dello sbaglio promettendo di non rifarlo, la madre per punirlo duramente gli imponeva una dieta a base di pastina insipida. Il sentimento dell’allievo non si può considerare genuino; la madre attraverso la punizione pretendeva che il bambino eliminasse dal suo repertorio affettivo la rabbia mentre questo sentimento può risultare prezioso per gestire altre situazioni. La finalità dell’educazione e dell’alfabetizzazione affettiva è di consentire all’educando di riappropriarsi della sua vita affettiva. Pertanto il bambino ha bisogno di socializzare che bene sentire e vivere la rabbia e che in molti casi può risultare una compagna preziosa in quanto da essa può trarre forza, assertività e la spinta necessaria per gestire al meglio le varie situazioni della vita. 4.3 PREGIUDIZI, MANIPOLAZIONI, TRANSFERT E CONTROTRANSFERT. Parecchi comportamenti messi in atto in contesto educativo sono di tipo reattivo e molti educatori sono sempre più consapevoli che gli allievi “sanno”, in modo a volte inconsciamente calcolato, come manipolarli per ottenere quegli effetti e quei risultati per loro familiari. Se in famiglia ha appreso che per poter essere riconosciuti era necessario ricorrere a modalità straordinarie come, ad esempio, farsi male, agire in modo spericolato, creare guai altrimenti non si sarebbero accorti di lui, con altre persone significative rischierà in futuro di fare altrettanto. Il rapporto osservabile educatore-educando in cui viene inconsciamente attualizzata una modalità conflittuale appresa in passato, si può definire di tipo scenico o copionico in quanto è stabilita dal copione del soggetto. Per comprendere meglio la situazione possiamo parlare di transfert e controtransfert. Il termine TRANSFERT era inizialmente usato in psicoanalisi per indicare l’atteggiamento emotivo del paziente nei confronti del terapeuta. In seguito è stato usato per indicare il processo proiettivo di affetti da parte del paziente nei confronti del terapeuta. Può essere positivo (quando i vissuti verso il terapeuta sono positivi Es: affetto) o negativo (se il paziente prova ostilità per il terapeuta ma in fondo è rivolto ai genitori. Il CONTROTRANSFERT indica la reazione spesso inconscia, del terapeuta nei riguardi del transfert del paziente che assume importanza ai fini dell’efficacia del trattamento; in terapia è fondamentale che il terapeuta analizzi il transfert e il suo controtransfert non per agirlo, ma per una comprensione profonda delle dinamiche e dei processi presenti nella situazione terapeutica per progettarne interventi efficaci volti al cambiamento. Questi processi sono presenti in qualsiasi relazione interpersonale, infatti li troviamo anche tra il docente e l’allievo. Il bambino che a casa non riceve cure ed attenzioni desiderate in quanto i genitori sono particolarmente assorbiti dagli impegni, può casualmente scoprire che quando si ammala diventano particolarmente protettivi: non vanno a lavorare, lo trattano affettuosamente e teneramente, assecondano le sue richieste. Il bambino facilmente può concludere che la malattia è una condizione privilegiata per ricevere attenzioni, cure, affetto, da prolungare e perfino da procurare. CASO: Giulio, un ragazzo di 16 anni, si trova in una comunità per dei problemi con la giustizia. L’episodio che l’ha portato all’arresto è il furto di un’auto, ma non mancavano altri episodi. Giulio non ha avuto un passato facile: anche se il suo livello cognitivo era solo lievemente al di sotto della norma egli non aveva mai frequentato la scuola in modo corretto. Qualsiasi cosa succedeva a scuola era colpa sua; un giorno si trovarono rotte le fi nestre della scuola e il nome di Giulio e di altri suoi compagni apparve tranquillamente sul giornale. Gli educatori della comunità credevano che il suo caso fosse irrecuperabile perché il soggetto non collaborava. Quando vi fu un incontro con i genitori si gettò un po di luce sulla questione: anche loro pensavano che non c’era niente da fare per il bambino, che si sarebbe messo sempre nei guai. Nonostante tutto volevano aiutare il fi glio. Cosa deve fare l’EDUCATORE? Sicuramente è stato Giulio a fare credere che lui sia irrecuperabile; l’educatore se si dovesse trovare in una situazione del genere avrebbe pochi appigli da cui partire per capire come agire. Il primo passo che esso deve fare è quello di verificare se la sua reazione automatica somiglia a quella che hanno realizzato quanti lo hanno preceduto, come i genitori. Il secondo passo è quello di capire quello che fa Giulio per alimentare l’idea che ha l’educatore di se. Deve cercare di interrompere quello che sta succedendo e andare nella direzione opposta. CASO: un’insegnate dice che un bambino di quinta era il terrore della storia. Un giorno fece pipì nell’armadio in presenza dei compagni. Sempre l’insegnante racconta che gli altri insegnante sono più preoccupati di non sapere qual è il prossimo comportamento disfunzionale del bambino; hanno paura di non sapere come gestirlo. Al colloquio con la madre esce fuori la stessa cosa, ovvero anche lei non sa come gestirlo e ha paura dei suoi comportamenti. Per risolvere la situazione l’insegnante iniziò parlando con il ragazzo serenamente, controllando la sua ansia e il timore di non sapere come fare. Il ragazzo rimase sconvolto della reazione dell’adulto e smise di agitarsi. 4.4 EFFICACIA, ASCOLTO DI SE’, EMPATIA Gli atteggiamenti più comuni di fronte al disagio vanno dal tentativo di ignorarlo facendo finta di non vedere, all’atteggiamento persecutorio che si realizza quando il docente invita l’allievo a smetterla di disturbare ricorrendo a delle strategie come la punizione, il rimprovero, la nota. Non mancano docenti che grazie alla loro formazione si propongono di accettare tutti compresi coloro che vivono un disagio. Cercare di addomesticare un sentimento negativo, può essere lodevole ma presenta delle controindicazioni. È facile che ad un livello ci si proponga una cosa e poi, ad esempio a livello non verbale, se ne faccia un’altra e questo forse è peggio del rifiuto palese in quanto rischia di ingannare sé stessi e l’altro. Va sottolineato che sulla base del proposito di accettare ogni bambino, compresi quelli che a pelle non piacciono o per i quali si nutrono sentimenti di rifiuto, antipatia paura, ansia, si rischia di mettere una specie di coperchio sulla situazione che impedisce di comprenderla adeguatamente, che non consente di cogliere i dinamismi che alimentano il disagio. La premura, amorevolezza, cura che nasce dall’intenzione di alleviare il disagio del bambino, o dal senso di colpa, non risulta buona alleata e rischia di congelare una dinamica che può andare avanti invariata per molto tempo. L’avversione verso gli allievi e gli utenti è facilmente vissuta come un fallimento professionale. Se questo è vero si può ipotizzare che uno dei motivi per cui i docenti tendono a reprimere e a rimuovere i sentimenti negativi verso gli studenti sia dettato dal bisogno di evitare di sentirsi dei falliti, dal bisogno di preservare e di conservare la stima di sé. Quanti si propongono di reagire con distacco professionale, di concentrarsi su altro, di accettare tutti e di non rispondere alle provocazioni, cercano di realizzare quello che è definito DETACHED CONCERN, cioè interessamento distaccato volto a tutelare sé e l’altro da attivazioni emotive intense e ritenute rischiose in quanto potrebbero interferire nel rapporto col paziente. Tradurre in pratica il D.C non è semplice. Trovare un equilibri tra distacco, disistima e vicinanza emotiva, è difficile in quanto facilmente i sentimenti si trasformano nel tempo per giungere, in certi casi, ad un vero rigetto e disprezzo. Si realizza la disumanizzazione come mezzo di autodifesa da sensazioni eccessivamente intense. Spesso gli educatori prediligono il distacco professionale, l’obiettività, è anche vero che non si può prescindere dalla propria professionalità, dalla propria storia personale in educazione. Persino in psicoanalisi il controtransfert, Freud lo definiva, inizialmente, come processo inconscio derivante da conflitti e da esperienze irrisolte e lo considerava uno dei maggiori ostacoli, lo concepiva come una sorta di buco nero da analizzare ed eliminare. Successivamente il costrutto è stato riconsiderato fino ad includere la quasi totalità dei sentimenti del terapeuta, consci ed inconsci, legati sia all’esperienza personale sia all’interazione col paziente. Il controtransfert è stato, per finire, concepito utile per amplificare l’empatia. Dunque, l’educatore deve imparare ad osservare le proprie paure, ansie; i propri vissuti costituiscono lo strumento per meglio comprendere la situazione e per comunicare all’altro quanto abbiamo compreso. Cosa si può fare di diverso? Invece di sforzarsi di eliminare i sentimenti ritenuti negativi, il docente potrebbe cominciare ad ascoltarli per comprendere meglio la situazione e scoprire nuove opzioni. Al posto di voler eliminare i sentimenti negativi del bambino potrebbe chiedersi cos’è il suo senso di rifiuto. Bisogna porsi un altro quesito: in che modo il suo comportamento contribuisce al risultato di non essere accettato? Dopo aver risposto può avere senso intervenire. L’intervento educativo conseguente dovrà promuovere la consapevolezza del bambino circa quello che fa e circa gli effetti che tende a produrre. Poi dovrà consentirgli di apprendere modalità alternative di esprimere i suoi sentimenti. Il bambino potrebbe essere aiutato a prendere atto di quello che fa e imparare a chiedere in maniera diretta non distruttiva. CASO: Luca, 10 anni, frequenta il primo anno della scuola secondaria di primo grado. È il più bravo della classe per il rendimento ma non riesce a legare con i compagni perché è presuntuoso e saccente. Un pomeriggio tutti i maschi della classe si organizzano per andare a mangiare una pizza, tutti vengono invitati ma Luca non è il benvenuto. Dopo essersi consultati, gli altri compagni, decidono di chiamare Luca per dirgli che non si sarebbe più andati in pizzeria. La sera tutti vanno in pizzeria; il giorno successivo dopo aver saputo sia Luca sia i suoi genitori sono furibondi con i compagni e con le maestre, debitamente informate, decidono di intervenire riprendendo l’intera classe attraverso la predica: “queste cose non si fanno”, “non è giusto”. Questo tipo di intervento da parte dei docenti è inefficace; l’opzione che può funzionare è quella di chiedere ai bambini il perché hanno escluso Luca. Dopo aver raccolto le varie informazioni le insegnati potrebbero spiegare a Luca che se intende stare con gli altri può fare delle cose diverse. In questo modo educherebbero i bambini a dare e ricevere feedback e a capire e usare i loro sentimenti. CAPITOLO 3 – OPPOSIZIONE, RIFIUTO E CONFLITTO EDUCATIVO Docenti e genitori fanno di tutto per far si che i loro alunni/figli accolgono le loro richieste, ma di solito ricevono solo dei rifiuti. Ovviamente non ci si propone di insegnare come farsi obbedire dagli alunni. Intendiamo invitare gli educatori a riflettere su cosa fanno dinanzi ai comportamenti oppositori e su cosa possono fare diversamente. Cosa può fare di diverso l’educatore per far si che gli allievi lo ascoltino? 1.1 MODALITA’ VESSATORIE Vi sono due tipologie per far fronte all’opposizione dell’educando: • MODALITA’ VESSATORIE: CASO: due insegnati praticano in una quarta elementare un Laboratorio di alfabetizzazione a ff ettiva. I bambini vengono invitati a mettersi per terra in cerchio, tutti lo fanno tranne Emanuele. L’insegnate come primo tentativo lo ripete con le buone maniere ma in un secondo momento, quando non riceve risposta, prende il bambino con la forza e gli dice: “adesso vendiamo se non lo fai anche tu”. Il bambino comincia a piangere. La modalità brusca non aiuta ad accettare la frustrazione legata al divieto anzi va ad aggiungersi ad essa. Lo stile vessatorio alimenta le dinamiche distruttive: si parte con un tono delicato fino ad arrivare ad un tono ostile e teso. Molti educatori credono che per far partecipare un allievo ad una attività che non vuole svolgere basti essere pressante ma evidentemente non è cosi. L’allievo timido, incalzato perché diventi spigliato, ad esempio, facilmente diviene pauroso fino al punto di inibirsi sempre più. Alcune forme di intervento impiegate per gestire la demotivazione ed il rifiuto risultano svalutanti e a volte maltrattanti: a volte gli educatori diventano particolarmente pesanti e in certi casi si accaniscono nei confronti dell’alunno. CASO PRESO DAL RIASSUNTO I CASI (Secondo caso nota) durante una gita, un allievo ballava sul pullman e disturbava l’autista, dopo diversi richiami la maestra gli dà uno schiaffo (sì scusa poi con i genitori dell’alunno , ma lo stesso tempo soddisfatto poiché il ragazzo si era seduto). • MODALITA’ MANIPOLATORIE: nell’aiutare l’altro alla resistenza è facile cadere nell’inganno. CASO: Carlo, 30 anni, vive le separazioni, ad esempio dalle ragazze in maniera catastro fi ca: si butta per terra, batte i piedi.. racconta che all’età di di 6 anni fu accompagnato dalla madre e dalla zia dal dentista per un’estrazione ma senza che lui sapesse nulla. Il dentista l’aveva rassicurato dicendogli che avrebbe dato soltanto un’occhiata. Nello studio medico, Giulio comprese che la madre, la zia e il medico avevano ordito una sorta di complotto e si erano accordati di estrargli il dente a sua insaputa. La sua rabbia è quella di non essersi sentito rispettato. L’intenzione della madre era quella di risparmiargli un trauma. È questo il motivo per cui Carlo vive ancora oggi una sorta di incubo maturando cosi l’idea che gli altri sono falsi e che l’unico modo per evitare di essere imbrogliati sia quello di non fi darsi. CASO PRESO DAL RIASSUNTO I CASI Carlo trent’anni→ vive in maniera catastrofica le separazioni al punto che quando una ragazza che lo autorità ed istituzioni, intervenire attuando più severamente le misure normalizzatrici: la restrizione diviene proibizionismo. Le conseguenze si rivelano peggiori del male stesso: l’alcolismo dilaga ancor più. Un esempio per questa logica potrebbe essere quello legato alla temperatura: più fa freddo più ci copriamo per proteggerci. È ragionevole applicare “più di prima” le misure normalizzatrici: più vestiti, più caldo. La logica dell’opposto e del più di prima si può individuare nelle modalità vessatorie; si identifica in delle strategie educative che utilizzano gli educatori dinanzi ad un bambino che non vuole mangiare per esempio o che non studia. Dinanzi all’adolescente che inizia a fumare, a bere qualche bicchiere, che comincia a rientrare tardi la sera.. L’uso di interventi via via decisamente più duri, rischia di attivare l’adempimento di una sorta di effetto boomerang. Il meccanismo descrive l’effetto legato all’uso fi atteggiamenti e interventi intransigenti che, a lungo andare, producono effetti paradossali: ribellione, dissentimento, inibizione. Una certa quantità di controllo nelle situazioni educative reca beneficio. Incrementare il livello di direttiva può ritenersi utile ma dopo che si supera una certa soglia gli effetti possono diventare distruttivi. L’aumento dei comportamenti giudicati scorretti rischia inoltre di indurre, nell’educatore, una sorta di accanimento terapeutico a spirale crescente, caratterizzato da atteggiamenti e interventi sempre più rigidi e intolleranti. 3.2 Il Paradosso—> significa fare una cosa che non si riesce a fare solo perché quella determinata cosa viene richiesta. CASO: Giuseppe docente di scuola elementare un giorno decide di creare nella classe terza una piccola biblioteca invitando ciascuno bambino a portare un libro in modo che i compagni a turno potessero leggere il loro più quello degli altri. Elesse un segretario che aveva il compito di compilare il registro per gestire i libri. Il maestro commise un piccolo errore: elogiava solo i bambino che leggevano tanto mentre quelli che prendevano in prestito meno libri venivano disapprovati. Tra i bambini quindi si di ff use l’idea che fosse più conveniente prendere più librianche se essi non venivano neanche aperti. Al posto dell’interesse alla lettura, il maestro riuscì a promuovere lo scambio di libri. CASO PRESO DAL RIASSUNTO I CASI Giuseppe→ docente di scuola elementare decide di creare nella classe terza una piccola biblioteca. Il docente invita ciascun bambino a portare un libro in modo che i compagni a turno possano leggere il loro più quello degli altri. Elegge pure un segretario. il maestro commette un errore: elogia solo i bambini che leggono tanto, mentre quelli che prendono in prestito meno libri no. Tra i bambini quindi si diffuse l’idea che fosse più conveniente prendere più libri anche se non venivano neanche aperti. Al posto dell’interesse alla lettura, il maestro riuscire a promuovere lo scambio dei libri. Il paradosso è per sua natura elusivo e per secoli ha dato da fare a tanti pensatori. Consideriamo il caso del dell’allievo demotivato. È facile che il docente attivi un paradosso nel momento in cui si aspetta, ad esempio, non solo che egli faccia le cose che non desidera fare, ma che le faccia di sua spontanea volontà. Si tratta di un doppio legame analogo a quello sotteso nel messaggio paradossale “sii spontaneo”: come è possibile attendersi u certo comportamento se questo è per sua natura spontaneo? Se lo si esorta non sarà più spontaneo per il semplice fatto che è stato richiesto. Dinanzi al bambino demotivato la posizione corretta, cioè libera da paradossi, è “voglio che studi”: il bambino può obbedire come può disubbidire. Pianificare interventi per promuovere atteggiamenti spontanei e volontari rischia di diventar paradossale, se ci si aspetta non soltanto che l’allievo studi, ma anche che lo voglia, o che sia lui a volerlo. Automaticamente si sarà predisposta una trappola che determinerà facilmente un’impasse (risulta analogamente paradossale il comportamento di alcuni soggetti che mantengono il ruolo di vittima, che non si fanno avanti in modo propositivo per chiedere carezze dagli amici. Accettano gli inviti, ma soltanto se è l’altro a fare il primo passo e a volerlo, “se devo chiederlo io non ha più senso”). L’allievo deve compire un grande sforzo mentale per desiderare quello che gli altri vogliono. Quello dell’istruzione è un campo facilmente soggetto a situazioni paradossali. La scuola si prefigge il cambiamento per eccellenza e si fonda su alcuni miti del tipo: la scuola è divertente. Si tratta di un messaggio caro a molti educatori ma che non sempre viene condiviso da tutti; l’allievo può anche pensarla diversamente, non è detto che per tutti la scuola sia interessante. I guai nascono quando i compagni di classe dichiarano che la scuola è bella. L’allievo che pensa diversamente è facile che cominci a temere che sarà lui che ha qualcosa dentro che non va. A partire da Rousseau, la pedagogia ha cercato di sensibilizzare gli educatori a tenere stili meno direttivi nell’interazione con l’educando; ma non sempre è bastato a consentire di uscire dai paradossi. Non esiste modalità non direttiva per chiedere agli studenti di impegnarsi nello studio; se si lasciasse loro la scelta di decidere ciò che vogliono e ciò che non vogliono studiare, se alzarsi o meno la mattina sarebbe il caos. Come uscirne? 3.3 UNILATERALITA’ E BILATERALITA’ NELL’ESPERIENZA EDUCATIVA Pretendere che l’educando compiaccia l’educatore quando non ne ha voglia implica delle conseguenze relazionali; l’educando è persona diversa dall’educatore ed ha il diritto di riappropriarsi delle sue opzioni ed esercitare la sua facoltà di scelta, il suo diritto di esistere. CASO: Luigi, fi no all’età di 14 anni amava disegnare. Possedeva una grande intelligenza gra fi ca; dopo le medie inferiori voleva frequentare un istituto d’arte ma il padre preferì un liceo per geometri perché li avrebbe comunque disegnato. Luigi andava a scuola e disegnava tutto il tempo delle cose che donava ai compagni ma si ri fi utava di seguire le lezioni e nessun docente riuscì a motivarlo. Fù bocciato per due volte di seguito e in fi ne abbandonò la scuola. Qui il docente è con le mani legate: se l’allievo ha deciso di non fare nulla e quel che lui ha da offrirgli non lo interessa, il suo lavoro è terminato? Siamo di fronte ad uno del paradossi più insidiosi: l’educatore ha il compito di educare, ma non può farlo se l’educando non collabora; il docente è pagato per motivare gli allievi e insegnare loro la matematica ma non può farlo se i discenti non collaborano e non sono interessati. Se accettiamo il principio della bilateralità non possiamo prescindere dal considerare che educatore ed educando sono persone distinte, con bisogni, opzioni, sentimenti, idee..diversi. Se il docente, una vota appurato che l’allievo non intende affatto collaborare, si limita a prendere atto e chiude il rapporto, che ci sta a fare, per cosa, perché allora è pagato? La scuola a che serve? Bisogna comprendere che l’educando è una persona diversa da noi, ha le sue opzioni e diventa difficile interessarlo se ha deciso di non farsi coinvolgere, motivarlo se ha scelto di non farsi interessare; in educazione non è possibile educare se l’altro ha deciso che non vuole essere formato. Quindi, quali opzioni può sperimentare l’educatore? Non è possibile accettare una richiesta se non esiste possibilità di rifiutarsi, di dire di no. La scelta è un atto che implica la presenza di più opzioni. L’imposizione nega all’interlocutore il potere e la sua facoltà di decidere. Gli allievi in classe possono seguire con interesse se vengono messi in condizione di poter scegliere tra l’opzione di stare attenti e quella di fare altro: se viene concessa loro soltanto la possibilità di stare attenti e nulla più, non esiste scelta in quanto ci si aspetta unicamente che si adattino. 3.4.1 SOPPRESSIONE DI UNA PARTE SULL’ALTRA NELLE DINAMICHE INTRAPSICHICHE Se imponiamo l’educazione e la cultura ad un allievo non solo esso la rifiuterà ma non rispettiamo la sua volontà e la sua personalità. Proporsi intenzionalmente e sforzarsi razionalmente di dormire è uno dei percorsi privilegiati per rimanere svegli. Alcuni si ostinano ricorrendo a farmaci che inducono il sonno in modo forzato e artificiale. . Di solito si dice loro di provare a dormire ma sicuramente questo non funzionerà, il tempo passa ma il soggetto non si addormenterà. La logica è quella dell’opposto e del più di prima: imporsi un obiettivo porta lontano dallo stesso. Imporsi volontariamente di dormire implica uno sforzo per mettere a tacere, disconoscere alcune parti importanti di sé: bisogni, sentimenti, intuizioni.. Un soggetto preoccupato per quanto dovrà fare il giorno dopo, può aver bisogno di anticipare le possibili difficoltà e prepararsi ad affrontare eventi ansiogeni e stressanti. Si tratta di un modo per escogitare in anticipo alcune misure per prevenire rischi e problemi. Prescindere dalla considerazione dei propri bisogni e delle proprie preoccupazioni determina un conflitto interno e risulta notevolmente dispendioso. Le opzioni efficaci passano attraverso il prestare attenzione, considerare, ascoltare ogni parte di sé: consentire il libero flusso di idee, pensieri, sentimenti, riflessioni, ecc.., che sforzandosi volontariamente di dormire si era inavvertitamente tentato di disconoscere, costituisce uno dei percorsi privilegiati per potersi addormentare. 3.4.2 RESISTENZA E INTEGRAZIONE L’educatore che si trova a dover gestire l’allievo demotivato è in una posizione del tutto analoga a quella dello psicoterapeuta che si trova a interpretare e trattare le “resistenze” del cliente. Quando parliamo di comportamento oppositivo si pensa che vi siano degli obiettivi da raggiungere che possono essere di vario tipo (fare i compiti, smettere di fare la vittima). Ogni ostacolo, barriera nel muoversi in una data direzione viene concepita come una resistenza. Le barriere devono essere superate per arrivare all’obiettivo. La barriera che resiste, è considerata e trattata come una forza sabotatrice all’interno della dinamica motivazionale e all’interno della personalità dell’educando. Vi è un ulteriore punto di vista che implica una considerazione rispettosa di ogni parte del soggetto, di ogni forza interna, di ogni bisogno, anche se intende muovere in direzione diversa da quella ritenuta appropriata all’educatore. Tra i modelli di riferimento vi è quello della Gestalt secondo cui la resistenza è in ogni caso parte del soggetto e come tale è preziosa. Secondo i teorici della Gestalt la personalità è concepita come un miscuglio di forze; per quanto riguarda le resistenze essi non dicono di attaccarle, ma di ricondurle al loro ruolo adattivo accogliendole e valorizzandole. L’educatore è chiamato quindi ad accogliere il discente nella sua totalità, comprese le sue resistenze. Così facendo getterà le basi per la realizzazione di interventi educativi efficaci: è facile che la resistenza si ammorbidisca, diventi meno rigida e lasci spazio ad altre opzioni. Se l’allievo non può permettersi di esperire adeguatamente la sua demotivazione, la sua noia, il suo disinteresse per alcuni aspetti della vita scolastica, rischia di restare imprigionato in quei sentimenti inespressi. 4.1 L’ATTEGGIAMENTO APERTO: TRA AMOREVOLEZZA, RISPETTO E DELICATEZZA L’atteggiamento positivo aiuta ad obbedire. La relazione educativa genitori-figli va costruita all’insegna della reciprocità. Lo stile dei genitori verso i figli deve essere caratterizzato da amorevolezza. È proprio questo atteggiamento, a parere di Groppo, che diventa mezzo e condizione per aiutare i figli ad obbedire. Quindi gli educatori devono evitare gli atteggiamenti provocatori perché aumenterebbero solo la ribellione. Con un bambino che mostra rifiuto dinanzi alla proposta di fare una certa cosa, il primo passo è quello di consentirgli di esprimersi e di manifestare le sue reticenze, resistenze, barriere, demotivazioni, perplessità. Occorre mettersi in atteggiamento di ascolto interessato, aperto, attento, evitando obiezioni e critiche. Dopo aver consentito all’educando di esternare quanto egli vive, l’educatore può esprimere il suo punto di vista in modo rispettoso e delicato. Può formulare messaggi come ad esempio: “Non ti va di alzarti, ehm! Sapessi quanto piacerebbe anche a me restare a letto..”. si tratta di comunicare all’altro che abbiamo capito cosa vive, che è legittimo, che è naturale sentire voglia di stare a letto. A volte questo basta perché l’educando si alzi e faccia quello che deve, in quanto si è accolta quella parte della sua personalità che resiste. CASO: Lucia una bambina di 5 anni viene portata dal dentista per prendere l’impronta. La madre prima di entrare dice alla bambina di fare la brava e di non fargli fare brutta fi gura. Dopo molti tentativi il dentista non riesce a prende l’impronta della bambina quindici madre e fi glia escono dallo studia e la madre rimprovera la bambina. La fi gli si prende il rimprovero ma inizia a piangere e a singhiozzare. In questa prima fase la madre è talmente concentrata sulla brutta fi gura che non comprende quello che la fi glia sta provando realmente. Assistendo alla scena invitammo la madre ad abbracciare la fi glia per calmarla; poi il dentista inventò dei giochi attraverso degli esercizi preparatori e come per miracolo la bambina dopo un paio di minuti si calmò e si fece prendere l’impronta tranquillamente. L’abbraccio della madre ha avuto un effetto straordinario: ha consentito di risolvere il problema. Tra le opzioni estreme del tipo non far nulla, lasciar perdere, da una parte, e obbligare – ad es. dicendo “adesso che sei qui non si esce se prima..” – vi sono molte possibilità intermedie. Quelle efficaci passano attraverso l’accoglienza dei vissuti e dei bisogni dell’educando, da una parte, e la prosecuzione verso l’obiettivo prefissato, dall’altra. 4.2 PROMUOVERE LA MOTIVAZIONE E GESTIRE L’OPPOSIZIONE IN CLASSE: TRA PARADOSSO E CONTROPARADOSSO I docenti chiedono strategie e tecniche per attirare l’attenzione degli allievi; non esiste una tecnica, il docente di volta in volta si trova a dover interpretare la situazione e individuare i bisogni degli interlocutori. Il docente dinanzi alla sua classe dispone delle seguenti opzioni: • Ricorrere alla critica, all’imposizione, far appello alla buona educazione; • Mollare tutto e andarsene; • Parlare senza essere ascoltato. Allora cosa fare con gli allievi demotivati? Di fronte ad allievi demotivati, che rifiutano, il senso comune suggerisce di strutturare messaggi secondo la llogica “dell’opposto” e del “più di prima”. Ci si aspetta che l’educatore ancoraggi il cambiamento, stimoli l’interesse, sviluppi la motivazione invitando l’allievo ad impegnarsi di più esortandolo. E quanto più il docente si attiva tanto più l’allievo si depotenzia. Una prova interessante è quella di ribaltare la situazione: ad esempio l’educatore potrebbe dire “ sono stanco”. Secondo un assunto dato dagli studiosi della scuola Palo Alto, nella gestione di situazioni paradossali è necessario ricorrere a strategie altrettanto paradossali. A parer loro è difficile immaginare che per uscire da situazioni paradossali basti ricorrere a strategie comuni: occorrono strategie sofisticate, denominate controparadossi. La resistenza non va scoraggiata ma va considerata un importante veicolo per il cambiamento. Al posto di creare una relazione in cui un docente si aspetta delle cose dall’educando invitato a corrispondere, il controparadosso determina una situazione nuova che pone l’altro dinanzi ad un bivio: - Non cambiare nella dimostrando che l’educatore avrà avuto ragione e che le sue previsioni erano esatte; - Reagire cercando di dimostrare il contrario ed effettuando una scelta che segna l’inizio di un cambiamento. CAPITOLO 4 – PROBLEMATICHE EDUCATIVE: COSA SI FA DI SOLITO, COSA SI PUO’ FARE DI DIVERSO Un rischio diffuso tra quanti si propongono di alleviare il disagio è la sindrome di burnout. Essa si presenta come una delle manifestazioni del disagio dell’educatore e va concepita come una fuga da una situazione lavorativa vissuta quotidianamente con forte stress. Si tratta di una reazione cognitiva, emotiva e comportamentale caratterizzata da progressivo allontanamento dalla fonte di malessere che non consente di risolvere in modo efficace il problema e che caratterizza soprattutto i contesti professionali. Il rapporto operatore-utente e l’aiuto fornito ne rappresentano gli elementi essenziali. Tra i soggetti a rischio di burnout troviamo educatori e docenti. Viene concepito come una sindrome psicologica caratterizzata da tre dimensioni basilari: esaurimento emotivo (sensazione di trovarsi sfiniti), depersonalizzazione (agire freddo e distaccato), diminuzione del senso di realizzazione e autoefficacia (senso di impotenza valutazione negativa di sé). Cherniss: definisce il burnout come un processo transazionele caratterizzato da tre fasi tipiche: a) stress lavorativo (discrepanza tra richieste e risorse); b) tensione (risposta emotiva allo squilibrio); conclusione difensiva (rigidità, distacco emotivo). La perdita di entusiasmo e di interesse portano il soggetto alla fuga psicologica come tentativo di difendersi dallo stress sperimentato. Pines: a riguardo lo considera come il desiderio di dare un senso alla vita o di realizzare il significato della propria esistenza nell’ambito del suo lavoro. Il senso di fallimento conseguente dagli insuccessi potrà facilmente produrre una progressiva disillusione. È l’eccesso di motivazione che comporta un eccesso di coinvolgimento, quando vi sono dei fallimenti vi è una progressiva riduzione della motivazione. Quella descritta da Pines è come un legame di tipo simbiotico. 1. SCRIVERE PAROLACCE SUI LIBRI DEI COMPAGNI CASO: un giorno scrive diverse oscenità sul diario, poi sui libri e dei giorni dopo anche sul diario nuovo acquistato. Lo fa presente alla maestra e alla mamma, la mamma si arrabbia e l’indomani va a scuola. L’insegnante minaccia la classe dicendo che non si sarebbe fatto più nulla se non fosse venuto fuori il colpevole. Alessia autrice delle scritte ascolta in silenzio e continua a rimanere nascosta. L’insegnante con l’aiuto di altri bambini dopo alcuni giorni capisce che è stata lei e dopo averle parlato insistentemente la bambina confessa e mentre piange. Assicura di essere profondamente pentita e promette di non farlo più. L’insegnante è soddisfatta e bambino lo mette fuori dalla porta e gli ordina di bussare, chiedere il permesso di entrare e poi andarsi a sedere nel proprio posto. Il bambino inizialmente dichiara di non volerlo fare, rimane fuori per un po' e poi chiede di poter entrare come gli è stato ordinato. L’insegnante ha gestito il disagio di Giuseppe facendo appello all’autocontrollo e al condizionamento che può risultare vantaggioso a breve, ma non è detto che risolva il problema. Mara dichiara di non aver compreso quale sia il disagio ed osserva che il disturbo continua a persistere. Le modalità del tipo “questo qui non si fa”, “adesso fai tu”, possono risultare allettanti per i docenti. Si tratta di modalità adottate in passato anche da chi non era docente e non aveva competenze pedagogiche. Dall’educatore ci aspettiamo qualcosa in più rispetto a quanto possa fare chiunque. L’educatore, infatti, ha il dovere di capire ed intervenire in modo efficace. Persino durante la ricreazione, Giuseppe non riesce ad integrarsi e fa delle cose che determinano nei compagni la facile reazione del rifiuto. A via del suo fare i compagni si dichiarano risentiti per via del suo fare litigioso, prepotente nessuno intende giocare con lui. La scuola aveva avviato un progetto di integrazione ma anche in quel contesto Giuseppe boicottò la sua integrazione dove alla fine non volle più partecipare. L’atteggiamento laissez-faire adottato dai colleghi di Mara che si realizza ignorando non sembra molto efficace. L’atteggiamento di Mara che ordina a Giuseppe di autocontrollarsi sembra banale ripetitivo, così facendo ignora quale bisogno è stato frustrato. Il primo passo è quello di ascoltare i sentimenti che il docente prova nel momento in cui interagisce con alunni come Giuseppe, i sentimenti più comuni sono rabbia, antipatia, rifiuto. Se l’insegnante si sente in colpa ritenendo negative tali emozioni è facile che si boicotterà nel capire e nell’intervenire. Mara dichiara di non sentire nulla e che qualche volta Giuseppe le fa pena, quindi viene considerato come vittima da aiutare. Invece di cercare di cancellare i suoi sentimenti potrebbe constatare che il bambino viene emarginato e rifiutato dai compagni. In secondo luogo potrebbe domandarsi cosa vive e sente dentro di sé. Dopo aver risposto a tali questioni può aver senso intervenire. Il comportamento di Giuseppe segnala che arriva in classe irritato e arrabbiato. Esprime i sentimenti in modo distruttivo da suscitare una reazione del docente tutt’altro che empatica. Il bambino si arrabbia prima di venire a scuola con i genitori perché lo accompagnano sempre in ritardo. I genitori di Giuseppe non accolgono la sua richiesta e gli comandano di stare zitto. Se l’insegnante punisce Giuseppe e lo obbliga a comportarsi educatamente rischia di fare qualcosa di simile a ciò che fanno già i suoi genitori: svalutare quello che sente. L’insegnante potrebbe cominciare ad a ffinare la sua capacità empatica vedendo arrivare Giuseppe potrebbe intervenire dicendo ma che ti è successo che sei così arrabbiato? Il docente così facendo consentirebbe al bambino di vivere ed esternare quello che sente, di riappropriarsi della sua rabbia, di capire che si tratta di sentimenti che vanno usati in modo assertivo che distruttivo. Una volta appreso a verbalizzare il bambino potrebbe arrivare a cogliere il feed-back da parte degli altri. Passata la bufera l’insegnante potrebbe lavorare su quanto è avvenuto. 4. IL TORMENTO INUTILE Insegnante-piange: durante una riunione settimanale, un’insegnante di scuola primaria si presentava molto triste e dopo essersi seduta, inizia a piangere. Aveva insistito perché una bambina disabile prendesse parte ad una recita convincendo i genitori, gli altri colleghi. Durante la recita però la bambina constata la presenza del pubblico si blocca del tutto rendendo necessaria un’interruzione della rappresentazione. L’insegnante si sentiva in colpa, continuava a ripetere che era colpa sua se la bambina aveva fatto un’esperienza umiliante. Si sentiva in pena per averle fatto fare una pessima figura. L’insegnante voleva mostrare a tutti che se la bambina voleva poteva farcela, poteva fermare la scena e aiutare la bambina così facendo insegnare a tutti che fermarsi è normale, che non ci si aspetta la perfezione da nessuno. Invitando la bambina a prendere parte alla recita l’insegnante ha fatto quanto un educatore deve fare, sperimentare di fare qualcosa di nuovo e divertente come può essere una recitazione. È, dunque, utile proporre alcune riflessioni. La premessa è che l’insegnante del caso, attribuisce a sé responsabilità che appartengono soltanto in parte e la sua reazione, risulta sproporzionata, fuori misura. L’insegnante rischia, di conseguenza, di procurarsi un disagio e un tormento in più, inutile. 4.1 L’ATTEGGIAMENTO IPERPROTETTIVO E LE SUE INCOGNITE Un atteggiamento comune di fronte a persone con handicap o con difficoltà di apprendimento si esprime attraverso un’eccessiva protezione. Una manifestazione dell’atteggiamento iperprotettivo riguarda la tendenza di chi si attiva oltremisura o in maniera esagerata per aiutare chi soffre. Canevaro riferendosi al caso di un handicap motorio: osserva che dinnanzi ad un qualsiasi ostacolo come può essere uno scalino, il bambino, diversamente da un coetaneo normarle che, mentre esegue un compito simile, è in grado di fare altro (ad esempio, chiacchierare con qualcuno), deve applicare tutto sé stesso. Per poter raggiungere un livello ottimale nella prestazione, il bambino con handicap motorio ha bisogno di esercitarsi ripetutamente. Mentre un soggetto normale sperimenta se stesso dinanzi ad un simile ostacolo, magari cadendo un certo numero di volte prima di acquisire la competenza, il bambino con handicap subisce maggiori impedimenti proprio da parte di chi vorrebbe aiutarlo: non pochi educatori, infatti, si precipitano cercando di aiutarlo perché egli non incontri ostacoli. Il rischio è quello di agire al posto di un altro e per un altro e questo può costituire una grande gentilezza, ma può diventare un tormento e una prigionia continua che rendono difficili molti apprendimenti. Tale atteggiamento alimenta la passività e la conseguente dipendenza. L’attivismo iperprotettivo dinanzi all’handicap, alle disabilità, allo svantaggio, produce effetti paradossali. Alcune ricerche confermano che bambini con sviluppo mentale deficitario alla fine del primo anno di vita migliorano nel secondo anno grazie alla relazione efficace che la madre riesce a stabilire con essi. L’apprendimento del linguaggio è una questione complessa in cui rivestono un ruolo di primaria importanza sia la maturazione di alcune funzioni del bambino sia il tipo di atteggiamento del genitore che può mostrarsi disponibile, disinteressato o incapace di ascoltarlo. È documentato che i bambini di livello linguistico elevato interagiscono comunemente con madri disponibili a mantenere quella che viene definita una specie di convergenza di attenzione nell’interazione. I bambini con basso livello di competenze linguistiche, hanno comunemente con la madre una relazione asincrona a causa dell’eccessivo attivismo che facilmente degenera nella direttività. La coorientazione visiva della madre e del bambino sullo stesso oggetto, alla base dell’apprendimento del linguaggio, è possibile grazie a un adeguamento dell’attenzione da parte della madre verso gli oggetti di interesse del bambino. Questo tipo di relazione possibile grazie all’empatia tende a mettere il bambino nel ruolo di partner attivo nell’interazione rispettando le sue proposte mostrandosi attenti ai suoi messaggi. Si rivela paradossale l’atteggiamento di chi dinanzi ad un bambino si attiva oltremisura moltiplicando il numero di interventi. Non rispettando tempi, ritmi, interessi del bambino tale atteggiamento tende a passivizzarlo. E demotivarlo. Si tratta di reazioni dettate più dall’emotività che da un esame adeguato ed efficace della realtà. L’agire dettato prevalentemente da reazioni emotive rischia di essere automatico e per alcuni tratti inconsapevole. Non si può certo ritenere che le reazioni di chi agisce in preda all’ansia risultino equilibrate e mature, perché si fondano spesso su un esame parziale della realtà. 4.2 IL SALVATORE L’atteggiamento iperprotettivo nell’ambito dell’Analisi Transazionale è definito ruolo di salvatore. Karpman: nel triangolo drammatico contempla tre ruoli: salvatore, vittima e persecutore. Ruolo di salvatore: caro a molti educatori. Caratteristica essenziale è quella di prodigarsi più del dovuto, di fare delle cose spesso non richieste, non necessarie e a volte nemmeno gradite. I discenti vengono visti come bisognosi di aiuto, deboli. Diventa un salvatore il docente iperprotettivo, quello particolarmente largo nei voti o nei giudizi, quello che, per timore di ferire l’allievo, dà giudizi immeritati gonfiandoli in positivo, quello che formula domande particolarmente facili per paura di mettere l’allievo in difficoltà durante le interrogazioni. Il docente mantiene un atteggiamento di superiorità che lo porta a considerare gli altri facilmente bisognosi ed incapaci di fare a meno del suo aiuto. La relazione tra atteggiamento particolarmente indulgente del docente e motivazione scolastica dell’allievo è stata esaminata da Weimar e dopo da Graham. Le indagini segnalano una relazione positiva tra l’insegnamento indulgente immotivato e l’immagine negativa che l’allievo ne ricava dal punto di vista del sé scolastico. Dinanzi all’indulgenza eccessiva l’allievo facilmente ipotizza che l’insegnante pensi che egli abbia scarse capacità e, di conseguenza, eviterà di continuare ad impegnarsi nello studio. Quando una persona assume il ruolo di salvatore agisce per sistemare delle questioni interne più che esterne. Il suo bisogno di aiutare nasce dall’esigenza di verificare che va bene come persona, che è utile o che è accettato dagli altri che hanno bisogno di lui. Ruolo di vittima: è complementare a quella di salvatore ed è mantenuta da molti educandi o molti allievi. CASO : Giovanni adesso prova tu a colorare il disegno della scheda, allievo: rimane zitto, immobile poi continua ad agitarsi, a non far nulla. Insegnante: dai su tieni il colore, allievo: comincia a piangere, insegnante: Giovanni non ti preoccupare (lo bacia), non c’è motivo di fare così, vedrai che imparerai, allievo: all’improvviso appare rilassato per aver evitato l’esperienza di mettersi alla prova sul campo. L’allievo agisce da una posizione di vittima perché svaluta le sue potenzialità, le sue capacità e attraverso il pianto chiede di essere salvato o che l’altro faccia le cose al posto suo. L’interlocutore assume il ruolo di salvatore perché si attiva per fare il disegno al posto dell’allievo e per consolare un pianto ricattatorio. La terza posizione, ovvero quella di persecutore, è tipica nelle interazioni sminuisce il partner lo svaluta, lo perseguita. La proposta è quella non di rinunciare ad aiutare gli altri ma di aiutarli in modo adeguato, l’aiuto non gli impedisca di fare quanto può fare da sé, aiuto libero da contaminazioni. 5. QUANDO LA RABBIA DELL’INSEGNANTE LIEVITA A DISMISURA CASO: bambino vivace ama scherzare ridere e facilmente esagera nel fare battute spiritose, al punto di non riuscire a controllarsi. L’insegnante solitamente lo riprende delicatamente, lui non accenna a fermarsi e lei si arrabbia. Un giorno l’insegn. è seduta accanto a lui per contenerlo. Durante la spiegazione l’insegnante fa una battuta di scherzo e Luca coglie l’occasione per rispondere con una sua battuta umoristica. L’insegnante si ferma, lo guarda con intenzione di fargli capire di smettere ma Luca ha già deciso di iniziare a fare baccano. Luca continua senza freni trasformando la classe in un’entità incontrollabile. Appurata l’ine ffi cacia dei suoi interventi l’insegnante prende Luca per un braccio lo porta fuori dall’aula e con tono minaccioso gli intima di non permettersi più a comportarsi in quel modo. L’insegnante si sente confusa per la sua reazione, ma soprattutto per l’aumento della rabbia nei riguardi del bambino che sente dentro di sé crescere diventare abnorme. La rabbia viene percepita abnorme, ma non presenta espressioni esterne pericolose. In casi del tipo indicato è frequente interpretare la situazione complessa come l’esito della presenza di qualche problema nel ragazzo. Gli interventi comuni solitamente consistono nella convocazione dei genitori, nella richiesta dell’intervento da parte dell’equipe psicopedagogica. È facile che ci si focalizzi unicamente sul bambino e sul comportamento del bambino, trascurando che esiste anche il problema del docente. Il primo elemento chiave è dato dal fatto che l’insegnante è preoccupata che il fare di Luca crei una situazione incontrollabile, cioè che tutta la classe agisce come luca e si crei confusione. È presente il giudizio negativo da parte dei genitori nei confronti dell’insegnante. È proprio questo giudizio porta a diminuire il controllo e determina l’aumento smisurato della rabbia. Se l’insegnante si desse il permesso di rilassarsi potrebbe cogliere la battuta iniziale del bambino, potrebbe ridere insieme a lui. È la mania di controllo eccessivo volta a bloccare ogni manifestazione affettiva fin dal suo nascere che va considerato con sospetto. 5.1 IL CONTROLLO DA PARTE DEL DOCENTE Gordon: dice che l’errore sta proprio qui, gli educatori trascorrono troppo tempo a cercare di imporre la disciplina invece di dedicarlo all’insegnamento in quanto ricorrono alla minaccia di punizioni, alla punizione vera e propria, al rimprovero, che non risultano efficaci. I metodi fondati sul potere e sulla repressione solitamente attivano resistenza, ribellione. Alcuni autori hanno ripetutamente documentato l’utilità dei metodi non coercitivi per ottenere la disciplina. Franta: ha sottolineato che nell’atteggiamento dell’educatore si possono individuare almeno due dimensioni: dimensione emozionale e dimensione di controllo. La dimensione di controllo può variare da un massimo ad un minimo. Alti livelli di controllo si caratterizzano da messaggi e stili direttivi. Messaggi che contengono un’aliquota media di direttività sono considerati democratici, efficaci. Stili caratterizzati da bassi livelli di controllo denotano atteggiamenti laissez-faire, contrassegnati da passività. Ci sono casi in cui proporsi razionalmente di realizzare interventi secondo livelli ottimali di direttività non sembra del tutto sufficiente e in certi casi nemmeno proponibile perché certe reazioni non sono razionali e, a volte nemmeno facilmente controllabili. La premessa fondamentale per realizzare interventi efficaci è quella di comprendere cosa è presente dietro l’aumento smisurato della rabbia. 5.2 PERCORSI INTERNI E RUOLO DELLA SIMBIOSI Non è raro che l’educatore in taluni casi diventi aggressivo, violento e reagisca in maniera incontrollata. Il docente è fondamentalmente convinto che se l’allievo smettesse di fare quel che l0infastidisce, la sua rabbia non lieviterebbe; ha il senso che sia l’allievo che gli causi la rabbia attraverso il suo comportamento. Questa convinzione è la presenza di un legame simbiotico tra l’insegnante e la situazione, tra l’insegnante e il comportamento dell’allievo. Nessuno è in grado di determinare una reazione, un’emozione di un’altra persona. Ogni emozione nasce dalla risposta personale e soggettiva dinanzi a ciascuna situazione, dinanzi al comportamento di un altro. un comportamento disturbante non è mai indifferente, ma la specificità della risposta è personale e soggettiva, non automatica e lineare. Il secondo elemento che caratterizza il caso proposto, è che dal momento in cui l’insegnante nega a se stesso il proprio potere, le proprie opzioni, ha il senso che l’unica possibilità per risolvere la situazione passi attraverso il cambiamento dell’altro, attraverso la modificazione del comportamento dell’altro fino al punto da pretendere e da esigere che smetta, che si fermi. Si tratta di una trappola diffusa, rischiosa, soprattutto se l’altro continua a non ascoltare e non accenna a cambiare. Esistono altre opzioni ma è necessario che il docente si guardi dentro di sé. La ragione per cui l’altro deve cambiare assolutamente il suo comportamento è che il giudizio su di sé si fa dipendere pedissequamente dal successo-insuccesso, dall’esito dell’intervento educativo dimenticando che gli alunni sono persone distinte ed hanno le loro opzioni, che il loro comportamento non dipende in modo lineare dagli interventi del docente e tanto meno dalla sua competenza. L’insegnante potrebbe anche essere abile, mettere in atto degli interventi educativi ineccepibili e al contempo registrare che Luca continua ad infastidire, disturbare, fare baccano. Il successo o l’insuccesso non dipendono esclusivamente dall’agire del docente. Facendo dipendere il giudizio su di sé dal comportamento dei bambini, che le emozioni lievitano a dismisura e l’insegnante esige che l’ascoltino in maniera pedissequa e pretende che Luca non si permetta nemmeno per scherzo di comportarsi male. Il clima della classe ingovernabile diventa una prova del proprio fallimento. Vedere il bambino che non si ferma equivale ad un giudizio negativo su di sé, sulla propria incapacità. Ne deriva rabbia da frustrazione ed è facile che si giunga a manifestare delle reazioni di tipo violento. Molte reazioni violente dell’educatore rivelano un’insopportabilità nei confronti dei bambini che, in fondo, gli appartiene. L’insopportabilità viene vissuta più come qualcosa che appartiene all’altro, ai bambini in questo caso, ma risulta un richiamo intollerante che nasce dall’assenza di separazione tra sé e il comportamento dell’altro. i modi di manifestare tale intolleranza vanno dalla rabbia alla depressione, e in molti casi hanno un effetto intimidatorio e ricattatori: vogliono che l’altro cambi, smetta di comportarsi male. I sentimenti fuori misura non danno alcun vantaggio e complicano ulteriormente la vita scolastica.