Scarica Gestire il disagio a scuola e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! Gestire il disagio a scuola Amenta CAPITOLO 1 Il termine disagio inizia ad affermarsi intorno la fine degli anni ’70; questo concetto si presenta povero di contenuti, usato per esprimere le problematiche giovanili e la consapevolezza di un grande fallimento. Successivamente il termine viene focalizzato sui vissuti che accompagnano il disagio durante i momenti di crescita. Il termine è costituito dal prefisso DIS che indica una negazione, e dalla parola AGIO che significa “giacere presso”; quindi il termine viene usato per indicare la condizione di chi vive ai margini e si sente escluso. Risulta difficile trovare una sola definizione, secondo le descrizioni più usate nella letteratura psicopedagogica italiana il termine indica: - Sintomo dell’incapacità del soggetto di trovare soluzioni soddisfacenti e coerenti alla propria identità - Incapacità di tollerare e gestire le complessità Nelle definizioni vi sono alcuni elementi chiave: il disagio indica comportamenti e atteggiamenti non patologici, indica un malessere diffuso legato a difficolta e problemi che derivano da compiti evolutivi e dalla relazione complessa tra la società e l’individuo. Il termine è raramente usato in psicologia e in pedagogia perché vieni di solito detto che il soggetto è affetto da una sofferenza psichica. La parola disagio viene anche usata per ricondurci all’ammontare delle inadempienze, degli inganni di cui i giovani sono stati oggetto negli ultimi decenni. Le definizioni che spesso si danno al termine disagio, voglio mettere insieme tutte le forme di malessere in una sola categoria piuttosto che soffermarsi su problemi sottesi. Un’altra tendenza è quella di usare il termine per parlare di altri fenomeni come: DISADATTAMENTO O FRUSTRAZIONE. Possiamo inoltre dire che, il termine disagio si utilizza per parlare di comportamenti non patologici. Il termine “dasagio” sembra avere più valenza descrittiva che interpretativa, tanto sa essere usato in contesti diversi per indicare molti vissuti problematici che hanno in comune uno stato di malessere. Una distinzione viene fatta per quanto riguarda le aree in cui si può manifestare il disagio nella vita di un soggetto: • INTRAPSICHICA: una condizione interiore caratterizzata dalle difficoltà a star bene con se stessi. • INTERPERSONALE: il disagio si manifesta nell’incontro tra persone (genitore-figlio; educatore- educando) • SOCIALE: il disagio origina e si manifesta in tutte quelle situazioni note come condizioni di svantaggio ed emarginazione. Il disagio si origina dal mancato soddisfacimento di tutti quei bisogni fondamentali come ad esempio la realizzazione del sé, la felicità. Un primo approccio allo studio del disagio è di tipo SOGGETTIVO, esso si focalizza sui vissuti che accompagnano il soggetto, come il malessere o l’insicurezza; tali vissuti sono priviati ma sono misurabili. Il secondo approccio è di tipo OGGETTIVO e focalizza l’attenzione sulle situazioni e condizioni di vita che vengono designate come premesse o antecedenti al disagio, qui vengono accettati alcuni comportamenti che il soggetto esterna solo perché sono una componente del passaggio da uno stadio all’altro. Sicuramente qualunque situazione problematica non è mai indifferente perché tutte hanno degli effetti. É importante dire che il disagio nasce dalla risposta personale alle diverse situazioni e richieste da parte della società o della famiglia stessa. Molte volte, però, il disagio può essere procurato. Non è semplice definire dove finisce il disagio autentico e dove inizia quello procurato. Molti tendono attraverso le AUTOATTRIBUZIONI di dare delle spiegazioni causali che il soggetto stesso formula in merito alla relazione tra se e la situazione: • Internalità-esternalità: Il soggetto può attribuire la causa del suo disagio a situazioni interne o esterne a se stesso. • Stabilità-instabilità: alcune cause sono considerate momentanee altre invece sono durevoli. • Controllabilità: il soggetto crede di poter controllare la sorte degli eventi. In un cento senso, esso crede di poter autodeterminarsi, è convinto che quello che gli accade sia dentro di se. In riferimento al locus of control interno o esterno, si possono individuare diversi stili: A. DISFATTISTA, ovvero secondo il soggetto non c’è più niente da fare per lui. B. PROATTIVO, ovvero esso si sforza per reagire al disagio. Certamente quello che accade nella nostra storia passata influenza il futuro ma non cosi tanto; il giudizio sui fatti e i sentimenti presenti vengono in questi casi alimentati da un precipitaoso ritorno al passato che può essere rischioso in quanto appartiene al passato e non ha a che fare con il presente. Il rischi che corre l’educatore è quello di trattare l’educando non per quello che è ma in base alla situazione che si viene a creare; questo può avvenire in due modi: • Proiettando sugli allievi le esperienze personali inconsce; • Reagendo al comportamento degli allievi in modo difensivo. L’ambiguità può essere un aspetto che caratterizza il disagio. Il disagio può essere: - SINTOMATICO: sintomi come ad esempio la tossico dipendenza. - SOMMERSO: è ansiomatico quindi meno studiato. In ogni caso chi vive uno dei due disagi lo fa perchè la società è carente nelle richieste che fa il soggetto. Per molto tempo la letteratura scientifica sull’adolescenza descrivere il disagio come uno stadio caratterizzato da conflittualità, atteggiamenti di ribellione verso il mondo adulto. Le ricerche recenti hanno messo in evidenza uno scenario singolare: il conflitto sembra assumere caratteri più mitigati; gli adolescenti sono di fronte a quelli che vengono definiti disagi asintomatici, che richiedono nell’educatore una capacità di lettura raffinata per rilevare e interpretare sintomi che alle volte sono “travestiti”. L’educatore non può considerare portatori di disagio solo coloro che dimostrano sintomi chiari, è necessario superare l’analfabetismo educativo a partire dalla capacità di decodificare i segnali esterni del disagio non limitandosi alle sue manifestazioni. Esiste un accordo unanime tra gli studiosi nel considerare il disagio come un fenomeno difficile da descrivere; allo stesso disagio si possono individuare cause diverse ed una stessa causa può determinare effetti differenti e non sempre prevedibili. Il disagio può essere causato anche da livelli di stress negli ambienti e relazioni di vita quotidiani. Lo stress può provenire da svantaggi psicofisici, socio-economici e culturali. La presenza di deficit, handicap che gravano sulla salute del soggetto è una delle premesse principali di disagio obiettivo, lo svantaggio complica il processo di integrazione nei diversi sistemi. Alcuni studi fanno risalire il disagio agli svantaggi connessi alla condizione socio- economica e culturale, la marginalità sociale, la povertà.. il problema principale è quello che la nostra società che se è considerata emancipata va verso l’esclusione. La marginalità sociale e la povertà sono due fenomeni strettamente connessi al disagio e in certi casi alla devianza. La scuola presenta alti livelli di abbandono precoce che risultano rilevanti nel caso del disagio. Si distinguono diverse forme: • SELEZIONE PALESE: riguarda l’allontanamento del ragazzo dalla scuola e dagli studi, ad esempio con delle bocciature; • SELEZIONE OCCULTA: non viene preso nessun provvedimento e a causa di tutto questo viene utilizzata quella palese; • ABBANDONO SCOLASTICO: riguarda gli allievi che di loro spontanea volontà lasciano la scuola senza arrivare al conseguimento del titolo. La situazione descritta in questi punti avviene quando vi è la presenza di difficoltà nella relazione tra alunno e scuola. In Italia questo avviene nell’intervallo che va dalla conclusione della scuola secondaria di primo grado all’ingresso nella scuola secondaria di secondo grado. Fenomeni come il drop out sono complessi e richiedono competenze qualificate negli educatori per poter intervenire. Spesso risultano carenti negli educatori dinamiche sottese allo scarso rendimento, al disturbo e al disagio degli allievi. La scuola quindi deve attrezzarsi per poter Al di la del disagio, i bisogni inascoltati sono molti: A. PERMESSO DI ESISTERE: Quando un bambino viene al mondo la famiglia deve riorganizzare molte cose ma la cosa più importante da considerare è di dare al bambino il permesso di esistere; questo può essere fatto attraverso i messaggi verbali o non verbali, trattandolo con amore, dire “è bello che tu ci sia”.. ogni volta che il soggetto prova ad entrare in un sistema si riattiva la dinamica arcaica del permesso di esistere e di appartenere. B. NON ESSERE INTIMO: il permesso di essere intimo avviene nell’interazione con le figure significative; quando un genitore è distante, troppo impegnato da al bambino un messaggio di non essere intimo, usa frasi come “non disturbarmi” o “lasciami in pace”; in questo modo è come se il bambino elemosinasse l’attenzione dell’adulto. Il soggetto a cui tali permessi sono stati negati può decidere se isolarsi o comportarsi in modo da farsi emarginare. C. NON ESSERE PICCOLO: è importante che il soggetto possa agire, pensare in base alla sua età. Bowlby parlava di come molti casi di violenza da parte dei genitori verso i figli vanno incontro a delle relazione invertite; è come se si chiedesse al bambino di essere lui il genitore. Anche questo viene considerato un abbandono psicologico perché trattiamo il bambino come se fosse più grande di quello che realmente è. CAPITOLO 2 La scuola si preoccupa dell’educazione dell’educando solo “dal collo in su”, non da importanza alla personalità o se lo fa solo occasionalmente. Oggi la situazione è un po cambiata, ma la tentazione di preoccuparsi solo dell’apprendimento scolastico e dei programmi non risparmia nessun docente. Il docente è chiamato alla realizzazione dell’alfabetizzazione culturale, ma questo meta non può essere adeguatamente raggiunta se non ci si occupa della persona nella sua totalità e se non si considera l’educando oltre che lo scolaro. La gestione delle problematiche educative è un compito importante del docente, ma non si tratta semplicemente di un compito ma di tradurre in pratica la convivenza tra l’insegnante e l’educatore. Sia il docente che l’allievo devono accorgersi l’uno dell’altro altrimenti la situazione volge nel disagio. Dinanzi a un disagio i problemi sono due: 1. Un rischio del tutto insidioso è quello di non accorgersi del problema dell’allievo. Alcune tragedie nel campo educativo derivano proprio da questo problema. 2. Un altro problema è quello del docente; non si tratta di un problema personale ma di un problema educativo: dinanzi all’allievo che manifesta problemi egli ha bisogno di capire come si può intervenire per non cadere nella banalità. Il docente deve affinare la sua capacita di cogliere i problemi e di dare soluzioni efficaci. ATTEGGIAMENTI COMUNI DINANZI AL DISAGIO I docenti di fronte al disagio degli allievi intervengono con delle strategie per mantenere la disciplina. CASO: Paolo, un ragazzo di 12 anni, arriva in classe con gli occhiali da sole. Si siede in prima fila e tiene messi gli occhiali da sole sistemando quelli da vista nello stivale. Quando il docente arriva in classe invita il ragazzo a metterli via e ad iniziare a leggere un testo ad alta voce. Paolo non dimostra nessuna attenzione nel volerlo fare cosi l’insegnante inizia ad irritarsi e ad assumere atteggiamenti impositivi. Comincia una sfida tra il docente e l’allievo, una sorta di tiro alla fune dove nessuno dei due vuole cedere. STILE INTOLLERANTE: La prima reazione che attua il docente quando un allievo lo sfida è quella che possiamo definire impaziente. Nel caso riportato ad esempio l’insegnante si alza dalla sedia gridando “come ti permetti”, “vai fuori”. Qui il docente si avvale della critica e del rimprovero. Nella situazione reale il docente ha tolto gli occhiali al ragazzo e li ha poggiati sul tavolo ma appena si è distratto esso li ha ripresi. STILE POLEMICO E LITIGIOSO: Qui il docente si limita a mettere ad esempio la nota sul registro rispondendo cosi alla provocazione. Nel caso riportato potrebbe rispondere dicendo: “sembri un cieco con gli occhiali da sole”, oppure “togli gli occhiali cosi fai vedere il tuo bel viso”. STILE TIMOROSO: Questo è un atteggiamento di chi subisce e collega il comportamento dell’allievo; l’insegnante, secondo Ernst, si mostra quasi come un martire e permette tutto. In questo modo qualcuno degli allievi sicuramente abuserà della bontà dell’insegnante. Nell’atteggiamento da martire l’idea del docente che trapela è quella di una persona debole che difficilmente reagirà. STILE CALCOLATORE: Questo stile appartiene al docente che ricorre ad un atteggiamento logico e preciso; sarà colui che dimostrerà di non prendersela.anche il suo tono di voce risulterà calmo; possiamo dire che questo tipo di docente è colui che non si lascia sopraffare emotivamente. INTERVENTI IMPIEGATI PER GESTIRE IL DISAGIO Vengono usate strategie come: note, silenzio.. queste però anche se vengono tutt’oggi usate, non funzionano. Quando si chiede ai docenti perché utilizzano queste strategie anche sapendo che non portano a niente loro ci rispondono che lo fanno perchè sono “stanchi”. IGNORARE, SOPPORTARE IN SILENZIO: Il docente, di solito, quando si crea una situazione che suscita la risata in classe ad esempio, tende ad ignorare il soggetto che la provoca. A volte gli educatori ignorano per paura di rinforzare il comportamento. L’atteggiamento dell’educatore che ignora può esprimere l’intenzione di sottovalutare l’episodio e non dargli troppo valore. L’allievo che prende in giro il docente o che fa baccano vuole soltanto ricevere attenzioni da parte di chi si occupa di lui. Occorre osservare che il silenzio dinanzi al comportamento disturbante può essere interpretato come un consenso. LA PREDICA: È un metodo poco efficace e più che un metodo può essere considerato uno sfogo dell’educatore. Si tratta di un intervento genitoriale volto a rimettere ordine. L’uso della predica per un’intera classa può risultare dannoso perché si fa anche ai soggetti che non sono coinvolti. CRITICA E RIMPROVERO: La critica e il rimprovero diretto non si possono considerare interventi efficaci perché fanno appello all’addestramento dell’allievo. Se i cambiamenti sono volti alla compiacenza dell’allievo non si può dire che rappresentano un successo per l’educatore. La critica accompagnata dal rimorso di averla praticata può portare a dei messaggi svalutanti e distruttivi. LA PUNIZIONE: È un tipo di intervento ormai poco praticato in ambito educativo, ma quando viene utilizzato esso è poco efficace perché funziona solo nell’istante in cui viene usato. Si tratta di un intervento volto a cancellare il disturbo quindi può essere efficace nel momento in cui si utilizza ma svanisce velocemente. La punizione inoltre non si fonda sulla comprensione dell’errore. LA SOSPENSIONE: È una sconfitta per l’educatore perchè viene usata quando non si riesce ad affrontare il problema e si decide di allontanare il soggetto dalla classe/scuola. (Es. conferenza aula magna dove gli adulti non riescono a stare in silenzio) L’episodio rappresenta bene quello che accade in classe: c’è uno che parla, spiega ma gli altri non sempre sono disposti ad ascoltarlo. Ripetere continuamente di fare silenzio non porterà sicuramente ad esso. Alcune forme di intervento risultano maltrattanti; un aspetto preoccupante è l’autoperpetuazione (nota: fa parte di una pedagogia definita “nera”, ovvero quella che da per scontato che gli adulti hanno ragione in ogni cosa). Le strategie improduttive (rimprovero, critica) hanno una caratteristica in comune: si incentrano sull’aspetto esterno e visibile del disagio. Al fine di cadere nella banalità è importante tenere distanti il sintomo dal problema. L’illusione è che una volta eliminato il sintomo la questione sia risolta. Un esempio valido può essere quello del medico che in base al sintomo comprende la patologia e solo in un secondo momento potrà dare una cura. Vi è una distinzione tra due tipi di approcci: il primo incentrato sul sintomo e il secondo sul disagio. Molti interventi fatti per alleviare il disagio si possono considerare una sorta di terapia sintomatica dove sparito il sintomo sparisce anche il disagio. Se l’allievo non studia perché non riesce a concentrarsi è inutile dirgli che deve studiare perché il problema è proprio quello di non riuscire a farlo. Fin quando non si comprendono i meccanismi che lamentano i sintomi esterni, gli interventi del docente possono funzionare solo temporaneamente. CASO: Mario, alunno di terza media, è stato bocciato due volte per la condotta. Aveva molte difficoltà a stare seduto in classe e chiedeva sempre di uscire. Quando gli veniva dato il permesso di uscire, trascorreva il suo tempo passeggiando per la scuola. Mario restava fuori più del dovuto e al suo rientro veniva accolto con delle note sul registro. In passato Mario era stato uno studente modello quindi è palese che stava vivendo un disagio. Alla domanda “come mai sei stato bocciato” lui rispondeva dicendo che aveva preso tutto alla leggera ma aveva giurato di mettersi la testa apposto e di comportarsi bene. Per risolvere la situazione l’insegnante iniziò parlando con il ragazzo serenamente, controllando la sia ansia e il timore di non sapere come fare. Il ragazzo rimase sconvolto della reazione dell’adulto e smise di agitarsi. Uno degli atteggiamenti più comuni di fronte al disagio è quello di ignorarlo facendo finta di non vedere. Non mancano docenti che grazie alla loro formazione si propongono di accettare tutti compresi coloro che vivono un disagio. Cercare di addomesticare un sentimento negativo, può essere lodevole ma presenta delle controindicazioni. È facile che quando si cerca di migliorare ci si propone di fare una cosa ma alla fine se ne fa un’altra; va sottolineato che sulla base del proposito di accettare ogni bambino si rischia di mettere una specie di coperchio sulla situazione che impedisce di comprenderla. Di fronte al disagio, la sollecitudine non è una buona pratica. Provare avversione e allontanare gli altri equivale ad un fallimento. L’avversione è l’interessamento distaccato inteso come un qualcosa che porta alla maturità professionale. Tradurlo non è semplice come non lo è staccare la propria vita dal lavoro; gli educatori tendono a farlo ma si comprende che non si può prescindere dalla propria personalità. Freud definiva il controtranfert come qualcosa che veniva dall’inconscio. DETACHED CONCERN —> interessamento distaccato inteso come equilibrio e maturità professionale volto a tutelare sé e l’altro da attivazioni emotive ritenute rischiose in quanto potrebbero interferire nel rapporto col paziente. Tradurre in pratica il detached concern non è semplice. Gli educatori prediligano il distacco professionale ma è anche vero che non si può prescindere dalla propria personalità e della propria storia personale. L’educatore deve imparare ad osservare le proprie paure, ansie; i propri vissuti costituiscono lo strumento per meglio comprendere la situazione e per comunicare all’altro quanto abbiamo compreso. Cosa si può fare di diverso? Invece di sforzarsi di eliminare i sentimenti ritenuti negativi, il docente potrebbe cominciare ad ascoltarli per comprendere meglio la situazione e scoprire nuove opzioni. Al posto di voler eliminare i sentimenti negativi del bambino potrebbe chiedersi cos’è il suo senso di rifiuto. Bisogna porsi un altro quesito: in che modo il suo comportamento contribuisce al risultato di non essere accettato? Dopo aver risposto può avere senso intervenire. L’intervento educativo conseguente dovrà promuovere la consapevolezza del bambino circa quello che fa e circa gli effetti che tende a produrre. Poi dovrà consentirgli di apprendere modalità alternative di esprimere i suoi sentimenti. Il bambino potrebbe essere aiutato a prendere atto di quello che fa e imparare a chiedere in maniera diretta non distruttiva. CASO: Luca, 10 anni, frequenta il primo anno della scuola secondaria di primo grado. È il più bravo della classe per il rendimento ma non riesce a legare con i compagni perché è presuntuoso e saccente. Un pomeriggio tutti i maschi della classe si organizzano per andare a mangiare una pizza, tutti vengono invitati ma Luca non è il benvenuto. Dopo essersi consultati, gli altri compagni, decidono di chiamare Luca per dirgli che non si sarebbe più andati in pizzeria. La sera tutti vanno in pizzeria; il giorno successivo dopo aver saputo sia Luca sia i suoi genitori sono furibondi con i compagni e con le maestre, debitamente informate, decidono di intervenire riprendendo l’intera classe attraverso la predica: “queste cose non si fanno”, “non è giusto”. Questo tipo di intervento da parte dei docenti è inefficace; l’opzione che può funzionare è quella di chiedere ai bambini il perché hanno escluso Luca. Dopo aver raccolto le varie informazioni le insegnati potrebbero spiegare a Luca che se intende stare con gli altri può fare delle cose diverse. In questo modo educherebbero i bambini a dare e ricevere feedback e a capire e usare i loro sentimenti. CAPITOLO 3 Docenti e genitori fanno di tutto per far si che i loro alunni/figli accolgono le loro richieste, ma di solito ricevono solo dei rifiuti. Ovviamente non ci si propone di insegnare come farsi obbedire dagli alunni. Intendiamo invitare gli educatori a riflettere su cosa fanno dinanzi ai comportamenti oppositori e su cosa possono fare diversamente. Cosa può fare di diverso l’educatore per far si che gli allievi lo ascoltino? Vi sono due tipologie per far fronte all’opposizione dell’educando: • MODALITA’ VESSATORIE: CASO: due insegnati praticano in una quarta elementare un Laboratorio di alfabetizzazione affettiva. I bambini vengono invitati a mettersi per terra in cerchio, tutti lo fanno tranne Emanuele. L’insegnate come primo tentativo lo ripete con le buone maniere ma in un secondo momento, quando non riceve risposta, prende il bambino con la forza e gli dice: “adesso vendiamo se non lo fai anche tu”. Il bambino comincia a piangere. La modalità brusca non aiuta ad accettare la frustrazione legata al divieto anzi va ad aggiungersi ad essa. Lo stile vessatorio alimenta le dinamiche distruttive: si parte con un tono delicato fino ad arrivare ad un tono ostile e teso. Molti educatori credono che per far partecipare un allievo ad una attività che non vuole svolgere basti essere pressante ma evidentemente non è cosi. • MODALITA’ MANIPOLATORIE: nell’aiutare l’altro alla resistenza è facile cadere nell’inganno. CASO: Carlo, 30 anni, vive le separazioni, ad esempio dalle ragazze in maniera catastrofica: si butta per terra, batte i piedi.. racconta che all’età di di 6 anni fu accompagnato dalla madre e dalla zia dal dentista per un’estrazione ma senza che lui sapesse nulla. Il dentista l’aveva rassicurato dicendogli che avrebbe dato soltanto un’occhiata. Nello studio medico, Giulio comprese che la madre, la zia e il medico avevano ordito una sorta di complotto e si erano accordati di estrargli il dente a sua insaputa. La sua rabbia è quella di non essersi sentito rispettato. L’intenzione della madre era quella di risparmiargli un trauma. È questo il motivo per cui Carlo vive ancora oggi una sorta di incubo maturando cosi l’idea che gli altri sono falsi e che l’unico modo per evitare di essere imbrogliati sia quello di non fidarsi. Come possiamo vedere il ricorso al sotterfugio non è raro ma ha dei costi notevoli. Si dice una cosa per un’altra quando si sa che il protagonista della situazione non reagirà bene. Esistono diverse definizioni di conflitto e gli psicologia come Lewin ne hanno descritti diversi tipi: - CONFLITTO INTRAPSICHICO: concepito come un insieme di forze che spesso si scontrano. Per gestire questo conflitto il soggetto deve venire a conoscenza ed essere consapevole delle polarità dei problemi. - CONFLITTO INTERPERSONALE: ha origine interna quando un interlocutore mette in scena dinamiche che portano a questioni irrisolte. Tra la difesa si usa l’eliminazione di chi detiene il ruolo dominante. In questo conflitto, Buzzi ne individua 4: conflitto emotivo, conflitto di dati, conflitto di interessi, conflitto di valori. - CONFLITTO EDUCATIVO: nasce tra educando ed educatore. L’educatore richiama verso un dover essere, mentre l’educando è limitato dalla sua personalità. L’educando ha sempre bisogno di guide sin dalla nascita mentre l’educatore ha un compito delicato in quanto deve integrare molteplici esigenze interne al soggetto da educare ed esterne rispetto al ruolo che coprono. L’azione educativa però non può prescindere dallo sviluppo della libertà dell’educando stesso. Il problema autorità libertà è stato svolto all’insegna di reciproche esclusioni e contrapposizioni. Secondo Nanni vi sono due rischi comuni: A. Pensare che la relazione educatore-educando comporti l’impedimento e il limite della libera crescita personale. B. All’opposto concepire la crescita e l’espansione vitale dell’educando un pericolo per l’assetto sociale esistente. Il dilemma autorità-libertà può essere riassunto nel binomio: stimolare la crescita dell’educando dal suo interno assecondandone i gusti e desideri o aiutarlo a realizzare un dover essere da cui derivano valori, obblighi e regole. L’interazione educativa si realizza in modo costruttivo se si fonda su di un equilibrio tra aspettative personali e sociali. I fattori personali sono costituiti dagli interessi, bisogni dei discenti. I fattori sociali riguardano le aspettative legate alle istituzioni quelle derivanti dal ruolo. Si possono individuare tre stili: • NOMOTETICO: tende ad attribuire il peso maggiore alle aspettative sociali e concepisce l’educazione come trasmissione di conoscenze e valori. • IDEOGRAFICO: rispetta le aspettative, le esigenze e i bisogni del singolo educando consentendogli di scegliere quello che per lui è significativo. • TRANSAZIONALE (NOMOTETICO/IDEOGRAFICO): cerca di realizzare una sorta di equilibrio tra aspettative sociali e aspettative personali. Nell’interazione educativa l’esito delle transazioni dipende dalle aspettative reciproche del partner; quindi lo stile dell’educatore può essere descritto dalla dimensione convenzionalità vs flessibilità. Secondo la prima polarità l’educatore parte dal presupposto che l’osservanza delle attese istituzionali, il rispetto delle norme, regole sia prioritario rispetto a qualsiasi altro obiettivo. Gli educatori cercano di rispettare le condizioni reciproche non interpretano ruoli secondo norme e schemi rigidi ma manifestano flessibilità ed apertura, consapevoli che la pressione verso la conformità, la disciplina, provocano un’esperienza negativa negli allievi e reazioni di tipo difensivo. Il dilemma della ricerca di un equilibri tra libertà e autorità, tra l’iniziativa dell’educando e quella dell’educatore.. si presenta in veste diversa in vari settori disciplinari: ad esempio nella determinazione degli obiettivi in riferimento ai bisogni degli allievi, delle realtà locali. Pertanto, anche in didattica si possono individuare tre possibili percorsi per risolvere il dilemma: - METOSO ASCENDENTE: parte dalla descrizione accurata della situazione della popolazione scolastica (struttura, funzionamento della scuola..) e cerca di innestarvi le funzionalità e gli obiettivi. - METODO DISCENDENTE: rovescia la prospettiva in quanto parte dall’individuazione delle finalità e degli obiettivi. - METODO INTEGRATIVO: parte dal contesto di bisogno e si articola in quattro momento: identificazione di un largo spettro di possibili obiettivi, ordinamento degli obiettivi secondo un ordine di importanza, valutazione delle discrepanze tra obiettivi e situazione degli allievi, determinazione dell’ordine di precedenza nell’attuazione degli interventi formativi. Un primo criterio basilare del successo risulta quello di invitare l’educando piuttosto che imporre in maniera autocratica: occorre preservare la sua libertà consentendogli di poter esercitare il suo potere e la sua facoltà di scelta. LA LOGICA DELL’OPPOSTO E DEL PIU’ DI PRIMA Un esempio per questa logica potrebbe essere quello legato alla temperatura: più fa freddo più ci copriamo per proteggerci. È ragionevole applicare “più di prima” le misure normalizzatrici: più vestiti, più caldo. La logica inoltre viene applicata in più situazione quotidiane perché si rivela efficace per soddisfare i processi di natura fisiologica e fisica. Quando i problemi sono di natura psichica o educativa è facile che il principio non si riveli del tutto efficace come hanno detto molti studiosi. Ad esempio dinanzi al problema dell’alcolismo le strategie per eccellenza di fondano sulla restrizione al consumo di alcool. Quando i metodi impiegati non bastano per risolvere il problema, è coerente intervenire attuando più severamente di prima le misure normalizzatrici. Però risolvere l’alcolismo in questo modo significa diffonderlo ancora di più. La logica dell’opposto e del più di prima si può individuare nelle modalità vessatorie; si identifica in delle strategie educative che utilizzano gli educatori dinanzi ad un bambino che non vuole mangiare per esempio o che non studia. Una certa quantità di controllo nelle situazioni educative reca beneficio. Incrementare il livello di direttiva può ritenersi utile ma dopo che si supera una certa soglia gli effetti possono diventare distruttivi. Paradosso—> significa fare una cosa che non si riesce a fare solo perché quella determinata cosa viene richiesta. CASO: Giuseppe docente di scuola elementare un giorno decide di creare nella classe terza una piccola biblioteca invitando ciascuno bambino a portare un libro in modo che i compagni a turno potessero leggere il loro più quello degli altri. Elesse un segretario che aveva il compito di compilare il registro per gestire i libri. Il maestro commise un piccolo errore: elogiava solo i bambino che leggevano tanto mentre quelli che prendevano in prestito meno libri venivano disapprovati. Tra i bambini quindi si diffuse l’idea che fosse più conveniente prendere più libri CAPITOLO 4 Un rischio diffuso tra quanti si propongono di alleviare il disagio è la sindrome di burnout. Essa si presenta come una delle manifestazioni del disagio dell’educatore e va concepita come una fuga da una situazione lavorativa vissuta quotidianamente con forte stress. Si tratta di una reazione cognitiva, emotiva e comportamentale. Il rapporto operatore-utente e l’aiuto fornito ne rappresentano gli elementi essenziali. Tra i soggetti a rischio di burnout troviamo educatori e docenti. Viene concepito come una sindrome psicologica caratterizzata da tre dimensioni basilari: esaurimento emotivo (sensazione di trovarsi sfiniti), depersonalizzazione (agire freddo e distaccato), diminuzione del senso di realizzazione e autoefficacia (senso di impotenza valutazione negativa di sé). Cherniss: definisce il burnout come un processo transazionele caratterizzato da tre fasi tipiche: a) stress lavorativo (discrepanza tra richieste e risorse); b) tensione (risposta emotiva allo squilibrio); conclusione difensiva (rigidità, distacco emotivo). La perdita di entusiasmo e di interesse portano il soggetto alla fuga psicologica come tentativo di difendersi dallo stress sperimentato. Pines: a riguardo lo considera come il desiderio di dare un senso alla vita o di realizzare il significato della propria esistenza nell’ambito del suo lavoro. Il senso di fallimento conseguente dagli insuccessi potrà facilmente produrre una progressiva disillusione. È l’eccesso di motivazione che comporta un eccesso di coinvolgimento, quando vi sono dei fallimenti vi è una progressiva riduzione della motivazione. Quella descritta da Pines è come un legame di tipo simbiotico. CASO: un giorno scrive diverse oscenità sul diario, poi sui libri e dei giorni dopo anche sul diario nuovo acquistato. Lo fa presente alla maestra e alla mamma, la mamma si arrabbia e l’indomani va a scuola. L’insegnante minaccia la classe dicendo che non si sarebbe fatto più nulla se non fosse venuto fuori il colpevole. Alessia autrice delle scritte ascolta in silenzio e continua a rimanere nascosta. L’insegnante con l’aiuto di altri bambini dopo alcuni giorni capisce che è stata lei e dopo averle parlato insistentemente la bambina confessa e mentre piange. Assicura di essere profondamente pentita e promette di non farlo più. L’insegnante è soddisfatta e incuriosita e chiede come mai abbia reagito in quel modo, Alessia risponde che da molto tempo una compagna non aveva perso occasione per farle i dispetti, emarginarla, escluderla, svalutarla e deriderla. La maestra di Alessia assume un ruolo ispettivo, avviando degli interventi volti a scoprire l’autore del reato. La tendenza a centrarsi solo sull’aspetto esterno dei fatti implicano una concezione di educazione non molto evoluta. Dell’Antonio sottolinea come per secoli l’educando veniva considerato come il futuro adulto, persona in potenza, che doveva essere aiutato a diventarlo. L’educazione va concepita come un insieme di interventi volti ad insegnare a controllarsi, a limitare gli istinti, le reazioni emotive, i vizi. Esempio Giannettino, Pinocchio considerati un bambino educato colui che si comporta come piccolo uomo. Perfino il gioco è considerato con sospetto in quanto potrebbe stimolare i vizi, come una sorta di dispetto da parte dell’educando poco giudizioso e immaturo. Le strategie educative sono rivolte al controllo del disagio, all’adattamento da parte del soggetto, all’eliminazione dei sintomi esterni. Manca lo sforzo di andare oltre i segnali immediatamente evidenti. L’insegnante è un educatore e dovrebbe lasciare ad altri il mestiere di indagare. Educare vuol dire comprendere come mai l’allieva si metta ad imbrattare il diario. Alessia attraverso il suo modo di fare rivela che non può permettersi di vivere apertamente la sua rabbia verso la compagna. La bambina è stata educata a non sentire, a nascondere la rabbia. I modelli familiari hanno puntato ad escludere questo sentimento dal repertorio della competenza affettiva. Il clima poliziesco rischia di rivelarsi antieducativo in quanto promuove ulteriore l’analfabetismo di Alessia. L’insegnante potrebbe aiutare Alessia a identificare cosa sente quando la sua compagna le fa dei dispetti o tende ad escluderla, può invitarla ad usare in maniera costruttiva quello che sente. È fondamentale che il docente resti fuori dal triangolo drammatico e faciliti il processo di crescita e di alfabetizzazione affettiva. Potrebbe invitarla ad essere diretta verso la compagna formulando il messaggio rispetto a quello che sente. L’azione educativa dovrà promuovere lo sviluppo di tali competenze. Due possibili interventi del docente: potrebbe proporre un esercizio in cui i bambini vengono invitati a sedere in coppie e a rispondere a turno alle domande proposte. Può chiedere ai bambini quali opzioni hanno prodotto ed identifica i sentimenti più comuni. Potrebbe proporre una recita dove viene sviluppato il sentimento. CASO: bambina del primo anno della primaria mostra comportamenti che infastidiscono i docenti. La classe a cui la bambina appartiene presenta non poche difficoltà a causa di diversi fattori. Il caso di Loredana una bambina difficile sia da contenere quanto da gestire. La bambina ha manifestato insofferenza, irrequietezza, intolleranza pur avendo buone abilità cognitive non riesce a lavorare affatto sui compiti assegnati. Durante lo svolgimento di qualche compito manifesta agitazione, si dondola e muove le mani in modo improduttivo. Facilmente diventa aggressiva fino al punto di distruggere i suoi quaderni o quelli dei compagni, o aggredire in modo incontrollato i compagni. I genitori si difendono attribuendo il disagio della figlia alla nascita di un fratellino, non si registrano comportamenti simili al di fuori della scuola. L’insegnante di sostegno presente in classe si è resa conto che i comportamenti aumentano all’aumentare delle richieste dell’insegnante. Per poter gestire il caso il primo passo è quello di capire cosa viva la bambina, cosa sia l’agitazione esagerata; il secondo passo è quello di scoprire cosa gli insegnanti possano fare oltre a riprenderla. Per meglio comprendere la reazione della bambina vale la pena prendere in prestito dell’Analisi Transazionale il costrutto di stato dell’Io Genitore e del suo processo di sviluppo. CASO: durante una visita ad un amico, si avvicinò la figlia, una bambina di pochi anni, col telecomando del televisore in mano. La bambina era molto piccola e pertanto il suo vocabolario limitato. Attirò la nostra attenzione, dopo avere mostrato il telecomando al padre, con la mano libera si diede delle pacche sulla mano dove teneva il telecomando e alzato l’indice mosse più volte la mano come dire no non si fa. Posato il telecomando andò via e riprese a giocare. Quei comportamenti della bambina somigliano a quelli che il papà ha ripetutamente messo in atto per non farle toccare il telecomando. La bambina stava mostrando il processo di interiorizzazione delle aspettative degli atteggiamenti del genitore reale. Tornando al caso di Loredana che aggredisce l’insegnante, si può supporre che la bambina abbia sviluppato una parte interna, nota come Genitore critico, esigente, rigida. Probabilmente lo stile educativo adottato dai genitori è stato inflessibile, severo, orientato all’evitamento dell’errore ad ogni costo. La didattica dell’errore si mostra attenta alla valenza positiva dell’errore. Lo sbaglio è considerato un evento negativo, e gli allievi imparano fin da piccoli ad accompagnarlo con sentimenti di paura, vergogna, senso di inadeguatezza. L’errore commesso dal docente non riceve una considerazione positiva. È comune il rischio di giocare il gioco psicologico denominato dagli analisti transazionali Magnifico Professore. Perkinson: definisce giustificazionismo la tendenza a difendere l’immagine di infallibilità per evitare umiliazioni. Il perfezionismo risulta paralizzante, poiché risulta impossibile sbagliare, si insegna ai bambini come crescere sui propri errori, che tipo di atteggiamento mantenere una volta che si è sbagliato. Occorre passare da una didattica che penalizza l’errore ad una didattica dell’errore che lo considera come occasione per apprendere. Tutto questo se realizzato correttamente consentirà all’allievo di liberarsi dalla paura di sbagliare. L’insegnante dovrebbe mostrarsi a Loredana semplicemente come si possa essere sé stessi. È comune tra i docenti di presentarsi come persone quasi infallibili. Tiziana, insegnante di inglese: viene interrotta da alcuni allievi che presentano una questione: ‘Professoressa ma che significa la parola creek’? Tiziana intuisce che si tratta di una domanda strana e risponde di non ricordarlo in quel momento. Gli allievi rispondono: ‘Ma professoressa lo sanno tutti significa fiume!’. L’insegnante a quel punto accetta la provocazione e interrotta la lezione prende il dizionario per cercare il termine. Scopre che significa affluente, ruscello e con tono duro dice agli allievi: ‘state attenti prima di affermare con presunzione ciò che non sapete, imparate a parlare’. In situazioni del genere se la paura e l’inesperienza vengono usate come motivo di autosvalutazione è facile che il docente possa cominciarsi a sentirsi inadeguato. Il senso di inadeguatezza è frutto di un percorso interno personale, deriva dal dialogo interno, da come vive e percepisce le difficoltà. Nel momento in cui viene percepito dagli allievi potrà essere usato come occasione di mettere ancor più in difficoltà il docente. La dinamica conflittuale esasperata fino ad estreme conseguenze è denominata come gioco del pollo (un modo classico per descriverla es. automobilisti pag.131). L’educatore esercita la funzione di modelling sugli educandi. Il docente fa bene il suo mestiere se mostra agli allievi come si possa essere uomo con tutti i pregi e i limiti. CASO: disturba e infastidisce sia i compagni sia la maestra. La sua nuova maestra Mara riferisce che sta in classe seduto con i piedi sul banco; arriva in ritardo; non partecipa alle attività proposte in classe. Mara chiede aiuto ai colleghi che già conoscono il bambino ma le viene consigliato di ignorarlo. I docenti erano arrivati al punto di ignorarlo consentendogli di fare qualsiasi cosa. Un giorno Giuseppe arriva alle 9:30 in classe spalanca la porta e va verso il compagno dicendo di cedergli il posto perché gli appartiene. Si avvia un bel litigio che sfocia nell’aggressione e nella promessa di continuare appena usciti dalla scuola. Mara prende con forza il bambino lo mette fuori dalla porta e gli ordina di bussare, chiedere il permesso di entrare e poi andarsi a sedere nel proprio posto. Il bambino inizialmente dichiara di non volerlo fare, rimane fuori per un po' e poi chiede di poter entrare come gli è stato ordinato. L’insegnante ha gestito il disagio di Giuseppe facendo appello all’autocontrollo e al condizionamento che può risultare vantaggioso a breve, ma non è detto che risolva il problema. Mara dichiara di non aver compreso quale sia il disagio ed osserva che il disturbo continua a persistere. L’educatore ha il dovere di capire ed intervenire in modo efficace. Durante la ricreazione, Giuseppe non riesce ad integrarsi e fa delle cose che determinano nei compagni la facile reazione del rifiuto. A via del suo fare i compagni si dichiarano risentiti per via del suo fare litigioso, prepotente nessuno intende giocare con lui. La scuola aveva avviato un progetto di integrazione ma anche in quel contesto Giuseppe boicottò la sua integrazione dove alla fine non volle più partecipare. L’atteggiamento laissez-faire adottato dai colleghi di Mara che si realizza ignorando non sembra molto efficace. L’atteggiamento di Mara che ordina a Giuseppe di autocontrollarsi sembra banale ripetitivo, così facendo ignora quale bisogno è stato frustato. Il primo passo è quello di ascoltare i sentimenti che il docente prova nel momento in cui interagisce con alunni come Giuseppe, i sentimenti più comuni sono rabbia, antipatia, rifiuto. Mara dichiara di non sentire nulla e che qualche volta Giuseppe le fa pena, quindi viene considerato come vittima da aiutare. Potrebbe constatare che il bambino viene emarginato e rifiutato dai compagni. In secondo luogo potrebbe domandarsi cosa vive e sente dentro di sé. Il suo comportamento segnala che arriva in classe irritato e arrabbiato. Esprime i sentimenti in modo distruttivo da suscitare una reazione del docente tutt’altro che empatica. Il bambino si arrabbia prima di venire a scuola con i genitori perché lo accompagnano sempre in ritardo. I genitori di Giuseppe non accolgono la sua richiesta e gli comandano di stare zitto. Se l’insegnante punisce Giuseppe e lo obbliga a comportarsi educatamente rischia di fare qualcosa di simile a ciò che fanno già i suoi genitori: svalutare quello che sente. L’insegnante potrebbe cominciare ad affinare la sua capacità empatica vedendo arrivare Giuseppe potrebbe intervenire dicendo ma che ti è successo che sei così arrabbiato? Il docente così facendo consentirebbe al bambino di vivere ed esternare quello che sente, di riappropriarsi della sua rabbia, di capire che si tratta di sentimenti che vanno usati in modo assertivo che distruttivo. Una volta appreso a verbalizzare il bambino potrebbe arrivare a cogliere il feed-back da parte degli altri. Passata la bufera l’insegnante potrebbe lavorare su quanto è avvenuto. Insegnante-piange: durante una riunione settimanale, un’insegnante di scuola primaria si presentava molto triste e dopo essersi seduta, inizia a piangere. Aveva insistito perché una bambina disabile prendesse parte ad una recita convincendo i genitori, gli altri colleghi. Durante la recita però la bambina constata la presenza del pubblico si blocco del tutto rendendo necessaria