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Guide e consigli
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gestire il disagio a scuola G.Amenta, Sintesi del corso di Scienza Politica

Riassunto completo del libro. Scorrevole dettagliato e facilmente comprensibile

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

In vendita dal 25/01/2016

JESSICA927
JESSICA927 🇮🇹

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Scarica gestire il disagio a scuola G.Amenta e più Sintesi del corso in PDF di Scienza Politica solo su Docsity! INTRODUZIONE. Il disagio accompagna ogni persona in alcuni momenti della sua esistenza. Molti educatori considerano il disagio come una conseguenza di un’assenza di valori, di validi modelli genitoriali per cui si insiste molto sul rispetto delle regole realizzando interventi educativi e assumendo un carattere genitoriale critico negativo e persecutore. E’ quello che possiamo definire un diffuso atteggiamento moralistico, che rischia di diventare paradossale perché punta solo sul comportamento superficiale esterno aspettandosi che cambi attraverso il condizionamento e i principi del comportamentismo, tra cui rinforzi positivi e negativi. Per cui quando viene stilata la programmazione educativa individualizzata per un soggetto che non rispetta la regola, si inseriscono molti obiettivi relativi alla conoscenza della norma, quindi si identifica l’inosservanza della regola con la sua ignoranza. Ma è proprio così? In questo volume si cercherà di dare all’educatore gli strumenti per leggere il disagio in modo corretto e scegliere strategie di intervento efficaci. Il disagio in realtà è inteso come discrepanza tra sintomo e bisogno, l’esito della frustrazione di un qualche bisogno, il soggetto si sente incapace di soddisfare il suo bisogno e prova disagio e senso di fallimento. Il disagio deriva dal senso del fallimento che si prova dopo avere capito che non si possiedono i mezzi per potere integrare le varie parti del Sé con le aspettative che l’ambiente pone. CAPITOLO PRIMO. IL DISAGIO NEI CONTESTI EDUCATIVI. Il termine “disagio” viene utilizzato sin dagli anni 70 come variante ai termini stigmatizzanti di “devianza e marginalità” per qualificare la condizione giovanile. Definizioni di disagio. Etimologicamente il termine è costituito dal prefisso “dis” che indica negazione e la parola “agio” che significa “giacere presso”: disagio designa quindi la condizione di chi vive ai margini, si sente escluso, isolato, lontano dagli altri e da se stesso. Secondo le descrizioni più usate il disagio è inteso come: • sintomo dell’impossibilità del soggetto di trovare soluzioni coerenti con la propria identità rispetto a ciò che il soggetto ritiene possibile per lui e ciò che gli viene negato dalla società; • l’incapacità di gestire la complessità e di sostenere il peso della precarietà che caratterizzano la società attuale. • Sintomo di una risposta non patologica ai problemi psicologici e affettivi, alle difficoltà familiari e scolastiche, al malessere legato alla costruzione dell’identità. • Difficoltà di assolvere ai compiti evolutivi richiesti dal contesto sociale per conseguire l’identità e le abilità necessarie per gestire le relazioni quotidiane. • Difficoltà a gestire la socializzazione e la maturazione verso l’età adulta. • È un termine che nasce per indicare quegli atteggiamenti non patologici causati nel giovane da un’integrazione incompleta. CARATTERIZZAZIONI E FORME. Livelli nella rilevazione del disagio. Le aree in cui si può manifestare il disagio nella vita del soggetto sono: intrapsichico, interpersonale e sociale. A livello individuale il disagio si presenta come una difficoltà a stare bene con se stessi e con gli altri. A livello interpersonale il disagio si manifesta nell’incontro tra persone, ad esempio nel rapporto educatore-educando che il soggetto tende a vivere con difficoltà manifestando ansia e rabbia diffusa. A livello sociale il disagio ha origine e si manifesta in tutte le condizioni di svantaggio e di emarginazione, alla frustrazione dei bisogni primari (bisogno di identità, di senso, di relazione, di felicità) in alcuni momenti critici dello sviluppo . Disagio oggettivo, soggettivo e procurato. Il disagio soggettivo è dovuto ai vissuti psicoesistenziali che lo accompagnano e cioè malessere, insicurezza, inquietezza. Sono dei vissuti che anche se privati, facilmente possono manifestarsi e diventare osservabili. Il disagio oggettivo è dovuto a situazioni di vita designate come premesse del disagio. Tra i due piani di disagio possono esserci La selezione palese riguarda quei soggetti cui si preclude il passaggio alla classe successiva in modo manifesto ossia con bocciature o sospensioni. La selezione occulta non respinge direttamente l’allievo, gli si consente di passare alle classi successive, ma non si cerca di realizzare degli interventi volti al recupero e all’integrazione e di conseguenza gli allievi incontreranno degli ostacoli e subiranno la selezione palese. L’abbandono scolastico riguarda invece quegli allievi che lasciano la scuola senza conseguire il titolo o senza concludere l’anno scolastico. Si tratta comunque di segni che indicano la presenza di una qualche difficoltà nel rapporto tra alunno e scuola. Quando le agenzie educative non risultano in grado di fronteggiare il disagio dell’individuo, questo come ultima spiaggia si rivolge alla “strada” per avere risposta al proprio disagio perché si tratta di un luogo meno esigente ,rispetto alla famiglia o alla scuola, e più accogliente. Le frustrazioni nella vita di relazione. Il disagio può originare anche da difficoltà relazionali, se lo stress è presente a livello familiare ne soffrono tutti i componenti. Ci sono poi le famiglie incomplete o quelle in cui i genitori sono assenti che celano spesso nei ragazzi forme di disagio dovute all’abbandono, violenza e trascuratezza. Il sentimento di abbandono si manifesta attraverso gravi forme di disadattamento e nel caso più grave in disagi patologici che possono sfociare nel suicidio, nel vagabondaggio e nelle tossicodipendenze. Il disagio fra disadattamento e iperadattamento. Sia i soggetti portatori di disagio sintomatico, sia quelli portatori di disagio sommerso sono accomunati dalla stessa difficoltà ad integrarsi, in quanto le competenze richieste dalla società sono complesse. La psicopedagogia si è evoluta da una visione che poneva l’accento sul deficit del soggetto ad una che si concentra più sui processi transazionali tra l’individuo e le strutture sociali. Per cui si è passati da un approccio C=f(P), in cui il comportamento è visto come funzione della personalità, ad un secondo tipo C=f(P*A) che considera il comportamento risultante dalla relazione tra personalità e ambiente. Piaget con la concezione di adattamento intendeva l’equilibrio dinamico tra assimilazione e accomodamento. Si possono distinguere diverse forme di accomodamento passivo dell’individuo rispetto ai sistemi sociali come: conformità, innovazione, ritualismo, rinuncia o ribellione. L’ideale educativo non è l’adattamento, ma l’integrazione intesa, come possibilità di entrare in accordo con la realtà e nello stesso tempo di trasformarla in modo attivo e creativo. L’integrazione è però difficile in questa società che bada solo al consumo e distoglie il singolo dal guardarsi dentro perché è troppo impegnato a difendersi dagli altri. C’è poi il caso dell’iperadattamento: in AT si fa una distinzione tra Bambino Libero e Bambino Adattato, il soggetto che piange o che ride di cuore agisce in modo libero, nel caso del Bambino Adattato il soggetto invece si comporta sempre come se fosse presente un genitore e agisce in modo controllato, compiacente o ribellandosi. Conformismo e ribellione infatti sono accomunati dall’essere espressioni non libere ma dipendenti in quanto volti a dare delle risposte agli altri. Quindi oltre ai comportamenti ribelli, gli educatori hanno anche il compito di prestare attenzione anche a quelli ipermaturi e iperadattati perché volti a ricevere più considerazioni e “carezze”, sono dei comportamenti che passano inosservati e spesso sono socialmente auspicabili ma dietro nascondono una costruzione di un falso sé. L’educatore deve evitare di assecondare i percorsi di iperadattamento e cercare di sostituirli con percorsi alternativi espressivi di sé. Disagio, violenza e abbandono. La violenza che può annientare i minori negando loro il diritto all’esistenza non è solo quella fisica. Accanto all’abbandono fisico vi è anche un abbandono psicologico ed educativo che difficilmente viene notato ma che risulta altrettanto violento: bambini non denutriti ma trascurati dal punto di vista affettivo, psicologico ed educativo. Sono i “figli dell’abbandono”, “soggetti psicologicamente denutriti” perché vivono rapporti superficiali con i genitori, che delegano il loro compito educativo ad altre persone o peggio ai mass-media. Ormai è calato il tasso di natalità e quello di nuzialità perché manca il senso di protezione necessario per potersi aprire alla vita. Disagio e frustrazione dei bisogni. L’esperienza soggettiva e la sofferenza causata dall’insoddisfazione e dalla privazione, sono le maggiori cause del disagio. A seconda dei bisogni trascurati si possono avere diverse forme di disagio: disagio dovuto all’insoddisfazione dei bisogni primari a causa della povertà, disagio dovuto all’emarginazione e quindi all’insoddisfazione del bisogno di integrazione, disagio esistenziale se il bisogno non appagato è quello di autorealizzazione e di dare un senso alla propria vita. Ci sono poi anche i bisogni formativi che se insoddisfatti possono danneggiare la capacità progettuale del soggetto intesa come proiezione nel futuro. Esistono diversi bisogni, ma in generale il bisogno nasce dalla discrepanza tra come le cose dovrebbero essere e come si vorrebbe che fossero e come di fatto sono, quindi da un confronto tra una situazione ideale e quella reale. Un modello di riferimento per meglio comprendere il rapporto tra frustrazione dei bisogni e disagio è quello proposto da Weiss: dietro un disagio c’è sempre qualche bisogno non ascoltato (riprendere dal riassunto del counseling perché è uguale a pag 40). Utilizzando questo schema in educazione, il primo passo da fare è quello di accogliere i bisogni dell’educando: con un bambino che dimostra di avere bisogno di attenzione, l’insegnante dovrebbe reagire con le dovute “carezze”, in caso contrario il ragazzo può intervenire con collera e rabbia, in un primo momento, oppure rassegnazione se si rende conto che tale via non è adatta a soddisfare il suo bisogno. La maggior parte delle strategie banali messe in atto dagli educatori non tengono conto del bisogno sotteso all’espressione del disagio. Il ragazzo non possedendo dei mezzi per comprendere il conflitto che c’è alla base, ricorre ai mezzi di cui dispone per esternare il proprio disagio e quindi disturba, non studia o picchia i compagni. E’ il caso del neonato che può solo piangere per esternare i suoi bisogni, spetta alle capacità empatica della madre comprendere il bisogno e rispondere adeguatamente, se il bambino si sente rispecchiato nei suoi bisogni può costruire un sé integrato e può acquisire la fiducia di base per cui si percepisce che la vita vale la pena di essere vissuta. Tutti gli educatori devono affinare la loro capacità empatica in modo da cogliere cosa c’è dietro il disagio, imparando a decodificare la metafora creativa usata dal ragazzo. Quali i bisogni e i permessi negati. In ambito di bisogni si può fare una differenza tra processo e contenuto: se si pone l’accento sul contenuto si attenzionando quali Stile calcolatore. Si tratta di chi gestisce le situazioni educative in modo estremamente logico e freddo. Esternamente un docente del genere apparirà impassibile alle umiliazioni, parlerà con tono deciso e scegliendo in modo accurato le parole in modo da non fare trasparire i suoi sentimenti, piuttosto cercherà di discutere con l’allievo sforzandosi di farlo ragionare sul suo comportamento e sugli effetti che sortisce sugli altri. INTERVENTI COMUNEMENTE IMPIEGATI PER GESTIRE IL DISAGIO. Alcuni tra gli interventi improduttivi utilizzati dagli educatori sono: • ignorare, sopportare in silenzio; • la predica; • critica e rimprovero; • la punizione; • la sospensione; (riprendere gli argomenti dal counseling, sono uguali). ALCUNE PROPRIETA’ DEGLI INTERVENTI IMPRODUTTIVI. • ripetitività: se in classe gli alunni disturbano e le modalità usate per ripristinare l’ordine sono improduttive, si presenta un andamento ciclico perché il silenzio si ottiene ma dura per poco, dopo di che si ritorna al baccano e l’insegnante è di nuovo costretto a richiamare all’ordine. • L’autoperpetuazione: alcune volte gli educatori per gestire il disagio si accaniscono contro l’alunno. Uno degli aspetti più preoccupante di questa strategia è l’autoperpetuazione, va ricordato comunque che le pressioni eccessive di tipo genitoriale, le critiche da parte degli educatori non fanno altro che aggravare l’effetto indesiderato (il ragazzo violento lo diventerà ancora di più). L’uso di interventi drastici rischia di causare “l’effetto boomerag” producendo effetti paradossali: ribellione piuttosto che compiacenza, inibizione piuttosto che superamento della paura. • La focalizzazione sui sintomi del disagio: le strategie sono improduttive perché si concentrano solo sull’aspetto esterno del disagio sperando che sparisca. • L’appello al controllo volontario: ci si aspetta così che l’allievo “capisca”, l’intolleranza dell’educatore anzi aumenta man mano che l’allievo cresce perché ci si aspetta che l’allievo si renda conto e sia più giudizioso. Davanti ad un ragazzo molto intelligente che non riesce più a studiare e a stare in classe e si fa bocciare ripetutamente non ci si può limitare ad esortarlo ad impegnarsi, è come se invitiamo a dormire chi soffre di insonnia, evidentemente c’è qualche disagio. Il condizionamento negli interventi improduttivi. Tutti gli atteggiamenti improduttivi sono caratterizzati dall’aspettativa che l’allievo si adatti compiacendo e implicano un processo di apprendimento di tipo strumentale, che si fonda sulle leggi del condizionamento operante. Il prototipo di questo tipo di condizionamento è evidente nello studio classico di Skinner sul ratto bianco collocato in una gabbia, l’autore studiava la variazione della risposta in termini di pressione sulla leva (variabili dipendenti) in relazione alla somministrazione di cibo (rinforzo). Il soggetto emette una risposta in vista della soddisfazione di un bisogno o dell’evitamento del dolore. Ci sia spetta quindi che l’allievo faccia o non faccia una certa cosa per evitare conseguenze negative o per avere vantaggi. I tipi di condizionamento possibili, nel nostro caso sono almeno i seguenti: - Tipo ricompensa e ricompensa secondaria: bisogna tenere conto che durante il periodo scolastico il concetto di sé dell’allievo è molto dipendente dai risultati scolastici e dal giudizio dei docenti e dei compagni. Il ragazzo spesso agisce in modo da ottenere queste approvazioni. - Tipo fuga: ad esempio allontanare il ragazzo dall’aula, fargli una nota implicano una forma di condizionamento che possiamo definire tipo fuga per il quale la motivazione ad adattarsi è quella di evitare una situazione spiacevole. - Tipo prevenzione: l’allievo può decidere di adattarsi per evitare situazioni spiacevoli in futuro. E se l’allievo ricercasse proprio carezze negative? Per l’essere umano la fame di stimoli ha la stessa importanza per sopravvivere della fame di cibo. E’ stato visto che a volte non ha importanza se lo stimolo causa piacere oppure dolore : in assenza di stimolazioni alcune cavie preferiscono passare attraverso griglie elettrizzate piuttosto che attraverso corridoi che consentono di raggiungere tranquillamente il cibo. Paradossalmente un allievo che viene punito in continuazione potrebbe avere sviluppato un gusto per “quelle carezze negative” per cui il docente cercando di rimuovere un disturbo non fa altro che alimentarlo. DECODIFICARE E GESTIRE IL DISAGIO. Per comprendere e gestire le situazioni problematiche una proposta interessante è quella di insegnare all’allievo a comunicare il suo messaggio secondo una modalità socialmente costruttiva e appropriata. Oltre i sintomi del disagio: esigenze e bisogni. Gli educatori non si possono limitare a cercare di prendere atto dei sintomi di disagio e cercare di rimuoverli, devono sapere leggere i messaggi sottesi e manifestati in modo ambivalente. Utilizzo del modello con educandi. Uno dei presupposti essenziali del nostro modello è che nel caso in cui il ragazzo presenta dei bisogni che non vengono soddisfatti egli metterà in atto delle strategie alternative per ricevere le dovute attenzioni. Un bambino a cui non viene data attenzione sceglierà di ricorrere al pianto per ricevere cure. Un secondo elemento portante del nostro modello è la duplice lettura: superficiale e nascosto, sociale e psicologico. Nel caso del ragazzo che entra in classe con gli occhiali da sole, a livello superficiale notiamo un ragazzo che disturba, a livello nascosto invece notiamo un bisogno di riconoscimento. Dopo avere letto l’episodio in modo duplice, l’educatore può intervenire diversamente dal rimproverare il ragazzo, magari dandogli l’attenzione che lui sta ricercando. In una situazione di un ragazzo che di fronte ad una ragazza ostenta potenza sessuale, al livello sociale siamo di fronte ad un ragazzo che vuole apparire forte, a livello psicologico invece si può ipotizzare un bisogno del ragazzo di nascondere la sua insicurezza. L’età preadolescenziale è carica di ambivalenze e il soggetto può essere paragonato ad un gambero che avendo perso il guscio rimane inerme fino a quando non ne costruisce uno nuovo. Un conto è quello che il ragazzo esterna un altro è quello che il ragazzo vive, la lettura secondo un doppio livello risulta utile inteso come un ideale di equilibrio e di maturità professionale volto a tutelare sé e l’altro dalle valutazioni emotive. Di fatto mettere in atto il detached concern non è semplice in quanto facilmente i sentimenti si trasformano in rigetto verso il paziente o l’allievo, realizzando una disumanizzazione come mezzo di autodifesa da sensazioni eccessivamente intense. Non si può prescindere dalle proprie emozioni, persino in psicoanalisi il controtransfert che prima era visto negativamente è stato rivalutato perché utile per amplificare l’empatia. L’educatore quindi deve conoscere i propri vissuti e le proprie paure, solo in questo modo può decodificare in modo corretto il disagio dell’altro. Un educatore che prova rifiuto dianzi ad un allievo dovrebbe chiedersi il perché di tale rifiuto. L’intervento dovrà poi mirare a fare comprendere all’educando quello che fa e gli effetti che produce e in seguito gli dovrà proporre dei modi alternativi di agire. Prendiamo come esempio il caso di Luca un bambino di 10 anni molto bravo a scuola ma che aveva un atteggiamento altezzoso nei confronti dei compagni, un giorno tutti avevano deciso di andare a mangiare la pizza ma avvisano Luca che l’appuntamento era saltato per non farlo andare con loro. Dopo poco la situazione si scopre e Luca è infuriato. L’insegnante dovrebbe cercare di capire qual è il problema di fondo, e dopo invitare Luca a avere un atteggiamento meno petulante e gli altri compagni ad essere più diretti nell’esprimere quello che provano. CAPITOLO TERZO. OPPOSIZIONE, RIFIUTO E CONFLITTO EDUCATIVO. Gli educatori spesso non sanno come comportarsi di fronte ad un allievo disinteressato. Gli educatori devono riflettere su cosa fanno dinanzi ai comportamenti oppositivi e su cosa possono fare di diverso, senza dimenticare che il comportamento degli educandi non dipende in modo lineare dall’azione educativa, ciascuno infatti dispone delle proprie opzioni e benché l’educatore possa realizzare degli interventi ineccepibili sul piano educativo, l’educando ha la prerogativa di decidere se continuare ad opporsi o meno. MODALITA’ COMUNI PER GESTIRE LA RESISTENZA DELL’EDUCANDO. Comunemente sono due le tipologie utilizzate. Modalità vessatorie: lo stile vessatorio alimenta spesso dinamiche distruttive a spirale crescente perché i toni passano dall’essere tenui all’essere drastici. Di fatto abbiamo visto che le pressione di tipo genitoriale da parte dell’educatore non fa altro che aggravare nel ragazzo il comportamento indesiderato. Modalità manipolatorie: in alcune situazioni pur di far fronte alla resistenza del ragazzo si fa ricorso all’inganno. Prendiamo come esempio il caso di Carlo un ragazzo di trenta anni che reagisce male alla notizia che la ragazza lo vuole lasciare e si butta a terra iniziando a piangere e ad urlare pregando affinché tutto ritorni come prima. Nel passato di Carlo l’interazione con le figure significative era caratterizzata dall’uso dell’inganno per proteggerlo da esperienze traumatiche. Con rabbia Carlo racconta di essere stato portato con l’inganno da un dentista per un’estrazione e ancora sente viva la rabbia per non essere stato rispettato. IL CONFLITTO EDUCATIVO. Esistono diversi tipi di conflitto, Lewin fa una distinzione tra conflitto intrapsichico, interpersonale ed educativo. Quest’ultimo nasce nel rapporto tra educando ed educatore e si riassume nell’antinomia tra autorità e libertà. L’azione educativa quindi da una parte limita l’azione dell’educando, dall’altro è limitata dalla personalità dell’educando. L’iniziativa dell’educatore quindi viene spesso vissuta dall’educando come un limite posto al diritto di essere sé stesso. Ne deriva la necessità di una ricerca di equilibrio tra l’iniziativa dell’educatore e la risposta da parte dell’educando. Gli psicologi hanno coniato il principio della “discrepanza ottimale” per orientarsi in questa ricerca di equilibrio. Il principio sta nel ricercare modalità autorevoli che rimpiazzino quelle autoritarie. L’interazione educativa si realizza in modo costruttivo se si fonda su una sorta di equilibrio tra aspettative personali e sociali: i fattori personali sono costituiti dagli interessi e dai bisogni dei discenti, i fattori sociali sono invece quelli legati alle aspettative da parte delle istituzioni, degli standard sociali di una determinata società. Si possono individuare a riguardo tre possibili stili: nomotetico, idiografico e transazionale. Il primo attribuisce maggiore peso alle aspettative sociali, il secondo alle aspettative personali e il terzo cerca di costituire un equilibrio tra le due aspettative. Nell’interazione educativa, l’esito delle transazioni, dipende dalle aspettative reciproche dei partner. Lo stile dell’educatore quindi può essere convenzionale se considera più le aspettative sociali o flessibile se tiene anche conto delle aspettative personali dell’allievo. Anche in didattica si possono individuare tre possibili percorsi per risolvere il dilemma tra autorità e libertà: ascendente, discendente o integrativo. Il metodo ascendente parte dalla descrizione della popolazione e poi arriva a delineare gli obiettivi educativi, il modello discendente procede invece dagli obiettivi direttamente e il terzo cerca di integrare gli obiettivi con la situazione di partenza degli allievi. L’efficacia educativa quindi dipende dall’equilibrio tra ciò che l’educando è e ciò che dovrebbe essere. LA RICERCA DI OPZIONI EFFICACI: SUGGESTIONI E RIFLESSIONI. Spesso gli stessi risultati possono essere sostenuti da motivazioni differenti. Un ragazzo può decidere di riprendere a studiare perché teme di essere bocciato, un altro lo fa perché ha capito che ne può ricavare un vantaggio conoscitivo, entrambi studiano ma il primo per effetto di un condizionamento operante, il secondo per una scelta libera. La logica dell’opposto e del “più di prima”. Quando fa freddo è naturale coprirsi di più, per cui ci si protegge dal cambiamento contrapponendo l’elemento opposto: al freddo il caldo. Se la temperatura scende ancora di più ci si copre ancora di più. Si tratta di una logica comunemente applicata ma che in educazione non sortisce effetti positivi. Dinanzi al problema dell’alcolismo si passa ad esempio dal ridurre le dosi al ,se il problema persiste, proibizionismo, ma spesso le conseguenze sono peggiori del male che avrebbero voluto curare. Anche gli educatori spesso ricorrono alla logica dell’opposto o del più di prima di fronte a bambini che non vogliono mangiare o che dicono parolacce ad es. L’uso di interventi via via sempre più duri rischia di provocare una sorta di effetto boomerang: ribellione invece che compiacenza, dissentimento piuttosto che ascolto. Una certa quantità di controllo nelle situazioni educative reca beneficio, ma superata una certa soglia, gli effetti possono diventare paradossali. convincere ma di comunicare all’altro che abbiamo capito il suo bisogno. Prendiamo come esempio il caso di Lucia, una bambina di 5 anni che doveva farsi prendere le impronte dal dentista. La madre si era comportata con lei in modo intransigente senza considerare la paura della bambina, il dentista dal suo lato si era rivelato glaciale. Soltanto dopo che la madre abbracciò la bambina entrando empaticamente in contatto con la paura della bambina, la situazione si risolse nell’arco di breve tempo e Lucia si fece prendere le impronte dentali. Le strategie efficaci passano attraverso l’accoglienza dei vissuti dell’educando. Promuovere la motivazione e gestire l’opposizione in classe: tra paradosso e controparadosso. Un assunto fondamentale degli studiosi della scuola di Palo Alto è che nella gestione delle situazioni paradossali sia necessario ricorrere a strategie altrettanto paradossali denominate controparadossi. La resistenza non va scoraggiata ma considerata come un importante veicolo di cambiamento. Dinanzi ad un gruppo di allievi demotivati un messaggio controparadossale potrebbe essere il seguente: “immagino che con tutte le cose interessanti che avete da fare non siete contenti di stare qui! Bene, io peggio di voi! Ma adesso possiamo cominciare! Il controparadosso instaura una situazione nuova che pone l’allievo di fronte ad un bivio: non cambiare nulla dimostrando che l’educatore aveva ragione, o reagire cercando di dimostrare il contrario ed effettuando una scelta che segna l’inizio del cambiamento. PROBLEMATICHE EDUCATIVE: COSA SI FA DI SOLITO, COSA SI PUO FARE DI DIVERSO. Un rischio molto diffuso tra coloro che per mestiere si occupano di alleviare il disagio degli altri è noto come bornout, inteso come una modalità di adattamento, come una risposta allo stress sperimentato nelle situazioni lavorative. Il bornout è una forma di disagio dell’educatore che consiste in una fuga da una situazione lavorativa vissuta quotidianamente con forte stress in cui non si intravedono vie di uscita e possibilità di miglioramento. Si tratta di una reazione emotiva, cognitiva e comportamentale caratterizzata da un progressivo allontanamento dalla fonte di malessere che non consente di risolvere in modo efficace il problema. Il fenomeno è stato per prima osservato nell’ambito delle helping professions. Il bornout è considerato una sindrome psicologica caratterizzata da: esaurimento emotivo, depersonalizzazione, diminuzione del senso di autoefficacia. Cherniss definisce il bornout come un processo transazionale caratterizzato da tre fasi tipiche: stress lavorativo che nasce dalla discrepanza tra richieste e risorse lavorative, tensione come risposta emotiva allo squilibrio, conclusione difensiva che costituisce l’accomodamento psicologico caratterizzato da atteggiamenti come cinismo, ritiro e distacco emotivo. In ambito educativo il bornout colpisce principalmente quegli educatori che utilizzano la situazione lavorativa per dare un senso alla propria vita, nel caso in qui educativamente falliscono si disilludono. L’eccesso di motivazione dunque comporta un eccesso di coinvolgimento che nel tempo determina un aumento di stress. Questa è una modalità particolare di vivere il proprio lavoro che sottende un legame simbiotico. Vediamo alcuni casi con cui frequentemente gi educatori devono fare i conti. SCRIVERE PAROLACCE SUI LIBRI DEI COMPAGNI. In una classe di quinta elementare una bambina trova un giorno diverse parolacce scritte sul suo diario, subito lo racconta all’insegnante e poi alla mamma, i giorni seguenti quelle scritte comparvero anche sui libri e di nuovo sul diario nuovo. La maestra iniziò la sua indagine minacciando tutta la classe per fare uscire il colpevole. Dopo poco scoprì che l’autrice del gesto era Alessia che confessò in lacrime giurando che non l’avrebbe più fatto. Alla domanda del perché di tale gesto la bambina rispose che la sua compagna sin dal primo anno di primaria aveva fatto di tutto per emarginarla dal gruppo classe. Esaminiamo l’intervento dell’insegnante ed eventualmente cosa avrebbe potuto fare di diverso. Il ravvedimento e l’atteggiamento moralistico. La maestra ha assunto un ruolo inquisitorio per fare confessare l’autore del gesto. La logica soggiacente è di tipo moralistico e si concentra solo sulla manifestazione esterna del disagio, il tutto ha come scopo quello di fare promettere alla bambina di non farlo mai più. L’educazione in passato era improntata sull’adultoformismo, per secoli l’educando fu considerato come il futuro adulto che sarebbe diventato, una specie di persona potenziale ma non ancora persona, la cui maturità veniva valutata sulla capacità di discernere il bene dal male. L’educazione era un’attività mirata a fare sviluppare nel ragazzo l’autocontrollo e la repressione delle passioni. Il bambino educato era colui che si comportava come un piccolo uomo, smetteva di fare dispetti facendo spazio all’impegno nello studio e all’aiuto degli adulti. Perfino il gioco era considerato come una perdita di tempo, assimilato all’ozio e generatore di vizi. Il disagio era interpretato come un dispetto da parte dell’educando poco giudizioso. L’intervento educativo punta solo sulla manifestazione esterna del disagio, che vuole essere controllato o meglio eliminato nei sintomi esterni. Manca lo sforzo di comprendere il disagio e i bisogni sottesi. La ricerca di opzioni efficaci. E’ fondamentale in casi come quello considerato domandarsi cosa si possa fare di diverso, perché l’insegnante non ha il compito di indagare. Educare vuol dire comprendere come mai l’allieva si mette ad imbrattare il diario della compagna. Perché sceglie di manifestare la rabbia nei confronti della compagna in modo così subdolo. Alessia attraverso il suo modo di agire rivela che non le è stato permesso di sentire la rabbia e di usarla, sin dai primi anni di vita. Il clima ispettivo creato in classe dalla maestra non fa altro che convalidare in Alessia l’ipotesi che non vada bene arrabbiarsi. L’insegnante piuttosto deve fare capire ai bambini che va bene arrabbiarsi, che non c’è motivo di ricorrere a percorsi sotterranei, deve invitare Alessia ad esternare quello che sente verso la sua compagna e ad usare questo sentimento in modo costruttivo promuovendo nella bambina un processo di alfabetizzazione affettiva, e poi estendendolo a tutta la classe. Potrebbe proporre un gioco in cui bambini vengono fatti sedere in coppia e devono rispondere alla domanda “come mi sento quando vengo emarginato dai giochi? Cosa posso fare per stare meglio?” In modo che i bambini ascoltando le risposte del compagno possa conoscere delle opzioni di intervento da lui non considerate. O una recita in cui ogni bambino riveste il ruolo di un personaggio caratterizzato proprio da quella emozione che non gli è stato permesso di sentire. Se un bambino aveva scelto il leone per la sua aggressività, gli viene fatto rappresentare un leone mite (polarità opposta), al Il disagio di Giuseppe non riusciva a farlo integrare con i compagni nemmeno nei momenti di gioco, il bambino procedeva in modo da boicottarsi in tutti gli interventi che anche gli insegnanti avevano messo in atto per farlo accettare dai compagni di classe, ormai stufi di lui. Cosa si potrebbe fare di diverso? Abbiamo visto che l’atteggiamento dell’insegnante che lascia fare al bambino quello che vuole non è molto efficace. L’atteggiamento di Mara che ordina al bambino di smetterla, vuole eliminare solo il sintomo del disagio senza indagare sul bisogno insoddisfatto sotteso a quel disagio. Mara dovrebbe prima di tutto ascoltare i sentimenti che prova dinanzi al comportamento di Giuseppe, solo così può notare che il bambino viene spesso emarginato dalla classe, la domanda è: in che modo Giuseppe agisce in modo per farsi rifiutare dalla classe? Perché lo fa? Quella di Giuseppe è una rabbia sproporzionata: il bambino si arrabbiava prima di arrivare a scuola con i genitori perché, nonostante le sue insistenze, lo accompagnavano sistematicamente in ritardo. I genitori di Giuseppe non rispettano le richieste del bambino anzi gli comandano di stare zitto e a volte gli danno pure qualche schiaffo. Se l’insegnante si limita a punire Giuseppe rischia di comportarsi come i suoi genitori svalutando quello che sente il bambino. Giuseppe attraverso i suoi comportamenti fa in modo che gli insegnanti e i suoi compagni si comportino per lui in modo familiare. L’insegnante vedendo arrivare Giuseppe in ritardo potrebbe interagire con lui in modo empatico chiedendogli perché è arrivato in ritardo, invitandolo a raccontarle che cosa è successo in modo da consentirgli di riappropriarsi della sua rabbia, facendogli capire che è un sentimento legittimo. Si deve insegnare il bambino a cogliere il feed-back che il suo comportamento verso gli altri gli restituisce: se ti comporti in questo modo il tuo compagno non vorrà più sedere vicino a te! In realtà Giuseppe non vuole il posto del compagno, gli sta solo comunicando che è arrabbiato. IL TORMENTO INUTILE. Durante una riunione settimanale per la programmazione educativa tra insegnanti, una docente scoppia in lacrime: aveva insistito perché una bambina con disabilità partecipasse ad una recita convinta che questo l’avrebbe aiutata a sbloccarsi e invece la bambina che già era sempre nervosa davanti la platea si era inibita a punto da richiedere che la rappresentazione venisse interrotta. L’insegnante adesso si sentiva colpevole di avere procurato disagio sia alla bambina che ai suoi genitori. Nella situazione reale l’insegnante viste le difficoltà della bambina sul palco avrebbe potuto un po’ alleggerire la situazione aiutandola scendere dal palco dando a tutti esempio che è possibile sbagliare che non c’è stata nessuna tragedia. Invitando la bambina a prendere parte alla recita l’insegnante ha fatto quanto un educatore è tenuto a fare consentendole di sperimentarsi in qualcosa di nuovo. L’insegnante si sente in colpa oltre misura e rischia di procurarsi un tormento inutile. L’atteggiamento iperprotettivo e le sue incognite. Un atteggiamento comune di fronte a persone con qualche disagio o handicap è quello di essere eccessivamente protettivi organizzando in modo maniacale le loro condizioni di vita evitando che il soggetto possa incontrare delle difficoltà. La stessa cosa vale per i genitori che si attivano oltremisura perché i loro figli non vivano le esperienze umilianti di fronte all’incapacità nell’eseguire un compito. L’atteggiamento iperprotettivo risulta essere l’esatto contrario di quello che dovrebbe fare un educatore e cioè promuovere l’autonomia. Il salvatore. L’atteggiamento iperprotettivo va messo in relazione con quello che in AT è definito ruolo di “salvatore”. Karpman nel triangolo drammatico contempla tre ruoli tipici: persecutore, salvatore e vittima. Il salvatore si prodiga più del dovuto nel fare cose spesso non richieste e a volte nemmeno gradite. I discenti vengono visti, dall’insegnante come dei poveretti bisognosi di aiuto, dà loro dei giudizi sempre positivi anche se immeritati perché ha paura di ferirli. Il salvatore mantiene un atteggiamento perenne di superiorità, va ricordato però che questa posizione sociale esibita nasconde il dubbio che egli ha su di sé riguardo all’idea di valere e di essere importante. Purtroppo è stato notato che di fronte ad un’insegnante che riveste questo ruolo, il discente si sente immotivato perché ne ricava una cattiva idea di sé scolastico. Il ragazzo pensa che l’insegnante sia troppo indulgente perché ha delle scarse capacità. La posizone di vittima è complementare a quella di salvatore ed è mantenuta da molti allievi che chiedono di essere salvati perché svalutano le loro possibilità, spesso il loro pianto è di tipo ricattatorio perché utilizzano il salvatore per fare le cose al posto loro. La terza posizione del triangolo drammatico è quella del persecutore, tipica di chi nelle relazioni, sminuisce il partner e lo perseguita attaccandolo psicologicamente. La proposta non è quella di rinunciare ad aiutare gli altri, ma di farlo in modo efficace senza cercare di sostituirsi all’altro, occorre che l’aiuto sia libero da contaminazioni: esso non deve servire per soddisfare dei bisogni personali. L’aiuto deve essere “gratuito”. QUANDO LA RABBIA DELL’INSEGNANTE LIEVITA A DISMISURA. Gordon osserva che gli educatori scivolano facilmente in atteggiamenti autoritari cercando di imporre la disciplina togliendo del tempo prezioso all’insegnamento. Franta ha sottolineato che nell’atteggiamento dell’educatore si possono individuare almeno due dimensioni come componenti dell’atteggiamento: dimensione emozionale e dimensione controllo. La dimensione controllo oscilla da un massimo ad un minimo, alti livelli di controllo comportano messaggi autoritari, medi livelli messaggi democratici (i migliori), bassi livelli denotano atteggiamenti laissez- faire, contrassegnati da passività. Percorsi interni e ruolo della simbiosi. Approfondiamo i percorsi interni che possono condurre un educatore a sentire forte rabbia e in certi casi anche ad agirla. L’insegnante diventa aggressivo quando esiste una correlazione di tipo lineare tra l’atteggiamento del ragazzo e la reazione dell’insegnante: il docente è convinto che se l’allievo smettesse di fare quello che sta facendo la sua rabbia sparirebbe. Questa convinzione è segno di un legame simbiotico tra l’insegnante e la situazione, tra sé e l’esito degli eventi. E’ il caso di sottolineare che nessuno è in grado di suscitare nell’altra persona un’emozione, una reazione, ogni emozione infatti nasce dalla reazione personale e soggettiva di fronte al comportamento di un altro, la specificità della risposta non è lineare ma sempre personale. Dal momento in cui l’insegnante nega a se stesso il proprio potere ha il senso che l’unica possibilità per risolvere la situazione passi attraverso l’altro e si tratta di una trappola molto insidiosa se l’altro continua a non ascoltarci. Le emozioni quindi rischiano di lievitare a dismisura e se il clima in aula non è governabile l’insegnante pensa che sia una