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GESTIRE IL DISAGIO A SCUOLA (RIASSUNTO), Dispense di Pedagogia

RIASSUNTO GESTIRE IL DISAGIO A SCUOLA PEDAGOGIA SPECIALE (SCIENZE DELLA FORMAZIONE PRIMARIA ENNA KORE)

Tipologia: Dispense

2019/2020

In vendita dal 26/05/2020

alessandra.sarcona
alessandra.sarcona 🇮🇹

4.6

(18)

31 documenti

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Scarica GESTIRE IL DISAGIO A SCUOLA (RIASSUNTO) e più Dispense in PDF di Pedagogia solo su Docsity! GESTIRE IL DISAGIO A SCUOLA CAP.1 IL DISAGIO NEI CONTESTI EDUCATIVI Il termine disagio ha cominciato ad affermarsi intorno alla fine degli anni 70. il concetto si presenta inizialmente povero di contenuti specifici ed impiegato per esprimere la perdita di rilevanza delle problematiche giovanili. Soltanto successivamente l'attenzione viene focalizzata sui vissuti che accompagnano il disagio viene considerato più adatto ad essere applicato ad una ampia maggioranza di individui. DEFINIZIONE DI DISAGIO Il disagio è inteso come esperienza strettamente personale e soggettiva da cui possono derivare dei segni osservabili e rilevabili dall'osservatore e dall'interlocutore. Etimologicamente il termine è costituito dal prefisso “dis” che indica negazione e dalla parola “agio” che significa giacere presso. Disagio designa pertanto la condizione di chi vive ai margini, lontano dagli altri e da se stesso. Nei dizionari di area sociologica, psicologica e padagogica il termine risulta raro, in quanto usato come sinonimo di disadattamento e di devianza, e nelle scienze psicologiche è usato per indicare uno stato soggettivo e generico di sofferenza psichica. Nell'ultimo decennio, al contrario, l'uso del termine ha visto una diffusione crescente come categoria descrittiva della condizione giovanile. Secondo le descrizioni più usate e ricorrenti nella letteratura psicopedagogica italiana il disagio è inteso: -come sinonimo dell'incapacità e dell'impossibilità del soggetto di trovare soluzioni soddisfacenti e coerenti alla propria identita rispetto alla contraddizione esistente tra la centralità soggettiva e la marginalità oggettiva; -come incapacità di tollerare e di gestire la complessità e di sostenere il peso della precarietà ecc. La parola pertanto, è usata per comprendere significati e sfumature variegati e si riconduce ad una base oggettiva che si identifica con l'ammontare delle inadempienze, dei rinvii, degli inganni di cui i giovani sono stati oggetto privilegiato negli ultimi anni; comprende, inoltre, un vissuto soggettivo che implica un ampio ventaglio di elementi: percezioni, sentimenti, bidogni che contengono in ogni caso una sofferenza sommersa. CARATTERIZZAZIONI E FORME Il termine disagio sembra avere più una valenza descrittiva che interpretativa tanto da essere usato in contesti diversi e per indicare una gamma di vissuti problematici altamente diversificati che hanno in comune uno stato di diffuso malessere. I livelli nella rilevazione del disagio Una prima distinzione riguarda sostanzialmente le aree in cui si può manifestare il disagio nella vita del soggetto: intrapsichica, interpersonale e sociale. A livello individuale esso si delinea come una condizione interiore caratterizzata dalla difficoltà a star bene con se stessi e dentro di se. A livello interpersonale, in secondo luogo, il disagio si manifesta nell'incontro tra persone, ad esempio nel rapporto padre-figlio. A livello sociale, in terzo luogo, il disagio origina e si manifesta in tutte quelle situazioni note come condizioni di svantaggio e di emarginazione. Disagio oggettivo, soggettivo, procurato. Un primo approccio allo studio del disagio è di tipo soggettivo. Esso si focalizza sui vissuti psicoesistenziali che l'accompagnano, come ad esempio il malessere e l'insicurezza. Tali vissuti, anche se sono privati, possono facilmente manifestarsi attraverso vare segni divenendo osservabili e misurabili. Il secondo approccio invece, è di tipo oggettivo e focalizza l'attenzione sulle situazioni o sulle condizioni di vita che vengono designate come premesse o antecedenti del disagio. Vengono accertati disagi evolutivi che ogni soggetto in determinati periodi dello sviluppo vive come componente inerente al passaggio da uno stadio all'altro. Un'analisi ed uno studio completi del disagio richiedono un doppio livello soggettivo e oggettivo. Qualunque situazione problematica non è mai indifferente. Risulta notevolmente variabile e diversificata dinnazi allo stesso disagio oggettivo. Il disagio interno soggettivo asce dalla risposta personale alle diverse situazioni, alle richieste della società, della famiglia ecc e tra i due piani, soggettivo e oggettivo, può esserci congruenza o incongruenza. Ciascuno, infatti, ha un sistema cognitivo, una propria storia. Pertanto alcuni rispondono alle situazioni in modo incongruente, inadeguato o esagerato. Il disagio, in certi casi, può diventare procurato. Le autoattribuzioni sono spiegazioni causali che il soggetto formula in merito alla relazione tra se e le situazioni e possono variare per internalità- esternalità, stabilità, controllabilità. La dimensione “internalità-esternalità” riguarda il fatto che il soggetto può attribuire la sua condizione a cause interne come, il proprio atteggiamento, il proprio stile o a cause esterne su cui ha il senso di avere poco o nessun controllo come, ad esempio, la fortuna-sfortune. La dimensione stabilità-instabilità, riguarda il fatto che certe cause sono considerate momentanee ed altre sono giudicate durevoli. La controllabilità, in terzo luogo, riguarda la possibilità percepita, da parte del soggetto, di poter determinare il proprio destino di modificare e di guidare la sorte degli eventi. La convinzione personale di possedere dentro di se il potere di autodeterminarsi piuttosto di avere il senso di dipendere dalle circostanze esterne implica delle letture attributive secondo più una internalità del locus of control. In altre parole il sogetto è convinto che i fattori responsabili di quello che gli accade siano dentro di se. In riferimento al locus of control si possono individuare diversi stili. Ne indichiamo due: a) disfattista secondo cui ogni tentativo di fronteggiare il proprio disagio viene ritenuto inutile; si tratta di una posizione caratterizzata da senso di inutilità (non c'è nulla da fare) b) proattivo, in cui gli sforzi personali sono ritenuti utili ed efficaci per gestire e far fronte al proprio disagio. Il modo di percepire e di sentire dinanzi alle situazioni è influenzato, inoltre, dalla propria storia passata. A titolo esemplificativo si può ricordare il caso dell'assalto ai supermercati in occasione della guerra del golfo dell'inizio degli anni 90. è difficile comprendere simili reazioni fintanto che non si è considerato il ruolo dell'esperienza passata ed in particolare della seconda guerra mondiale presente nella storia personale di alcuni. La storia personale, rischia in certi casi di risultare poco efficace, fuorviante, può diventare perfino patologica quando non si riesce a distinguere quanto appartiene al passato e quanto fa parte del presente. In educazione occorre rilevare e prevenire eventuali comportamenti scenici sia da parte degli educatori che da parte degli allievi. Il rischio per l'educatore è innanzitutto quello di sperimentare e trattare l'educando non per quello che è, ma sulla base di situazioni conflittuali irrisolte. Questo può avvenire in due modi a) proiettando sugli allievi esperienze personali inconcsce b) reagendo al comportamento degli allievi in modo difensivo. Disagio sintomatico e asintomatico. Un aspetto fondamentale che caratterizza molti disagi attuali è dato dall'ambiguità. Più precisamente si può distinguere un disagio sintomatico da uno sommerso. Mentre il primo è segnalato attraverso sintomi di vario tipo (tossicodipendenza..) il secondo è sommerso in quanto asintomatico e, di conseguenza, meno studiato e analizzato. I soggetti portatori del disagio, nell'uno e nell'altro caso, sono accomunati dalla medesima difficoltà a vivere in quanto le competenze richieste dalla società sono carenti. Molti disagi si configurano come situazioni di apparente normalità. Anche nell'ambito della letteratura scientifica sull'adolescennza, ad esempio, si rilevao differenze significative nella condizione attuale rispetto a quella di alcuni decenni fa. I disagi asintomatici che richiedono nell'educatore una capacità di lettura e di abilità diagnostica molto raffinata per rilevare ed interpretare sintomi a volte pluralizzati e a volte travestiti. Risulta necessario guardarsi dal rischio di ridurre il campo di attenzione solo su quei soggetti che palesano la presenza di problematiche visibili e dichiarate. L'educatore non può considerare portatori di disagio soltanto coloro che dimostrano sintomi chiari. Coloro che non mostrano direttamente segni di disturbo facilmente potrebbero dar l'idea che non abbiano bisogno di aiuto. È necessario superare l'analfabetismo educativo a partire dalla capacità di decodificare i segnali esterni del disagio non limitandosi alle sue manifestazioni palesi, dichiarate, oggettivamente accertabili. SUPPOSIZIONI E PROPOSTE INTERPRETATIVE 3.1 3.2D isagio, violenza abbandono Parecchi studiosi mettono in evidenza alcune contraddizioni tipiche della società attuale la quale, esaltando da una parte il diritto ad una migliore qualità della vita, dall'altra dente a ignorare molti casi in cui la vita viene banalizzata mortificata, svilita e frustrata. La violenza che annienta i minori negando loro il diritto di esistenza non è soltanto quella fisica. Nella società italiana attuale, non sono l'abbandono e la violenza fisica le forme dominanti. Al contrario non sono rare le forme di abbandono psicologico ed educativo che, assumendo nella maggior parte dei casi forme poco eclatanti, non vengono neanche notate, ma indubbiamente hanno un peso notevole e risultano altrettanto gravi, pericolose, rischiose. L'esito è l'incremento di bambini trascurati dal punto di vista affettivo, psicologico, educativo. Un primo elemento caratterizzante è dato dall'atteggiamento di insensibilità diffusa dominante nella nostra società. Si tratta di un indifferenza riguardo a bambini, adolescenti e giovani, che cela il rifiuto della natalità e della nuzialità. Un rifiuto che origina da una crisi di fiducia verso la vita, verso il futuro. La diminuzione delle nascite e la scelta di non mettere al mondo dei figli è il primo segno evidente del rifiuto e dell'incapacità di prendersi cura dei minori. Altri sintomi importanti sono: la violenza verso i minori che precede o accompagna l'abbandono, l'abuso, le violenze sessuali. La dimensione per meglio comprendere la società attuale si può riassumere nel binomio generatività-stagnazione. La generatività si caratterizza per l'atteggiamento volto a creare, prendersi cura e guidare i figli e le nuove generazione. Quando la generatività risulta carente si possono affermare forme di regressione e accompagnate da un senso di stagnazione e di impoverimento personale: gli individui cominciano a comportarsi come se loro stessi o il proprio partener fossero l'unico figlio, l'unico oggetto d'amore. 3.1Disagio e frustrazione dei bisogni Si sono avvicendati diversi tipi di approcci allo studio del disagio. In seguito alle critiche, a partire dagli anni 50 e 70, mosse all'approccio clinico, si sono recuperate quelle interazioni che considerano, oltre ai dinamismi interni della personalità, anche il contesto sociale e ambientale. A seconda dei bisogni si possono distinguere diversi tipi di disagio. Quando, ad esempio, ci si riferisce alle nuove povertà, il riferimento più o meno esplicito è al disagio derivante dalla frustrazione dei bisogni di tipo primario. Quando invece, si parla di emarginazione si tratta di un esperienza legata alla frustrazione dei bisogni di integrazione, di appartenenza. I bisogni dei minori sono ritenuti oggetto di insensibilità e di indifferenza sociale fino al punto da far parlare qualcuno di esseri invisibili. Il bisogno negato a livello generalizzato è quello di esistere, di essere visti, di essere riconosciuti. Molti atti vandalici vengono concepiti da diversi studiosi come modalità ambivalenti di soddisfare il diritto e il bisogno di esserci e di esser visti. L'individuazione e la determinazione dei bisogni educativi sono momenti fondamentali della programmazione educativa in quanto su essi vanno progettati gli obiettivi. In campo educativo si possono identificare significati del termine bisogno: 1) bisogno come scostamento verso il basso rispetto ad una norma in cui il soggetto manifesta in una qualche dimensione della sua realtà personale una deficienza rispetto a un livello standard definito come normale o standard con cui confrontarsi 2) bisogno come desiderio presente nell'animo di una persona 3) bisogno come domanda che si basa sull'assunto che se uno sente un desiderio facilmente lo manifesta al prossimo 4) bisogno come esito del confronto con altre persone. Nelle descrizioni riportate esiste almeno un tratto comune: il bisogno nasce dalla discrepanza tra come le cose dovrebbero essere o come sono di fatto. Un modello di riferimento rilevante per meglio comprendere il rapporto tra frustrazione dei bisogni e disagio è quello proposto da Weiss. L'assunto di base è che dietro il disagio e la sua espressione si può individuare qualche bisogno frustrato a volte in modo persistente e cronico. Il modello illustra con chiarezza il processo mediante cui l'espressione sana dei bisogni e delle emozioni diventa in soggetto agisce stimolato dall'idea di diventare migliore e di perferzionarsi facendo sempre più e sempre meglio. Il terzo ordine è Sbrigati e si manifesta nella preoccupazione di non perdere tempo e di sbrigarsi nell'agire. Il quarto ordine è Sforzati, che si manifesta nel tentativo. L'ultimo ordine è Sii forte che si fonda sul tentativo di nascondere e di non sentire i propri bisogni e i propri sentimenti pur di perseguire i risultati prestabiliti. certi casi problematica fino a sfociare nel disagio. Secondo lo schema proposto, l'espressione naturale e spontanea del bisogno è il passo iniziale e naturale per ogni individuo. Una volta giunto alla consapevolezza del soggetto, il bisogno viene appagato oppure no. Nel primo caso la persona rimane in una posizione sana ed è libera di occuparsi del bisogno successivo. Se il bisogno rimane frustrato, il soggetto può reagire manifestando collera, paura, o tristezza. Se il bisogno a questo punto è soddisfatto la persona può rimanere comunque in una posizione sana e passare a occuparsi soddisfatto, la persona può cominciare ad assumere, strategie straordinarie a volte distruttive. I comportamenti problematici, disfunzionali che caratterizzano il disagio, in certi casi rischiano di diventare il modello di risposta privilegiato in analoghe situazioni future. Il soggetto portatore di disagio, non avendo totale consapevolezza di se, ricorre ai mezzi di cui dispone per comunicare e per esprimersi. Ricorre ad una situazione che abbiamo definito complessa: disturba, non studia, usa parolacce, picchia i compagni ecc. Si tratta in pratica del suo modo di esternare il disagio. L'educatore debba affinare la sua capacità di comprensione empatica in modo tale da poter cogliere adeguatamente cosa c'è dietro il disagio, alla stessa stregua del genitore che interagisce con neonato. Egli deve affinare la sua capacità di decodificare la metafora creativa usata dall'educando per esprimere il disagio. 3.1Quali i bisogni e i permessi negati. Abbiamo proposto di interpretare il disagio come una risposta del soggetto al non ascolto di alcuni bisogni fondamentali. Trattando di bisogni si può fare una distinzione basilare tra processo e contenuto. Se si pone l'accento sul contenuto diventano centrali questioni relative a quali sono i bisogni e le necessità che risultano inascoltati. Se, invece, ci si incentra sul processo, si presenta maggiore attenzione ai dinamismi psicologici coinvolti, dal momento in cui un bisogno viene percepito fino alla sua soddisfazione o alla sua frustrazione e quali sono le opzioni una volta che i bisogni vengono soddisfati o ripetutamente non soddisfatti. Si possono individuare livelli diversi nei percorsi che portano alla soddisfazione o alla frustrazione dei bisogni: possono risultare autorizzati o non autorizzati, soddisfatti o frustrati, riconosciuti o negati nelle transizioni con l'ambiente e con le persone significative che lo rappresentano. Al di la del disagio i bisogni inascoltati in certi casi traditi, sono parecchi. A. Permesso di esistere. Quando un bambino viene al mondo la famiglia deve riorganizzare i suoi confini. Il permesso fondamentale, in questa fase, su cui si fonderanno tutti gli altri è quello di esistere. I membri di un sistema familiare ed in particolare i genitori possono dare il permesso di esistere ad esempio “comunicando” al neonato che sono contenti che ci sia prestandogli attenzioni cure. La dinamica del permesso di esistere e di appartenere è fondamentale in quanto l'inserimento l'integrazione che si ripresentano in molte occasioni dell'esistenza secondo caratteristiche diverse, la rievocano e la riattivano. B. Non essere intimo. Il permesso di essere emotivamente e fisicamente intimi viene appreso primariamenti nell'interazione con le figure significative. Pertanto quando il genitore si mostra sistematicamente distratto, distante, assorbito dagli impegni, troppo indaffarato, fisicamente o emotivamente assente, facilmente invia un messaggio del tipo “non essere intimo”. Frasi del tipo “non disturbarmi”, “lasciami in pace”, insieme ad interazioni in cui il bambino elemosina un po di attenzione e l'adulto risponde in modo evitante, costituiscono alcuni dei messaggi più comuni che invitano a non essere intimi. Il soggetto a cui tali permessi sono stati cronicamente negati può decidere di non appartenere isolandosi, comportandosi in modo da farsi emarginare ricorrendo a modalità sproporzionate, ambivalenti e a volte incongruenti. C. Non essere piccolo. Un altro permesso che preso in esame è quello di poter agire, sentire, pensare come un soggetto che ha una determinata età. Bowlby aveva ampiamente messo in evidenza come dietro a molti casi di violenza da parte dei genitori verso i figli facilmente si trovano relazioni rovesciate in cui al figlio è richiesto di comportarsi come se fosse lui il genitore. Viene negato al bambino di vivere secondo la sua età e gli si comunica un'ingiunzione del tipo “non essere un bambino” o “non essere piccolo”. Gli studi sul disagio mettono in evidenza che si tratta di un fenomeno comlesso su cui intervengono alcuni fattori socioeconomici e socioculturali. Abbiamo proposto di interpretare il disagio come una risposta del soggetto dinanzi al non ascolto, alla frustrazione persistente e cronica di alcuni bisogni fondamentali. Occorre considerare tutti i possibili fattori presenti di volta in volta nel disagio di ciascun soggetto. Occorre, pertanto avvalersi di modelli causali di tipo probabilistico, che privilegiano logiche di tipo multifattoriale e ipotesi eziologiche di tipo multideterminato e plurideterminato. CAP. 2 COMPRENDERE E GESTIRE IL DISAGIO Oggi il docente è chiamato alla realizzazione dell'alfabetizzazione culturale, ma questa meta non può essere adeguatamente raggiunta se non ci si occupa della persona dell'alunno nella sua totalità e se non ci si considera l'educando oltre lo scolaro. La gestione delle problematiche educative viene ritenuta da delegare ad altri. Non si tratta di un compito in più, ma semplicemente di tradurre in pratica la difficile convivenza tra insegnante, fautore dell'alfabetizzazione culturale dell'allievo, ed educatore, promotore della formazione integrale della sua personalità. Soltanto tale consapevolezza può consentire di realizzare pienamente quell'apprendimento formativo previsto dalle indicazioni nazionali. Dinanzi ad un disagio i problemi sono almeno due: uno appartiene all'allievo l'altro appartiene al docente. Per quanto riguarda il primo un rischio è quello di non accorgersi e di non cogliere il problema dell'allievo. Il secondo è il problema del docente. Non si tratta di un problema personale, ma di un problema educativo: dinanzi all'allievo che manifesta dei problemi egli ha bisogno di capire cosa possa fare per evitare di scadere nella banalità ed escogitare delle opzioni di intervento efficaci e realmente educative. ATTEGGIAMENTI COMUNI DINANZI AL DISAGIO Paolo C un ragazzo di 12 anni giunge in classe in giorno con un paio di occhiali da sole. Seduto in prima fila sfoggia i suoi nuovi occhiali. Il docente di lettere fa l'appello e invta subito dopo il ragazzo a mettere via gli occhiali da sole e a riprendere quelli da vista per leggere ad alta voce. Poiché paolo dimostra di non avere alcuna intenzione di toglierli, l'insegnante inizia ad irritarsi e ad assumere atteggiamenti impositivi. Comincia una specie di braccio di ferro tra docente e studente. Stile intollerante Una prima reazione comune dinanzi ad un allievo che sfida il docente è quella che possiamo definire dispotica, impaziente, autocratica. L'insegnante potrebbe reagire esplodendo furiosamente urlando e gridando frasi del tipo “come ti permetti” “maleducato”. Il docente intollerante si avvale di una varietà di interventi coerenti con la sua posizione: la critica, il rimprovero, la sospensione. Nella situazione reale il docente, dopo essersi alzato, ha tolto con le sue mani gli occhiali all'allievi e li ha poggiati sulla cattedra, ma non appena di è dovuto allontanare dall'aula questi ne ha approfittato per riprenderli e tornare a sfoggiarli come prima. L'atteggiamento intransigente e dispotico può presentare dei vantaggi a breve termine. È infatti relativamente facile che l'allievo ceda e metta da parte gli occhiali, faccia il bravo. L'educatore però non può accontentarsi della facciata esterna. Dovrebbe far riflettere a proposito dell'opportunità di usare uno stile del tipo delineato. Stile polemico e litigioso In questo caso il docente potrebbe attaccare direttamente l'allievo cercando di deriderlo. Potrebbe ricorrere a messaggi del tipo “ togli gli occhiali cosi vasci vedere la tua bella faccia”. Si tratta di un atteggiamento che può facilmente innescare dinamiche distruttive a spirale crescente. Allievo: ma professoressa, perchè ce l'ha sempre con me?” Alcune forme di intervento per gestire il disagio risultano piuttosto svalutanti. Uno degli aspetti più preoccupanti delle strategie che si fondano sulla scotomizzazione, comune nelle forme di intervento maltrattanti, è l'autoperpetuazione. Va innanzitutto considerato che le pressioni eccessive di tipo genitoriale, le critiche da parte degli educatori tendono ad acuire e ad aggragave proprio quelle reazioni, quelle caratteristiche comportamentali che si intendeva modificare. L'allievo timido incalzato perchè diventi spigliato, ad esempio, facilmente diviene pauroso fino al punto da inibirsi sempre più. L'uso di interventi via via decisamente più duri rischia di attivare l'adempimento di una sorta di effetto boomerang. È noto che una certa quantità di direttività e di controllo nelle situazioni educative può recare beneficio. In certi casi può rivelarsi utile, ma superata una certa soglia gli effetti possono facilmente diventare distruttivi e paradossali. L'aumento dei comportamenti giudicati scorretti rischia inoltre di indurre, nell'educatore, una sorta di accanimento terapeutico a spirale crescente caratterizzato da atteggiamenti e interventi sempre più rigidi e intolleranti. La focalizzazione dei sintomi del disagio La predica, critica, diretta, rimprovero, sospensione presentano un'importante caratteristica in comune: si incentrano sull'aspetto esterno ed immediatamente evidente del disagio con la conseguente aspettativa che sparisca. Al fine di guardarsi dal rischio di scadere nella banalità è opportuno tenere ben distinti il sintomo, da una parte e il problema dall'altra. Un rischio è quello di considerare e di trattare la manifestazione del disagio come se fosse il disagio stesso ed intervenire, di conseguenza, per cancellarla, per eliminarla. L'illusione è che una volta rimosso il sintomo la questione sia risolta. Molti degli interventi per gestire il disagio si possono considerare una sorta di terapia sintomatica nella misura in cui tendono ad alleviare il segno esterno e a cancellare la manifestazione del disagio. Se l'allievo non studia in quanto non riesce a concentrarsi obbligandolo a studiare è semplicemente banale e riduttivo. Fintanto che non si è compreso sul meccanismo che alimenta il sintomo esterno, gli interventi del docente possono soltanto contenere temporaneamente. L'appello al controllo volontario. Un'altra caratteristica degli interventi improduttivi riguarda l'appello al controllo e all'autocontrollo da parte dell'allievo. L'aspettativa è che l'allievo capisca. L'intolleranza dinanzi a certi comportamenti, peraltro, aumenta nell'educatore man mano che l'allievo cresce: ci si aspetta che il ragazzo più grande capisca e sia più giudizioso. Mario C. un alunno di terza media bocciato due vole prevalentemente per motivi di condotta. Mario aveva notevoli difficoltà a stare seduto in classe e chiedeva ripetutamente di uscire. Quando le sue richieste erano accolte trascorreva il tempo passeggiando per la scuola. Si intratteneva fuori più del dovuto al suo rientro in classe veniva regolarmente accolto con paternali e note sul registro. Fin oltre alla prima media era stato uno studente modello. È palese che Mario viveva qualche disagio che non gli consentiva di stare adeguatamente a scuola e gli creava notevoli problemi nel rapporto con docenti e compagni. Alla domanda su come mai si fosse fatto bocciare, Mario ridacchiando rispondeva: sa l'ho presa alla leggera, mi sono messa a scherzare e non ho più studiato. Fintanto che non sia chiaro sia all'allievo che agli educatori cosa vi sia dietro quel comportamento disfunzionale, risulta difficile cambiarlo autocontrollandosi. Far appello al controllo volontario, in certi casi è come invitare chi soffre d'insonnia a impegnarsi volontariamente per dormire. Dinanzi ad un atteggiamento del genere l'allievo facilmente sperimenterà l'adulto come una sorta di giudice incontenibile che si limita a dispensare ordini, regole, sentenze, umiliazioni e biasimo. Il condizionamento negli interventi improduttivi. Gli interventi improduttivi sono fortemente caratterizzati dall'aspettativa che l'allievo si adatti compiacendo. In particolare, possiamo immaginare un comportamento libero da parte dell'allievo, qualora si esprima spontaneamente, senza preoccuparsi delle reazioni degli altri; possiamo invece considerare adattato l'allievo che si comporti come se ci fosse un genitore che sta a vedere e perciò agisce di conseguenza. Ci si aspetta che l'allievo faccia o non faccia una certa cosa per evitare conseguenze negative, oppure per avere vantaggi e benefici. I tipi di condizionamento possibili, nel nostro caso, sono -tipo ricompensa e ricompensa secondaria. Occorre tener conto che durante il periodo scolastico il concetto di se dell'allievo è molto dipendente dai risultati scolastici e dal giudizio dei compagni e dei docenti. In questo caso la motivazione che spinge l'allievo all'adattamento è un bisogno attuale o immediato che si intende soddisfare immediatamente oppure in un secondo momento. -Tipo fuga. Allontanare il ragazzo dall'aula, rimproverarlo, implicano una forma di condizionamento che possiamo definire tipo fuga. -Tipo prevenzione. Molti educatori sono convinti che il modo migliore per gestire il disagio degli alunni sia quello di incutere loro timore ad esempio rammentando spesso che avranno conseguenze negative. In questo terzo caso la motivazione che dovrebbe spingere l'allievo a fare o non fare certe cose è quella di prevenire una situazione spiacevole futura: la fantasia della bocciatura, l'effetto del rimprovero. E se l'allievo ricercasse proprio carezze negative? Uno stimolo negativo risulta a volte di gran lunga preferibile all'assenza di stimoli. Paradossalmente, pertanto, un alunno sistematicamente ripreso e punito potrebbe continuare a comportarsi inavvertitamente in modo da ottenere proprio quel tipo di carezze negative, visto che non riesce ad averne di positive. Di conseguenza, il tentativo di bloccare un comportamento disfunzionale verrebbe ad essere alimentato e sostenuto proprio dall'intervento che vorrebbe eliminarlo. DECODIFICARE E GESTIRE IL DISAGIO Una delle proposte più interessanti per comprendere e gestire il disagio è quella di formulare una lettura in chiave comunicativa. L'idea di interpretare il messaggio che si cela dietro un comportamento problematico e insegnare agli allievi a comunicare la stessa cosa in modi socialmente funzionali e accettabili è suggestiva anche se non sempre facile da realizzare soprattutto quando si lavora con soggetti che hanno scarsa consapevolezza di se. Oltre i sintomi del disagio: esigenze e bisogni Non limitarsi a prendere atto dei sintomi e tanto meno ad attivarsi per contenerli o peggio er eliminarli. La nostra proposta è quella di intervenire sul disagio effettuando una lettura in termini di bisogni sottesi. Più precisamente l'educatore è invitato innanzitutto a verificare e a individuare la presenza di bisogni sotterranei manifestati in modo ambivalente. Utilizzo del modello con educandi. Uno dei presupposti fondamentali è che nel momento in cui un soggetto non riesce a soddisfare i bisogni attraverso le vie ordinarie è facile che ricorrerà a dei percorsi per cosi dire straordinari. Ad esempio, dinanzi al ragazzo ce si ostinava a tenere gli occhiali da sole in classe l'ipotesi è che il bisogno sia quello di essere visto, di sentirsi riconosciuto. Si tratta di un aspetto che non è stato adeguatamente colto dal docente. Il bisogno dell'allievo ha comunque una sua legittimità, mentre la modalità in cui viene espresso può risultare poco funzionale. Un secondo elemento portante, nel nostro modello, riguarda la possibile lettura secondo un doppio livello: superficiale e nascosto, sociale e psicologico. Nel caso del ragazzo il livello superficiale può riguardare l'ostentazione fuori luogo di un comportamento che non viene approvato in classe. A livello profondo è presente il bisogno di esse riconosciuti. Il docente potrebbe far qualcosa di diverso. Ad esempio cominciare a notarlo e riconoscerlo “che begli occhiali che hai”. Dopo facilmente metterà via gli occhiali spontaneamente senza alcune necessità di insistere e di fare inutili contese. (ragazzo che vuole conquistare la ragazza) A livello sociale si vedrà l'alunno che vuol apparire forte, che esibisce potenza sessuale; a livello psicologico si può ipotizzare un bisogno di nascondere l'insicurezza. Ol comportamento dell'allievo può costituire una specie di paravento per nascondere a se e agli altri qualcosa che sarebbe piuttosto doloroso o scomodo esibire direttamente. Va sottolineato che un conto è quanto il ragazzo esterna ed un altro è quello che di fatto vive. Dietro la manifestazione esterna di sicurezza e di determinazione del preadolescente si celano spesso paura e bisogno di sostegno da parte dell'adulto. L'educatore che osserva può essere tratto in inganno se focalizza la sua attenzione soltanto sul livello esibito. Occorre sforzarsi di andare oltre e domandarsi dietro cosa c'è? L'educando vuole ottenere un certo effetto, vuole soddisfare un suo bisogno psicologico, ma fa questo attraverso un comportamento che spesso determina un effetto paradossale: vuole affetto, attenzione e viene isolato emarginato e punito. Il principio della lettura dei comportamenti secondo un doppio livello - superficiale e profondo, sociale e psicologico - risulta particolarmente utile per costruire relazioni efficaci anche tra adulti: ad esempio nel rapporto docente-docente. Tanto tempo fa in un corso di formazione per lavoratori l'autore era docente di dinamica di gruppo. Durante la lezione piombò in classe la collega di francese che, con tono acceso e risentito dichiarava di voler conoscere il programma di dinamica di gruppo per poter adattare quello di lingue. Quei toni e quello stile risultavano sproporzionati e fuori luogo. Da dove veniva tanto risentimento? In situazioni del genere, l'intervento può tenere conto del livello esterno sociale o di quello interno nascosto. Un intervento che si focalizzi sul livello esterno potrebbe accogliere la richiesta dichiarata dalla collega e riferirle dei contenuti del programma richiesto. Una seconda opzione potrebbe fondarsi sul confronto di quell'atteggiamento tutt'altro che gentile. Alcune opzioni interessanti si possono individuare incentrandosi sul livello nascosto. In riferimento al caso descritto si può iniziare chiedendosi: cosa può sperimentare a livello interno la collega? Dietro quel risentimento esteriore e quell'atteggiamento scorbutico cosa ci può essere? È facile intuire che a livello nascosto possa essere presente preoccupazione, paura di non fare bene. Se si tiene conto di questo punto di vista forse ha più senso cercare di rassicurare l'interlocutore piuttosto che confrontarlo. Livello superficiale, livello nascosto e vita affettiva. Gli studi e le esperienze degli educatori hanno messo in evidenza che l'intelligenza non esiste allo stato puro o disgiunto dagli altri processi psichici. Educare puntando alla formazione integrale dell'edecuando implica la necessaria promozione dell'alfabetizzazione affettiva. Una giovane madre chiede come fare per abortire. Appena 25enne era già madre di un bambino, il marito in carcere, disoccupata ed essendo rimasta incinta aveva deciso di interrompere la gravidanza. La cosa che fece andare in tilt il collega fu il fatto che la giovane gli avesse raccontato la sua esperienza tutt'altro che piacevole con la massima disinvoltura, senza indugio e col sorriso. Ci troviamo dinanzi ad uno degli analfabetismi affettivi tutt'altro che rari, interessa qui a sottolineare che la lettura dei sentimenti secondo un doppio livello, superficiale e profondo, consente di comprendere reazioni diversamente inspiegabili, come nel caso addotto, ed individuare al contempo possibili ipotesi di intervento. Gli studi condotti dagli analisti transizionali da Berne in poi hanno consentito di mettere in evidenza che esistono e preso il posto di alcuni sentimenti genuini: l'allegria al posto della tristezza, la paura al posto della rabbia ecc. Fin dalla primissima età il bambino viene incoraggiato o scoraggiato nel sentire e nell'utilizzare determinati sentimenti (non si piange). In alcuni nuclei familiari viene severamente punita ogni espressione di rabbia. Dinanzi a tali pretese il bambino si trova dinanzi ad un bivio adattarsi o ribellarsi. Il bambino scoraggiato dall'esprimere un sentimento come la rabbia può trovare vantaggioso sostituirlo ad esempio, con la paura. Di conseguenza, nelle situazioni, in cui dovrà usare la rabbia e tenderà invece a reagire con la paura. Un altro criterio per individuare i sentimenti di ricatto è dato dal cambiamento di direzione dell'azione pertinente attraverso la sostituzione radicale del senimento rispondende alla situazione: ad esempio il ragazzo che subisce un sopruso, preso dalla paura potrebbe passare a tranquillizzare l'interlocutore procurandosi ulteriori svantaggi piuttosto che protestare. I casi in cui si possono accertare dei cambiamenti di direzione sono numerosissimi, ma è particolare facile individuarli nelle reazioni fuori misura: ad esempio il caso della madre che, preoccupata per la saluta del figlio che rifiuta di mangiare, in preda all'angoscia e alla collera sente talvolta l'impulso di gettarlo fuori dalla finestra e a volte rompe i piatti o colpisce violentemente la Luca, dieci anni il primo anno della scuola secondaria è il più bravo della classe, ma con i compagni non riesce a legare adeguatamente per il suo fare competitivo presuntuoso e saccente. Un sabato pomeriggio i maschietti della stessa classe si organizzano per andare in pizzeria. Tutti si sentono invitati di diritto, compreso Luca, ma gli altri non lo vogliono. Pertanto dopo lo chiamano telefonicamente per dirgli che non si sarebbe più andati in pizzeria. La sera tutti si recano a prendere la pizza tranne Luca. Il lunedi successivo, dopo aver saputo, sia Luca che i genitori, sono furibondi con i compagni e le maestre decidono di intervenire riprendendo l'intera classe attraverso la predica “queste cose non si fanno”, “non è giusto”. Ma è difficile che questo tpo di intervento da parte dei docenti risulti efficace. Un opzione alternativa potrebbe essere chiedere ai bambini perchè mai abbiano escluso Luca, senza farsi prendere dal timore di proteggerlo e tanto meno di salvarlo. Dopo aver raccolto informazioni sufficienti per poter rispondere alla domanda “in che modo il suo comportamento contribuisce a determinare il risultato non desiderato di essere escluso, gli insegnanti dispongono di nuove opzioni. Potrebbero, ad esempio, spiegare a luca che se intende stare con gli altri può fare delle cose diverse, e agli altri bambini ad essere diretti riferendo a Luca quando e cosa infastidisce. In tal modo educherebbero i bambini a dare e ricevere feed-back e successivamente a decidere come usarlo riciclando e facendo tesoro di quello che sentono e che vivono. CAP.3 OPPOSIZIONE, RIFIUTO E CONFLITTO EDUCATIVO Gli educatori richiedono ripetutamente suggerimenti per trattare la demotivazioni, cercano metodi e rimedi per gestire il disinteresse. I docenti hanno il senso di avere scarse opzioni quando gli allievi non stanno attenti, rifiutano di seguire o di studiare. Pronunciando le loro richieste sperano condiscendenza e disponibilità, ma attengono sovente resistenza, ostinazione, ribellione, dissenso, rifiuto, opposizione... Sebbene varino luoghi, persone e contesti, alcune dinamiche sostanzialmente ricorrono: l'educatore formula una richiesta; l'educando si rifiuta, procrastina, mostra interesse a fare altro. Il comportamento degli educandi non dipende in modo lineare dall'azione educativa. Ciascuno, infatti, dispone delle proprie opzioni e, benchè l'educatore possa realizzare interventi ineccepibili sul piano educativo, l'educando ha la facoltà e la prerogativa di poter decidere di continuare ad opporsi, oltre a fare altro. MODALITA' COMUNI PER GESTIRE LA RESISTENZA DELL'EDUCANDO Di seguito due tipologie impiegate dagli educatori per far fronte all'opposizione dell'educando. Modalità vessatorie Uno degli stili comunemente utilizzati dagli educatori, dinanzi al bambino che rifiuta di accondiscendere è quello vessatorio. Ad esempio, due giovani maestre avviano un laboratorio. Nel primo incontro che prevede un momento di socializzazione, i bambini vengono invitati a sedere per terra. Però, mentre tutti accolgono la proposta, Emanuele rifiuta di mettersi in cerchio e di prendere parte all'esercizio. Invitato con le buone e constatato che Emanuele persiste il tono della maestra diventa via via più incalzante: devi metterti subito per terra e fare quello che stanno facendo gli altri. L'alunno non accenna a convincersi, di forza lo porta nel cerchio e gli urla “adesso vediamo se non lo fai pure tu”. Il bambino comincia a piangere. La modalità brusca, secca, non aiuta ad accettare la frustrazione legata al divieto, anzi va ad aggiungersi ad essa. Lo stile vessatorio, persecutorio, perentorio, alimenta facilmente dinamiche distruttive a spirale crescente: inizialmente i toni sono delicati, via via il clima degenera e facilmente diventa teso, ostile e a volte violento. Le pressioni eccessive di tipo genitoriale da parte degli educatori tendono ad acuire e ad aggravare proprio quelle reazioni che si intendeva modificare: l'allievo timido, incalzato perchè diventi spigliato facilmente diviene pauroso. Modalità manipolatorie Nel realizzare importanti obiettivi, pur di eludere la resistenza o il rifiuto dell'altro, non è facile, in certe occasioni, resistere alla tentazione di ricorrere all'inganno. Carlo, tende a vivere in maniera catastrofica le separazioni al punto che, quando una ragazza che egli corteggia desidera allontanarsi da lui, comincia a manifestare insofferenza e va in escandescenza: urla, piange e batte i piedi pregando perchè torni tutto come prima. Uno degli elementi che colpisce, nel passato di Carlo, è il tipo di interazione con le figure significative caratterizzato dall'uso dell'inganno per proteggerlo da esperienze traumatiche. All'età di sei anni fu accompagnato dalla madre e da una zia dal dentista per un estrazione senza che lui sapesse nulla. Giunto nello studio del medio comprese che le cose non stavano proprio cosi: madre, zia e medico avevano ordito una specie di complotto. L'interazione della madre era quella di risparmiare il trauma al figlio. Ma era anche quella di eludere la reazione, l'eventuale rifiuto e la resistenza di Carlo. È questa seconda parte di realtà che Carlo rifiuta e che vive come una specie di incubo, maturando così l'idea che gli altri sono falsi. Il ricorso al sotterfugio non è raro se si pensa ad alcuni messaggi usati dai genitori con i bambini, dai docenti con gli allievi. Il ricorso al sotterfugio ha dei costi notevoli, se si raffrontano i benefici conseguiti. Le rette e buone intenzioni passano attraverso una piattaforma relazionale che non si può considerare pulita. IL CONFLITTO EDUCATIVO Esistono diverse definizioni di conflitto e gli psicologi partire da Lewin, ne hanno individuati e descritti diversi tipi. È utile, dopo aver distinto il conflitto intrapsichico da quello interpersonale soffermarci su quello educativo. Per quanto riguardo il primo, la personalità è comunemente concepita come un insieme di forze, di distanze, di polarità, che spesso si scontrano. Il secondo tipo di conflitto è quello interpersonale e può avere origine intrapsichica o relazionale. Esso ha origine interna quando uno degli interlocutori mette in scena dinamiche che originano da problematiche irrisolte di cui non è consapevole. Tra i meccanismi di difesa più importanti, la proiezione, insieme alla repressione e alla rimozione, detiene un ruolo dominante. Il conflitto interpersonale ha origine relazionale quando il disaccordo riguarda, al contrario, un problema reale e non risulta da proiezioni e tanto meno da comportamenti scenici. Esso viene considerato sano, ed è ausèpicabile nei rapporti interpersonali in quanto, se gestito appropriatamente, contribuisce a migliorare le relazioni. Accanto al conflitto interpersonale va considerato quello educativo che nasce in particolar modo nel rapporto tra educando ed educatore. L'educatore spesso richiama verso un dover essere, l'educando intende conservare e preservare ciò che è con tutti i suoi bisogni, desideri, interessi. L'azione educativa in tal senso, da una parte limita l'azione dell'educando, dall'altra è limitata dalla sua personalità, originalità, diversità, dallo sforzo del soggetto di diventare ciò che è e che vuole essere. L'iniziativa dell'educatore facilmente viene vissuta come una sorta di limite e di diniego del diritto di essere se stessi da parte dell'educando. L'educatore deve integrare molteplici esigenze interne al soggetto da educare ed esterne derivanti dagli aspetti normativi, standard, aspettative di ruolo, esigenze personali. Si tratta di stabilire fino a che punto e in che misura l'azione educativa non soffochi, anzi sviluppi la personalità del soggetto; fino a che punto sia rispettosa dell'interiorità e del momento evolutivo di colui che è destinatario dell'educazione. Non è raro infatti, che l'educazione si trasformi in azione manipolativa, oppressiva. L'azione educativa non può prescindere dallo sviluppo della libertà e dell'autonomia dell'educando. A parere di Nanni, due sono i rischi comuni a) pensare che la reazione educatore-educando comporti necessariamente l'impedimento e il limite della libera crescita personale, come nel classico mito di edipo che giunge al punto di uccidere il padre per diventare re; b) o, all'opposto, concepire la cescita e l'espansione vitale dell'educando un pericolo per l'assetto sociale esistente. Il dilemma autorità- libertà, ovvero tra azione dell'educatore ed iniziativa dell'educando, può essere ridefinito e riassunto nel seguente binomio: stimolare la crescita dell'educando dal suo interno assecondandone i gusti, desideri, bisogni, o aiutarlo a realizzare un dover essere da cui derivino valori, obblighi, regole, aspettative. L'educanco deve essere aiutato ad utilizzare, realizzare, portare a compimento le sue potenzialità e diventare tutto quello che è ed è capace di diventare. L'interazione educativa si realizza in modo costruttivo se si fonda su una sorta di equilibrio tra aspettative personali e sociali. Si possono individuare tre possibili stili: nomotetico, ideografico, transizionale. Il primo tende a attribuire il peso maggiore alle aspettative sociali e concepisce l'educazione come trasmissione di conoscenze. Lo stile idiografico rispetta le aspettative, le esigenze ed i bisogni del singolo educando, consentendogli di scegliere quanto per lui risulta significativo. Il terzo stile, transizionale o nomotetico-idiografico cerca di realizzare una sorta di equilibrio tra aspettative sociali e aspetative personali. Nell'interazione educativa l'esito delle transizioni dipende dalle aspettative reciproche dei partner. L'educatore convenzionale, nell'interazione con l'educando, facilmente darà priorità all'importanza delle norme, dei valori. Gli educatori che, al contrario cercano di rispettare le condizioni reciproche, non interpretano i ruoli secondo norme e schemi rigidi, ma manifestano flessibilità ed apertura, consapevoli che la pressione verso la conformità provocano facilmente un'esperienza negativa negli allievi. Se da una parte occorre calare le finalità istituzionali nella situazione reale ed occorre tener conto sia delle leggi, quanto dei programmi ministeriali, dall'altra occorre tener conto delle situazioni locali. In didattica si possono individuare tre possibili percorsi per risolvere il dilemma a) ascendente b) discendente c) integrativo. Il primo parte dalla descrizione accurata della situazione della popolazione scolastica e cerca di innestarvi le finalità e gli obiettivi. Il metodo discendente rovescia la prospettiva in quanto parte dall'individuazione delle finalità e degli obiettivi desunti da alcune grosse aree disciplinari. Il metodo integrativo parte dal concetto di bisogno e si articola in 4 momenti: identificazione di un largo spettro di possibili obiettivi, ordinamento degli obiettivi secondo ordine di importanza, valutazione della discrepanza tra obiettivi e situazione degli allievi, determinazione dell'ordine di precedenza nell'attuazione degli interventi formativi. La gestione dell'opposizione costituisce uno dei problemi più sentiti degli educatori. Risutlano improduttive le strategie direttive volte a cancellare la volontà dell'educando. Alla stessa stregua si rivela inefficace assecondare ogni comportamento. Si tratta di dosare in maniera di volta in volta equilibrata e proporzionata, il rispetto del bambino, da una parte, e l'invito a fare qualcosa dall'altra. LA RICERCA DI OPZIONI EFFICACI: SUGGESTIONI E RIFLESSIONI Diversi tipi di intervento tendono a incoraggiare ragioni diverse per impegnarsi a fare una certa cosa. Risultati analoghi possono essere sostenuti da motivazioni diverse. Mettiamo che Ad esempio gopo gli sforzi da parte dei docenti, un allievo cominci ad impegnarsi in quanto teme le conseguenze negative. Un secondo alunno, ugualmente demotivato, prende atto che una possibilità è quella di non fare nulla e l'altra è quella di portarsi a casa qualcosa: sceglie pertanto la seconda opzione. Esternamente il risultato sembra identico: entrambi cominciano ad impegnarsi. Ma i percorsi interni seguiti per raggiungerlo sono alquanto diversi. La logica dell'opposto e del più di prima Nel caso in cui l'intervento correttivo si dovesse rivelare insufficiente, è ragionevole applicare “più di prima” si tratta di una logica applicata in molte situazioni quotidiane che si rivela efficace. Quando però i problemi sono di natura psichica, relazionale, educativa, è facile che il principio non si riveli del tutto efficace. La logica dell'opposto e del più di prima si può tranquillamente individuare nelle modalità vessatorie su cui ci siamo soffermati prima. Si può rivelare in parecchie strategie cui ricorrono gli educatori dinanzi al bambino che rifiuta di mangiare, che non studia... L'uso di interventi via via decisamente più duri rischia di attivare l'adempimento di una sorta di effetto boomerang. Una certa quantità di controllo nelle situazioni educative reca beneficio. Incrementare il livello di direttività, in certi casi può rivelarsi utile, ma superata una certa soglia, gli effetti possono facilmente diventare distruttivi e paradossali. L'aumento dei comportamenti giudicati scorretti rischia inoltre di indurre, nell'educatore, una sorta di accanimento terapeutico. Il paradosso. Alcune strategie impiegate per gestire e risolvere i problemi legati alla demotivazione e al rifiuto da parte dell'educando, a volte si rivelano paradossali. Cercheremo di illustrare meglio la questione partendo dal caso del docente che intende promuovere nei suoi alunni l'interesse per la lettura. minacciando di andarsene. Risulterebbe divertente il caso di qualche relatore che realizzi la seconda alternativa: appurato che il livello di motivazione è scarso e che i destinatari sono distratti e intenzionati a fare altro potrebbe abbandonare il campo e andarsene. Non mancano i docenti che, dinanzi agli insuccessi nel gestire la demotivazione e le problematiche degli allievi, minaccino di abbandonare il campo andando in pensione o chiedendo il trasferimento. È molto comune, invece, che il docente realizzi la terza possibilità: parlare senza essere ascoltato e perdersi nei suoi cattedratici ed aridi soliloqui. Dinanzi ad allievi demotivati il senso comune suggerisce di strutturare messaggi secondo la logica “dell'opposto” e del “più di prima”: ci si aspetta che l'educatore incoraggi il cambiamento, stimoli l'interesse. E quanto più il docente si attiva, in molti casi, tanto più l'allievo si depotenzia. Una prima alternativa interessante è quella di ribaltare la relazione. Ad esempio l'educatore potrebbe ricorrere a messaggi del tipo seguente: sono scoraggiato, ho il senso che con voi tutto sia inutile e non so cos'altro fare. La resistenza non va scoraggiata, ma va considerata, un importante veicolo del cambiamento. È un po' come se il soggetto intendesse contrastare il corso d'acqua di un fiume. Dinanzi ad un gruppo di allievi demotivati il senso comune detterebbe un tentativo di interessare mostrando, ad esempio, quante cose interessanti si hanno da dire. Il risultato non sempre è positivo. Si può considerare controparadossale il messaggio “immagino che con tutte le cose piacevoli che avete da fare non siete molto contenti di stare qui! Io peggio di voi! Bene allora possiamo cominciare”. Il controparadosso determina una situazione nuova che pone l'altro dinanzi ad un bivio a) non cambiare nulla dimostrando che l'educatore avrà avuto ragione b) reagire cercando di dimostrare il contrario ed effettuando una scelta che segna l'inizio del cambiamento. CAP. 4 PROBLEMATICHE EDUCATIVE: COSA SI FA DI SOLITO, COSA SI Può FARE DI DIVERSO Un rischio diffuso tra quanti si propongono per mestiere di alleviare il disagio è la sindrome di burnout, intesa come una risposta allo stress sperimentato in situazioni lavorative che implicano il contatto con le persone a scopo di aiuti. Il brnout come una delle manifestazioni del disagio dell'educatore va concepito come una fuga da una situazione lavorativa vissuta quotidianamente con forte stress in cui non si intravedono vie d'uscita. Si tratta di una reazione emotiva, cognitiva e comportamentale caratterizzata da progressivo allontanamento dalla fonte di malessere che non consente effettivamente di risolvere in modo efficace il problema. Viene concepito come una sindrome psicologica caratterizzata da tre dimensioni basilari: esaurimento emotivo, depersonalizzazione, diminuzione del senso di realizzazione e di autoefficacia. L'esaurimento emotivo corrisponde alla sensazione di trovarsi sfiniti, svuotati, bruciati. La depersonalizzazione è accompagnata invece da atteggiamenti negativi che scadono talvolta nel cinismo nei confronti sei soggetti a cui è rivolto l'aiuto e che caratterizzano quell'agire freddo di taluni professionisti. Il senso di riduzione dell'autoefficacia e della realizzazione personale, invece, si riferisce alla diminuzione del proprio senso di competenza ad un pervasivo senso di impotenza di valutazione negativa di se. Cherniss definisce il burnout come un processo trasazionale caratterizzato da tre fasi tipiche a) stress lavorativo b) tensione c) conclusione difensiva. L'eccesso di motivazione comporta un eccesso di coinvolgimento che, prolungato nel tempo, determina un aumento di stress, di ansia, e di dispendio di energia. La sensazione di aver raggiunto gli obiettivi porterà l'individuo a vivere un senso di benessere e di successo personale consentendogli al contempo di attribuire un significato al proprio lavoro. Al contrario, quando il lavoro comporta dei fallimenti, facilmente si innescherà il circolo vizioso che potrà condurre ad una progressiva riduzione della motivazione, e a lungo andare, al burnout. Proponiamo alcuni casi significatici con cui gli educatori si trovano a fare i conti nel lavoro educativo. SCRIVERE PAROLACCE SUI LIBRI DEI COMPAGNI Quinta classe primaria, una bambina trova diverse parolacce sul suo diario. Lo fa presente alla maestre e tornata a casa alla mamma. Quest'ultima va subito a protestare presso l'insegnante che avvia le indagini. Nei giorni seguenti le volgarità vengono trovate anche sui libri e sul diario nuovo. L'insegnante, minaccia la classe (niente compleanni, niente recite..) se non fosse venuto fuori l'autore al più presto. Alessia, autrice delle scritte, ascolta in silenzio. L'insegnante però, con l'aiuto degli altri bambini capisce che è stata lei, e dopo averla convocata separatamente, con atteggiamento inquisitorio, ottiene che la bambina confessi mentre piange disperatamente. Alla fine dice di essere pentita e promette di non farlo più. L'insegnante le chiede perchè l'abbia fatto e Alessia risponde che fin dal primo anno la compagna non aveva perso occasione per farle dei dispetti e per escluderla dal gruppo classe. Il ravvedimento e l'atteggiamento moralistico. La maestra di Alessia ha assunto un ruolo ispettivo, avviando degli interventi volti a scoprire l'autore del reato per poi farlo confessare e pentire. La logica soggiacente è di tipo moralistico e si concentra su quanto è esternamente osservabile aspettandosi un ravvedimento e la promessa di non farlo più. Abbiamo visto come la tendenza a centrarsi soltanto sul livello superficiale, esterno e l'appello all'autocontrollo abbiano diverse origini e da un punto di vista storico implichino una concezione di educazione e di educando non molto evoluta. L'intervento educativo ipotizzato punta sul livello esterno. Le strategie educative conseguenti sono rivolte, sostanzialmente al controllo del disagio, all'adattamento da parte del soggetto, all'elimiazione dei sintomi esterni. Manca lo sforzo di andare oltre i segnali immediatamente evidenti, la comprensione del significato reale, complesso differenziato e profondo che l'espressione del disagio e il comportamento problematico rivestono in termini di bisogni sottesi. La ricerca di opzioni efficaci. È fondamentale, in casi del tipo considerato, domandarsi cosa si possa fare di diverso. Innanzitutto occorre precisare a quale obiettivo educativo si intenda puntare. L'insegnante dovrebbe lasciare ad altri il lavoro di indagare; educare, in questo caso, vuol dire per prima cosa comprendere come mai l'allieva si metta ad imbrattare diario, libri e quaderni della compagna con delle parolacce. Il fatto che abbia subito dei dispetti fa ipotizzare che sia risentita e arrabbiata. Alessia attraverso il suo modo di agire rivela che non può permettersi di sentire e di usare apertamente la sua rabbia legittima verso la compagna. La bambina è stata educata a non usare la rabbia. Il clima poliziesco creato in classe non consente di perseguire alcun obiettivo educativo nella direzione dell'alfabetizzazione affettiva, ma rischia di rivelarsi antieducativo in quanto promuove ulteriormente l'analfabetismo di Alessia: la bambina può confermare la convinzione che non vada bene arrabbiarsi. Piuttosto di attivarsi per cercare il colpevole l'insegnante potrebbe domandarsi cosa possa fare per consentire ad alessia ed eventualmente anche agli altri compagni di darsi il permesso di vivere un'affettività a colori. È fondamentale insegnare ai bambini che va bene sentire e vivere la rabbia e che non c'è modo di nascondersi. Potrebbe aiutare Alessia a identificare cosa sete quando la sua compagna tente a escluderla o a farle dei dispetti. Può successivamente invitarla ad usare in maniera costruttiva quello che sente. Il docente deve, guardarsi dal rischio di attivare giochi psicologici; potrebbe assumere il ruolo di salvatore diventando particolarmente protettivo, o potrebbe diventare una specie di persecutore nei riguardi della compagna che esclude Alessia. È fondamentale che il docente resti fuori dai ruoli del triangolo drammatico e faciliti semplicemente il processo di crescita e di alfabetizzazione affettiva. Potrebbe invitarla ad essere diretta verso la compagna rispetto a quello che sente. L'insegnante può, in seguito. Intervenire sull'intera classe e avviare dei percorsi strutturati volti a promuovere l'alfabetizzazione affettiva in tutti i bambini. Ad esempio potrebbe proporre un esercizio in cui i bambini vengono invitati a sedere in coppie e a rispondere a turno alla seguente questione: vengo emarginato dai giochi di gruppo, cosa sento, cosa penso, cosa faccio? In una seconda fase può chiedere ai bambini quali opzioni hanno prodotto ed aiutarli ad identificare i sentimenti più comuni emersi. L'AGITAZIONE ECCESSIVA DINANZI AL COMPITO Una bambina del primo anno primaria, Loredana, che manifesta dei comportamenti che preoccupano e infastidiscono i docenti. La classe presenta delle difficoltà sia a causa della presenza di un numero cospicuo di alunni che necessitano di interventi particolari, sia per la presenza di due bambini con handicap. Loredana a parere dei docenti “una bambina difficile sia da contenere quanto da gestire”, suscita dei problemi relazionali per la sua difficoltà perfino all'interno del team. Fin dai primi giorni ha manifestato insofferenze, intolleranza,per avendo buone abilità cognitive non riesce a lavorare sui compiti assegnati. Nei momenti in cui si cimenta nello svolgimento di qualche compito manifesta irrequietezza e agitazione. In tali occasioni facilmente diventa aggressiva fino al punto di distruggere i suoi quaderni e aggredire i compagni. I genitori di difendono attribuendo il disagio della figlia alla nascita di un fratellino che attualmente ha tre anni. Sottolineano che non si registrano comportamenti simili al di fuori della scuola. L'insegnante di sostegno si è resa conto che il disagio di Loredana e i comportamenti che l'accompagnano, si moltiplicano e si amplificano a dismisura in concomitanza con l'aumentare delle richieste di maggior impegno da parte degli insegnanti. Per poter gestire il caso indicato, il primo passo è quello di capire cosa viva la bambina. Il secondo è quello di scoprire cosa gli insegnanti possano fare oltre a riprenderla o a convocare i genitori chiedendo loro di intervenire perchè la bambina in classe si comporta male. Un episodio: l'insegnante di sostegno è colpita dalla reazione della bambina in occasione di un suo errore. Mentre scrive alla lavagna l'insegnante commette un errore di trascrizione. Loredana reagisce in modo sproporzionato e sicuramente inusuale. Ripetendo più volte che in nessun modo l'insegnante possa sbagliare “le maestre non sbagliano mai” “le maestre non possono sbagliare”. Genitore interno, agitazione, inazione. Per meglio comprendere la reazione della bambina vale la pena di prendere a prestito dell'analisi transazionale il costrutto di stato dell'io genitore; è utile un esempio: una visita ad un amico tempo fa, si avvicino la figlia, una bambina di pochi anni, col telecomando del televisore in mano. Dopo aver mostrato il telecomando al papà, con la mano libera si diede delle pacche sulla mano che teneva il telecomando e, alzato l'indici, mosse più volte la mano come per dire: “no non si fa”. Posato il telecomando andò via e riprese a giocare. È intuitivo ipotizzare che quei comportamenti probabilmente somigliano a quelli che il papà ripetutamente ha messo in atto nei suoi riguardi per insegnarle a non toccare il telecomando. La bambina stava mostrando il processo di interiorizzazione delle aspettative, dei comportamenti e degli atteggiamenti del genitore reale: si tratta di moniti che avrebbe usato in futuro con se stessa o con gli altri come in una registrazione. Tornando al caso di Loredana. La bambina ha svliluppato una parte interna nota come genitore critico, fino al punto da non consentirle di accettare che lei o altri possano commettere errori di alcun genere. Probabilmente lo stile educativo adottato dai genitori è stato inflessibile e severo e orientato all'evitamento dell'errore ad ogni costo. L'atteggiamento educativo in occasione di errori Le risultanze degli studi relativi alla didattica dell'errore per un verso e le ricerche condotte in campo sia clinico, sia educativo, hanno consentito di riconsiderare l'errore e l'atteggiamento educativo al riguardo. La didattica dell'errore si mostra particolarmente attenta alla valenza positiva dell'errore. Lo sbaglio facilmente è considerato un evento negativo da evitare e gli allievi fin da piccoli imparano ad accompagnarlo con sentimenti quali paura, vergogna, senso di inadeguatezza. L'errore commesso dal docente, inoltre non riceve una considerazione positiva. Dal punto di vista psicologico l'imperativo interno a cui il soggetto risponde è il messaggio “sii perfetto”. Poiché risulta pressocchè impossibile non sbagliare, il problema non si risolve insegnando ai bambini ad evitare di commetere errori, quanto insegnando come crescere sui propri errori, ma soprattutto che tipo di atteggiamento mantenere una volta che si è sbagliato. Occorre pertanto passare da una didattica che penalizza l'errore ad una nuova didattica dell'errore che lo consideri un'occasione per apprendere. È fondamentale che l'insegnante si presenti come modello e mostri come porsi rispetto all'errore. Non c'è bisogno che si giustifichi e tanto meno che cerchi di insabbiare. L'insegnante considerato, darebbe una lezione notevolmente efficace a Loredana se riuscisse a mostrarle come ci si possa dare il permesso di non essere perfetti senza perdere il senso di adeguatezza, come L'atteggiamento iperprotettivo e le sue incognite. Un atteggiamento comune dinanzi a persone con handicap e bisognose di aiuto, si esprime attraverso un'eccessiva protezione. Tale manifestazione si può osservare, ad esempio, nel tentativo di organizzare le condizioni di vita generale in modo tale che non si presentino nemmeno le occasioni perchè il soggetto debba incorrere nelle difficoltà. Una seconda manifestazione dell'atteggiamento ipeprotettivo riguarda la tendenza di chi si attiva oltre misura e in maniera esagerata per aiutare chi soffre: ad esempio alcuni genitori, piuttosto che consentire al figlio di vivere alcune esperienze giudicate umilianti preferiscono impedire che egli si sperimenti mostrando la sua incapacità nell'eseguire adeguatamente un movimento, un compito. Il bambino con handicap subisce i maggiori impedimenti proprio da parte di chi vorrebbe aiutarlo: non pochi educatori, infatti si prefipitano cercando di aiutarlo perchè egli non incontri ostacoli. Tale atteggiamento interferisce con il bisogno fondamentale del soggetto di alzarsi sulle proprie gambe ed alimenta la passività e la conseguente dipendenza. Esso risulta, in pratica, l'esatto contrario di quello che dovrebbe fare l'educatore: promuovere l'autonomia, l'indipendenza, la consapevolezza dei propri limiti e delle proprie possibilità, l'autosostegno. L'atteggiamento attivistico che intende far recuperare un ritardo o uno svantaggio produce, nella maggior parte dei casi, degli effetti paradossali. Infatti non rispettando tempi, ritmi, interessi del bambino, tale atteggiamento tende facilmente a stancarlo, a distrarlo e di conseguenza a passivizzarlo e a demotivarlo. È ovvio che si tratta di reazioni dettate più dall'emotività che da un esame adeguato ed efficace della realtà. Il salvatore l'atteggiamento iperprotettivo va messo in relazione con quello che nell'ambito dell'analisi transazionale è definito di “salvatore”. Karpan contempla tre ruoli tipici:persecutore, salvatore e vittima. Caratteristica essenziale del ruolo di salvatore è quella di prodigarsi più del dovuto, di fare delle cose spesso non richieste e a volte nemmeno gradite. I discenti vengono visti come dei poveretti, bisognosi di aiuto, deboli e vulnerabili. Diventa un salvatore il docente iperportettivo, quello che è particolarmente largo di voti ecc. Se il docente adotta il ruolo di salvatore, facilmente tenderò a incoraggiare e ad enfatizzare il positivo oltremisura rendendo vana ed inutile la valutazione e la sua essenza che è quella di promuovere un immagine di se nell'allievo realistica e rispondente alla realtà. Il salvatore mantiene un atteggiamento permanente di superiorità che lo porta a considerare gli altri facilmente bisognosi ed incapaci di fare a meno del suo aiuto. Va però osservato che questa posizione sociale esibita nasconde il dubbio che egli ha su di sé riguardo all'idea di valere e di essere importante da cui nasce il bisogno di aiutare, di essere utili. Dinanzi all'indulgenza eccessiva l'allievo facilmente ipotizza che l'insegnante pensi che egli abbia scarse capacità e, di conseguenza, eviterà di continuare ad impregnarsi nello studio. Quando una persona assume il ruolo di salvatore agisce facilmente per sistemare delle questioni interne più che esterne. La posizione di vittima è complementare a quella del salvatore ed è mantenuta da molti educandi o da molti allievi, come si evince dal seguente esempio (insegnante di sostegno e allievo con handicap) insegnante: Giovanni, adesso prova tu a colorare il disegno della scheda. L'allievo rimane in silenzio e immobile poi comincia ad urlare. Insegnante: dai su tieni il colore; l'allievo comincia a piangere. Insegnante: “non ti preoccupare, vedrai che imparerai (nel frattempo gli colora il disegno) l'allievo all'improvviso appare sereno. L'allievo agisce da una posizione di vittima perchè svaluta le sue potenzialità, le sue capacità e, indirettamente chiede di essere salvato e che l'altro faccia le cose al posto suo. L'interlocutore assume il ruolo complementare di salvatore. La terza posizione è quella del persecutore, tipica di chi nelle interazioni sminuisce il partner, lo svaluta attaccandolo psicologicamente e, in certi casi fisicamente. La proposta non è quella di rinunciare ad aiutarle gli altri, ma di farlo in modo adeguato, efficace e soprattutto pulito. Occorre che l'aiuto sia necessario all'educando e che non gli impedisca di fare quanfo può o che sa fare da se; è fondamentale evitare di sostituire l'altro o di fare delle cose al posto dell'altro. QUANDO LA RABBIA DELL'INSEGNANTE LIEVITA A DISMISURA Luca 4 anno primaria, è descritto dall'insegnante come un bambino vivace che ama scherzare e che facilmente esagera nel preferire battute fino al punto di non controllarsi; l'insegnante lo riprende delicatamente ma lui continua fino ad arrabbiarsi decisamente. Un giorno durante la spiegazione l'insegnante fa una battuta. Luca coglie al volo l'occasione per rispondere con una sua battuta umoristica. La docente cerca con lo sguardo di fargli capire di fermarsi ma Luca ha già deciso di iniziare a fare baccano fino ad arrivare a trascinare il compagno ad alzarsi cantare e ballare ripetendo le parole dell'insegnante. Appurata l'inefficacia dei suoi interventi volti a contenerlo, l'insegnante prende per un braccio Luca, lo porta fuori dall'aula di forza e gli intima di non permettersi mai più. L'insegnante pero si sente confusa per l'aumento della rabbia nei confronti di Luca che sente dentro di se fino a diventare perfino pericolosa. Nella situazione descritta la rabbia viene soltanto internamente percepita abnorme, ma non presenta espressioni esterne pericolose. Esistono diverse situazioni analoghe in cui la rabbia diventa aggressiva. È frequente interpretare situazioni del genere come l'esito della presenza di qualche problema nel ragazzo. È facile che ci si focalizzi, pertanto unicamente sul bambino e sul comportamento trascurando che esiste anche il problema del docente. Il primo elemento è dato dal fatto che l'insegnante è particolarmente preoccupata che il fare di Luca crei una situazione incontrollabile. Abbiamo chiesto all'insegnante che succede se Luca continua a far tanto baccano “finisce che tutti gli vanno dietro” - “e allora?” - “se lui continua non si riesce più a fermare la classe diventa ingovernabile” - “come mai? Qual è il problema se tutti urlano e danzano senza fermarsi?” - “i genitori penseranno che non sono nemmeno capace di tenere la classe” Dietro il controllo esasperato da parte dell'insegnante nei riguardi di Luca è presente la fantasia del giudizio negativo da parte dei genitori. Se l'insegnante si desse il permesso di rilassarsi probabilmente potrebbe accogliere la battuta iniziale del bambino, senza trovarci nulla di male potrebbe ridere insieme a lui e dopo un po potrebbe invitare tutti a tornare a lavorare. Il controllo da parte del docente. Gli educatori scivolano facilmente in atteggiamenti autoritari e questo è un errore. Gli educatori trascorrono troppo tempo a cercare di imporre la disciplina invece di dedicarlo all'insegnamento in quanto ricorrono alla minaccia di punizioni che non risultano efficaci. Franta ha sottolineato che nell'atteggiamento dell'educatore si possono individuare almeno due dimensioni che si possono intendere come componenti dell'atteggiamento: dimensione emozionale e dimensione controllo. La dimensione C, può variare lungo un continuum che oscilla da un massimo ad un minimo. In particolare alti livello di controllo caratterizzano messaggi e stili direttivi. Messaggi che contengono un'aliquota media di direttività sono considerati democratici efficaci da parte del docente. Stili caratterizzati da bassi livelli di controllo denotano atteggiamenti lassez-faire, contrassegnati da passività. La presenza fondamentale per realizzare interventi efficaci è quella di comprendere cosa è presente dietro l'aumento smisurato della rabbia. Percorsi interni e ruolo della simbiosi. Approfondiamo i percorsi interni che possono condurre un educatore a sentire forte rabbia. Un primo elemento fondamentale nell'esempio riportato è dato dalla presenza di una sorta di causalità lineare tra comportamento dell'allievo e reazione dell'insegnante: il docente è convinto che se l'allievo smettesse di fare quel che l'infastidisce, la sua rabbia non lieviterebbe; ha il senso che sia l'allievo che gli cause la rabbia attraverso il suo comportamento. Questa convinzione è il segno della presenza di un legame simbiotico tra l'insegnante e la situazione. Nessuno è in grado di determinare un emozione. Anche se nel linguaggio comune sono frequenti frasi del tipo “mi fai arrabbiare”. Ogni emozione, infatti, nasce dalla risposta personale e soggettiva dinanzi a ciascuna situazione, dinanzi al comportamento di un altro. Il secondo elemento che caratterizza il caso è che dal momento in cui l'insegnante nega a se stesso il proprio potere ha il senso che l'unica possibilità per risolvere la situazione passi attraverso l'altro, attraverso il cambiamento dell'altro. Il successo o l'insuccesso non dipendono esclusivamente dall'agire del docente. Una parte di responsabilità gli appartiene, ma non tutta. Quella parte di responsabilità, da sola non alimenterebbe reazioni fuori misura, ma delle preoccupazioni legittime su come gestire la situazione. Il clima della classe ingovernabile diventa una prova del proprio fallimento. Ne deriva una specie di rabbia da frustrazione ed è facile che si giunga a manifestare delle reazioni di tipo violento. IL PIAGNUCOLIO INTOLLERANTE Luigina, fin dal momento all'ingresso nella scuola dell'infanzia non smette di piangere. L'insegnante non nasconde di essersi sentita provata “non c'era modo di farla smettere” “me ne ha dati di problemi, fino al punto di farmi venire l'esaurimento, da morire!” La donna sottolinea che in 30 anni di servizio non le era mai capitata un'esperienza tanto difficile fino al punto che ripensando alla bambina , stava male anche quando era a casa, si sentiva nervosa pensando che sembrava che nulla funzionasse. Durante l'incontro di gruppo viene invitata a prendere parte ad un role play. In particolare è stata invitata in un primo momento, a drammatizzare il ruolo dell'allieva mentre un'altra collega è stata invitata a simulare il ruolo della maestra. Nella secnda fae i ruoli sono stati invertiti ancora una volta. La simulazione ha lo scopo di consentire all'educatore di sentire e di capire al meglio la reazione dell'allieva. Il risultato è un'amplificazione dell'empatica sia rispetto a se stessi come educatori, sia nei riguardi dell'educando. Una parte del role play: Luigina piange in silenzio; l'insegnate chiede “che c'è? Ti ha fatto male qualcuno, perchè piangi?” Luigina non risponde, però continua a piangere. I. “cosa dobbiamo fare? Forse vuole la mamma, la mamma poi viene a prenderti! Va bene bambini possiamo continuare?” Luigina continua a singhiozzare e a piagnucolare. I. “facciamo finta di non sentirla, noi continuiamo” Luigina piange insistentemente; I. “ smettila Luigina. Ti metto sola se non la smetti!” Luigina continua. Vivendo il ruolo della sua scolara l'insegnante ha capito adeguatamente quanto la bambina vive: è triste e si sente incompresa. Coglie, in particolare, che il suo fare, volto a invitare la bambina a mettere da parte quello che sente non serve. Si tratta di interventi inutili dal punto di vista educativo. Ancora una volta esiste un problema che appartiene all'allievo ed un altro che appartiene al docente. L'analisi dei percorsi interni L'intolleranza dinanzi al lamento dell'altro rappresenta un capitolo della psicologia interessante. Va premesso che alcuni si lamentano in maniera persistente e smisurata. Probabilmente si tratta di soggetti che hanno appreso che risulta vantaggioso lamentarsi. È necessario operare uno spostamento di prospettiva incentrando l'attenzione sulle reazione al lamento. Vi sono persone, infatti, che dinanzi al lamento di un altro reagiscono in modo smisurato; vi sono alcuni che manifestano indifferenza; vi sono persone che reagiscono furiosamente. È noto al riguardo il caso della madre che giunse a gettare il figlio dalla finestra perchè piangeva e non smetteva: la donna svelò di essere giunta a tale gesto in quanto non sopportava pi di sentirlo piangere. Occorre chiedersi e capire come si giunga a tali reazioni. Il primo punto fondamentale da cui partire riguarda il fatto che l'educatore, in questo caso, nega all'altro il diritto di lamentarsi, di esternare il suo lamento. Si tratta di capire come mai la reazione del docente diventa intolleranza. Come mai questa manifestazione esagerata? Potrebbero essere presenti delle esperienze, nella storia di chi ascolta il lamento, che ne amplificano la percezione o la reazione. La sofferenza dell'altro per alcuni costituisce la negazione dell'esistenza, divertente e ludica (è finita la festa). La brutalità che caratterizza certe reazioni in fondo riassume il bisogno di preservare e di difendere se stessi dalla minaccia che può derivare da chi si lamenta. Nelle reazioni violente è presente una sorta di ricatto nei riguardi dell'altro che, segnala la presenza di un'insopportabilità che appartiene all'educatore e non a chi si lamenta. Tali elementi segnalano la presenza di una relazione di tipo simbiotico: la sofferenza diventa un richiamo intollerante in quanto manca la separazione tra se e l'altro; manca un