Scarica Gestire il disagio a scuola e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! GESTIRE IL DISAGIO A SCUOLA Giombattista Amenta SUNTO Bambini che si agitano in maniera più produttiva dinanzi al compito, bambini che non partecipano alle attività proposte in classe, bambini che giocano disturbano impedendogli agli altri di lavorare… Il presente volume si propone di offrire agli educatori (insegnanti, genitori…) indicazioni strumenti concreti per comprendere meglio, ed intervenire in situazioni del tipo indicato. Gestire disagio inoltre risulta vantaggioso anche per il docente che, così facendo, avrà modo di rispolverare le proprie risorse, eliminando una fonte di stress ottenendo qualche soddisfazione in più. SILVIA PAVIGLIANITI Scienze e tecniche psicologiche Silvia Paviglianiti (543472) CAPITOLO PRIMO: IL DISAGIO NEI CONTESTI EDUCATIVI...........................................................................................1 DEFINIZIONI DI DISAGIO..........................................................................................................................................................2 CARATTERIZZAZIONI E FORME..................................................................................................................................................2 SUPPOSIZIONI E PROPOSTE INTERPRETATIVE...............................................................................................................................3 OSSERVAZIONI CONCLUSIVE.....................................................................................................................................................8 CAPITOLO SECONDO: COMPRENDERE E GESTIRE IL DISAGIO....................................................................................8 ATTEGGIAMENTI COMUNI DINANZI AL DISAGIO...........................................................................................................................8 INTERVENTI COMUNEMENTE IMPIEGATI PER GESTIRE IL DISAGIO....................................................................................................9 ALCUNE PROPRIETÀ DEGLI INTERVENTI IMPRODUTTIVI................................................................................................................10 DECODIFICARE E GESTIRE IL DISAGIO.......................................................................................................................................11 CAPITOLO TERZO: OPPOSIZIONE, RIFIUTO E CONFLITTO EDUCATIVO......................................................................13 MODALITÀ COMUNI PER GESTIRE LA «RESISTENZA» DELL’EDUCANDO...........................................................................................13 IL CONFLITTO EDUCATIVO......................................................................................................................................................14 LA RICERCA DI OPZIONI EFFICACI: SUGGESTIONI E RIFLESSIONI......................................................................................................15 INDICAZIONI E PROPOSTE OPERATIVE......................................................................................................................................16 OSSERVAZIONI CONCLUSIVE...................................................................................................................................................17 CAPITOLO QUARTO: PROBLEMATICHE EDUCATIVE: COSA SI FA DI SOLITO, COSA SI PUÒ FARE DI DIVERSO..............17 SCRIVERE PAROLACCE SUI LIBRI DEI COMPAGNI.........................................................................................................................17 L’AGITAZIONE ECCESSIVA DINANZI AL COMPITO.........................................................................................................................18 LA RABBIA E L’IRRITAZIONE INTOLLERANTE...............................................................................................................................19 IL TORMENTO INUTILE..........................................................................................................................................................19 QUANDO LA RABBIA DELL’INSEGNANTE LIEVITA A DISMISURA......................................................................................................20 IL PIAGNUCOLIO INTOLLERANTE..............................................................................................................................................20 INTRODUZIONE È fondamentale individuare le relazioni e le dinamiche distruttive in ambiti educativi. Le ricerche condotte in ambito clinico e educativo documentano l’inefficacia dei comuni interventi educativi, evidenziando la necessità di cogliere il disagio alla radice. Spesso il disagio è collegato all’assenza di valori, di validi modelli genitoriali e educativi, alla riduzione dell’autorità paterna e alla sua carente presenza. Nonostante questo sia inconfutabile, bisogna estendere il campo di studio. Con i minori a disagio, gli operatori delle comunità tendono a sfruttare eccessivamente la sensibilità che, in certi casi, risulta paradossale. Si rischia di voler modificare il comportamento esteriore rifacendosi ai principi cari al comportamentismo (rinforzo negativo e positivo). Inoltre, sorprende come molte guide educative parlino di “insegnamento delle regole”, come se i bambini non le trasgredissero ma semplicemente non le conoscessero. Il disagio è qualcosa di più complesso della occasionale frustrazione dei bisogni, e viene alimentato dalla difficoltà cronica, percepita e vissuta dal bambino, di non poter soddisfare i propri bisogni. È l’esito del senso di fallimento derivante dall’aver ripetutamente preso atto che i mezzi e gli strumenti di cui si dispone non sono adeguati di fronte alle situazioni e per trovare un adattamento inteso come integrazione. CAPITOLO PRIMO: IL DISAGIO NEI CONTESTI EDUCATIVI Il termine «disagio» si è affermato alla fine degli anni ’70, come chiave di lettura delle categorie «forti» di devianza e marginalità allora dominanti. Il concetto, povero di contenuti, esprime la perdita di rilevanza delle problematiche giovanili e la consapevolezza del fallimento del disegno sociale e politico, proprio delle generazioni del ’68 e post. Durante il fallimento delle varie devianze, il disagio viene favorito perché è meno connotato ideologicamente e applicabile a più individui. Dall’esame della letteratura psicopedagogica e psicosociologica sul disagio si constata che la maggior parte dei contributi si focalizza sulla fascia giovanile e in pochi casi su quelle adolescenziali e pre-adolescenziali. Pochi sono gli studi riguardo il disagio giovanile, una grave carenza. Se da una parte ha senso riferirsi ai modelli evolutivi che suddividono lo sviluppo in più fasi, dall’altra parte molti disagi sono «trasversali» ed altri, individuabili in età giovanile, scaturiscono da percorsi avviati molti anni prima e gettano le radici in momenti antecedenti. Pag. 1 a 22 Silvia Paviglianiti (543472) l’analfabetismo educativo! La pedagogia speciale, la cui prerogativa fondamentale è quella di cogliere il problema e interpretarlo, ci avverte di questi rischi. SUPPOSIZIONI E PROPOSTE INTERPRETATIVE La singola causa non è riconducibile al disagio: si possono individuare cause diverse ed una stessa causa può determinare effetti differenti e non sempre prevedibili, poiché i fattori correlati sono molteplici e talvolta aspecifici e ignoti. Lo studio usufruisce di modelli multifattoriali-sistematici, fondati su approcci causali di tipo statistico-probabilistico, anziché lineari e deterministico. PREMESSE, ANTECEDENTI E LUOGHI DEL DISAGIO È necessario seguire la storia del soggetto per individuare problematiche ricorrenti e incidenti a livello di ambienti di vita e di relazione (es. in famiglia, a scuola ecc.). Inoltre, si considerano quelle situazioni viste come vere premesse del disagio: limiti psicofisici, socio-economici. RUOLO DELLE DIFFICOLTÀ E DEGLI SVANTAGGI Il disagio obiettivo è caratterizzato da svantaggi in vari ambiti della vita: si parla di handicap, deficit e menomazioni che gravano sulla salute del soggetto. Anche se la nostra legislazione sull’handicap risulta qualificata, nella pratica, le resistenze e i pregiudizi attivano nei soggetti cosiddetti «normali» processi di esclusione e discriminazione. Il disagio si fa risalire anche alla condizione socio-economica e culturale, del soggetto e della famiglia d’appartenenza: la marginalità sociale e la povertà. Quindi, le dimensioni da cui deriva il disagio sono: appartenenza di classe sociale, collocazione nel sistema produttivo, livello di consumo e stili di vita, opportunità di istruzione e di accesso ai servizi, capacità di resistere all’emarginazione. INCIDENTI NELLA CARRIERA SCOLASTICA La scuola ha un alto tasso di problematicità, quali l’irregolarità, l’abbandono precoce o anticipatario, che sfociano nel disagio, del quale si distinguono tre forme: La selezione palese coinvolge coloro ai quali si preclude il passaggio alla classe successiva, mediante la bocciatura; La selezione occulta è il contrario, quindi non c’è alcuna preclusione, ma la scuola non badando alle difficoltà induce gli allievi ad incontrare ostacoli che possono fare cadere nella selezione palese. È perciò intesa come selezione differita e indiretta, perché l’istituto non boccia direttamente, ma nemmeno aiuta l’alunno; L’abbandono scolastico è il ritiro dalla scuola da parte dell’allievo. Sottolineiamo che tali fenomeni sono accompagnati dalla difficoltà relazionale tra alunno e scuola, e si manifestano prevalentemente nel passaggio tra la scuola secondaria di primo grado e la seconda di secondo grado. Fenomeno come il drop out, l’insuccesso scolastico, il disadattamento… sono di complessa interpretazione: gli educatori sono carenti nella cognizione articolata e analitica delle funzioni, delle dinamiche di scarso rendimento. Quindi, la scuola ha bisogno di attrezzi adeguati alle necessità degli alunni, che rischiano spesso di venire ulteriormente frustrati dal confronto con i soggetti fortunati. Le reazioni vanno dal più passivo e accondiscendente conformismo alla massa alla più manifesta opposizione alle attese della scuola e degli adulti, che può sfociare in carriere devianti e delinquenziali. I docenti devono cogliere ogni sintomo, esplicito e implicito, anche riguardo alle sconfitte nella classe «implicita», «segreta», fatta di drammi affettivi ed esclusioni dal gruppo classe. Bisogna intervenire per evitare che l’alunno, pur di essere accettato, diventi il buffone della classe, il terribile, scocciante e noioso eroe negativo. Quando le agenzie negative falliscono nell’accogliere il disagio del soggetto, alcuni si rivolgono alla strada, l’ultima spiaggia, luogo a cui ci si rivolge per avere risposta al proprio disagio, luogo meno esigente della scuola o della famiglia, in cui non vigono leggi o regole. LE FRUSTRAZIONI NELLA VITA DI RELAZIONE Molti antecedenti del disagio originano da difficoltà relazionali: a livello familiare (conflitti persistenti, separazioni, divorzi), famiglie incomplete o in cui i genitori sono assenti, abbandono, abuso, trascuratezze fisiche e affettive e danno ai minori. Gli psicologi hanno dimostrato come le diverse forme di rifiuto e il sentimento di abbandono, che si manifestano in gravi forme di disadattamento, possono sfociare in: suicidio, fughe, alcool, esplosioni improvvise di violenza immotivata e gratuita. IL DISAGIO FRA DISADATTAMENTO E IPERADATTAMENTO I soggetti portatori del disagio sintomatico sommerso sono caratterizzati dalla difficoltà di integrazione, a causa delle competenze richieste dalla società, avviando così percorsi che conducono al disagio. Il disagio nasce dalla carenza nella Pag. 4 a 22 Silvia Paviglianiti (543472) capacità adattativa alle logiche e ai criteri che caratterizzano i vari sottosistemi. Le dinamiche sono state approfondite nella psicopedagogia, i cui studi vanno dal deficit del soggetto ai processi transazionali tra l'individuo e le strutture sociali. Dagli anni ‘50 ad oggi si è passati a diversi approcci, riassumibili con le seguenti formule: C = f (P) → il comportamenti in funzione della personalità; C = f (P × A) → il comportamento in funzione dell'interazione tra personalità e ambiente. Piaget (biologo ed epistemologo) intende l'adattamento come equilibrio dinamico tra assimilazione ed accomodamento: applicando il modello all'interazione individuo-ambiente, individua un processo di accomodamento passivo del soggetto alle pressioni ambientali e un processo di assimilazione volto a adattare l'ambiente a sé, per soddisfare i bisogni. Ci sono diverse forme di adattamento in relazione ai sistemi sociali: conformità, innovazione, ritualismo, rinuncia, ribellione. Nonostante il disadattamento sia concepito come la scarsa capacità di inserimento attivo e creativo nella società e nelle istituzioni, l'ideale educativo è l'integrazione vista come possibilità di entrare in accordo con la realtà e di trasformarla in modo attivo e creativo. Essa è complicata e ostacolata dal sistema economico del calcolo e dei costi. È un apparato che porta il singolo ad interessarsi a guardarsi dagli altri per timore di essere ingannato o danneggiato, e crescendo si vanno a instaurare dei processi di difesa da alcune dimensioni fondamentali come l'affettività, l'interdipendenza. La questione dell'adattamento e del disadattamento non è complicata fino a quando non si parla di iperadattamento. Un modello utile alla comprensione dell’adattamento, disadattamento… può essere l’Analisi Transazionale che, a proposito dello stato dell’Io Bambino, ha distinto un comportamento libero e un comportamento adattato. Il comportamento libero si distingue per la spontaneità: il Bambino Adattato agisce in modo controllato e compiacente, come se fossero presenti i genitori. Vengono classificati nella stessa categoria sia il comportamento competente, sia il comportamento disadattato ribelle, poiché entrambi espressione del Bambino Adattato. Infatti, c’è una similitudine fra conformismo e ribellione: questi non sono comportamenti liberi ed espressivi, ma dipendenti. 1. Il fare espressivo ha come riferimento la persona nella sua autenticità. “Agire per essere” valorizza la persona che agisce e riconduce l'azione al significato oggettivo. 2. Il fare dimostrativo, sia di tipo ribelle, sia di tipo conformista, ha come riferimento gli altri, anche se l'azione può essere identica alla precedente, ma l'intenzione da’ una connotazione differente. “Agire per” acquista valore se consente al soggetto di perseguire l'obiettivo implicito, ossia la risposta dagli altri. È importante sottolineare come un certo grado di adattamento sia fondamentale, mentre un eccesso di adattamento costituisce un segnale di disagio. Non solo i comportamenti di ribellione e aggressività devono essere segnalati, ma gli educatori devono prestare attenzione agli atteggiamenti ipermaturi e iperadattati dei minori, cioè l'effetto del grado di adattamento. Gli ipermaturi sono bambini che agiscono come se fossero molto più grandi: manifestano autonomia, sicurezza, auto- sostegno, che evidentemente non hanno. Si trasformano in figure genitoriali protettive. La forma di adattamento sproporzionato va a discapito dello sviluppo del sé autentico, per lasciare spazio alla costruzione del falso se. Questo tipo di disagio viene spesso sottovalutato poiché visto come comportamento auspicabile e da incoraggiare. La svalutazione di sé e la scarsa considerazione e riconoscenza è all'origine del comportamento adattato fuori misura, che si manifesta nel conformismo o nell'agire di belle. Le espressioni dell'agire adattato sono quindi quella conformista e quella ribelle, e in entrambi i casi l'orizzonte di riferimento sono gli altri e non se stessi. L'educatore può intervenire sostituendo un dato percorso educativo caratterizzato da iperadattamento con percorsi alternativi espressivi del sé. DISAGIO, VIOLENZA E ABBANDONO Nella società odierna, sembra dominare la cosiddetta cultura della morte, come si può notare dall'aumento dell'aborto, al calo delle nascite. All'origine di ciò, risiedono fattori socioculturali, che ruotano attorno alla perdita progressiva del senso di sacralità e d’inviolabilità della vita umana, allo sviluppo di una concezione della vita materialistica, all’identificazione della felicità col benessere materiale e fisico. La violenza che annienta i minori, limitando il loro diritto all'esistenza, è fondamentalmente psicologica e educativa, non solo fisica. Queste forme di abbandono comportano non solo l'aumento di bambini denutriti o malati fisicamente, ma di bambini trascurati dal punto di vista affettivo, psicologico e educativo. Aumentano i figli dell'abbandono, soggetti psicologicamente denutriti a causa dei rapporti superficiali o occasionali con i genitori, che spesso delegano il proprio ruolo ad altri. L'assenza del genitore porta, talvolta, il bambino a smettere di essere tale, a crescere. Il principale sintomo è l’atteggiamento di insensibilità diffusa dominante nella nostra società: indifferenza riguardo a bambini, adolescenti e giovani, che nasce da una crisi di fiducia verso la vita. C'è un'evidente rifiuto del prendersi cura Pag. 5 a 22 Silvia Paviglianiti (543472) dei minori, manifestato dalla diminuzione delle nascite. Altri sintomi fondamentali sono la violenza verso i minori che precede o accompagna l'abbandono o getta le premesse per i comportamenti di fuga da parte del figlio, l'abuso, le violenze sessuali. Qual è il problema della società attuale? La società attuale è incentrata su di sé, è preoccupata del proprio futuro; perciò, non dispone di tempo ed energie per mettere al mondo bambini. Manca il senso di protezione e di sicurezza necessari per potersi aprire la vita, la gente si sente minacciata e preferisce investire l'energia in cui di cui dispone per conservarsi e preservarsi. Questo atteggiamento comporta un cambiamento antropologico: “Noi, prima di tutto”. La paternità e la maternità responsabile, che caratterizzano la generatività, si coniugano con difficoltà col calcolo e con l'eccesso di pianificazione. Sono elementi che segnalano la tendenza al controllo, una forma di strategia difensiva per gestire l'ansia e l'insicurezza. Una formula per riassumere la situazione della società attuale è il binomio generatività-stagnazione: La generatività è caratterizzata dall'atteggiamento volto a creare, curare, prendersi cura e guidare figli e le nuove generazioni; La stagnazione deriva dalla carenza di generatività, quando gli individui cominciano a comportarsi come se loro stessi o il proprio partner fosse l'unico figlio, unico oggetto d'amore. DISAGIO E FRUSTRAZIONE DEI BISOGNI Dagli anni ‘50 e ‘70 sono state recuperate le interpretazioni che considerano anche il contesto sociale e ambientale. L'esperienza soggettiva di patimento, quale esito dell'insoddisfazione della privazione, è una costante che accompagna il disagio, come sintomo della presenza di bisogni insoddisfatti. In base ai bisogni frustrati o insoddisfatti si distinguono diversi tipi di disagio: “Nuove povertà” → il disagio derivante dalla frustrazione dei bisogni di tipo primario; “Emarginazione” → frustrazione dei bisogni di integrazione, di appartenenza; “Disagio esistenziale” → frustrazione del bisogno di autorealizzazione. Una risposta inadeguata alle esigenze, che sono fondamentali per la progettualità dell'individuo, porta il soggetto in una condizione di rischio: cede la sua capacità progettuale, ossia la proiezione nel futuro e autorealizzazione personale. I bisogni dei minori sono considerati oggetto di insensibilità e indifferenza sociale fino a portare qualcuno a parlare di "esseri invisibili per forza”, “generazione invisibile”, “generazione che non si vuole vedere”. Il bisogno negato è il bisogno di esistere. Da qui derivano tutte le forme di violenza adolescenziale, alimentate dal bisogno di emergere da un abisso di impotenza e di incomprensione. La negazione di questo bisogno comporta molti atti vandalici, volti alla riacquisizione del diritto al bisogno di essere visti. L'individuazione e la determinazione dei bisogni educativi sono momenti fondamentali della programmazione educativa, perché su essi vanno progettati gli obiettivi. Sul campo educativo possono essere identificati diversi tipi di bisogno: 1. Bisogno come scostamento verso il basso rispetto ad una norma in cui il soggetto manifesta in una qualche dimensione della sua realtà personale in una deficienza rispetto a un livello standard definito come normale o standards con cui confrontarsi; 2. Bisogno come desiderio presente nell'animo di una persona che si rileva chiedendole di cosa sente il bisogno; 3. Bisogna inteso come domanda che si basa sull'assunto che se uno sente un desiderio facilmente lo manifesterà il prossimo, magari in forma in diretta; 4. Bisogno come esito del confronto con altre persone o con altre situazioni simili ma che possiedono qualcosa in più. Il bisogno nasce dalla discrepanza tra come le cose dovrebbero essere o come si vorrebbe che fossero e come di fatto sono, deriva da uno squilibrio che origina dal raffronto tra la situazione reale e quella ideale. Un modello di riferimento per comprendere il rapporto fra tra frustrazione dei bisogni e disagio è quello proposto da Weiss. L'assunto di base è che dietro il disagio si può individuare qualche bisogno frustrato, e il modello illustra l'espressione sana del bisogno e delle emozioni, che diventa problematica fino a sfociare nel disagio. Secondo questo, l'espressione naturale del bisogno è il passo iniziale per ogni individuo, e una volta raggiunta la consapevolezza, il bisogno può essere appagato oppure no: Se il bisogno è appagato, la persona rimane sana e libera di occuparsi del bisogno successivo Se hai bisogno non è appagato, il soggetto manifesta reazioni differenti come paura o tristezza. Pag. 6 a 22 Silvia Paviglianiti (543472) che questo stile trasforma il docente in una specie di martire, che si individua facilmente per le linee ben incavate attorno alla bocca, in conseguenza del fatto di aver silenziosamente digrignano sui denti per molte ore e per i suoi profondi ed esasperati lamenti. Lo stile timido non risulta molto protettivo per il docente, né efficace per gli allievi, ed è normale che alcuni possano approfittare e abusare della pazienza, contribuendo alla provocazione dell'alunno. Una conseguenza, secondo Ernst, è quella di diventare facilmente depressi in quanto il docente potrebbe cominciare a usare le interazioni con gli studenti come occasioni per confermare l'idea che il mondo è ostile, cattivo è che gli altri sono ingrati. In questo atteggiamento, l'idea che trapela del docente è quella di una persona debole che non reagisce, che non si difende e che permette agli allievi di continuare ad abusare a piacimento. STILE CALCOLATORE Lo stile calcolatore è tipico di chi gestisce le interazioni educative ricorrendo ad un atteggiamento estremamente logico, razionale e freddo nei confronti della situazione. Il docente potrà apparire impassibile e dimostrerà facilmente di non prendersela, di essere calmo e di avere padronanza di sé. Questo viene manifestato anche attraverso il tono di voce, distaccato e monotono, poiché manca la consapevolezza delle sensazioni corporee e delle emozioni. L'attenzione non è posta sull'atteggiamento dell’alunno, ma sulla scelte di parole adatte, giuste che non devono lasciare sentire a sé e agli altri sentimenti di quel momento. Il docente calcolatore inibisce le reazioni e non si fa coinvolgere emotivamente, ma cerca di discutere con l'allievo al fine di farlo ragionare sul suo comportamento e sugli effetti che sortisce sugli altri. INTERVENTI COMUNEMENTE IMPIEGATI PER GESTIRE IL DISAGIO Ci soffermiamo su alcune strategie comuni adottate in classe per gestire le situazioni educative complesse e per rispondere al disagio degli allievi. Anche se non sono totalmente soddisfacenti, tali strategie risultano largamente impiegate in classe. Parliamo di: ignorare, sopportare in silenzio, critica, predica, rimprovero, punizione. Per quanto riguarda alcune di esse, gli educatori sono consapevoli di poter evitarne l'uso, perché potrebbero comportare più svantaggi che benefici, ma la mancanza di pazienza prende il sopravvento. “Chi non ha peccato scagli la prima pietra”, Ianes. Il capitolo si focalizza sull’individualizzazione di strategie utili ed efficaci per gestire il disagio. IGNORARE, SOPPORTARE IL SILENZIO Dinanzi ad una manifestazione di disagio comune in classe, ad esempio la risata dei compagni, l'educatore dovrebbe ignorare quanto sta avvenendo, ponendo attenzione che esclusivamente sulla prosecuzione del lavoro. A volte gli educatori ignorano per evitare di rinforzare il comportamento problematico, così da sottovalutare l'episodio e di non dargli troppo valore. Molto spesso, l'espressione di disagio dell'educando produce effetti sull’educatore, dal punto di vista emotivo, e la scelta di ignorare non è indifferente. Dal punto di vista dell’efficacia educativa, anche se l'educatore ignora, non è sicura la ricezione di risultati soddisfacenti. A volte, il silenzio dinanzi al comportamento disturbante può essere mal interpretato come autorizzazione a continuare: ciò che non è esplicitamente vietato rischia di essere autorizzato. Nel caso in cui il vero bisogno dell'allievo fosse quello di ricevere attenzioni, ignorarlo andrebbe a produrre effetti paradossali: l'educandato peggiorerebbe i propri atteggiamenti fino al raggiungimento del proprio obiettivo. LA PREDICA La predica è un intervento genitoriale volto a rimettere ordine e impartire istruzioni. È molto diffuso a causa della facile applicazione. Rispetto ad un'intera classe, la predica non è solamente inutile, ma diventa rischiosa se ci si rivolge ad un interlocutore unitario, ad un gruppo di singoli non più differenziati. La predica passerebbe, quindi, per una sorta di sfogo personale dell'educatore, facendo riscoprire un'appartenenza agli allievi, che confermerebbero più e più volte i propri atteggiamenti disturbanti. La predica è efficace se effettuata sul singolo, mentre è inefficace per un gruppo, perché sollecita più un adattamento che un cambiamento. CRITICA E RIMPROVERO La critica, il rimprovero, il richiamo diretto non sono interventi efficaci, poiché fanno appello all'addestramento dell'allievo. Il fatto che un intervento produca cambiamenti rapidi va ponderato con cautela. Se i cambiamenti sono dovuti alla compiacenza dell’alunno, non costituiscono un successo per l'educatore. Un secondo rischio è che l'allievo possa programmare le mosse successive per qualche vendetta. La critica, accompagnata da preoccupazione e rabbia dell'educatore, e da messaggi che vorrebbero essere educativi, facilmente veicola messaggi distruttivi e attacchi alla persona in errore. Se ci si limita alla considerazione del comportamento criticabile, la critica non è così svalutante. Però può accadere che provochi un sentimento spiacevole nelle educando, oppure può essere che egli cerchi di evitarla, piuttosto che modificare il proprio comportamento. Pag. 9 a 22 Silvia Paviglianiti (543472) LA PUNIZIONE La punizione è un tipo di intervento ormai raro in ambito educativo: comunemente, non necessariamente sotto forma fisica, essa è un intervento diffuso. Il fine è la cancellazione del disturbo , e può presentare come vantaggio l'ottenimento rapido dei risultati tangibili. Tuttavia, siccome interviene sulla manifestazione estrema del problema e richiama l'educando affinché egli lo controlli, svaluta l'importanza della personalità dell'allievo, perché non si focalizza sulla comprensione della situazione che porta al problema, ma sulla sua eliminazione. La punizione è un intervento banale e poco efficace dal punto di vista educativo. LA SOSPENSIONE La sospensione è una strategia che consiste nel dimettere, allontanare, sospendere gli educandi: può essere di durata variabile ed è adottata solitamente per motivi di condotta o di scarso rendimento. La sospensione non è né efficace, né sofisticata come strategia di intervento: è poco produttiva, se non per nulla, perché non risolve il problema, ma interviene sulla manifestazione esterna del disagio e invita l'allievo ad autocontrollarsi. Inoltre, questo tipo di intervento ha anche la valenza di rinuncia a gestire la situazione da parte dell'educatore: equivale a gettare la spugna e a rinunciare a lavorare sul problema. Dimettere significa liberarsi di, fuggire dal problema, che non corrisponde all'educare o al gestire la situazione. È un intervento inutile al punto di vista educativo e il problema reale non viene minimamente ridotto, perché potrebbe indurre l'allievo alla rinuncia agli studi. ALCUNE PROPRIETÀ DEGLI INTERVENTI IMPRODUTTIVI LA RIPETITIVITÀ Tempo fa chi scrive è stato invitato a tenere una conferenza ad un gruppo di docenti. Nel luogo dell'incontro, i destinatari, circa 150, erano seduti in un grande corridoio e di fronte a loro c'erano due tavoli, dietro i quali erano seduti il preside e un docente. Il capo d’istituto assumeva il ruolo di moderatore e passava la parola al docente che gli stava a fianco, perché relazionasse sul lavoro svolto dal suo gruppo il giorno precedente. Durante l'attesa, da una parte uno comunicava sul lavoro svolto il giorno precedente al suo gruppo, accanto c'era il preside, dall'altra parte i colleghi seduti ad ascoltare. Rimanda alla situazione tipo scolastica, di insegnante e allievo. Man mano che il docente relazionava, i colleghi creavano un brusio di fondo, che aumentava di volume e intensità, fino a quando il preside interveniva richiamandoli, ma il chiacchierio era diventato troppo disturbante e non permetteva la continuazione della relazione. Il preside cominciava a rimproverare duramente i docenti, con tono acceso, autoritario e genitoriale, e il suo intervento fu seguito da un rispettoso silenzio, permetteva al docente di lato di riprendere il discorso. Cosa avrebbe seguito il rimprovero del preside? Dopo pochi minuti, qualche docente riprendeva a parlare col proprio vicino, fino alla ristabilizzazione del primo precedente. L'episodio rappresenta bene ciò che succede solitamente in classe: l’insegnante spiega e i ragazzi, non interessati, disturbano. Presentano un andamento ciclico: l'effetto desiderato si ottiene ma solo per poco, perché dopo tutto torna come prima. Le critiche adottate dal preside, richiamo e predica, non sortiscono l'effetto sperato con un uditorio adulto, che dovrebbe aver maturato una buona capacità di autocontrollo. Questo ci fa riflettere quando tali modalità vengono sistematicamente impiegate con gli alunni. L’AUTOPERPETUAZIONE Alcune forme di intervento per gestire il disagio risultano svalutanti e maltrattanti: gli educatori potrebbero diventare particolarmente pressanti e accanirsi nei confronti dell'allievo. L'aspetto più preoccupante è l'autoperpetuazione. Le pressioni eccessive di tipo genitoriale, le critiche degli educatori tendono ad aggravare le reazioni e le caratteristiche comportamentali che si voleva modificare: l'alunno criticato per la sua ansia, facilmente diventerà sempre più apprensivo; il ragazzo aggressivo, obbligato ad eliminare e cambiare i suoi comportamenti scorretti attraverso l'abolizione, tenderà a diventare sempre più violento. L'uso di interventi duri potrebbe avere un effetto boomerang. Il meccanismo descrive molto bene l'effetto legato all'uso di atteggiamenti esageratamente intransigenti, che producono effetti paradossali: ribellione piuttosto compiacenza, inibizione piuttosto che superamento la paura. Una certa quantità di controllo nelle situazioni educative può recare il beneficio, e aumentare la direttività può rivelarsi utile, sempre se non viene superata una certa soglia oltre alla quale gli effetti divengono distruttivi. Inoltre, l'aumento dei comportamenti giudicati scorretti rischia di indurre nell'educatore una sorta di accanimento terapeutico a spirale crescente, caratterizzato da atteggiamenti più rigidi e intolleranti. LA FOCALIZZAZIONE SUI SINTOMI DEL DISAGIO Le strategie improduttive (predica, critica diretta, rimprovero, sospensione) si focalizzano sull’aspetto esterno del disagio, sperando che sparisca immediatamente. Per non cadere nella banalità, bisogna tenere distinti il sintomo e il problema. Pag. 10 a 22 Silvia Paviglianiti (543472) Un rischio è di trattare la manifestazione del disagio come se fosse il disagio stesso, ed intervenire per eliminarlo, così da considerare la questione risolta, illudendosi di aver rimosso il sintomo. Perciò, consideriamo due tipi di approcci nei contesti educativi e scolastici, in cui uno è incentrato sul sintomo e l’altro sul disagio. Molti degli interventi comunemente adottati tendono ad alleviare il segno esterno e a cancellare la manifestazione del disagio. L’APPELLO AL CONTROLLO VOLONTARIO Un’altra caratteristica comune alle strategie improduttive è l’aspettativa che l’educando comprenda il proprio errore. L’intolleranza dell’educatore cresce insieme all’allievo: ci si aspetta che il ragazzo più grande sia più giudizioso. Chi ha vissuto il contesto scolastico con disagio, l’intenzione di cambiare e controllarsi, se non si conoscono le cause dietro al comportamento disfunzionale, risulta totalmente inutile. Inoltre, l’atteggiamento dell’insegnante scostante e duro darà all’alunno l’idea di essere costantemente giudicato e umiliato. Come resistere e mettersi a contrastare ribellandosi o opponendosi? Ma questi atteggiamenti confermeranno solo l’idea che l’allievo non sia “giusto”; abbia qualcosa fuori dalla norma, che è immaturo e maleducato. IL CONDIZIONAMENTO NEGLI INTERVENTI IMPRODUTTIVI Quindi, gli interventi improduttivi si distinguono per l’aspettativa che l’allievo si adatti compiacendo. Da un punto di vista tecnico, queste strategie implicano un processo d’apprendimento di tipo strumentale, che si basa sulle leggi del condizionamento operante di Skinner. Skinner fece degli studi sull’apprendimento comportamentale di un ratto bianco, nella Skinner Box: l’animale premeva una leva per ricevere cibo. In relazione a Skinner, il soggetti emette una risposta in vista di una soddisfazione o dell’evitamento di un dolore. Ci si aspetta che l’allievo faccia o no qualcosa per evitare conseguenze negative. I tipi di condizionamento sono: Tipo ricompensa e ricompensa secondaria → Da considerare il contesto scolastico, gli studenti necessitano riconoscimenti e apprezzamento dai compagni e dagli insegnanti. La motivazione a adattarsi è il bisogno attuale o immediato, da soddisfare subito o in un secondo momento. Tipo fuga → Ad esempio, allontanare l’alunno dall’aula. La motivazione a adattarsi è evitare una situazione spiacevole che frustra un bisogno attuale. Tipo prevenzione → Urla, sgrida, in generale incutere paura. La motivazione a adattarsi, che spinge ad evitare i comportamenti disapprovati, è di prevenire una situazione spiacevole futura. E SE L’ALLIEVO RICERCASSE PROPRIO «CAREZZE NEGATIVE»? Per l’essere umano, la fame di stimoli ha uguale importanza della fame del cibo. Non si può prescindere dalle conclusioni giunteci dagli studiosi precedenti, che già hanno documentato l’importanza degli stimoli, che possono suscitare piacere o dolore: in assenza di stimolazione, alcune cavie, pur di non morire di fame preferiscono passare attraverso le griglie elettrizzate, o subire ogni tipo di pena. Per gli uomini, uno stimolo negativo, a volte, è preferibile all’assenza di stimoli: questo spiega perché i bambini, anche se puniti più e più volte, continuano imperterriti un dato comportamento disfunzionale, ossia perché preferiscono ottenere una carezza negativa invece che zero. Quindi, con il tipo di intervento improduttivo viene alimentato il comportamento. DECODIFICARE E GESTIRE IL DISAGIO Un modo attraverso cui comprendere e gestire il disagio è formulare una lettura in chiave comunicativa: dal momento in cui il comportamento sottende uno scopo, per evitare malintesi, si insegna all’allievo la comunicazione verbale del malessere. È una modalità alternativa e socialmente costruttiva, soprattutto perché l’idea di interpretare il messaggio comportamentale è fascinosa ma non facile da realizzare, in particolare con soggetti con scarsa consapevolezza di sé. A riguardo, delineiamo delle linee guida per comprendere meglio e intervenire sul disagio. OLTRE I SINTOMI DEL DISAGIO: ESIGENZE E BISOGNI La proposta è di intervenire sul disagio, effettuando una lettura in termini di bisogni sottesi : l’educatore deve verificare e individuare la presenza di bisogni sotterranei manifestati in duplice modo. UTILIZZO DEL MODELLO CON EDUCANDI Ripreso l’esempio del ragazzo con gli occhiali, probabilmente il bisogno sotteso era quello di essere visto, di non essere ignorato, di sentirsi riconosciuto, però la modalità di trasmissione del messaggio è stata poco funzionale e non colta dal docente. 1. Il bisogno dell’allievo ha comunque una sua legittimità, mentre la modalità in cui viene espresso può risultare poco funzionale; 2. La possibile lettura secondo un doppio livello: superficiale e nascosto, sociale e psicologico. Pag. 11 a 22 Silvia Paviglianiti (543472) Modalità manipolatorie. MODALITÀ VESSATORIE Lo stile vessatorio, persecutorio, perentorio, alimenta con facilità dinamiche distruttive a spirale crescente: i toni iniziali sono delicati, ma divengono via via ostili e, a volte, violenti. Questo è causato dall’intervento educativo dell’insegnante che, di fronte a un ragazzo demotivato, non fa altro che a adottare modi bruschi, aumentando la frustrazione del minore. Esempi ne sono le pressioni eccessive di tipo genitoriale da parte degli educatori: il ragazzo timido viene pressato affinché esca dalla timidezza, ma si chiude di più in sé stesso. MODALITÀ MANIPOLATORIE Lo stile manipolatorio implica il ricorso al sotterfugio, tipico di manager, politici… che quando presentano un progetto, per paura di essere rifiutato, dicono una cosa per un’altra, ricorrono ad interventi strategici non sempre autentici. Tuttavia, ha dei costi: le buone intenzioni passano da una piattaforma relazionale non pulita, che si fonda sulla disconferma dell’interlocutore (“io ne so più di te”, “non mi importa di te”). IL CONFLITTO EDUCATIVO Da K. Lewin in poi sono stati individuati vari tipi di definizioni di conflitto: a) Conflitto intrapsichico La personalità è intesa come insieme di forze e polarità, che spesso di scontrano. Psicoanalisi classica: Es, Io, Super-io; Analisi Transazionale: l’Io, Genitore, Adulto, Bambino; Psicoterapia della Gestalt: la personalità è un conglomerato di tendenze polari che si combinano, però nella consapevolezza di ognuno ci sono dei vuoti. Per poter gestire il conflitto intrapsichico bisogna individuare le polarità e renderne il soggetto consapevole. Tanto più il soggetto è consapevole, tanto meglio gestiste sé e gli altri. Tanto meno è consapevole, tanto più di proteggerà con dinamiche conflittuali. b) Conflitto interpersonale Può avere origine intrapsichica o relazionale, e Buzzi ne identifica quattro tipi conflitto: emotivo, di dati ( possesso di dati diversi), di interessi, di valori (discrepanza tra azione e valori). Il conflitto ha origine interna se un interlocutore inscena dinamiche derivanti da problemi irrisolti, di cui è inconsapevole. I meccanismi di difesa più comuni sono la proiezione, la repressione e la rimozione. Invece, ha origine relazionale se il disaccordo concerne un problema reale, non una proiezione. È sano se fondato sulla consapevolezza, e migliora le relazioni. c) Conflitto educativo Nasce nel rapporto educatore-educando, la cui essenza è spiegata dall’antinomia tra libertà e autonomia. L’azione educativa, perciò, limita l’azione dell’educando e questa, a sua volta, è limitata dalla personalità e bisogno di autenticità del soggetto. Questo perché l’iniziativa dell’educatore viene vissuta come un limite e diniego del diritto di essere sé stessi. Quindi, l’educatore deve integrare molteplici esigenze interne al soggetto da educare ed esterne derivanti dalle esigenze personali. Si deve stabilire fino a dove l’azione non soffoca, o sviluppi la personalità del singolo. Gli psicologi e i pedagogisti hanno creato, a proposito, il principio della discrepanza ottimale: l’azione educativa non prescinde dallo sviluppo della libertà e dell’autonomia dell’educando; l’istanza è di ricercare modalità autorevoli che sostituiscano quelle di tipo autoritario. Il problema autorità-libertà è stato accolto da Nanni, di cui presenta dei rischi comuni: Pensare che la relazione educatore-educando limiti la crescita personale → mito di Edipo, in cui il padre è un rivale e deve essere ucciso per crescere; Pensare che la crescita dell’educando sia un pericolo per l’assetto sociale esistente → mito di Laio, in cui il padre promuove la libertà del soggetto. La soluzione sarebbe un padre simbolico liberante, che facilita e promuove l’autorealizzazione. Il dilemma, perciò, può essere ridefinito: stimolare la crescita dell’educando dal suo interno o aiutarlo a realizzare un dover essere da cui derivino valori, aspettative. Secondo la pedagogia di impostazione umanistica, l’educando deve essere aiutato a realizzare le sue potenzialità e di diventare ciò a cui aspira. L’interazione educativa si realizza in modo costruttivo se si basa sull’equilibrio tra aspettative personali e sociali. Sono identificabili tre possibili stili: Nomotetico → le aspettative sociali sono più pesanti; l’educazione è la trasmissione di conoscenze; Idiografico → rispetta le aspettative del singolo, concedendo di attuare quanto considerato significativo; Pag. 14 a 22 Silvia Paviglianiti (543472) Transazionale, o nomotetico-idiografico → realizzare l’equilibrio tra i due stili. L’esito delle transazioni dipende dalle aspettative reciproche dei partner: lo stile dell’educatore viene descritto secondo la dimensione polare convenzionalità vs flessibilità. L’educatore convenzionale dà priorità alle regole, mentre l’educatore flessibile cerca di rispettare le condizioni reciproche. Anche in didattica si possono considerare tre modi di risolvere il dilemma: a) Ascendente → dalla situazione fino alle finalità; b) Discendente → dalle finalità alla situazione; c) Integrativo → dal concetto di bisogno e comprende quattro momenti: 1. Identificazione dei possibili obiettivi; 2. Ordinamento di questi in base all’importanza; 3. Valutazione delle discrepanze tra obiettivi e situazione; 4. Determinazione dell’ordine di precedenza nell’attuazione degli interventi formativi. L’ipotesi di lavoro è che l’efficacia passi attraverso la ricerca di equilibrio tra quello che l’educando è e quello che dovrebbe essere. Ogni intervento che privilegia uno dei due orizzonti è inadeguato, così come i tentativi di eliminazione. Un criterio basilare del successo è quello di invitare l’educando, non imporre. LA RICERCA DI OPZIONI EFFICACI: SUGGESTIONI E RIFLESSIONI Risultati analoghi possono essere sostenuti da motivazioni alquanto differenti. Esternamente il risultato appare uguale, ma internamente i percorsi seguiti sono differenti. LA LOGICA «DELL’OPPOSTO» E DEL «PIÙ DI PRIMA» Watzalawick, Weakland e Fisch, nei loro studi, hanno dimostrato l’inefficienza del principio per cui gli opposti si correggono a vicenda (es. se ho freddo mi copro). La logica dell’opposto e del più di prima si individua nelle modalità vessatorie, ossia negli interventi duri che rischiano di attivare un effetto boomerang. L’esempio per eccellenza è l’alcolismo: limitarne l’uso, sino al proibizionismo, non fa altro che aumentarne la necessità. È fondamentale eseguire una certa quantità di controllo, ma non eccedere nella direttività, sennò oltre una certa soglia potrebbero scaturire effetti distruttivi e l’atteggiamento dell’educatore potrebbe essere tradotto in accanimento terapeutico a spirale crescente. IL PARADOSSO Quindi, alcune strategie impiegate per la gestione delle situazioni complesse si rivelano paradossali. Prendiamo in esame il docente che vuole promuovere nei suoi studenti l’interesse per la lettura e poniamo l’attenzione sugli iter possibili per il conseguimento, senza uscire fuori rotta. Tuttavia, dal momento in cui gli allievi che leggevano più libri venivano elogiati, passo il messaggio che bravo=più libri. La passione per la lettura è spontanea e piacevole, non un merito, quindi l’obiettivo deviò. Il paradosso è per sua natura estremamente elusivo. Ad esempio, il docente che prova a invogliare nello studio il ragazzo demotivato tendenzialmente attiverà un paradosso, perché si aspetta (1) che lui faccia le cose che non vuole fare e (2) che le faccia spontaneamente. Si tratta di un doppio legame analogo a Sii spontaneo. Pianificare interventi per promuovere atteggiamenti spontanei è come essere affacciati ad un rischio costante, così come tutto ciò che comprende l’istruzione. La scuola vuole imporre il messaggio “la scuola è bella”, “lo studio è divertente”: i ragazzi che non pensano ciò potrebbero sentirsi inadeguati e sbagliati. A partire da Rousseau, la pedagogia ha cercato di sensibilizzare gli educatori a tenere stili meno direttivi nell’interazione con l'educando. Cosa si può fare? UNILATERALITÀ E BILATERALITÀ NELL’ESPERIENZA EDUCATIVA La situazione delineata precedentemente, l’educatore che pretende compiacimento dall’educando, implica delle conseguenze relazionali rilevanti. L’educando ha il diritto di riappropriarsi delle sue opzioni e di esercitare la sua facoltà di scelta, il suo diritto di esistere . Sebbene sembri scontato, certi genitori limitano il diritto di scelta dei figli, ad esempio nella scelta della scuola superiore. Uno dei paradossi più insidiosi riguarda l’educatore ha il compito di educare, ma non riesce a causa della mancanza di collaborazione da parte dell’educando. Secondo il principio della bilateralità, non possiamo prescindere dal considerare l’educando e l’educatore due persone distinte. Berne lo compensa in un racconto che narra dell’esperienza di uno psichiatra che, di fronte a un alcolizzato non disposto a lavorare su sé stesso, decide di non seguirlo inizialmente. Anche nei contesti educativi succede: se il docente comprende che un alunno non vuole collaborare, ne prende atto e continua la lezione, allora perché fa l’insegnante? Prima di tutto, l’educando è una persona libera di prendere le proprie scelte. Lo psicoanalista e l’alcolista non si lasciano subito dopo la fine del colloquio, perché viene appurato che Pag. 15 a 22 Silvia Paviglianiti (543472) manca il desiderio di cambiare; quindi, l’interlocutore è invitato ad “attivare il desiderio” con quanto ha da offrire, e una volta fatto si potrà proseguire. In mancanza della possibilità di rifiuto non è possibile accettare una richiesta, perché l’individuo verrebbe privatizzato del diritto di scelta. Riassuntivamente: Il docente capisce che l’alunno non ha “desiderio” di fare una determinata cosa; Non può obbligarlo perché si attiverebbe un paradosso, che porterebbe a situazioni degenerate; Prova ad alimentare il desiderio con quanto ha da offrire; Se ci sono segni evidenti di volontà di cambiare, si passa all’intervento educativo. SOPPRESSIONE E INTEGRAZIONE Gli interventi non sempre tengono conto di uno polarità della personalità. SOPPRESSIONE DI UNA PARTE SULL’ALTRA NELLE DINAMICHE INTRAPSICHICHE Il conflitto interno, intrapsichico si manifesta nel tentativo di autoimposizione volontaria. Ad esempio, coloro che soffrono di insonnia commettono l’errore di volersi forzare a dormire ma, visto il tempo scorrere e le ore arretrate di sonno, potrebbero proporsi di addormentarsi al più presto. Imporsi intenzionalmente un obiettivo porta lontano dall’obiettivo stesso. Inoltre, imporsi il sonno è un processo che ammutolisce il flusso di pensieri, che è fondamentale per il giorno successivo. Prescindere dalla considerazione dei propri bisogni e delle proprie preoccupazioni causa un conflitto interno e risulta molto dispendioso. Le opzioni efficaci sono il prestare attenzione, ascoltare ogni parte di sé: liberare il flusso di idee, sentimenti… RESISTENZA E INTEGRAZIONE L’educatore che gestisce l’educando indisposto sta allo psicoterapeuta che interpreta e tratta le resistenze del cliente. Quando si parla di comportamento oppositivo, di resistenza, si suppone la presenza di obiettivi educativi, o di obiettivi del cambiamento psicoterapeutico, in cui ogni ostacolo viene concepito come resistenza. Secondo l’ottica degli interventi improduttivi, di una certa pedagogia e psicologia di stampo non umanista , la barriera va abbattuta per perseguire l’obiettivo. La resistenza è una forza sabotatrice interna alla dinamica motivazionale e alla personalità dell’alunno. Secondo l’ottica dei modelli umanistici, c’è una considerazione rispettosa per ogni parte del soggetto, anche se in disaccordo con l’obiettivo promosso dall’educatore. Tra i modelli di riferimento, la psicoterapia della Gestalt intende la resistenza come parte del soggetto, quindi è una forza con lo stesso diritto di esistere. La personalità è un miscuglio di forze e polarità. Essa non vuole attaccare le forze ma ricondurle al loro ruolo adattivo, valorizzandole. Da quando detto precedentemente, l’educatore è invitato ad accantonare le modalità autocratiche e svalutanti dei vissuti dell’educando, e ad accoglierlo nella sua totalità, così da favorire gli interventi educativi efficaci . Anche nella coppia non dovrebbe mancare la conditio sine qua non, cioè il permesso di arrabbiarsi con il/la partner. INDICAZIONI E PROPOSTE OPERATIVE Ecco alcune linee guida per gestire correttamente, pedagogicamente e psicologicamente parlando, il conflitto di resistenza con l’allievo. L’ASCOLTO APERTO: TRA AMOREVOLEZZA, RISPETTO E DELICATEZZA Nella teologia, alcuni studiosi prevedono dei rischi, conseguenti all’uso di modi bruschi. La pericope della lettera agli Efesini, riguardo la relazione genitori-figli, ne è un esempio: ”Figli, obbedite ai vostri genitori…”. La relazione genitori- figli deve basarsi sull’amorevolezza, che a parere di Groppo è il mezzo più efficace per aiutare i propri figli a “obbedire”. L’invito agli educatori è di evitare di scadere in atteggiamenti provocatori, poiché alimentano la ribellione dell’educando. Se un bambino si rifiuta di fare qualcosa, bisogna dargli la possibilità di esprimersi e mostrare le proprie perplessità, mettersi in atteggiamento d’ascolto interessato. Dopo, l’educatore potrà dare la sua opinione in modo rispettoso e trasmettere il messaggio di “aver capito”, che è legittimo sentirsi in un determinato modo. Si tratta di assumere un atteggiamento empatico. Empatia significa “mettersi nei panni dell’altro”, e si compone di due dimensioni: 1. I numerosi modi per poterla realizzare (attenzione ai vari comportamenti, linguaggio comprensibile, tono adatto…); 2. Avere rispetto, ossia credere nell’altro, avere fiducia nelle sue capacità. Pag. 16 a 22 Silvia Paviglianiti (543472) Il gioco dei polli, ossia il conflitto esasperato, è anche realizzato nei contesti educativi. L’educatore fa il modeling sugli educandi: esercita bene il suo ruolo se gli allievi vedono un uomo con tutti i pregi e i limiti che la natura gli ha dato, senza essere onnipotente. Il caso di Loredana fa capire alcuni effetti del perfezionismo eccessivo, come la paura di sbagliare, la frustrazione… LA RABBIA E L’IRRITAZIONE INTOLLERANTE Giuseppe è un bambino sempre arrabbiato, scontroso con i compagni e ingestibile. L’insegnante, Mara, chiede aiuto e attua laissez-faire (ignorare), ma è poco efficace. Un giorno, arriva alle 9:30 in classe, fa quasi a botte con un compagno per un banco e viene ampiamente rimproverato da Mara, che lo butta fuori dalla classe. L’insegnante ha gestito il disagio di Giuseppe rifacendosi all’autocontrollo e al condizionamento, ma sono risultati inutili, così come il laissez-faire. È un intervento banale e ripetitivo, anche perché Mara accetta tutti incondizionatamente, quindi anche Giuseppe e il suo disagio. Cosa si poteva fare? 1. Ascoltare i sentimenti del docente quando interagisce con gli allievi. Mara ammette di non provare nulla, se non pietà, quando parla a Giuseppe. Lo vede come una persona da salvare, questo perché è emarginato e ha difficoltà a integrarsi; 2. Perché Giuseppe è emarginato? Giuseppe ascolta le sue emozioni in modo distruttivo, manca di alfabetizzazione affettiva, perché i genitori non accolgono la sua richiesta di arrivare in orario a scuola, né tanto meno la sua rabbia, che viene punita con ceffoni. Se l’insegnante punisce Giuseppe, rischia di riprodurre l’atteggiamento dei genitori e di svalutare ciò che sente. L’insegnante deve essere empatico e approfittare delle scenate per capire che motivi sottendono. Deve insegnare al bambino di cogliere e usare il feed-back da parte degli altri. IL TORMENTO INUTILE Una bambina durante una recita inizia a piangere e l’insegnante, che si sentiva in colpa, pensava che non l’avrebbe dovuta mettere in quella situazione perché tutti si sentivano a disagio per colpa sua. È un caso interessante, in quanto l’insegnante si sente eccessivamente responsabile di quanto accaduto: l’obiettivo era lodevole, perché voleva dimostrare la bravura della bambina. Tuttavia, ha gestito male la situazione: avrebbe potuto fermare la scena, così da dare un nuovo insegnamento, ossia che errare è umano. L’insegnante attribuisce a sé responsabilità che le appartengono soltanto in parte e la sua reazione risulta sproporzionata, eccessiva. L’ATTEGGIAMENTO IPERPROTETTIVO E LE SUE INCOGNITE Un atteggiamento simile si assume con persone disabili o con difficoltà di apprendimento. Si manifesta un’eccesiva protezione, nonché un atteggiamento iperprotettivo: 1. Tentativo di organizzare le condizioni di vita generali dei portatori di handicap; 2. Tendenza di chi si attiva oltre misura, per aiutare chi soffre. Canevaro, riferendosi all’handicap motorio, dice che dinanzi ad un qualsiasi ostacolo, il bambino deve applicare tutto sé stesso, e quello sforzo è essenziale affinché possa formarsi nella sua totalità. Quando un educatore o un genitore interviene, pensando di stare aiutando, non fa altro che aumentare gli impedimenti. Il rischio è quello di agire al posto di un altro e per un altro. Questo atteggiamento alimenta la passività e la conseguente dipendenza. L’attivismo iperprotettivo dinanzi all’handicap, alla disabilità… produce effetti paradossali. Ad esempio, i bambini con basso livello di competenze linguistiche hanno comunemente con la madre una relazione asincrona a causa dell’eccessivo attivismo, che degenera della direttività. Infatti, non rispettando tempi e ritmi del bambino, tale atteggiamento tende a stancarlo e a passivizzarlo. Ovviamente si tratta di reazioni dettate dall’emotività, e rischia di essere automatico e, a volte, inconsapevole. IL SALVATORE Karpman, nel Triangolo drammatico, presenta tre personaggi: Salvatore → colui che si prodiga più del dovuto, che si crede superiore tanto da vedere i discenti come bisognosi di aiuto. Tipico è il docente iperprotettivo, largo di voti, che fa domande semplici e non mette mai in difficoltà: enfatizza il positivo oltremisura rendendo inutile la valutazione e la sua essenza, che è quella di promuovere un immagine di sé nell’allievo realistica e rispondente alla realtà. Dinanzi all’indulgenza eccessiva l’allievo ipotizza che l’insegnante pensi che egli abbia scarse capacità. Vittima → è complementare al salvatore, ed è chi svaluta le proprie potenzialità e chiede di essere salvato e che l’altro faccia le cose al posto suo. Persecutore → chi nelle interazioni sminuisce il partner. Pag. 19 a 22 Silvia Paviglianiti (543472) Cosa fare? L’aiuto deve giungere sia all’educando, che all’interlocutore, e il docente non deve impedire all’educando di fare quanto può o che sa fare da sé: l’aiuto deve essere libero da contaminazioni, cioè non deve soddisfare bisogni personali. QUANDO LA RABBIA DELL’INSEGNANTE LIEVITA A DISMISURA Luca è un bambino irrequieto e sempre arrabbiato. L’episodio che ci interessa è il seguente: un giorno arriva alle 9:30 e fa quasi a botte con un compagno per un posto. L’insegnante lo butta fuori dalla classe e minaccia di non farlo rientrare se prima non bussa, ma la reazione la confonde. Alla fine, il ragazzo viene riammesso. Qui viene descritta la rabbia solo interna, che non appare violenta all’esterno. L’insegnante è particolarmente preoccupata che il fare di Luca crei una situazione incontrollabile: ha paura di sembrare incompetente. È della fantasia del giudizio negativo da parte dei genitori e dall’attribuzione della difficoltà alla scarsa competenza che deriva il controllo. IL CONTROLLO DA PARTE DEL DOCENTE Gli educatori sbagliano ad assumere atteggiamenti autoritari, cioè dedicano più tempo al controllo della situazione che all’insegnamento stesso. Coloro che si sono preoccupati dell’interazione educativa, da Lewin a Roger e ai neogersiani del mondo angloamericano, a Franta hanno documentato l’utilità dei metodi non coercitivi per ottenere la disciplina. Franta parla della dimensione emozionale e della dimensione controllo, in particolare quest’ultima può variare lungo il continuum che oscilla da un massimo a un minimo. La premessa fondamentale per realizzare interventi efficaci è quella di comprendere cosa è presente dietro l’aumento smisurato della rabbia. PERCORSI INTERNI E RUOLO DELLA SIMBIOSI I percorsi interni spiegano il perché un educatore senta una forte rabbia: 1. È una sorta di causalità lineare tra comportamento dell’allievo e reazione dell’insegnante. Il docente pensa che il comportamento dell’allievo rispecchi il suo, i suoi sforzi, e da qui deriva il legame simbiotico tra l’insegnante e la situazione. Tuttavia, nessuno causa un’emozione nell’altro, ma al massimo l’emozione è causata dalla situazione. 2. Dal momento in cui l’insegnante nega a sé stesso il proprio potere ha il senso che l’unica possibilità per risolvere la situazione passi attraverso l’altro, attraverso il cambiamento dell’altro. È una trappola piuttosto insidiosa e rischiosa, soprattutto se l’altro continua a non ascoltare e non accenna a cambiare. La ragione è che il giudizio su di sé si fa dipendere pedissequamente dal successo-insuccesso . Il successo o l’insuccesso non dipendono però solo dall’agire del docente, ma così facendo è normale che le emozioni lievitino in dismisura. Il clima della classe caotico, a causa del legame simbiotico, diventa una prova del proprio fallimento. È come se il docente dicesse a sé stesso di “Non essere capace”. Ne deriva una forma di frustrazione, che sfocia nell’insopportabilità, ossia un’emozione “violenta”. L’insopportabilità è qualcosa che appartiene all’altro, ai bambini. IL PIAGNUCOLIO INTOLLERANTE Luigina è una bambina di 3 anni che piange in continuazione, mettendo alle stregue anche un’insegnante di oltre 30 anni di carriera. Lei ammette di diventare isterica e che la bimba da molti problemi Data la situazione, l’insegnante ha preso parte di un rôle play: è stata invitata a drammatizzare il ruolo dell’allieva mentre un’altra collega è stata invitata a simulare il ruolo della maestra, e viceversa, così da cogliere le emozioni e sensazioni di Luigina. La tecnica, inoltre, permette di uscire da sé stessi e di percepire la propria reazione dal punto di vista dell’altro. Vivendo il ruolo della bambina, l’insegnante ha constatato la presenza di una forte tristezza e incomprensione: in particolare, il suo fare (della docente), in cui vuole sopprimere i pianti della bambina, è inutile. Anzi, si rischia di acuire il suo fastidio e farla irritare ulteriormente. L’ANALISI DEI PERCORSI INTERNI L’intolleranza dinanzi al lamento dell’altro è una peculiarità dell’episodio di Luigina. Concentriamoci sulla reazione al lamento. Gli elementi essenziali sono legati all’insopportabilità del lamento e all’idea che la risoluzione della situazione passi per la modifica della riposta dell’altro. L’educatore, in questo caso, nega all’altro il diritto di lamentarsi: addirittura, dinanzi alla bambina che piange, l’insegnante diventa intollerante. Perché questa reazione? Quando la risonanza affettiva è smodata, si presenta l’incongruenza tra il lamento di uno e la reazione dell’altro. Perché? 1. Potrebbero essere presenti delle esperienze, nell’insegnante, che amplificano la percezione del lamento (es. fine del divertimento). La brutalità di certe reazioni riassume il bisogno di preservare e difendere sé stessi dalla minaccia proveniente da chi si lamenta. Nelle reazioni violente si cela una forma di ricatto, che segnala la presenza di insopportabilità dell’educatore; Pag. 20 a 22 Silvia Paviglianiti (543472) 2. Atteggiamento assunto dall’educatore. Supponiamo che si proponga di eliminare il disagio di un altro anche quando non è possibile (salvatore): il docente vuole essere riconosciuto, e il lamento segnala il suo fallimento. Ne deriva una specie di rabbia da frustrazione. Quindi, da salvatore passa ad essere un persecutore aggressivo. IL LEGAME SIMBIOTICO Dato il mancato confine tra sé e l’altro, nella simbiosi manca un’affettività separata; quindi, viene negato il diritto di sentire il disagio alla persona in difficoltà. Così si instaura un rapporto diretto tra causa ed effetto, in cui mancano apparentemente delle vie di fuga dai problemi. Il legame simbiotico (cancella e confonde i confini) non consente di distinguere dove finisce la propria responsabilità e dove comincia quella dall’altro. Ne deriva che l’allievo non può permettersi di sbagliare o avere insuccessi. Quindi, nel legame simbiotico c’è una risonanza affettiva esagerata e manca la congruenza tra il lamento di qualcuno e la reazioni di chi lo educa. L’educatore deve apprendere ad individuare la simbiosi, a mantenere il senso di adeguatezza interna, la posizione di O. K.-ness, gli insuccessi. Pag. 21 a 22