Scarica Giocare al nido e nella scuola dell'infanzia. e più Sintesi del corso in PDF di Scienze dell'educazione solo su Docsity! GIOCARE AL NIDO E NELLA SCUOLA DELL’INFANZIA Piera Braga e Tiziana Morgandi INTRODUZIONE: GIOCO, EDUCAZIONE E INFANZIA Il gioco viene immediatamente associato all’infanzia perché è la forma più peculiare e più pregnante di conoscenza, espressione e comunicazione dei bambini che, giocando, pensano, scoprono la realtà, esplorano, si esercitano, imitano, esprimono sé stessi, fanno e disfano, sperimentano, assorbono e producono cultura. Gli etologi nel descrivere le analogie e la continuità tra il gioco degli animali superiori e quello infantile, ne evidenziano la funzione di preparazione alla vita adulta. Anche gli animali giocano, ma i cuccioli dell’uomo giocano più a lungo e in una più ampia varietà di forme: Karl Groos, nel teorizzare la funzione del gioco come pre-esercizio di abilità, precisa che non si può dire che gli animali giocano perché sono giovani e vivaci, ma che essi dispongono di un periodo giovanile per poter giocare. E i modi di giocare, soprattutto i giochi sociali, e i giocattoli riflettono la cultura di appartenenza. La connessione tra gioco e cultura è stata evidenziata soprattutto dagli studi antropologici che considerano il gioco come un fenomeno rivelatore di meccanismi mediante i quali le società elaborano e trasmettono i propri valori e la propria organizzazione: il gioco ha una funzione di acculturazione, anche nel suo essere dispositivo di trasgressione regolata e consentita che, nel mettere in scena i pericoli e dei controvalori negati dalla cultura ufficiale, ne consente l’elaborazione e il controllo. La considerazione del gioco, del suo spazio e del suo significato in relazione all’educazione dei bambini non è sempre stata positiva e valorizzante: si è guardato al gioco anche come pericolosa forma di ozio e di deviazione dalla realtà, da limitare e controllare soprattutto nelle sue forme più libere e istintive, oppure da tollerare come mera valvola di sfogo e ricreazione, oppure da piegare a fini didattici; è soprattutto con la nascita del sentimento dell’infanzia, come età separata e protetta, e in particolare dal XIX secolo in poi, che si assiste a un proliferare di teorie positive sul gioco che ne mettono in luce le valenze e le potenzialità evolutive e socializzanti. Basti pensare a Friedrich Frobel che mette il gioco al centro della formazione infantile: “il più alto grado di sviluppo del bambino e del genere umano è rappresentato dal giuoco, che è libera manifestazione del mondo interiore, ubbidiente alle profonde esigenze di questo mondo”. La storia dei servizi educativi per l’infanzia testimonia un progressivo allargamento dello spazio dedicato al gioco nell’educazione dei piccoli, un orientamento alla valorizzazione del gioco come dimensione fondamentale dell’esperienza infantile che si è alimentato anche delle esperienze di educazione attiva finalizzate alla predisposizione di un contesto che nutra e sostenga la voglia di fare e la motivazione ad apprendere dei bambini. Le acquisizioni maturate in alcune esperienze di educazione comunitaria realizzate nella prima metà del ‘900, per accogliere bambini temporaneamente o definitivamente rimasti senza famiglia negli anni delle due guerre, hanno rappresentato fertili sperimentazioni di progetti di educazione dei piccoli alternativi sia alle formule deprivanti dei brefotrofi sia alla riproduzione del modello scolastico e hanno fornito significative indicazioni per la strutturazione dei contesti educativi come luoghi di gioco. L’identità dei servizi per l’infanzia, e in particolare della scuola dell’infanzia, è stata molto influenzata anche dalla pedagogia montessoriana, nel suo forte richiamo alla centralità del bambino e all’importanza della predisposizione di contesti, spazi e materiali “a misura di bambino”, finalizzati a promuovere e sostenere l’autonomia e il senso di competenza infantile, o nella progressiva rivisitazione del ruolo e delle modalità di intervento dell’adulto che si pone come osservatore e regista, più che come conduttore delle condotte esplorative e ludiche dei bambini. Nei testi di Montessori non si trovano esplicite argomentazioni a favore del gioco: risaltano le attività finalizzate (di vita pratica) più che i giochi di libero movimento e di fantasia e alcune sue riserve riguardano un certo modo di intendere il gioco, come trastullo, svago e disimpegno e soprattutto il mondo dei giocattoli in quanto espressione di un’immagine impoverita di bambino. La pedagogia del nido ha preso interessanti spunti di riflessione, lineamenti di metodo e orizzonti di pratiche anche dall’esperienza ungherese del centro di via Loczy a Budapest, avviata da Emmi Pikler nel 1946: la valorizzazione dell’attività autonoma del bambino nei momenti di gioco e nei momenti di gioco e nei momenti di relazione individualizzata con l’adulto durante le cure del corpo è strettamente connessa alla formazione professionale dell’educatrice, alla capacità dell’adulto di modulare i propri interventi sulle diverse modalità e direzioni dell’attenzione del bambino, una capacità relazionale che si fonda sull’acquisizione di solide competenze osservative; da noi le attività e gli interessi dei bambini non vengono guidate nella direzione desiderata dall’adulto. Al contrario cerchiamo, con un’organizzazione mirata, di consentire ai bambini di giocare liberamente in modo che possano fare i giochi che desiderano, nelle posizioni che assumono o che abbandonano autonomamente, nei tempi e nei modi che preferiscono (Pikler). Anche nella scuola dell’infanzia lo spazio del gioco si è andato progressivamente allargando, insieme alla costruzione di una identità di scuola dell’infanzia sempre meno ricalcata sul modello scolastico e sempre più orientata alla strutturazione di contesti che favoriscano e sostengano il fare dei bambini, la loro incessante attività di scoperta del mondo fisico e sociale, attraverso l’alternarsi di momenti ludici e ludiformi. Fertili esperienze di valorizzazione del gioco e della didattica ludiforme sono nate e cresciute, in Italia, a partire dagli anni ’70 soprattutto nelle scuole gestite dai comuni che, nella capacità di integrare una pluralità di riferimenti teorici e metodologici, hanno prodotto interessanti sperimentazioni di “scuola-laboratorio” o “scuola-cantiere” e di “lavoro per progetti” orientate a sostenere le connessioni tra gioco, arte e scienza; si pensi ad esempio, alle esperienze di innovazione educativa, di scuole centrate sul bambino e non sui programmi, collegate al pensiero e all’impegno sul campo di figure come Loris Malaguzzi, Bruno Ciari, Sergio Neri e alle contaminazioni pedagogiche dell’attività di intellettuali e artisti impegnati anche sul fronte della riflessione educativa come Gianni Rodari e Bruno Munari. Gia il D.P.R. 10 settembre 1969, n° 647 (“Orientamenti dell’attività educativa nelle scuole materne statali”), dedicava un intero capitolo al gioco come risorsa privilegiata di apprendimento e di relazioni, ma la centralità evolutiva del gioco viene sottolineata soprattutto nel D.M. 3 giugno 1991 (“Orientamenti dell’attività educativa nelle scuole materne statali”), dove si parla di clima ludico della scuola dell’infanzia e di strutturazione ludiforme dell’attività didattica nei diversi campi di esperienza che deve evitare sia facili improvvisazioni sia impostazioni precocemente disciplinaristiche e trasmissive. Il riferimento al gioco viene ribadito, anche se in modo più tiepido o forse più implicito, nelle “Indicazioni nazionali per il curricolo”. Il diritto del bambino al gioco è enunciato nella “Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo” del 1959 ed è sancito nella “Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza” ratificata dall’ONU nel 1959 e in Italia dalla legge 27 maggio 1991, n° 176: “Gli stati parti riconoscono al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età e a partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica” (art.31). La centralità del gioco in relazione alla qualità dei servizi per l’infanzia viene periodicamente richiamata anche nelle linee di indirizzo europee: “il gioco dovrebbe essere messo al centro di ogni proposta educativa finalizzata a sostenere l’apprendimento dei bambini in età infantile” (Lazzari). Oggi il valore formativo del gioco è quindi ampliamente riconosciuto nella pedagogia del nido e della scuola dell’infanzia. Attività di apprendimento = quelle nelle quali vi è un’intenzionalità precisa da parte dell’adulto all’arricchimento del patrimonio conoscitivo dei bambini e far loro acquisire abilità e competenze che non si consolidano spontaneamente, ma richiedono una qualche forma di insegnamento. Con questo non si vuole dire che il gioco, le routine, gli scambi informali non possono essere occasioni di apprendimento per i bambini. Si tratta di abilità e conoscenze che i bimbi non acquisiscono da soli, ma per il tramite degli adulti che, in maniera più o meno formale e più o meno consapevole, ne sono i depositari. Il gioco, la disposizione e le condotte ludiche possono anche essere sostenuti e orientati, senza costrizioni e prescrizioni, dalla predisposizione di contesti e percorsi finalizzati ad arricchire il mondo dei significati portati dai bambini e a condividerli, a padroneggiare strumenti e tecniche, a espandere le possibilità di esplorazione e trasformazione della realtà. Il carattere ludiforme delle attività, proposte dall’adulto a un piccolo gruppo (siano esse motorie, grafico-pittoriche, costruttive, scientifiche, ecc.) e finalizzate all’approfondimento di alcune esperienze, dipende dal modo in cui esse sono condotte, dalla capacità dell’adulto di sintonizzarsi con la disposizione con cui i singoli bambini affrontano queste esperienze, di sostenere le diverse direzioni di interesse e di attenzione dei bambini, di cogliere e valorizzare i processi e non solo i prodotti delle loro ricerche. Itinerari e percorsi troppo definiti e troppo diretti dall’adulto che propone e insegna in modo molto trasmissivo, spesso non consentono di sostenere quell’atteggiamento di curiosità, piacere, concentrazione, motivazione intrinseca che è connaturato al gioco. D’altro canto, ciò non significa ritenere che l’adulto debba astenersi dall’intervenire e ritirarsi in una posizione solo osservativa, ma saper dosare osservazione, ascolto, suggerimenti, dimostrazioni e spiegazioni: “attività ludiche e attività ludiformi diventano tanto più distanti tra loro quanto più nella mente degli adulti esistono divaricazioni tra apprendimento e gioco, tra piacere ludico e attività seria, fra ciò che si vuole fare e ciò che si deve fare”. Nei contesti di educazione dei piccoli il rapporto tra ludico e ludiforme, così come tra materiali strutturati e non strutturati, tra gioco libero e attività proposte e guidate dall’adulto, non dovrebbe essere impostato in termini di contrapposizione ma di equilibrio, varietà e continuità tra queste dimensioni di esperienza. Per i bambini gioco non è l’opposto di lavoro. Il rapporto tra gioco e lavoro può essere concepito in termini di continuità e, per usare le parole di Winnicott, “vi è una linea diretta di sviluppo dai fenomeni transizionali al gioco, e dal gioco al gioco condiviso, e da questo alle esperienze culturali”. La disposizione ludica può caratterizzare qualsiasi attività o esperienza, guardata dal punto di vista del bambino, e tornando alla definizione di gioco come atteggiamento piuttosto che come attività, Dewey afferma che “la disposizione al gioco è ancora più importante del gioco stesso. La prima è atteggiamento dello spirito, l’ultimo è una transitoria manifestazione esterna di quest’atteggiamento”. CAPITOLO 2: PERCHÉ E COME SI GIOCA NELLE DIVERSE ETÀ Attraverso il gioco il bambino esercita e consolida le proprie capacità, esplora e conosce il mondo fisico e le relazioni con gli altri, esprime ciò che prova e in questo modo impara anche a riconoscere e controllare (e quindi elaborare) emozioni e vissuti: “gioco non è sinonimo di apprendimento, ma il gioco attiva la zona di sviluppo potenziale/prossimale”. Le origini e lo sviluppo del gioco nelle sue diverse forme sono stati indagati nell’ambito della psicologia dello sviluppo e della psicoanalisi ed è stata evidenziata l’esistenza di una stretta correlazione tra gioco e possibilità evolutive. Gli studi e le ricerche socio costruttiviste hanno poi precisato ed evidenziato la natura sociale del gioco, la matrice sociale della competenza ludica: il gioco non è un’impresa individuale e nasce e si sviluppa all’interno di una relazione tra il bambino e i suoi partner. Forme e funzioni del gioco nella teoria di Piaget Secondo il modello piagetiano ogni fase dello sviluppo del pensiero è caratterizzata da una particolare modalità ludica: compaiono in successione diacronica: • Gioco di esercizio sensoriale e motorio caratteristico dei primi 2 anni di vita; • Gioco simbolico che si manifesta dai 18 mesi ai 7 anni, ma si sviluppa pienamente fino ai 4 anni; • Gioco di regole che compare dai 4 ai 7 anni, ma continua a svilupparsi anche in seguito. L’emergere di una forma di gioco superiore non annulla quelle precedenti, ma diventa la modalità di gioco più caratteristica di quel particolare momento evolutivo. Secondo Piaget, le diverse forme del gioco (esercizio, simbolo, regola) rispecchiano l’evoluzione stadiale dello sviluppo dell’intelligenza (dall’intelligenza pratica a quella rappresentativa, al pensiero astratto) e della costruzione del reale (la progressiva acquisizione delle nozioni di oggetto, spazio, tempo, causalità). Il gioco di esercizio Il gioco di esercizio, sensoriale e motorio, può assumere diversi gradi di complessità: può trattarsi di: • Esercizio semplice, come lanciare sassi in una pozzanghera; • Combinazioni senza scopo, come l’imporsi di saltare sempre più lontano; • Esercizio del pensiero come il divertirsi a chiedere ripetutamente “perché?” senza un reale interesse per la risposta, il divertirsi a inventare frasi e storie strambe e senza capo né coda, oppure i giochi di parole o con le rime. Il gioco di esercizio non costituisce un sistema ludico indipendente come lo solo invece il gioco simbolico e il gioco di regole. Il gioco di biglie, ad esempio, secondo Piaget è senso-motorio nelle sue prime forme, quando si tratta semplicemente di mirare e di lanciare, ma a partire dai 7 o 8 anni diventa anche un gioco di competizione con regole, un gioco prettamente sociale dove si sfidano giocatori o vedere proprie squadre. Il gioco di esercizio infatti, che caratterizza soprattutto i primi 2 anni di vita, può espandersi in molte direzioni: alcune sue forme possono persistere anche nell’età adulta (come nelle pratiche sportive, ad esempio), ma può anche evolvere verso il gioco di costruzione (e, in seguito, il modellismo o le varie forme di bricolage) e di regole (le partite a carte, ad esempio) e di qui estinguersi in forme di attività adattata; oppure può trasformarsi in forme di gioco simbolico (la manipolazione e il travaso della sabbia possono evolvere nel fingere, ad esempio, di fare una torta o un castello). Il gioco simbolico In questo stadio l’assimilazione simbolica non compare casualmente nel contesto dell’azione, ma addirittura precede il movimento imitativo ed è annunciata verbalmente prima di ogni azione. Questa fase, che si colloca tra i 9-12 mesi e i 18 mesi, è caratterizzata dall’emergere di “rituali ludici”, da una ritualizzazione degli schemi di azione riprodotti e ripetuti al di fuori del loro contesto abituale: non c’è ancora consapevolezza della finzione, ma questi “simboli in azione” accompagnano e preparano l’emergere del simbolo ludico vero e proprio, della capacità di rappresentazione. Se nel rituale ludico lo schema viene suggerito dallo stimolo abituale, nel gioco simbolico vero e proprio l’oggetto che attiva l’azione ludica è un simbolo, è un oggetto diverso da quello che in genere si usa a tale scopo. A partire dai 3-4 anni, le condotte acquisite nei livelli precedenti vengono inserite in trame di gioco sempre più complesse (capacità di produrre vere e proprie combinazioni simboliche) che possono avvalersi anche di elementi fantastici e immaginari. Queste combinazioni possono avere, secondo Piaget, anche una funzione compensatrice come quella di padroneggiare o di liquidare una situazione spiacevole o un conflitto. Nel modello evolutivo piangentiano il gioco simbolico dapprima si sviluppa (dai 18 mesi ai 4 anni) e poi comincia a declinare assumendo forme sempre più sociali e realistiche caratterizzate da una sempre maggiore convenzionalità e possibilità di condivisione connesse all’emergere del simbolismo collettivo che prepara il terreno alla regola: a poco a poco, infatti, il gioco simbolico si estingue nel gioco di regole. Solo con la capacità di decentramento cognitivo, che compare secondo Piaget non prima dei 6-7 anni di età, il bambino è capace di elaborare le regole “vere”, che sono quelle sociali e condivise; secondo Piaget, infatti, il pensiero simbolico è fondamentalmente prelogico e ancora molto egocentrico. Il gioco di regole Il gioco di regole consiste in giochi di combinazione senso-motori che si socializzano, ovvero strutturati e regolati: dalle forme più semplici come il girotondo o le corse, ai più complessi giochi di squadra o da tavolo come gli scacchi. Il gioco di regole, infatti, è l’unica forma di gioco che persiste in modo significativo anche negli adulti. Il gioco di costruzione Il gioco di costruzione rappresenta invece una sorta di transizione dal gioco alle condotte adattate e si colloca al di fuori delle tre grandi classi di giochi delineati da Piaget. Può emergere sullo sfondo di un gioco simbolico o di regole che si fa rappresentazione adattata, come quando il bambino invece di limitarsi a usare un pezzo di legno o un generico contenitore come se fosse una barca comincia a costruirla realmente. Transizione dove il simbolo e l’immaginazione si trasformano in imitazione e fedele riproduzione del reale, in rappresentazione adattata. Piaget il gioco, e in particolare il gioco simbolico, tra le attività che favoriscono lo sviluppo delle funzioni rappresentative (accanto al linguaggio verbale e all’imitazione, e in particolare all’imitazione differita), ma distingue tra gioco e attività adattive o intelligenti in senso stretto: il gioco è una sorta di “digestione mentale” che comporta una ripetizione attiva e il consolidamento di ciò che si è già appreso, ovvero “il gioco nasce dal rilassamento dello sforzo adattivo e dal mantenimento o esercizio delle attività per il solo piacere di dominarle e di ricavarne un sentimento di virtuosità e di potenza”. Piaget connette il gioco allo sviluppo dell’intelligenza, ma contrasta la teoria del gioco come pre-esercizio: attribuisce alle condotte ludiche una funzione di post-esercizio, di esercizio della padronanza e di consolidamento di abilità già acquisite attraverso le condotte adattive/esplorative (la soluzione di problemi). Nel gioco di regole la forma ludica a cui Piaget riconosce le maggiori possibilità adattive e di apprendimento. Nel gioco simbolico il bambino “pre-esercita” l’immaginazione, ma secondo Piaget l’immaginazione è una sorta di distorsione del pensiero, una sorta di deformazione del reale che dispensa il soggetto dalle necessità e dalle richieste dell’accomodamento alla realtà e rappresenta un ostacolo al raggiungimento del pensiero logico, formalizzato e astratto; il simbolo, che è idiosincratico, soggettivo e ancora agganciato all’azione, deve declinare per lasciare il posto al concetto (che si basa sui segni, che sono convenzionali e astratti). Il gioco nella teoria dello sviluppo di Vygotskij Per Vygotskij il gioco è fonte e motore di sviluppo e crea la zona di sviluppo prossimale: il gioco nasce da desideri insoddisfatti, è la realizzazione immaginaria e illusoria di un desiderio e si sviluppa grazie all’immaginazione, la cui potenza si manifesta compiutamente solo intorno ai 3 anni. Le situazioni riprodotte nel gioco inizialmente sono più un effetto dei ricordi che non dell’immaginazione vera e • Il gioco nasce all’interno della relazione tra il bambino e chi si cura di lui e i primi giochi sono quelli con il proprio corpo e il corpo della madre, percepiti come indifferenziati, che coinvolgono la bocca, la vista, le mani; • In seguito, verso i 3-4 mesi, con la comparsa delle reazioni circolari secondarie, secondo il modello piagetiano, anche gli oggetti vengono inglobati nel gioco e i primi giocattoli sono gli oggetti vengono inglobati nel gioco e i primi giocattoli sono gli oggetti morbidi (gli oggetti transizionali) che vengono investiti simbolicamente di cariche affettive; un investimento libidico che diventa poi una più generica propensione per i giocattoli soffici in genere che il bambino può adorare ma anche maltrattare senza rischio di danno o ritorsione; • In seguito, con lo spostamento di interesse dalla bocca agli altri orifizi del corpo e alle loro funzioni, i giocattoli sono quelli che si prestano ad attività come riempire e svuotare, introdurre ed estrarre, aprire e chiudere, pasticciare (manipolazione, infili e travasi); • Ma anche i giocattoli e i giochi che favoriscono la mobilità e i giochi di costruzione (costruire e distruggere, trainare e spingere, in relazione alle tendenze ambivalenti della fase sadico- anale); • Subentra poi l’interesse per le situazioni e i giocattoli che consentono l’espressione della mascolinità e femminilità (le identificazioni nei ruoli maschili e femminili, materni e paterni, collegati alle situazioni della fase edipica); • A poco a poco subentra anche il gusto per il prodotto finito, il piacere di portare a termine un compito o risolvere un problema, e la capacità di giocare all’inizio del periodo di latenza volge e si muta in capacità di lavorare con l’acquisizione progressiva della capacità di controllare gli impulsi aggressivi e distruttivi e le frustrazioni, di pianificare l’azione, di passare dal principio del piacere al principio di realtà; • Parallelemente alla progressiva diminuzione dell’interesse per i giocattoli si manifestano attività collaterali connesse all’immaginazione come le fantasticherie, gli hobby o le collezioni e subentra l’interesse per i giochi agonistici di gruppo: giochi simbolici di attacco e di difesa dove il corpo stesso del bambino e la sua abilità nell’usarlo svolgono un ruolo centrale (acrobazie, ginnastica, prodezze fisiche). Giocando si impara e a giocare si impara: la natura sociale del gioco Secondo Bruner il gioco, nel suo carattere fondamentale di attività combinatoria, di fare e disfare, di pre e post-esercizio di abilità, di creatività intesa come apertura al possibile e immaginazione, ma anche come soluzione di problemi, ha a che fare sia con l’esplorazione sia con la trasformazione della realtà. Queste potenzialità evolutive riguardano, secondo Bruner, anche le prime forme del gioco di esercizio: “l’esercizio del quale è di cruciale importanza per lo sviluppo nel primo anno-anno e mezzo di vita. Lo chiamerò gioco di destrezza (o padronanza): la sua forma è un accordo giocoso tra mezzi e fini. Esso consiste proprio nell’estensione a nuove frontiere di abilità già acquisite”. Secondo Bruner i contesti ludici sociali fanno da sfondo a conquiste evolutive molto importanti come lo sviluppo della funzione simbolica e della competenza comunicativo-linguistica. “Ma ciò che è particolarmente interessante del gioco è il suo ruolo nell’acquisizione del linguaggio e l’opportunità che esso offre di padroneggiare regole e convenzioni”. Se la spinta e la motivazione ludica sono innate, la competenza ludica si apprende e si sviluppa più compiutamente in un contesto sociale. La disposizione ludica è favorita dalla relazione con un compagno di giochi che valorizza e incoraggia le azioni ludiche del bambino: la capacità di giocare si apprende all’interno di una relazione e l’adulto è il primo allenatore ludico. Secondo Garvey il gioco con gli altri è primario; il gioco solitario e le fantasie private sono secondarie, modi derivati di giocare. I bambini imparano a cullare una bambola o a fingere di essere un leone perché prima c’è stato qualcuno che lo ha fatto davanti a loro. Anche le competenze richieste dal gioco organizzato con regole prendono le mosse dalle prime esperienze sociali in cui il bambino è coinvolto. Lo stesso concetto della matrice sociale della competenza ludica è veicolato dalla metafora del gioco come rappresentazione teatrale a cui ricorre Brian Sutton-Smith quando parla del quadralogo ludico e dei diversi ruoli agiti nel gioco: il bambino è inizialmente spettatore e co-attore delle sequenze ludiche, e solo in seguito impara a svolgere il ruolo di attore e poi di regista della scena ludica, ruoli che in un primo momento si assume l’adulto. Anche i neonati giocano, pur non sapendo di farlo. Secondo Golse il gioco è uno dei processi che permettono al bambino di accedere all’intersoggettività, alle modalità di funzionamento triadico, al linguaggio e alla simbolizzazione: in questo senso, dunque, esiste una enorme differenza tra il gioco dei bambini e il gioco dei bebè. CAPITOLO 3: SPAZI, OGGETTI E MATERIALI PER IL GIOCO I contesti educativi sono contesti artefatti, nei quali gli oggetti e i materiali vengono scelti e collocati dagli adulti educatori sulla base delle loro competenze e idee progettuali. La predisposizione di un contesto di gioco adeguato e dinamico è la traduzione della progettazione educativa rivista alla luce di osservazioni e riflessioni sui comportamenti e le interpretazioni dei bambini, che vivono quotidianamente quel contesto. L’allestimento degli ambienti costituisce una dimensione fondamentale della qualità di un servizio educativo, monitorabile con specifici strumenti di valutazione orientato da categorie quali la leggibilità, l’accessibilità inclusiva manuale o visiva, l’attenzione alla dimensione culturale ed estetica, l’ordine dentro la diversificazione delle opportunità e la manutenzione come garanzia di cura, funzionalità e durata nel tempo. Così come è difficile definire il gioco, allo stesso modo è difficile definire gli oggetti del/per il gioco che, in quanto artefatti culturali, fanno riferimento potenzialmente a una gamma infinita e di difficile catalogazione per le contaminazioni che intercorrono tra diverse forme di gioco, e per gli usi diversificati che ne possono fare i bambini. La facilità con cui i bambini acquisiscono la padronanza di oggetti e attrezzi deve molto alle loro capacità intuitive sulle nozioni del mondo fisico. Ad esempio, comprendono le proprietà degli oggetti, la relazione causa-effetto, il concetto di permanenza; tuttavia, attraverso le attività ludiche imparano di più sugli oggetti del loro mondo e su come possono essere utilizzati per raggiungere alcuni scopi. Sono attratti dall’esplorazione degli oggetti, guidati da domande implicite su proprietà e funzioni e, progressivamente, su ciò che loro stessi possono fare con essi. Affordances e giocattoli Un costrutto importante per comprendere la relazione tra un oggetto e la sua funzione è il concetto di affordance. James Gibson disse che qualcosa che si riferisce tanto all’ambiente quanto all’animale in un senso e sta a indicare quell’insieme di azioni che un oggetto, un dispositivo invita a compiere su di esso a partire dalla forma stessa dell’oggetto. In questo contesto, affordance può essere tradotto con “invito all’uso”, riferendosi tuttavia a una proprietà che non appartiene né all’oggetto stesso né al soggetto che lo utilizza, ma si crea dalla relazione che si instaura fra essi. Ciò che percepiamo delle cose, sostiene Gibson, è prima di tutto l’evidenziazione di significati che invitano all’azione. Gilles Brougère offre correlazioni concettuali interessanti tra giocattolo e affordance: infatti, il giocattolo, con la sua stessa forma e con le immagini che suscita, mette a disposizione del bambino possibili azioni attivate dalla percezione. In questo intreccio complesso tra immagini e azioni innescate, funzioni possibili e rappresentazioni, il giocattolo produce una rete di significati per l’azione. Si tratta di significati decodificati non in modo riflessivo ma attraverso le azioni stesse innescate dall’oggetto. Egli con il suo valore espressivo, il giocattolo stimola il gioco aprendo possibilità di azione coerenti con la sua rappresentazione. Nel giocattolo c’è una rappresentazione che invita a questa attività sullo sfondo del significato dato all’oggetto in un quadro sociale di riferimento. Il giocattolo diviene una sorta di condensatore di molteplici e complessi significati culturali e permette di alimentare questa attività carica di significato che è il gioco. Per adempiere alla sua funzione, deve significare qualcosa che verrà raccolto e interpretato dal potenziale giocatore. Tipologie Il potere evocativo e sollecitante degli oggetti rende necessaria la riflessione sulla scelta di quanto, in un contesto educativo, viene messo a disposizione dei bambini: l’obiettivo dovrebbe essere quello di garantire che la suggestione conservi la sua valenza positiva, la sua forza, senza diventare prescrittiva di un unico modo d’uso possibile. In generale, è auspicabile che il giocattolo possa suscitare, sostenere e trasformare il gioco assicurandone così un duraturo effetto in termini formativi. In sintesi, estrema, è importante offrire oggetti di gioco diversificati e complementari, oggetti di scena multifunzionali privilegiando materiali che stimolino l’esplorazione e la fantasia, strutturati e non, giocattoli, libri, oggetti che orientino alla collaborazione. “Per materiale strutturato intendiamo operativamente un materiale da gioco i cui elementi sono legati tra loro da una precisa rete di relazioni. Ciò significa che all’interno di uno stesso tipo di materiale i diversi elementi che lo compongono stanno in relazione di uguaglianza o differenza o d’ordine o di simmetria sulla base di certe variabili che li caratterizzavano” L’obiettivo prevalente di questi materiali (ad esempio i puzzle) è l’attivazione di funzioni cognitive: percettive, logico-matematiche, linguistiche, all’interno di giochi per lo finalizzati, che richiedono un impegno verso la precisione e l’esattezza, riconducibili maggiormente all’uso del pensiero epistemico/convergente, basato sui principi della logica e dell’argomentazione. I materiali a bassa strutturazione facilitano lo sviluppo di un’ampia gamma di sostituzioni simboliche associate a livelli più alti di gioco di finzione, ampliando gradualmente il repertorio di usi diversi per lo stesso oggetto. I materiali aperti ad ampie possibilità espressive, interpretative, tecniche, simboliche, iconiche “chiamano in gioco” maggiormente il pensiero divergente, analogico, immaginativo-fantastico, narrativo. Sutton-Smith, analizzando la cultura del giocattolo, ne svela la funzione di medium: il suo vero messaggio non è il semplice contenuto di un certo giocattolo, ma è invece il tipo di relazione che il giocattolo instaura con un bambino: indica categorie estetiche di rappresentazione della realtà. Gli oggetti per il gioco si distinguono anche per la dimensione. Immancabili sono, inoltre, materiali che si prestano per esperienze di esplorazione, manipolazione e costruzione, travaso e composizione come l’acqua, la sabbia, la creta; unitamente a materiali che consentono possibili evoluzioni verso le tecniche e i linguaggi espressivi (disegno, pittura, danza, musica). Gli oggetti messi a disposizione dei bambini piccoli dovrebbero avere delle caratteristiche che promuovono le loro potenziali capacità di esplorazione, scoperta e conoscenza: essere abbastanza piccoli da poter essere afferrati con una mano ma abbastanza piccoli da poter essere afferrati con una mano ma abbastanza grandi da non essere ingeriti. L’insieme di oggetti offerti al bambino 1. In primo luogo, c’è un calo dei comportamenti che coinvolgono un solo oggetto alla volta a favore di un gioco caratterizzato dall’accostamento di due o più oggetti. Già verso la fine del primo anno si nota la combinazione di oggetti in gioco. 2. Una seconda tendenza rivelabile è quella che ha a che fare con gli usi appropriati degli oggetti, ovvero in base alla loro funzione. Nel distinguere tra usi inappropriati e usi appropriati il bambino differenzia comportamenti in precedenza indiscriminati, cioè quelli in cui reagiva a tutti gli oggetti allo stesso modo, ad esempio portandoli alla bocca, fino ad arrivare a comportamenti funzionali sempre più frequenti nel secondo anno. 3. Il terzo cambiamento che si verifica tra 1 e 2 anni è un significativo incremento dell’uso rappresentativo degli oggetti, caratterizzato dalla sostituzione mentale di un oggetto con un altro. Le dimensioni, il numero e la tipologia di oggetti dovrebbero tener conto della crescente capacità dei bambini di stabilire relazioni sempre più complesse tra le parti e il tutto. Uno dei processi osservabili quando un bambino gioca con gli oggetti è la categorizzazione, intesa come la capacità di individuare corrispondenze e somiglianze percettive tra oggetti diversi e, sulla base di queste caratteristiche, raggrupparli. Si tratta di una capacità innata che con lo sviluppo diviene sempre più articolata e strutturata. Già verso la fine del primo anno i bambini sono in grado di categorizzare oggetti complessi, che vengono associati in base alla compresenza di una serie di attributi e non di una singola caratteristica: ad esempio percepiscono gli animali nella loro totalità anziché come una collezione di singole caratteristiche. I bambini possono mettere in atto comportamenti spontanei denominati sorting (suddivisione/smistamento) o object grouping (raggruppamento di oggetti). Verso i 18 mesi i bambini sono in grado di categorizzare tra oggetti e immagini con diversi livelli di complessità, non solo in 3D ma anche in 2D relativi a due gruppi, ad esempio animali e veicoli, mediante la procedura sequential touching. Le diverse organizzazioni e correlazioni tra gli oggetti continuano a evolvere verso operazioni sempre più raffinate e complesse: corrispondenza, seriazione, classificazione. Queste capacità evidenziano una rapida evoluzione nel periodo dai 18 ai 24 mesi in correlazione all’apprendimento dei nomi degli oggetti, con l’attribuzione spontanea di “etichette” verbali e la reciproca connessione tra la formazione di categorie e l’apprendimento del linguaggio. A partire da uno studio svolto nel contesto del nido, il volume “Les bébés et les choses, ou la Créativité du développement cognitif” analizza il processo di costruzione di conoscenze nei bambini dai 10 ai 24 mesi e, con nuove e sistematiche analisi, conferma gli studi di Piaget sulla nascita dell’intelligenza e sulla costruzione del reale. Il primo studio (Les bébés et la logique) si concentra su condotte prelogiche, a partire dalla predisposizione di materiali specifici: cubetti contenitori di dimensioni graduate, palline e bastoncini. Sono state osservate 3 tipologie di condotte: 1. Collezioni; 2. Inserimento di un oggetto nell’altro/nesting; 3. Comportamenti di corrispondenza one to one, dove tutti gli elementi di una serie sono messi in relazione uno per uno con tutti gli elementi di un’altra serie. La prima tipologia di attività osservata consiste nella formazione delle prime collezioni, ottenute raggruppando o mettendo oggetti in un contenitore. Le collezioni evolvono diventando sempre più raffinate: vengono formate con oggetti simili (18-20 mesi) e complete (20-24 mesi) di tutti gli oggetti dello stesso tipo a disposizione. La seconda tipologia di condotte è definita inserimento/nesting: tutti i contenitori a disposizione vengono inseriti l’uno nell’altro rispettando l’ordine di grandezza. In questo studio sono stati proposti ai bambini 6 cubi di dimensioni crescenti. A 12-16 mesi i bambini appaiano il cubo più piccolo con uno più grande; poi, con ripetuti tentativi di combinazione, completano l’inserimento di tutti i cubi. La terza tipologia di attività, effettuata dai bambini in tanti modi diversi, è lo stabilire corrispondenze one to one, ovvero la realizzazione di coppie tra due distinte collezioni di oggetti. Un secondo tema affrontato nel citato volume delle studiose francesi riguarda le condotte dei bambini a partire dalle proprietà degli oggetti (Les bébés et la physique). Si tratta di attività di trasformazione fisica, tra cui lo spezzettamento e la deformazione. Verso i 12 mesi il bambino scopre la possibilità di staccare dei pezzi da materiali che si prestano facilmente a questa attività, come ad esempio la plastilina o batuffoli di cotone, ecc. Gradualmente questa condotta diventa sempre più complessa: ad esempio, un batuffolo di cotone viene spezzettato completamente, il bambino si sofferma a guardare i pezzi staccati e poi, sistematicamente, li rimette di nuovo insieme schiacciandoli in modo che stiano uniti, fino a ricostruire nuovamente il batuffolo. Viene evidenziato che in queste situazioni il bambino è molto attento alla deformazione (quando il batuffolo si allunga) e alla separazione (tira il cotone molto lentamente), osservando il graduale cambiamento di forma. I bambini sono interessati alle proprietà del materiale. Tuttavia, nel lungo processo di frammentazione e ricostruzione del batuffolo, il loro interesse sembra focalizzato sull’azione in sé, ovvero su una caratteristica prelogica. Intorno all’anno e mezzo l’interesse verso la frammentazione è al suo picco, poi gradualmente l’attenzione si direziona più sull’uso di strumenti per spezzettare, rompere, tagliare materiali resistenti, mentre la frammentazione in sé sembra perdere d’interesse e diviene lo spunto per produrre qualcosa con le parti di materiali spezzettati. Il gioco è la libertà di scelta di impegnarsi nel gioco e di strutturare o rispondere alle attività di gioco in modo altamente individuale. Una delle possibilità di apprendimento nei giochi con l’acqua è di sperimentare concetti di misurazione per mezzo di contenitori di diverse materie, dimensioni, forma, oppure con oggetti da cui può passare l’acqua. Oltre alla misurazione, in questi giochi i bambini possono acquisire e consolidare il concetto di conservazione della quantità. I bambini che giocano con le costruzioni imparano molto sui concetti spaziali. Una comprensione matura dello spazio è ciò che Piaget e Inhelder hanno chiamato un concetto spaziale euclideo, cioè la grandezza di una stanza, ad esempio, rimane la stessa indipendentemente dalla disposizione dei mobili al suo interno. Creando strutture a due o tre dimensioni, i bambini acquisiscono una migliore comprensione dello spazio bidimensionale e tridimensionale, in cui sono “in gioco” i concetti di area e di volume. Inoltre, sviluppano abilità di visualizzazione, la capacità di tenere in mente l’immagine di una forma e di individuarla e riconoscerla in uno schema più complesso o di combinare mentalmente due forme per creare un disegno. Il terzo studio pubblicato in Sinclair et al. si concentra su “I bambini e il simbolico” (Les bébés et le symbolique) e rinvia al tema dell’imitazione di azioni, diretta e differita, e alle prime condotte che portano al gioco simbolico. Per quanto riguarda gli oggetti, le diverse collezioni utilizzate sono state scelte sulla base del presupposto che ciascuna avrebbe spinto i bambini a porre diversi tipi di domande. Nello specifico, gli oggetti proposti per lo studio del gioco simbolico erano reali o in miniatura e riferiti alle cure quotidiane del bambino che, per la loro affordance, più che l’esplorazione fisica suggerivano quella simbolica (spazzole, bambole, barattoli, pentolini, uno specchio, ecc.) Gli assemblaggi creati con questi oggetti dai bambini nel secondo anno di vita erano generalmente di tipo funzionale. Inoltre, queste raccolte non erano definitive e potevano cambiare di volta in volta. In questa linea evolutiva, i temi e le condotte ludiche sembrano all’inizio più ancorati ai suggerimenti che derivano dagli oggetti, per diventare poi sempre più sganciati dal contesto e immaginari. Nel terzo anno di vita, nel gioco si manifesta la capacità dei bambini di separare pensiero e oggetto: un pezzo di legno comincia ad essere una bambola e un bastone diviene un cavallo. Gli oggetti vengono utilizzati in modo incongruo, con il violare la fissità in modalità particolari. Si tratta di un’espressione del pensiero divergente. Situazioni e oggetti di vita quotidiana possono diventare contesti che suggeriscono il “far per finta” con interpretazioni che derivano dalle esperienze dei bambini. I bambini integrano, nelle loro dinamiche di gioco, oggetti distolti dal loro uso ordinario, modificati o addirittura fabbricati appositamente come ausili dell’attività simbolica. Il gioco simbolico si attua in molteplici situazioni e non soltanto negli spazi della sezione più tradizionalmente dedicate a questa forma di gioco (come l’angolo della cucina). Si verificano in modalità inaspettate in situazioni di vita quotidiana e con gli oggetti più impensabili: l’assegnazione creativa di significati poggia sull’esperienza che viene reinterpretata, operando una trasformazione simbolica degli oggetti. Fenomeni e oggetti transizionali L’oggetto transizionale – ci dice Winnicott – proviene dall’esterno secondo il nostro punto di vista, ma non secondo quello del bambino. Né viene dall’interno; non è un’allucinazione il punto essenziale non è il suo valore simbolico quanto il suo essere reale. CAPITOLO 4: GIOCO E TECNOLOGIE Resnick à “per i bambini di oggi, i computer portatili e i telefoni cellulari non sono strumenti ad alta tecnologia: sono strumenti quotidiani, esattamente come i pastelli e gli acquerelli”. Ferri à “la tecnologia touch ha abbassato di molto l’età di accesso al digitale, dal momento che per i piccoli il tatto è un fondamentale strumento di apprendimento e di conoscenza del mondo”. Dini, Ferlino à “sia pure in modo stilizzato e astratto, per l’assenza di una sensazione tattile, le app richiamano gli atti con cui i bambini manipolano i materiali, le matite colorate, la carta, ecc. Sebbene compiuti su uno schermo, i gesti risultano molto più intuitivi e vicini al vero, rispetto a quello che era ed è consentito dall’uso di menù e finestre con mouse e tastiera”. Oggi uno dei temi che maggiormente preoccupa riguarda la iperconnessione, per fare riferimento alla tendenza dei bambini o degli adolescenti a usare lo smartphone o il tablet per molto tempo e di percepire con fatica il distacco dai dispositivi digitali. Non è facile stabilire che cosa significhi oggi abusarne, se è solo una questione di tempo che i bambini trascorrono giocando con la console o con lo smartphone in mano, se e quanto dipende dal tipo di attività, più o meno interattiva e quindi dai contenuti digitali di cui fruiscono, e/o dal contesto in cui queste attività si svolgono: gioco solitario, con altri bambini, in quali momenti della giornata, con o senza la mediazione-partecipazione-supervisione dell’adulto; il coinvolgimento dell’adulto, in particolare, incide sulla capacità del bambino di trasferire un concetto appreso dagli schermi al mondo reale, soprattutto quando il bambino è molto piccolo, il rapporto tra realtà e finzione è ancora molto incerto e non è ancora in grado di comprendere che ciò che appare sullo schermo è solo un sostituto dell’oggetto reale. Alcune ricerche sottolineano che quando i bambini hanno relazioni positive con i loro caregiver, mostrano un più alto livello di competenza sociale, poiché tendono a rispecchiare con i loro coetanei le modalità con le quali gli adulti si riferiscono loro: a partire dalle relazioni con gli adulti si crea un “effect of relationships on relationships”. Nel primo anno di vita il coetaneo viene riconosciuto come partner sociale (“oggetto” di interesse con tentativi di influenzarlo). Le iniziali “relazioni preferenziali” nel secondo anno di vita evolvono nelle prime forme di amicizia. L’amicizia viene definita come relazione diadica, stabile e affettiva, caratterizzata da preferenze, reciprocità e condivisione di affetti positivi. Durante il secondo anno di vita, molti dei giochi con i pari si basano sulla natura simbolica della comunicazione con una struttura fondata sulla complementarità e la reciprocità, che si evidenziano nello scambio dei turni e dei ruoli in azione tra due bambini. La teoria della mente sostiene che intorno ai 2 anni l’esercizio sistematico del gioco di finzione è precursore della capacità, a 4 anni, di pensare il pensiero. L’imitazione (reciproca o unidirezionale) è importante ai fini dell’apprendimento. Si tratta infatti di una strategia che il bambino usa per avviare le interazioni con i coetanei. Spesso si verifica in situazioni di gioco e presuppone la capacità di osservare e far corrispondere i diversi aspetti del proprio agire a quelli del bambino che vuole imitare e “i processi per cui un bambino osserva e riproduce le attività che ha osservato di un altro, costituiscono potenti meccanismi di costruzione cognitiva e apprendimento”. In sintesi, già a partire dal secondo anno di vita le procedure messe in atto dei bambini per arrivare a giocare insieme sono caratterizzate da una elevata organizzazione delle attività, dell’interazione imitativa, dell’impegno per arrivare allo scambio e alla comunicazione di intenzioni. I bambini già al nido sono in grado di concordare l’alternanza di azioni complementari nella realizzazione di giochi e rituali ludici che durano nel tempo, la creazione di simboli ludici e l’assunzione di ruoli. Nel corso delle interazioni ludiche la mediazione sociale di un compagno sollecita e fa emergere una competenza cognitiva più complessa. Nel corso del gioco simbolico i bambini controllano costantemente il rispetto reciproco delle regole, si impegnano in un’altra regolazione. Si tratta di un processo che implica il confronto dei comportamenti osservati con quelli pianificati, attuando in tal modo dei comportamenti metacognitivi, tra cui la pianificazione e il monitoraggio dei propri processi mentali. Il gioco simbolico esprime l’abilità dei bambini di essere flessibili, mostrando la loro capacità di metacomunicare, di deviare dai canoni della realtà e di creare significati situazionali. Il gioco simbolico diventa gioco e narrazione, gioco sociodrammatico. La partecipazione al gioco sociodrammatico promuove nei bambini la gestione dei sentimenti e delle emozioni, l’alternanza dei turni, una comunicazione efficace e la generazione di idee creative. Migliora la capacità di cooperare in gruppo, la partecipazione ad attività sociali. Il gioco di fantasia di gruppo aiuta i bambini ad apprezzare il fatto che possa esserci una differenza tra sentimenti e comportamenti. Questo apprezzamento migliora significativamente la loro capacità di interagire socialmente con gli altri. Sanno che c’è una differenza tra i loro pensieri e sentimenti e i pensieri e sentimenti dei personaggi che stanno interpretando, e sanno che la stessa distinzione vale anche per i bambini con cui stanno giocando. Non sorprende, quindi, che l’esperienza del gioco sociodrammatico sia collegata allo sviluppo di una teoria della mente. Il gioco del costruire, con costruzioni di diverse tipologie o con materiali di recupero, è un’attività che incoraggia e facilita la socialità tra bambini: sollecita la conversazione, l’attività congiunta e l’interazione sociale. Lo studio di Fontaine, effettuato all’interno del nido, ha preso in considerazione due tipologie di giochi: materiali e attrezzature per la motricità generale e materiali per la manualità fine. I giochi motori sollecitano maggiormente l’osservazione e l’interazione tra compagni rispetto a quelli che impiegano la manualità fine, che invece sembrano incoraggiare maggiormente il gioco parallelo, indipendentemente dall’età. Questo studio ha inoltre confermato l’ipotesi che le interazioni nei giochi motori sono molto amicali e più sviluppate di quelle osservate con l’utilizzo dei giochi di manipolazione fine. Gioco e movimento all’aperto Maggiori possibilità di movimento e di gioco sociale sono favorite dalla varietà delle caratteristiche ambientali. Molti bambini sono semplicemente più rilassati all’esterno, trovando un ambiente di maggiore libertà di movimento ed esplorazione, di immersione sensoriale che genera benessere. Il gioco scatenato, o turbolento, o rough-and-tumble play e il gioco in generale presentano differenze culturali anche intrecciate a quelle di genere. CAPITOLO 6: L’ADULTO E IL GIOCO La pratica educativa riflette una sostanziale oscillazione, presente anche nella riflessione teorica, tra il preservare il gioco, e il gioco simbolico in particolare, dalle interferenze e dagli interventi dell’adulto e il prevedere invece un possibile spazio di intervento più diretto, di partecipazione dell’adulto al gioco dei bambini. Ci sembra importante non contrapporre questi possibili ruoli e connetterli entro un continuum. Riconoscere la centralità del gioco, nei contesti 0-6, significa predisporre spazi adeguati e concedere tempi dilatati a quest’attività, arricchirla attraverso proposte di esperienze educative finalizzate a espanderne i contenuti e le trame, partecipare al gioco dei bambini secondo una strategia delicata e interattiva, che consente non solo di arricchire i loro giochi, ma anche di ampliare le loro conoscenze. Nei servizi per l’infanzia, diversamente da ciò che può avvenire nel contesto domestico o al parco o su una spiaggia, forse l’adulto si ritira di più sullo sfondo perché c’è il gruppo, ci sono gli altri bambini, ma l’adulto è sempre più o meno vicino, più o meno in osservazione e in ascolto, più o meno attivo e coinvolto, ma comunque è presente: è parte del contesto, ne è responsabile e lo abita insieme ai bambini. Il gioco richiede innanzitutto un contesto che lo consenta e lo favorisca: non richiede di essere indirizzato dall’adulto, ma valorizzato e sostenuto. L’intervento dell’adulto nel gioco non è obbligatorio e soprattutto non deve essere ingombrante: man mano che i bambini crescono e possono imparare anche dai coetanei più esperti, l’adulto entra nel gioco se e quando serve, ma comunque, in modo più o meno intenzionale e consapevole, predispone il contesto fisico e sociale del gioco. La capacità di giocare e di sintonizzarsi con il bambino anche attraverso il gioco è una competenza che si allena e si forma e che richiede innanzitutto la capacità di osservare il gioco e di mettersi in ascolto. Il contenuto, il tema del gioco li sceglie il bambino e tutti i giochi sono leciti, purché restino nell’ambito della finzione. L’adulto può intervenire senza protagonismi, in modo discreto, non intrusivo, per facilitare l’uso dei materiali, per mediare le interazioni ludiche tra i bambini, per far evolvere le esplorazioni e le trame ludiche, talvolta anche solo invitando i bambini a verbalizzare i ruoli e le situazioni che stanno inscenando, favorendone la condivisione, oppure limitandosi a fare commenti e riprese che possono rilanciare e ampliare e indirettamente suggerire direzioni di approfondimento e arricchimento del gioco in corso. “Con una categorizzazione un po’ forzata, al netto delle sfumature, l’analisi degli studi sul tema permette di individuare quattro modalità principali di rapporto tra adulto/insegnante e gioco infantile: assenza di coinvolgimento, e quindi gioco libero interamente guidato dal bambino; gioco supportato dall’adulto; gioco guidato dall’adulto; gioco co-costruito tra adulto e bambino. L’adulto innanzitutto progetta e predispone gli spazi e i materiali per il gioco, opera delle scelte che riguardano la tipologia, la quantità e la varietà degli oggetti. La libertà di scelta non va confusa con un allestimento confuso e disordinato che non struttura il gioco ma lo inibisce; uno spazio curato, bello, attraente, incoraggiante – che non significa allestito con materiali costosi, pieno di giocattoli o sovraccarico di stimoli – di per sé non innesca la voglia di giocare, ma sicuramente la alimenta. La competenza fondamentale è sempre quella osservativa, il saper osservare il gioco dei bambini, da soli e con gli altri, per capire innanzitutto se stanno bene, se hanno voglia di giocare, se e come giocano o se non riescono a giocare. Osservare con interesse autentico per cogliere temi, interessi e bisogni dei bambini, non solo per rintracciare indizi di apprendimento ma innanzitutto segnali di benessere, della loro voglia di fare, esplorare, prendere l’iniziativa, impegnarsi, divertirsi, concentrarsi su qualcosa. La capacità dell’adulto di saper osservare e raccontare il gioco aiuta anche a cogliere, a vedere e ricostruire le storie di apprendimento di ciascun bambino. Attraverso il gioco il bambino esprime ciò che pensa e ciò che prova: in ambito clinico il gioco viene utilizzato come strumento diagnostico e terapeutico, via di accesso al mondo interno infantile dove i conflitti profondi e le emozioni negative possono emergere ed essere ridiretti attraverso la relazione con il terapeuta, ma la consapevolezza del nesso tra attività ludica e vita psichica non deve essere utilizzata da chi opera nel contesto educativo per agire interventi che attengono all’ambito terapeutico. L’adulto non si impossessa del gioco del bambino, indirizzandolo e piegandolo ad altri scopi: il suo ruolo non è quello di stabilire le regole, i contenuti o le forme del gioco, ma quello di garantire il mantenimento della cornice ludica intesa come area protetta dove la dimensione della finzione ridimensiona la paura e la rende affrontabile, dove la sconfitta non viene vissuta come fallimento, dove una lotta è una lotta per finta e non ci si fa male per davvero. Sostenere il gioco significa anche entrare nel gioco per facilitare l’uso dei materiali o mediare le relazioni tra i bambini, preoccuparsi di farlo evolvere prestando loro gesti e parole quando ci si rende conto, ad esempio, che un bambino vorrebbe ma non riesce a inserirsi in un gioco con gli altri, che è in difficoltà, che si arrabbia perché non riesce ad azionare una trottola, ecc. L’adulto può aiutarlo senza sostituirsi a lui, attraverso quel delicato intreccio e dosaggio di interventi e strategie di sollecitazione della motivazione, focalizzazione dell’attenzione, semplificazione del compito, suggerimenti verbali e incoraggiamenti che sostanziano l’azione di tutoring. Anche la posizione dell’adulto nello spazio influenza le condotte, veicola messaggi, opportunità, limiti, influenza le relazioni, le aggregazioni sociali, la condivisione delle attività tra bambini, lo svolgersi delle situazioni esplorative e ludiche. Sappiamo bene quanto il suo essere in piedi, seduto (a terra o su una sedia), il suo spostarsi o stare fermo in una zona, può rappresentare un marcatore significativo della cornice ludica. Quando l’educatore è seduto in mezzo all’area del gioco i suoi spostamenti sono molto più evidenti e possono destrutturare la situazione che si è creata; la vicinanza dell’adulto veicola sicurezza, ma può essere anche fonte di perturbazione e di questo l’adulto deve essere consapevole. Una ricerca condotta nel contesto del nido conferma che i bambini dimostrano di essere molto sensibili alla presenza dell’adulto, lo vivono come base sicura e punto di riferimento che struttura il gioco: la prossimità dell’educatrice è riconducibile a un maggior numero di richieste del ruolo di cassaforte e oggetto di attività simbolica; mentre le richieste di azioni e di informazioni, come pure la funzione di spettatore-ascoltatore, sembrano essere maggiormente sollecitate dai bambini quando l’adulto si trova a maggiore distanza.