Scarica Riassunto di "GLI OPERATORI DELL'EMERGENZA, Fattori di rischio e di protezione" (C. Iacolino, B. Cervellione) e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Clinica solo su Docsity! GLI OPERATORI DELL'EMERGENZA Fattori di rischio e di protezione Intro: La Psicologia dell'Emergenza è quel settore della psicologia che si occupa degli interventi clinici e sociali in situazioni di contesti emergenziali. Costituisce l'insieme di molti contributi appartenenti a diversi settori della psicologia, tra cui: Psicologia dello Sviluppo, della Comunicazione, Clinica, etc. Si aggiungono anche altri contributi come la medicina e la sociologia. Lo scopo di tale disciplina è quello di comprendere quali siano i processi psicologici implicati in condizioni fuori dall'ordinario contesto di vita. La ricerca della Psicologia dell'Emergenza indaga tutti i processi psichici sia a livello individuale che di gruppo (familiare/organizzativo) in contesti "emergenziali". Cap.1 - LA PSICOLOGIA DELL'EMERGENZA E IL PERSONALE DI SOCCORSO 1.1. Definizione di emergenza: in Italia, la Legge 225 del 1992 (Art.5) del Servizio Nazionale della Protezione Civile, definisce "emergenza" qualsiasi tipo di situazione in cui vi è la necessità di attivare delle risorse di soccorso che non rientrano in situazioni di ordinaria quotidianità. L'art. esplica, nello specifico, quali soggetti possono decretare uno stato di emergenza e a quali condizioni. Nell'Art.5, invece, viene fatta la distinzione tra: Incidenti semplici→ sono quegli eventi dannosi naturali o causati dall'uomo (es: incidente stradale, piccola frana, incendio) che possono essere fronteggiati da enti singoli/amministrazioni competenti per via ordinaria. Non scenari complessi, ma situazioni per il singolo individuo/la sua famiglia/la squadra dei soccorritori e possono scatenare una gravissima esperienza esistenziale. Le risposte psicologiche/reazioni alle crisi a determinati eventi sono assimilabili a quelle in contesti di crisi allargata. La differenza con l'incidente complesso sta proprio nell'impatto sistemico che porta con sé il numero delle persone toccate dal problema. Incidenti complessi→ situazioni ad alta criticità in cui sono coinvolte numerose persone e che possono essere fronteggiate con l'intervento di più enti/amministrazioni competenti per via ordinaria. Es: incidente industriale con decine di vittime richiede il coordinamento di più tipologie di soccorritori (vigili del fuoco, Forze dell'ordine, etc). Nonostante ciò, la vastità del danno non arriva ad intaccare reti di comunicazione e dei trasporti e, quindi, non viene compromessa la capacità di risposta del corpo sociale (≠ dalla catastrofe/disastro). Tutte le comunità non rispondono allo stesso modo ad un determinato evento critico: una comunità si può mostrare vulnerabile di fronte un determinato evento rispetto ad un’altra comunità. Il concetto di disastro, in letteratura, mette in risalto una serie di sfumature differenti, tra le quali la distinzione tra eventi naturali e eventi artificiali/tecnologici. Le caratteristiche principali sono: l'imprevedibilità, il suo essere geograficamente/temporalmente circoscritto, l'interferenza con la vita ordinaria e lo squilibrio tra le richieste poste dal verificarsi della situazione e la capacità di farvi fronte. Qualunque sia la natura del disastro, questo creerà un clima generalizzato di allerta/"stress massivo collettivo”→ Stress non inteso come negativo, ma come uno stato di attivazione che permette al sistema di rispondere adattivamente ai cambiamenti che si presentano; idem una comunità si attiva per poter fronteggiare la situazione e per sopravvivere. Contesto di emergenza: da un punto di vista legislativo, il termine “emergenza” racchiude una configurazione situazionale specifica dove a una specifica tipologia d’incidente corrispondono tipologie di attivazione, norme, bisogni e risposte possibili; dal punto di vista psicologico è una situazione interattiva caratterizzata da: la presenza di una minaccia; una richiesta di attivazione e decisioni rapide; la percezione di una sproporzione improvvisa tra bisogno e potenziale di risposta attivabile dalle risorse immediatamente disponibili; da un clima emotivo congruente. Lo stato di "emergenza": Che cos’è uno stato psicologico di emergenza? Che cosa significa trovarsi in uno stato psicologico di emergenza per gli umani? Quali sono i processi mentali che sottostanno ad una situazione d’emergenza? E non appena lo stato emergenziale di attenua, la psiche ritorna ad esse uguale a prima? A queste domande non è possibile poter dare una risposta semplicistica, però è, altrettanto possibile analizzare il fenomeno da un punto di vista scientifico→ secondo la definizione dell'American Psychological Association (APA): un individuo si trova in uno stato di emergenza quando percepisce che la propria vita, o quella delle persone a sé vicine, è a rischio. La Psicologa Anna Axia spiega anche che considerare l'emergenza come stato psichico dà sviluppo ad un quadro integrato in modo logico, che rappresenta il diagramma di flusso di base della Psico. dell'Emerg. (vedi fig. pag. 18). Sempre secondo Axia, negli individui, lo stato di emergenza viene filtrato attraverso gli antecedenti individuali (es: fisiologia, età, tolleranza allo stress fisico/mentale, etc). L'entrata in uno stato di emergenza dipende dalla valutazione cognitivo-emotiva che l'individuo fa dell'evento e delle proprie risorse→ tale valutazione (del pericolo di vita) dipende molto dalla personalità individuale: dai tratti temperamentali/caratteriali ed esperienza personale. Una volta che si avvia lo stato psichico di emergenza, l'uscita da esso potrà avere effetti psichici a lungo termine. 1.2. Origini della disaster psychology: Non è mai mancata l'assistenza umanitaria (morale/psicologica) alle vittime di eventi in emergenza, ma bisogna attendere gli anni '60 (dello scorso sec) per vedere dei cambiamenti nel modo di concepire e gestire le emergenze collettive. 1967-76→ le reazioni psicologiche delle vittime nei contesti emergenziali diventano capostipiti; 1967-77→ diventano pionieristici gli studi in letteratura riguardanti le reazioni delle persone coinvolte nelle emergenze in base alla loro: personalità, fasce d'età, livello di integrazione sociale, condizioni psichiche pregresse all'evento emergenziale; vengono studiate le variabili sociali e fasce d'età che possono essere a rischio, i disturbi che compaiono con frequenza e i rischi a cui vanno incontro i soccorritori in emergenza→ tali concetti pongono le basi per la "disaster psychology". Anni '80→ in ambito psicosociale, nuove ricerche hanno messo in evidenza che le reazioni della comunità colpita si sviluppano per stadi: I. Fase eroica; II. Fase della luna di miele; III. Fase della disillusione; IV. Fase della ristabilizzazione. →Altri studi portarono alla costruzione di un programma sugli interventi psicologici dopo il disastro: "Crisis Intervention Program" che mira a neutralizzare l'impatto degli eventi realizzare un progetto di ricerca allo scopo di individuare test e procedure che potrebbero essere d'aiuto in futuro. Gli autori raccolsero i dati attraverso la somministrazione di questionari strutturati, interviste, una valutazione clinica e un colloquio. Il colloquio si servì di interviste al fine di: ottenere un resoconto descrittivo della scena del disastro; di rilevare le eventuali reazioni emotive durante l'intervista; di effettuare una valutazione clinica; di rassicurare i soggetti che le loro reazioni non sono sintomi clinici pregressi. Dallo studio fu generato il concetto di "stress da disastro" e una "classificazione delle vittime”. Dai risultati emersi evinsero che: il 38,5% dei partecipanti fu influenzato negativamente; i disturbi diminuirono dalla valutazione a 12 settimane dall'evento; i livelli di stress possono ridursi se viene eseguita la tecnica debriefing subito dopo il lavoro di soccorso. Nel sistema di classificazione delle vittime, identificarono in 6 diversi livelli (l'identificazione è utile per poter stabilire gli interventi più efficaci per ciascuna delle persone coinvolte): Vittime di I° livello: Quelle che subiscono in prima persona l'evento, potrebbero non sopravvivere o salvarsi sviluppando dei sintomi di lieve o grave insorgenza clinica: possono essere sia di tipo transitorio e/o cronico. Dovranno poi ricomporre le parti sgretolate della loro vita iniziando a ricostruire la loro piramide dei bisogni soddisfare (prima i bisogni di base e poi quelli di appartenenza, sicurezza, autostima e autorealizzazione). Alcune potrebbero avere delle problematiche pregresse, dovranno allora affrontare e rimettere insieme gradualmente i pezzi della loro vita, al fine di poter raggiungere una percezione il più possibile funzionale della situazione disastrosa. Vittime di II° livello: Quelle che, a seguito della morte dei propri cari, avranno bisogno di tempo per esprimere la loro rabbia/disperazione. Vivono una sofferenza indiretta che si propagherà sulla base del loro attaccamento emotivo alle vittime del disastro. Da ciò determinerò la qualità/grado di supporto a loro necessari. Vittime di III° livello: Coloro che lavorano nelle aree sanitarie/tecniche, nelle Protezioni Civili, nelle Croci e che soccombono allo stress/fatica professionale impliciti nei loro incarichi a posteriori rispetto al disastro. La loro tensione vissuta potrebbe essere cronica, in quanto potrebbero non avere a disposizione le risorse sufficienti per continuare a soddisfare le richieste dell'Altro e a identificarsi smisuratamente con le vittime del primo livello. Vittime di IV° livello: Persone caritatevoli e preoccupate per la comunità, coloro che non hanno subìto l'evento traumatico ma che sentono una certa responsabilità per l'evento. Categoria definita "Cornucopia syndrome", tutte quelle persone che addirittura donano i loro averi a chi ha perso tutto. È anche vero che aiutare in modo autonomo dalle organizzazioni non è funzionale, in quanto si potrebbe incorrere nello sviluppo di sintomatologie cliniche con l'identificazione disfunzionale con le persone coinvolte e alcuni potrebbero persino sperimentare lo "stress post-disastro per procura" attraverso le notizie dei media. Vittime di V° livello: Persone con condizioni pre-impatto critiche, soggetti le cui condizioni potrebbero essere problematiche/patologiche, in momenti di fantasmagoria possono perdere persino il controllo si sé stessi. Alcuni, a causa di problemi precedenti all'evento, attraverso la visione di certe immagini dei media, potrebbero fingere di essere stati coinvolti nel grave disastro ai fini di acquisire notorietà o di giocare sulla sensibilità delle persone di chi offre denaro per aiutare i realmente colpiti. Altre potrebbero essere coloro che in tempi di emergenza perdono il controllo e vanno in giro a saccheggiare. Incluse nel livello vi sono persone che hanno un'estrema difficoltà nell'assecondare le loro fantasie, che li portano, addirittura a collezionare alcune parti del corpo, fenomeno definito dai media come "turismo macabro". Fanno parte anche coloro che attraverso i mezzi di info, cercano di attirare l'attenzione degli spettatori. Vittime di VI° livello: Persone che cercano di far fronte alle diverse problematiche sperimentate. Questo livello è un gruppo misto di vittime che non sono necessariamente dirette/indirette, include, infatti, tutte quelle persone che in tutta onestà avevano persuaso amici/conoscenti ad incorrere in una situazione che sarebbe diventata un disastro. Il livello comprende anche quelle persone che sarebbero state coinvolte in prima persona se non fosse intervenuto il caso. Tale livello potrebbe anche essere composto da medici/ricercatori che nel loro lavoro erano del tutto inconsapevoli degli effetti insidiosi e della fatica lavorativa in assenza di reti di supporto e di aiuti insufficienti ai fini di ricoprire gli impegni e prassi regolari. Lo stress nelle situazioni emergenziali→ il concetto di “stress” costituisce uno dei punti inamovibili delle conoscenze proprie della Psico dell’Emerg. (continua nel manuale cap 10 par 2) Il personale di soccorso nell'emergenza: OPERATORI PROFESSIONISTI→ Le tipologie possono essere varie in base all'area di riferimento: area di soccorso/sanitaria: categorizzati col termine helping professions (professioni di aiuto), tutta quella categoria di operatori la cui attività si basa sull'aiutare le altre persone. Ciò che li differenzia dai volontari è la formazione, il ruolo svolto, la diversa assunzione di responsabilità ed il tempo che prestano all'attività sanitaria. Area tecnica: sono i vigili del fuoco, figura professionale costantemente chiamata a svolgere attività fisicamente e psicologicamente molto impegnative. Da un punto di vista psicologico (sia le helping professions che i vigili del fuoco) sono riconosciuti come categorie professionali in grado di far fronte all'elevato stress/sforzo mentale e trauma psicologico. Gli operatori dell'emergenza operano sempre con l'incognita di non sapere e devono: saper gestire situazioni complesse/drammatiche; essere in grado di interagire con diverse figure professionali (possedere una forte capacità di fidarsi reciprocamente); essere capaci di confrontarsi con la morte; saper prestare servizio a persone in preda all'ansia, attacchi di panico/shock; La letteratura riguardante le motivazioni e le emozioni degli operatori professionisti nel loro servizio, riscontra come (nell'emergenza sanitaria ed extra-ospedaliera) siano motivati dalla possibilità di aiutare il prossimo e riportino emozioni positive (come interesse, serenità, empatia): la possibilità di aiutare gli altri appare essere la loro chiave di volta. Sbattella e Pini, chiedendo agli operatori professionisti sanitari di pensare a prestare soccorso a bambini feriti, fanno notare che il quadro cambia: risulta esserci intenso coinvolgimento emotivo ed emozioni come paura/angoscia e, quindi, dimostrano che le loro reazioni emotive/cognitive sono dinamiche e non statiche. In relazione alle loro reazioni psicologiche, Hartsough e Myers idealizzano un modello comprendente 4 fasi: Fase 1: "Allarme": inizia quando viene comunicato l'evento, un leader diffonde le info e gli operatori si raccolgono in gruppo; Fase 2: "Mobilitazione": attivazione psicofisiologica e creazione di aspettative al fine di intraprendere azioni efficaci; Fase 3: "Azione": iniziano a dedicarsi all'intervento, che ha un tempo variabile in base all'entità del disastro (può durare giorni e mesi); Fase 4: "Smobilitazione": si ritorna alla vita lavorativa "quotidiana", si cerca di ristabilire uno stato cognitivo/emotivo più o meno stabile. Considerando che alcune reazioni sono state inibite, possono emergere emozioni negative come ansia, rabbia, delusione, sensi di colpa, pensieri ossessivi, etc. In una giornata in cui gli interventi possono essere multipli, il passaggio dall'emergenza alla normalità potrebbe poi non essere così immediato. OPERATORI VOLONTARI→ Non è facile dare una risposta univoca su cosa spinge le persone a diventare dei soccorritori "volontari", considerando che tale scelta li espone a rischi psicologici di diversa entità. Una delle nazioni considerate per lungo tempo attiviste sono gli USA: circa 93milioni le persone che ogni anno svolgono servizi volontariato. L'attività di volontariato produce benefici sia per chi ne usufruisce e sia per gli stessi volontari, in quanto promuove lo spirito pubblico, accresce il valore di sé, la percezione di essere utili, offre opportunità per sviluppare ed esercitare le proprie abilità e migliora realmente la salute fisica. Il volontariato è una forma specifica di comportamento di aiuto, che ha caratteristiche proprie e condivide molte proprietà con altre forme di azione sociale su cui sono state condotte diverse ricerche. Es: alcune di queste ricerche analizzano le situazioni in cui potenziali fornitori di aiuto che si trovano, inaspettatamente, nella condizione di dover prestare soccorso a sconosciuti→ si osserva che l'aiuto è spontaneo e normalmente si esaurisce in rapporti di breve durata e, di solito, non implica contatti precedenti/successivi. Alcuni ricercatori hanno cercato di spiegare tale comportamento di aiuto considerando il riflesso di interesse umanitario, tipico delle persone altruiste. Altri sostengono, invece, che l'aiuto può essere spinto anche da interessi egoistici. Gli interrogativi sul perché le persone aiutano volontariamente riguardano soprattutto la motivazione e, uno degli approcci alla comprensione di essa, è quello funzionalista, suscettibile da diverse interpretazioni: Secondo Snyder e Cantor→ un approccio funzionalista è interessato alle ragioni/scopi, ai bisogni/obiettivi che sottendono e generano fenomeni psicologici. Nella psicologia sociale e in quella della personalità→ gli argomenti del funzionalismo hanno interesse allo studio degli sforzi attivi/intenzionali compiuti dagli umani per il raggiungimento di fini personali e sociali (es: la centralità della pulsione di Freud, fonte di spinta e controspinte; la concettualizzazione di Erikson del processo di sviluppo, inteso come percorso che si snoda attraverso lo svolgimento di compiti evoluti specifici delle varie fasi). Nel volontariato→ un'analisi funzionalista si focalizza sui modi in cui le persone costruiscono la loro agenda per l'azione volontaria, identificano le proprie motivazioni, cercano e perseguono opportunità che ritengono possano rispondere alle loro motivazioni e sostenere/mantenere il loro svolgimento. Dunque, assunto centrale della teoria funzionalista è che le motivazioni sono legate ad un'agenda che guida/dirige lo svolgimento dei piani di azione. Secondo Marta le forze motivazionali dei volontari possono essere utilizzate a 4 livelli: Livello Personale: essendo le agende delle forze motivazionali che spingono all'azione, i volontari finalizzano le loro azioni all'affermazione dei propri valori personali, all'incremento della propria autostima e all'affinamento delle proprie abilità; 7. fare in modo che l’identificazione dei servizi di supporto psicologico sia di facile fruizione; 8. favorire il coinvolgimento della popolazione interessata dall’evento nelle azioni di soccorso e di ricostruzione. Occorre ora indagare l’importantissimo compito degli stessi psicologi rivolti all’intervento di sostegno psicologico sui soccorritori nei giorni successivi al disastro, è chiaro che tale lavoro richieda un background clinico e una conoscenza specifica delle reazioni allo stress (disturbo da stress post-traumatico, intervento in crisi, natura del lavoro in contesti d’emergenza, gestione dello stress e dei protocolli di interventi altamente specializzanti. Mitchell e Dyregrov dicevano “un genere di aiuto sbagliato in un momento/circostanza sbagliate può essere più dannoso dell’assenza di ogni aiuto”. Fattori di rischio del personale di soccorso Il personale di soccorso può incorrere in diverse tipologie di rischi professionali, possono essere: oggettivi→ l’esposizione a pericoli fisici imprevedibili, l’incontro con la morte/resti umani, l’incontro con la sofferenza altrui, la percezione negativa dell’assistenza offerta alle vittime, l’ambiguità del proprio lavoro, la mancanza di sistemazioni adeguate; soggettivi→ l’eccessiva identificazione con le vittime, gli errori umani, il senso di fallimento, le lesioni personali, stress preesistente, scarsa preparazione professionale/personale, l’esistenza di traumi pregressi, etc. Il personale di soccorso è soggetto ed esposto all’ “evento critico di servizio” = un evento professionale che ha le potenzialità per poter sopraffare le usuali strategie di coping messe in atto dall’operatore e da cui ne deriva distress e deterioramento del normale equilibrio psicologico. Tra gli aspetti che influiscono sulla stabilità psichica dei soccorritori, è possibile menzionare le ricorrenti esposizioni a scene di morte traumatica. Nei casi che riportano la presenza di cadaveri mutilati/bruciati, la forte stimolazione sensoriale olfattiva che ne deriva porta al fenomeno “allucinazione olfattiva”, associata a comportamenti compulsivi e collegata a intrusività ed evitamento degli stimoli associati all’esposizione. L’esperienza traumatica potrebbe derivare dalla relazione di aiuto che si instaura con l’altro che sta soffrendo o è in fin di vita. Cap 2 – LO STRESS E LE SUE COMPLICANZE: LE REAZIONI PSICHICHE NEL PERSONALE DI SOCCORSO 2.1.1. Lettera dall'Australia: il racconto di Ray L'incidente (Walkden e Watt, 1994) → Era il 1989, a quasi tre giorni dal 25 dicembre, nelle prime ore del mattino due pullman, colmi di passeggeri, sono usciti fuori rotta scontrandosi. L'impatto è stato così violento che persino i bulloni fissati nelle sedie slittarono via. C’è chi è riuscito a sopravvivere e chi invece non ce l'ha fatta. Il ripristino della situazione emergenziale è stato molto difficile, Il personale di soccorso ha dovuto lavorare nello spazio confinante tra i due pullman. È stata creata una camera mortuaria temporanea. Sono morte trentacinque persone e moltissime altre hanno subito gravissime ferite. La gravità dell'evento fu così spietata che nelle prime 12 ore è stato necessario l'intervento di moltissime figure del personale di soccorso, costituito anche da volontari di associazioni umanitarie e volontari generici. Ray era un membro del "The State Emergency Service" del gruppo locale di Kempsey ed è stato uno dei primi operatori dell'emergenza ad arrivare sulla scena. Quando si trovò sul posto, era ancora molto buio. Si sentivano le urla delle persone intrappolate e in quel momento pensò che sarebbe stata una grande operazione di salvataggio 2.1.2. Il caso di Ray (Walkden e Watt, 1994) Il dispositivo elettronico di Ray per le emergenze suonò alle 3:45 del mattino, facendolo correre fuori dal cancello di casa in pochissimi minuti, Quando arrivò era ancora buio sulla scena d'emergenza, e sentiva la gente urlare. Intervenne per montare il sistema di illuminazione e fino ad allora non ci si poteva rendere conto dell'estensione dell'incidente. Solo in quel momento iniziò a realizzare la gravità della situazione. Era necessario lavorare in modo rapido: si inizio praticando dei fori nei lati del da pullman cosi poter togliere le lamiere. Quattordici ore più tardi, Ray viveva momenti di spaesamento. Non riusciva a comprendere i suoi stati emotivi. Durante la sessione di de briefing era diventato teso, esprimendo una forte preoccupazione per tutti gli operatori in quanto era il responsabile della formazione dei soccorritori e questo lo rendeva fortemente ansioso. Pronunciava frasi di questo genere: «Per me è stato come portarli dentro ad un fuoco e non sapendo completamente come farli uscire da lì». Dopo la sessione di debriefing, riportava stati di ottundimento emotivo, si ritrovò fuori dalla sessione in piedi senza sapere cosa stesse facendo. La maggior parte delle scene che vide in quella notte rimase impressa nella sua mente per diversi giorni, non riusciva a dormire, sino a quando bevve un forte drink e, solo allora, andò a dormire. Trovò molto difficile comunicare nei giorni successivi. In quei giorni si trovava in ferie, in previsione del Natale, ma non fece nulla di quello che si era prefissato di fare in quelle giornate. Il giorno di Natale, tutta la sua famiglia si era riunita nel soggiorno a guardare la televisione. Nel pomeriggio una coppia di amici andò a trovarli ma Ray non aveva molta voglia di conversare e socializzare. Soltanto quando cominciò a mentalizzare l'evento accaduto, si rese conto di quanto fosse emotivamente sconvolto e di come il suo umore instabile potesse aver colpito tutta la sua famiglia. La moglie ha cercato di interagire col marito, nel tentativo di fargli comprendere la situazione vissuta e di fargli capire che non stava andando tutto bene. Dopo circa tre giorni dall'accaduto, fece una passeggiata e provò delle brutte sensazioni anche in alcune mansioni di routine era fisicamente e mentalmente impossibile fare qualsiasi cosa. In un attimo, gli tornava alla mente la scena dell'incidente, tutto quello che aveva dovuto vedere e tutto quello che aveva dovuto fare. Ha iniziato a sentirsi un po' meglio, dopo una settimana, partecipando alle sessioni di de briefing. Sua moglie solo dopo qualche tempo, è riuscita ad entrare in contatto con Ray, per la prima volta, hanno parlato dell'accaduto. È riuscito a tornare a lavorare subito dopo le sessioni di debriefing, grazie anche alla chiarificazione con la moglie. Il ritorno a lavoro, tuttavia, è stato combattuto. Nonostante lo svolgimento delle attività lavorative, la mente di Ray continuava a rivivere l'esperienza dell'evento vissuto. A lavoro si parlava dell’accaduto e ciò ha scombussolato Ray che anziché progredire, regrediva. Durante le giornate, gli sarebbe piaciuto farà un fare il suo lavoro come aveva sempre fatto, i suoi colleghi e i suoi amici chiedevano e richiedevano. Gli sarebbe piaciuto, anche rendere la casa tranquilla. Ray non riusciva a ricordare nemmeno cosa avesse visto la sera in televisione e cosa avesse fatto la sera prima e descrive la sensazione di vuoto. A prescindere da alcune situazioni alquanto spiacevoli, la maggior parte degli incidenti diventano parte del lavoro del soccorritore in emergenza Nel soccorso, è comune vedere persone morte o vederle morire ma quando accadono eventi di questo genere, è possibile lasciarli andare fisicamente ma non mentalmente. Nonostante l’impatto traumatico subito per Ray è stato vitale tornare a parlare con il personale di soccorso coinvolto, rassicurandoli di aver fatto il meglio e mettere in risalto anomalie per migliorare in futuro. Il debriefing è stato essenziale per riordinare le idee. Col passare del tempo gli incubi rallentano, anche se nelle giornate persistono dei flashback. 2.1.3 Discussione del caso (Walkden e Watt, ‘94) Dall'analisi di Walkden e Watt Right, Ray trovò difficile comunicare per diversi giorni dopo l'evento emergenziale e da un punto di vista emozionale si sentiva smarrito, preoccupato continuando ad avere pensieri e ricordi ricorrenti dell'evento. Queste sono le reazioni da stress post‐traumatico. 2.2 Lo stress e le situazioni emergenziali Il costo dello stress è una delle cose più importanti che possiedo in Psicologia di Emergenza. Oggi non esiste più il termine abusato di "stress". Dunque, cosa si intende per stress? I latini, per indicare questa sensazione, usavano il verbo stringere. Fu l'endocrinologo Hans Selye (1956) a portare tale terminologia nell'ambito dello studio sulle emozioni. Attraverso studi empirici, osservando la serie di reazioni biochimiche prodotte negli animali del laboratorio, propose un modello di stress fisiologico: minacce dell'ordine fisico e biologico che possono compromettere l’omeostasi dell'organismo, vale l'equilibrio che lo lega al suo ambiente. Anni dopo le osservazioni scientifiche, il fisiologo W. Cannon studiò tale costrutto da un punto di fisiologico e mise in evidenza i fondamenti legati alla reazione da stress: il fight or flight response e l’omeostasi '. H. Selye (1971) chiamò stressor la fonte della minaccia e stress la risposta fisiologica annessa. Grazie all’osservazione dell'animale da laboratorio, notò che gli agenti stressanti provocavano rimpicciolimento del timo e dei linfonodi, l’ingrossamento della corteccia surrenale e la formazione dell'ulcera gastrica. L'endocrinologo divise il processo di risposta alle minacce ambientali in 3 fasi generando la teoria capostipite delle sue osservazioni: la sindrome generale di adattamento(GAS) Robert Jay Lifton fu uno dei primi a studiare le reazioni degli operatori in emergenza soprattutto quelli che riguardano gli effetti devastanti della bomba su Hiroshima. Dati riportarono che soccorritori mostravano intensi sentimenti di paura, rabbia, odio e risentimento che spesso interferivano con il loro lavoro. Gli studi condotti da Jones, Ursano e collaboratori hanno rivelato che i soccorritori in contesti emergenza sembrano essere più sintomatici rispetto a un gruppo di controllo non esposto ad eventi drammatici o addirittura a pari livello delle vittime di primo livello Tuttavia è stato evidenziato che è possibile una generale capacità di recupero e mantenimento del benessere da parte dei soccorritori. Studi condotti da Leffler e Dembert riscontrarono che alcuni soccorritori riportavano persino dei benefici in seguito all'esperienza vissuta nel contesto emergenziale e per tale motivo a partire dagli anni ‘80 si cominciò ad indagare su quali fossero le strategie di coping messe in atto dai soccorritori. 2.3 Neuropsicologia ed emergenza In una situazione d'emergenza come si comportano le persone? Quali sono le azioni che intraprendono per allontanare La minaccia? Si sente dire ho avuto “sangue freddo” o “si è lasciato prendere dal panico”. La paura a livello evoluzionistico rappresenta un'emozione la base mia risposta istintiva nei contesti emergenziali, è la reazione emotiva più importante in cui il cervello ha poco tempo da perdere e può saltare i circuiti più particolari per affidare la vita e circuiti automatici che hanno fatto sopravvivere al pericolo la maggior parte degli esseri viventi. 2.3.1 La neurobiologia dello stato psichico in situazioni emergenziali L'ipotesi principale del grande lavoro di LeDoux è che l'evoluzione abbia creato nel cervello della maggior parte delle specie di venditori di sistema difensivo in grado di accorgersi del pericolo imminente e attivare. Risposte negli esseri umani tale sistema e intricato alla percezione soggettiva. Il sistema difensivo è prodotto di una programmazione genetica e raffinata data dall'evoluzione biologica. Gli studi classici di Cannon misero in evidenza che, di fronte a stimoli minacciosi per la propria esistenza, individui fronteggiano la situazione emergenziale attraverso approcci diretti o di evitamento: Fight (lotta); Flight (fuga). Liotti e Monticelli, due etologi chiamarono tale sistema difensivo “sistema motivazionale di difesa” che si esprime attraverso quattro risposte fondamentali dette le quattro “F”: le risposte fight o flight indicano lotta o fuga; Freezing (immobilità ipertonica con conservata padronanza della motilità); Faint (immobilità ipotonica con perdita della padronanza sulla motilità). Complessi pattern emotivi e schemi corrispondenti di attivazione neurovegetativa accompagnano tali risposte. Blanchard evidenzia che persone diverse fanno cose simili in situazioni simili, ovvero impariamo tutti a provare paura alla stessa maniera o i modelli di risposta alla paura sono geneticamente programmati nel cervello. Quando le cose non funzionano bene la mente in successione degenera nel panico e il comportamento difensivo diventa irrazionale. I Soccorritori devono essere a conoscenza che tali reazioni sono del tutto naturali e bisogna necessariamente dare tempo e modo ai sistemi mentali più sofisticati di entrare in azione. 2.3.2 Le paure del cervello emotivo Le strutture cerebrali coinvolte nel riconoscimento e nella difesa del pericolo sono: il talamo, l'amigdala e l’ippocampo. È di particolare importanza la differenziazione tra l'attività fisiologica e quella mentale. Nello specifico è necessario differenziare le aree corticali, specializzate nella condizione umana, riflessiva e consapevole, e le parti sottocorticali, che stanno localmente al di sotto della corteccia. Sono proprio le aree sottocorticali del sistema limbico, fortemente implicate negli stati emotivi. Gli stimoli, quando entrano nel nostro sistema celebrale, dopo aver percorso via inferiori vengono elaborati dal talamo che, a sua volta, mi stai dati sensoriali. Nel talamo Invia segnali in due direzioni: l'amigdala da un lato e la corteccia dall'altro. La corteccia analizza lo stimolo proveniente, lo confronta con la memoria a lungo termine e ne stabilisce la pericolosità. Dopo queste elaborazioni, la corteccia Invia informazioni all'amigdala per attivare il sistema difensivo. La funzione della corteccia è quella di inibire l'attivazione non appropriata dell'organismo. Se un pericolo sta per avanzare, la corteccia fornirà l'informazione all’amigdala stimolano le funzioni. Esiste, anche, una via breve, che non passa per la corteccia e collega direttamente il talamo all’amigdala si tratta di una connessione più veloce diretta. La via diretta, oltre ad essere più rapida ha la caratteristica di non entrare nella “consapevolezza”. Questo significa che gli individui possono trovarsi in uno stato psichico emergenziale senza averne nessuna consapevolezza. L’amigdala è composta da 12 nuclei differenziati e insieme ad altre aree del cervello è implicata nella memoria emotiva. Lo stimolo emotivo arriva nel nucleo laterale, passando successivamente a quello centrale che ha proiezioni in diversi punti del cervello responsabili delle risposte emotive. L’amigdala coinvolta nella memoria emotiva, sistema mnestico coinvolto nell’apprendimento inconsapevole. In situazioni di stress traumatico alti livelli di catecolamine e cortisolo, vengono associate al consolidamento della memoria emotiva, mentre bassi livelli sorotoninergici determinano una riduzione dell’attivazione dell’amigdala. 2.3.2 Neurobiologia dello stress Nel nostro organismo esiste un’organizzazione biologica per far fronte allo stress. I macrosistemi neurobiologici che regolano le risposte dello stress sono tre: le connessioni corticali e sottocorticali, la via neuroendocrina e i neurotrasmettitori 2.3.3.1 La via neuroendocrina L'asse ipotalamo‐ipofisi‐surrene è il sistema centrale della risposta neuroendocrina a tutti gli stress. Quando persone si trovano in situazioni stressanti, le ghiandole surrenali immettono nel sangue un ormone steroideo che aiutano il corpo a mobilitare le proprie risorse energetiche per affrontare la situazione di stress. Quando l'amigdala rivela un pericolo, invia dei messaggi specifici all'ipotalamo, il quale, intorno a lui, invia messaggi all’ipofisi. La connessione di questa attività provoca il rilascio nel sangue dell’ormone adrenocorticotropico (ACTH), che confluisce nelle ghiandole surrenali e determina la produzione di ormoni steroidei. Inoltre, gli ormoni steroidei, scorrono attraverso il sangue nel cervello e si vanno a legare con i recettori dell'ippocampo, dell'amigdala, della corteccia prefrontale e di altre regioni. le secrezioni surrenali e pituitarie, sono dette ormoni dello stress. Quando si legano ai recettori dell'ippocampo, partono dei messaggi verso l'ipotalamo per chiedergli di avvertire le ghiandole surrenali e ghiandola pituitaria di arrestare la produzione; dunque, in una situazione di stress, l'amigdala continua a ripetere di incrementare la produzione, mentre l'ippocampo continua a ripetere di ridurre la produzione. Infatti, è dovuto alla concentrazione degli ormoni dello stress che nel sangue viene ristabilita l’esigenza alla situazione e se lo stress dura a lungo, l'ippocampo non riesce a controllare il rilascio ormonale. Le degenerazioni di situazioni stressanti interferiscono con la capacità di produzione del potenziamento a lungo termine nell’ippocampo. 2.3.3. Il ruolo dei neurotrasmettitori I sistemi neurotrasmettitori ali nello stress sono: 1. Le catecolamine: come l’adrenalina, la noradrenalina e la dopamina sono ormoni neurotrasmettitori che derivano dalla tirosina e vengono rilasciati dal corpo in situazioni stressanti. Sono prodotte dalle ghiandole surrenali come ormoni rilasciati nel circolo ematico e come neurotrasmettitori a livello dei gangli sinaptici. L’adrenalina è il principale neurotrasmettitore del sistema nervoso simpatico ed implicata nella preparazione dell’organismo a una strategia di attacco o fuga. Il principale sito per la sintesi della nel cervello è il LOCUS COERULEUS, ovvero nucleo di neuroni di medie dimensioni situato nel tronco encefalico. Le connessioni nervose del LC raggiungono il midollo spinale, il tronco celebrale, il cervelletto, l’ipotalamo, il talamo, l’amigdala, la basa del telencefalo e la corteccia celebrale. Attraverso le connessioni con la corteccia frontale, temporale, talamo e ipotalamo il LC coinvolto nella regolazione dell’attenzione, del ciclo sonno‐veglia, dell’apprendimento, percezione del dolore ecc... 2. La serotonina: neurotrasmettitore monoaminico, sintetizzato dai neuroni serotoninergici del sistema nervoso centrale ed ha ruolo di regolazione dell’umore, del sonno, temperatura corporea, appetito e sessualità. Studi dimostrano che una disfunzione indotta da situazioni di stress elevato possono danneggiare il funzionamento del sistema inibitorio comportamentale, determinando aggressività, ipervigilanza, impulsività o ricordi intrusivi. l'evento non si stia verificando realmente o, magari, con forme di anestesia fisica ed emotiva Significato→ Per lo sviluppa di PTSD il significato conferito ad un evento è cruciale Ruolo delle esperienze pregresse→ "Il modo in cui le persone rispondono ad un evento dipende, da quanto sono pronte ad affrontare tale evento". È possibile affermare che sono gli effetti sul singolo a determinare se un evento è traumatizzante. Questo vuol dire che può essere verificato soltanto a posteriori rispetto all'evento vissuto. Il soccorritore in emergenza è prima di tutto un essere umano, che ha un suo vissuto e un suo mondo emozionale. Nei luoghi di soccorso cercherà di svolgere al meglio il suo lavoro, ma al rientro rielaborerò l’evento. 2.4.1 Che cosa viene definito traumatico: le categorie diagnostiche ufficiali Una parte rilevante di soccorritori in emergenza potrà sperimentare eventi stressanti potenzialmente dannosi. I due sistemi classificatori che caratterizzano in modo diverso il concetto di evento traumatico più diffusi sono: ‐ il DSM dell'Associazione Psichiatrica Americana: presenta criteri più dettagliati e fornisce una Iista di eventi che possono essere considerati traumatici: violenza sessuale, guerra, disastri naturali ecc. E descrive, inoltre, la molteplicità e la variabilità delle manifestazioni riconducibili al Disturbo da Stress Post‐Traumatico, superando un limite del DSM‐IV TR ‐ l'ICD dell'Organizzazione Mondiale della Sanità: sono definiti traumatici quegli eventi "di natura eccezionalmente minacciosa o catastrofica, in grado di provocare diffuso malessere in quasi iute e persone". Ai fini della valutazione della traumaticità di un evento, è importante dover tenere in considerazione il quadro sintomatologico individuale. 2.4.2. II Disturbo da Stress Post‐Traumatico nei soccorritori I soccorritori sperimentano sintomi di Disturbo da Stress Post‐Traumatico, che si prolungano spesso oltre la fase della crisi acuta e divengono di natura cronica. Negli ultimi vent'anni, c'è stato un aumento della consapevolezza riguardante le conseguenze derivanti dall'esposizione aventi tragici e raccapriccianti. Bryant e Harvey riportano uno studio sui vigili del fuoco, il quale dimostra che il 26% del campione riporta alti livelli significativi di grave stress, dopo aver operato nel contesto di emergenza. I soccorritori dell'emergenza in ambulanza, in particolare, sono stati osservati nel rispondere ad un quantitativo numero di chiamate di emergenza rispetto ai poliziotti e ai vigili del fuoco. Dai dati è emerso che gli operatori delle ambulanze riportavano uno stress psicologico maggiore rispetto alla categoria VF e Forze dell'ordine. Dunque, il personale di soccorso in emergenza si trova fortemente a rischio di sviluppare una sintomatologia clinica come il PTSD. A questo punto, come definire il Disturbo da Stress Post Traumatico? Nella prima edizione del DSM era prevista una categoria nosologica chiamata "Goss Stress Reaction", la quale indicava una sindrome conseguente a guerre e catastrofi civili. Con la pubblicazione del DSM‐II, viene inserita una nuova categoria nosologica, che, apparentemente, sembra ridimensionare le reazioni al trauma. Tale categoria prese il nome di "Transient Situational Disturbances". Col passare degli anni, l'interesse per le conseguenze di eventi traumatici si è evoluto: dalla denuncia degli abusi sessuali subiti dalle donne, alla prevenzione del maltrattamento e dell'abuso sessuale dei bambini. Tali studi hanno portato gli psichiatri a delineare un quadro clinico specifico e ben articolato: il Disturbo da Stress Post‐Traumatico" (PTSD, Post‐Traumatic Stress Disorder). IL DSM‐IV TR faceva rientrare il PTSD tra i disturbi d'ansia. Considerando che l'ansia e le reazioni di attivazione fisiologica sono solo una categoria dell'intera costellazione di sintomi, nella nuova edizione del DSM‐5 è stato dedicato un intero capitolo ai disturbi correlati a eventi traumatici e stressanti, che comprende, anche il disturbo reattivo dell'attaccamento, i disturbi dell'adattamento. II DSM‐5 attribuisce al PTSD un'eziologia specifica; infatti, per poter essere diagnosticato, deve essere oggettivato un evento traumatico. IL Disturbo da Stress Post‐Traumatico è un disturbo che ha una causa esterna evidente. La caratteristica essenziale del PTSD è lo sviluppo di sintomi tipici, che seguono l'esposizione a uno o più eventi traumatici. La manifestazione clinica del disturbo è variabile da individuo a individuo. II PTSD si può manifestare a qualsiasi età; i sintomi insorgono in genere nei primi 3 mesi dopo il trauma, sebbene possa esserci un ritardo di mesi o anche di anni prima che siano soddisfatti i criteri per una diagnosi, e per tale motivo si definisce "espressione ritardata". Nella tabella seguente, verranno esposti è criteri del DSM-5 per il Disturbo da Stress Post-
Traumatico negli adulti. negli adolescenti e nei bambini dopo î 6 anni di età.
A. Esposizione a morte reale 0 minaccia di morte, grave lesione, oppure violenza sessuale
in uno (o più) dei seguenti modi:
1) Fare esperienza diretta dell'eventoli traumaticoli,
2) Assistere direttamente a un cvento/i traumatico/i accaduto ad altri.
3) Venire a conoscenza di un evento/i traumatico/i accaduto a un membro della famiglia
oppure ad un amico stretto. In caso di morte reale 0 minaccia di morte di un membro
della famiglia 0 di un amico, l'evento/i deve essere stato violento 0 accidentale.
4) Fare esperienza di una ripetuta o estrema esposizione a dettagli crudi dell’eventoli
traumatico/i (per cs., i primi soccorritori che raccolgono resti umani; agenti di polizia
ripetutamente esposti a dettagli di abusi sui minori).
Nota: ìl Criterio A4 non si applica all'esposizione attraverso media elettronici, televisione,
film 0 immagini, a meno che l'esposizione non sia legata al lavoro svolto.
B. Presenza di uno (0 più) dei seguenti sintomi intrusivi associati all’evento/i traumatico/i,
che hanno inizio successivamente all'eventoli traumatico/i:
1) Ricorrenti, involontari e intrusivi ricordi spiacevoli dell'evento/i traumatico!i,
2) Nota: Nei bambini di età superiore ai 6 anni può verificarsi un gioco ripetitivo in cui
vengono espressi temi 0 aspetti riguardanti l'evento/î traumatico!i.
3). Ricorrenti sogni spiacevoli in cui il contenuto c/o le emozioni del sogno sono collegati
all’evento/i traumatico/i.
Nota: Nei bambini, possono essere presenti sogni spaventosi senza un contenuto ricono-
scibile
4) Reazioni dissociative (per cs., flashback) in cui il soggetto sente o agisce come se
l’eventoli traumatico/i si stesse ripresentando. (Tali reazioni possono verificarsi lungo
un continuum, în cui l’espressione estrema è la completa perdita di consapevolezza
dell'ambiente circostante.)
Nota: Nei bambini, la riattualizzazione specifica del trauma può verificarsi nel gioco.
5) Intensa o prolungata sofferenza psicologica all'esposizione a fattori scatenanti interi o
estemni che simboleggiano o assomigliano a qualche aspetto dell’eventoli traumaticori.
6) Marcate reazioni fisiologiche a fattori scatenanti interni o esterni che simboleggiano o
assomigliano a qualche aspetto dell’eventali traumatico/i.
C. Evitamento persistente degli stimoli associati all'evento/i traumatico/i, come evidenzia-
to da uno o entrambi i seguenti criteri:
1) Evitamento 0 tentativi di evitare ricordi spiacevoli, pensieri 0 sentimenti relativi 0
strettamente associati all’eventoli traumatico/i.
2) Evitamento o tentativi di evitare esterni (persone, luoghi, conservazioni, attività ogget-
ti, situazioni) che suscitano ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o stretta=
mente o associati all'eventoli traumatico!
ciascuno di essi si riferisce a una combinazione di esposizioni alle esperienze traumatiche delle vittime e di meccanismi identificatori verso queste. Il soccorritore finisce per imitare i sintomi della persona di cui si sta prendendo cura. I segnali di tale condizione mentale sono diversi, tra i quali è possibile annoverare l'umore negativo, una diminuita tolleranza alle frustrazioni e scoppi di collera improvvisi, la depressione, l’allentamento di alcune funzioni dell'lo, etc. • Compassion Satisfaction→ (coniato da Stamm), diametralmente opposto al Fatigue, su un continuum che va da un estremo positivo a un estremo negativo, è un termine usato per descrivere gli effetti positivi che l’individuo puà esperire dal lavorare con persone traumatizzate/sofferenti, fra cui sensazioni positive rispetto all’aiutare gli altri, al contribuire al bene della società. Più in generale, la soddisfazione nel fare bene il proprio lavoro, influenzato dalle strategie di coping. La Compassion Satisfaction, la Compassion Fatigue e il Burnout sono 3 concetti indipendenti. I costrutti di Compassion Fatigue e Burnout si distinguono per alcune dimensioni principali: la compassion fatigue può insorgere subito dopo l'esposizione ad un incidente critico e può essere improvvisa e acuta, la sindrome di burnout, invece, si incrementa attraverso un graduale e progressivo consumarsi del soccorritore. • Trauma vicario→ Il trauma è contagioso? Il trauma è potenzialmente contagioso. Coloro che hanno vissuto esperienze drasticamente sconquassanti, possono attraverso i loro sentimenti e le loro emozioni ingovernabili trasmetterlo all'Altro attraverso il materiale traumatico del paziente, sia che si tratti di una narrazione o che si tratti di ricordi dissociati o, come lo definisce McDougall, di ricordi impregnati di un'influenza turbolenta. Questo fenomeno viene definito trauma vicario. Se i clinici non sono preparati ad ascoltare e a formulare le esperienze dissociate dei loro pazienti, possono, a loro volta, dissociare le proprie esperienze, incorrendo in reazioni improvvise, invadenti e spesso inspiegabili, non solo nel contesto terapeutico ma anche nella loro vita quotidiana. Nell'originaria descrizione della terminologia di trauma vicario in una situazione clinica, Shatan, nel trattare diversi pazienti appena tornati dalla guerra del Vietnam, descrive sintoni quali: "avere incubi, non essere in grado di dormire, incapacità di parlare normalmente con altre persone per giorni o per settimane". L'attuale terminologia è stata utilizzata per la prima volta in una serie di pubblicazioni a partire dagli anni '90, da medici che lavoravano con sopravvissuti a violenze sessuali nell'infanzia. Negli anni successivi, in particolare nella letteratura psicoanalitica, la terminologia di trauma vicario è stata spesso associata alla terminologia di trauma secondario, compassion fatigue e burnout. Il Trauma Vicario è quel cambiamento negativo degli schemi cognitivi e dei sistemi di credenze in colui ce svolge una professione di aiuto, che deriva dal coinvolgimento empatico con le esperienze traumatiche della vittima. È opportuno ritenere che il trauma vicario dell’operatore in emergenza derivi non necessariamente dall’evento in sé piuttosto dalla relazione di aiuto, instaurata con l’individuo sofferente a causa dell’evento vissuto. • Stress Traumatico Secondario→ Tale costrutto è stato, successivamente, esteso fino a comprendere sintomatologie di tipo post‐traumatico ed è stato indicato da Figley come Stress Traumatico Secondario per definire l’insieme di reazioni comportamentali ed emotive alla conoscenza di eventi traumatici sperimentali da altri o in seguito all’aiuto/tentativo di aiuto a persone traumatizzate. L’STS può manifestarsi attraverso sintomi che sono similari a quelli del DPTS: rivivere continuamente shock, il mettere in atto comportamenti di evitamento e di ipervigilanza. Da recenti ricerche, si è evinto che i professionisti che sono ad alto rischio per lo sviluppo di STS sono gli assistenti sociali, gli operatori sanitari militari, gli operatori sanitari civili e, più in generale, chiunque lavori con i sopravvissuti al trauma. Gli operatori hanno bisogno di brevi interventi al fine di proteggere la loro salute mentale, attraverso la formazione permanente e le cure preventive. Stamm sottolinea che il vero nemico dell'operatore sia in realtà l'operatore stesso. Ogni operatore che si espone particolarmente al rischio di sviluppare disordini quali il trauma vicario o lo stress Traumatico Secondario, nel momento in cui adotta un atteggiamento di totale distacco dalle proprie emozioni, causa un discontrollo dei propri sentimenti. Questi atteggiamenti indurranno lo stesso a divenire incapace di verbalizzare le sue emozioni. 2.5.4. La crescita post‐ traumatica Diverse ricerche hanno indicato l'esistenza di cambiamenti positivi a seguito di esposizione al trauma. È possibile dare una definizione al costrutto di crescita post‐traumatica, in quanto tendenza a riferire cambiamenti positivi a livello personale e sociale dopo aver vissuto un trauma. Nel 1996 autori come Tedeschi e Calhoun hanno introdotto il termine crescita post‐traumatica, concettualizzando tre aree principali di cambiamento in positivo dopo un evento traumatico: nella percezione di sé, nelle relazioni interpersonali e nella filosofia di vita. Il cambiamento nella percezione di sé avviene nel momento in cui l'individuo assume l'identità di una persona che ha superato un grosso ostacolo, esperendo sentimenti come una maggiore fiducia in sé stessi e una maggiore consapevolezza della propria vulnerabilità. L’area delle relazioni interpersonali può caratterizzarsi per una aumentata vicinanza emotiva, un maggiore senso di appartenenza e di fiducia nei confronti altrui. L'evento traumatico potrebbe, paradossalmente, indurre a una maggiore apertura di sé nei confronti degli altri. Il saper riconoscere la propria vulnerabilità può portare a una migliore capacità nell'esprimere le proprie emozioni. Ruolo chiave giocheranno l'empatia e la compassione nei confronti delle persone sofferenti. Infine, lo sviluppo di una nuova filosofia di vita potrebbe rinnovare la componente spirituale, cambiando le priorità e gli atteggiamenti dısfunzionali nei confronti della vita. Arnold e collaboratori, basandosi sul costrutto di crescita post‐ traumatica, hanno coniato il concetto di "crescita personale da stress post‐ traumatico secondario" (SPTG) per indicare i cambiamenti positivi riguardanti il rapporto con il proprio sé e con il mondo. Secondo Cohen e Collens la crescita personale post‐traumatica secondaria è uno dei risultati principali di esposizione indiretta al trauma vissuto da professionisti della salute e dei servizi umani; di fatto, è il risultato di essere costantemente esposti a materiali che possono causare uno shock dato dalle esperienze traumatiche vissute. Secondo il modello SPTG proposto da Cohen e Collens (2013), le aree di cambiamento riguardano la crescita personale, gli atteggiamenti verso la vita, i valori, l’autoefficacia e lo stile di vita. In particolare, l'autoefficacia si riferisce alle credenze di un individuo sulla propria capacità far fronte alle richieste stressanti, da parte dell'ambiente circostante o del proprio lavoro. L'avere un atteggiamento più propositivo porta ad avere delle credenze più costruttive, permettendo agli individui di affrontare in modo più efficace i fattori stressanti. Originariamente il concetto di autoefficacia è stato sviluppato per descrivere la reazione a vari eventi stressanti. L'autoefficacia è una cognizione modificabile, che può essere arricchita rinforzata. Gli interventi finalizzati alla promozione della salute mentale fisica spesso utilizzavano queste tecniche. Nonostante ciò, in una recente ricerca di Steinmetz e collaboratori, attraverso la persuasione verbale e le tecniche di autoregolazione emotiva, si cercato di promuovere l'autoefficacia anche attraverso Internet. Autori come Newell e MacNeil hanno proposto un intervento divulgazione, suggerendo programmi di formazione approfondita per i lavoratori indirettamente esposti ai traumi. Questa formazione dovrebbe essere non solo durevole nel tempo, ma dovrebbe anche fornire informazioni sull'esposizione indiretta, sulle conseguenze nascenti e sulle risorse utili per la prevenzione. Una recente meta‐analisi ha valutato i sintomi del Disturbo da Stress Post‐Traumatico tra i sopravvissuti esposti direttamente al trauma, confrontando gli effetti di interventi basati su Internet (procedure attive, tecniche cognitivo‐comportamentali e così via) rispetto a: (1) nessun trattamento (p.e. essere solamente inseriti in una lista d'attesa) e (2) altre condizioni di controllo (p.e. istruzione o esercizi di scrittura basati su Internet, ma non tecniche cognitivo‐comportamentali specifiche). Dai risultati è emerso che le procedure attive basate su Internet sono risultate più efficaci nel ridurre il PTSD rispetto ai gruppi di controllo rimasti senza trattamento. Altre ricerche La disregolazione è parte quotidiana della vita dell'individuo. La capacità di recuperare efficientemente uno stato regolato ottimizza il funzionamento adattivo. La teoria della regolazione affonda le sue radici nella comprensione dei sistemi psicobiologici che processano e regolano l’affetto. Il sistema di regolazione affettiva monitora e regola lo stato del corpo. La suddetta teoria è portatrice dell'argomentazione per cui la regolazione affettiva è essenziale ai fini dell'organizzazione del corpo‐mente e, quindi, per il funzionamento adattivo e per l'esperienza individuale soggettiva. L'individuo sperimenta un senso di padronanza, di autocontrollo, e quindi, quando si è in uno stato di regolazione adattiva, esso funziona in maniera ottimale. Gli stati mentali girano attorno agli affetti, l’organizzazione del Sé dipende dalla regolazione dello stato affettivo. L'operatore dell'emergenza che opera in circostanze piuttosto stressanti e/o disarmanti potrebbe non essere in grado di regolare a pieno i propri stati emotivi, incorrendo dunque in una disregolazione. Quando i livelli di arousal sono troppo alti o troppo bassi, lo stesso sistema di regolazione affettiva, responsabile del processamento dell'informazione a base corporea e dell'informazione socioemozionale, diventa disorganizzato. L'affetto regolato, dunque, è fondamentale per un Sé flessibile e ben integrato, che permetterà di funzionare in maniera adattiva e porterà ad un senso di autocontrollo e benessere. Secondo il modello dello psicoanalista Daniel Hill, la mentalizzazione è intesa come il sistema secondario di regolazione affettiva; inoltre, è un sistema di regolazione affettiva dominato dall'emisfero sinistro, a base corticale, volontario, cosciente, lento, che si sviluppa a posteriori rispetto al sistema primario. Fonagy e Target definiscono la mentalizzazione "come il processo che permette di interpretare sé stessi e gli altri in termini di stati mentali". Dal punto di vista degli autori, mentalizzare consiste nel concepire sé stessi e gli altri come dotati di una mente, vale a dire come persone che agiscono in base a sentimenti, credenze, desideri e intenzioni. La mentalizzazione, dunque, è una capacità, abilità o processo di ordine cognitivo che viene profondamente influenzata da esperienze di natura prettamente affettiva. Quando, si menziona il concetto di "funzione riflessiva", si vuole rappresentare l'esatta traduzione in termini operativi del concetto di mentalizzazione. La parola "mentalizzazione" connota l'attività cognitiva e intellettuale, consequenzialmente, bisogna sempre ricordarsi che la mentalizzazione di maggiore interesse clinico è straripante di emozioni. La mentalizzazione dell'emozione, che Fonagy e collaboratori hanno chiamato affettività mentalizzata, non intende assumere una posizione distaccata, intellettuale, sulla propria emozione, piuttosto comporta il raggiungere chiarezza riguardo l'esperienza emotiva. Mentalizzare le emozioni è un processo dinamico di continua valutazione emotiva, è implicata nel mantenimento e nella proliferazione delle sensazioni oggettive e, soprattutto, nell'elaborare il loro significato. Quando, secondo Hill, i 2 sistemi di regolazione affettiva giungono al punto di convergenza? Se la mentalizzazione dell'affetto offre un aggancio cognitivo al livello di arousal e alla modificazione del tono edonico, significa quindi che si tratta di un sistema cosciente, guidato dal cervello sinistro, di processi riflessivi e verbali che sottopongono I'affetto primario (fornito dal cervello destro) una valutazione cognitiva di ordine superiore. Quindi i 2 sistemi di regolazione affettiva giungono insieme al punto in cui l'affetto primario processato nel cervello destro viene ulteriormente processato nel sinistro. È da qui che l'esperienza somatica diventa parole nella mente→ che il non verbale diventa verbale e che il processamento preconscio (implicito nel cervello destro) è superato dal processamento cosciente (esplicito nel cervello sinistro). I processi del cervello sinistro (verbali, lineari) deliberati dal sistema di mentalizzazione sono decisamente lenti per interazioni in tempo reale. Per tanto, solo grazie a questi l'individuo si rende capace di riflettere sugli stati affettivi propri e degli altri. Dunque, tali processi permettono valutazioni multiple su ciò che è accaduto o che accadrà, offrendo una comprensione attenuata di affetti e correggono o avvalorano le reazioni viscerali generate dal sistema primario. Il lavorare in condizioni di emergenza può comportare molto stress. Se i fattori individuali non sono abbastanza forti da utilizzarli come dei fattori protettivi, si rischia l'insorgenza di eventuali condizioni cliniche. Es: può succedere che i soccorritori siano a loro volta genitori, zii, addirittura nonni di bambini che hanno quasi la stessa età di coloro che sono morti. Se l'affetto è disregolato, le capacità di mentalizzazione vengono ridotte, incorrendo in un'ulteriore disorganizzazione. 2.7. Le strategie di coping e la resilienza Sono due le risorse psicologiche individuali: la resilienza e il coping: principali risorse per il recupero di un assetto psicologico normale nel più breve tempo possibile. L'elaborazione di un trauma in tali condizioni potrebbe richiedere un tempo prolungato e un ulteriore abbassamento delle difese nei confronti di successivi traumi. Il costrutto di coping fa riferimento alla modalità con cui le persone cercano di fronteggiare o gestire eventi traumatici o situazioni particolarmente stressanti. Secondo Eckenrode, il coping è una caratteristica più o meno stabile di personalità. Ad oggi, il coping viene concettualizzato come un processo che nasce in situazioni che mettono alla prova le risorse di un individuo. In tale ottica, l'obiettivo consiste quindi nell'identificare la valutazione cognitiva di tali eventi da parte della persona, le eventuali reazioni di disagio, il tipo di risorse personali e sociali, gli sforzi di coping e gli esiti a lungo termine di questi sforzi Proprio in questo modo risalta la natura ciclica e cumulativa del processo, con un'influenza reciproca tra gli elementi coinvolti. Di diversa tipologia sono state negli anni le ricerche sul coping. Principalmente si evincono quattro temi fondamentali: 1. la descrizione delle caratteristiche fondamentali delle strategie di coping; 2. la descrizione dei fattori che ne influenzano l'acquisizione e l'uso di risposte di coping; 3. cosa rende gli sforzi di coping efficaci e cosa non li rende efficaci; 4. quali aspetti delle strategie di coping possono essere soggetti a modificazione. Generalmente, le risposte di coping comprendono tutte le azioni adottate da un individuo a fronte di un evento potenzialmente stressante e le emozioni provate ed esperite durante tale evento. La maggior parte degli studi presenti in letteratura indicano che le strategie di coping svolgono in particolare due funzioni essenziali: 1. la riduzione del rischio delle conseguenze dannose che potrebbero risultare da un evento stressante (coping focalizzato sul problema) 2. il tentativo di contenere le reazioni emozionali negative (coping focalizzato sulle emozioni). La strategia di coping, focalizzata sul problema, trova la sua massima espressione in due fattori: il coping attivo e la pianificazione. La strategia di coping focalizzata sulle emozioni, invece, trova espressione su quattro fattori: ‐ distanziamento (negare l'esistenza del problema), ‐ autocontrollo (non lasciarsi trasportare dalle proprie emozioni), ‐ assunzione di responsabilità (ritenersi responsabili della situazione) ‐ rivalutazione positiva (riconoscere i cambiamenti che provengono dalla modificazione di una situazione e vedere la realtà da un punto di vista positivo). Secondo McCrae, Costa, Carver e Scheier esiste un generale accordo sul fatto che le persone scelgano strategie di coping in base alla natura della situazione. Kobasa ha elaborato il concetto di "hardiness" per definire un insieme di caratteristiche di personalità che proteggono l'individuo dagli effetti dannosi dello stress: controllo, impegno e senso di sfida. Sempre lo stesso autore afferma che le persone con un alto livello di "hardiness" sembrano adottare una filosofia di vita che delimita l'impatto destrutturante di alcuni eventi stressogeni. Rivolgendo l'attenzione sull'ottimismo, Carver e Scheier ipotizzarono che le persone con un alto livello di ottimismo hanno una maggiore probabilità di considerare i problemi alla propria portata e quindi di riuscire a perseverare al fine di raggiungere i propri scopi anche in situazioni difficili. Coloro che mostrano un alto livello di ottimismo hanno maggiori probabilità di impegnarsi in forme di coping focalizzate sul problema, mentre coloro che mostrano un elevato livello di pessimismo tendono a far ricorso alla negazione. Altri aspetti di personalità che possono contribuire a favorire uno stile di coping stabile riguardano la propensione a cercare un sostegno sociale; pertanto, certe caratteristiche individuali potrebbero influenzare la stessa percezione che le persone hanno dei livelli di sostegno sociale. ‐ Preparazione pre‐crisi; ‐ Demobilitazione e consultazione dello staff; ‐ Briefing per la gestione della crisi; ‐ Defusing; ‐ Critical Incident Stress Debriefing (CISD); ‐ Intervento sulla crisi individuale; ‐ CISM effettuato alla famiglia; ‐ Consultazione organizzativa; ‐ Follow‐up/invio. Nonostante il CISD faccia parte del CISM, tale tecnica ha riscosso particolare attenzione da parte degli operatori della salute mentale, tanto che si iniziò ad applicarla sempre più frequentemente come tecnica singola. Gradualmente si è giunti al punto di utilizzare tale tecnica per perseguire le finalità del CISD, ma secondo protocolli molto diversi rispetto a quelli originari. Applicandola come tecnica singola, a sé stante dal CISM, con un'unica somministrazione senza nessun follow‐up, ha generato una situazione di grande confusione sul concetto di psychological debriefing e sulle sue applicazioni. Mitchell ed Everly, definiscono il CISD nel seguente modo: «Critical incident stress debriefing (CISD) è il nome di uno specifico modello di debriefing psicologico. Il CISD è una discussione di gruppo strutturata, articolata in 7 fasi, fornita solitamente da 1 a 14 giorni dopo l'evento critico. Il CISD è progettato per raggiungere l'obiettivo di chiusura psicologica in seguito ad incidente critico/evento traumatico che permette di effettuare un'azione di triage, ossia di individuare quelli che hanno bisogno di un supporto psicologico più articolato e continuo. La chiusura psicologica, operativamente, è da considerarsi una facilitazione della ricostruzione psicologica e comportamentale che segue il momento della crisi o del trauma. Il CISD è progettato per essere impiegato con i piccoli gruppi fino a 25 partecipanti. È condotto dai membri del "Team CISD", solitamente costituito da due o quattro operatori di crisi specificatamente formati». All’interno del CISD viene messo in evidenza il terzo elemento del complesso degli interventi sulla crisi: il defusing→ tale tecnica, non ha dato luogo a prospettive future, di conseguenza ha subito meno stravolgimenti rispetto al debriefing. Mitchell ed Everly definiscono il defusing come: «una breve discussione di gruppo strutturata, della durata di 45 minuti, articolata in 3 fasi, fornita entro poche ore dall'evento critico per finalità di assessment, triage e mitigazione dei sintemi acuti. In alcuni casi il defusing può fare molto per catalizzare la chiusura psicologica dopo un incidente critico». Gli autori ribadiscono che la tecnica del defusing è una versione più breve di un CISD e viene fornita nello stesso giorno dell'evento sconquassante, preferibilmente poche ore dopo la fine dell'evento. Le fasi compongono il defusing sono: introduzione, esplorazione e informazione. 2.8.1. Debriefing psicologico Tale intervento ha luogo da uno a dieci giorni dopo un evento critico e da tre a quattro settimane dopo un disastro. Il setting è generico, basta che ci sia una struttura che possa offrire sicurezza e privacy. I facilitatori di tale intervento sono essenzialmente due operatori. Gli obiettivi ai fini dell'intervento riguardano l'aiuto alle vittime nel far loro comprendere e a far loro gestire le emozioni intense, nell'identificare le strategie di coping efficaci e nel ricevere sostegno dagli altri, normalizzando le mozioni attraverso il supporto e il confronto sociale. Il CISM si suddivide essenzialmente in 7 fasi: 1. l'introduzione, vengono presentati gli obiettivi del debriefing, si definiscono i rapporti di confidenza, le regole del gruppo e si facilita la presentazione dei partecipanti. 2. Fatti, si chiede ai partecipanti di descrivere cosa è accaduto, dove si sono trovati, cosa hanno percepito. 3. pensieri, viene chiesto di ricordare i pensieri, i ragionamenti e ciò che è passato per la mente in quel momento, se ci sono pensieri riguardo norme e regole che sono stati rispettati o lesi durante l'evento. 4. reazione si chiede di esprimere le sensazioni e i sentimenti provati durante e dopo l'evento, prestando particolare attenzione a non esplorare materiale emozionale che genera sentimenti ingestibili, ma si incoraggia la persona a dare un nome alla propria emozione e a quantificarla; successivamente 5. sintomi, si aiutano le persone a riconoscere le manifestazioni più comuni di stress, evitando la terminologia "patologica". 6. l'insegnamento, si cerca di dare informazioni e suggerimenti, si cerca di incoraggiare a valutare le risorse di sostegno sociale e a dedicarsi ad attività che possano ridurre lo stress. 7. rientro, si riassume e si verifica se qualcosa è rimasto in sospeso. Si termina il debriefing sottolineando gli aspetti positivi emersi nelle varie fasi, cercando di parlare non di problemi ma di risorse cercando di far ricordare incessantemente che ogni individuo ha delle risorse e dei mezzi che può mettere in atto per affrontare i momenti di crisi. Infine, si rilasciano le indicazioni per incontri futuri rimarcando il patto di alta confidenzialità. Due metanalisi basate su studi controllati o randomizzati hanno evidenziato che una sessione di debriefing non è una procedura in grado di prevenire l'insorgenza di disturbi post‐traumatici. Gli oppositori di tale intervento sostengono che vi possa essere un danno associato a interventi di tipo intrusivo nel brevissimo periodo, in quanto essi vanno a sensibilizzare le persone sulle loro reazioni e sul disagio portato dall'evento senza concedere il tempo necessario per abituarsi alle circostanze e impedendo quindi un buon recupero. I sostenitori ritengono che la rievocazione precoce dell'evento traumatico interferisca con i processi cognitivi di adattamento e favorisca una ruminazione eccessiva e una maggiore consapevolezza delle risposte emotive; I sostenitori del debriefing optano più per una visione "serve in determinate circostanze / non serve in altre circostanze". De Soir e Vermeiren hanno raccolto diverse esperienze europee di utilizzo del debriefing con vigili del fuoco, militari e volontari dell'aiuto umanitario e sostengono che tale intervento abbia una sua efficacia con le squadre di soccorritori subito dopo un trauma vicario. I sostenitori di tale intervento indicano che non deve essere eseguito da solo, ma soltanto all'interno del protocollo di gestione più ampio come il CISM. 2.8.2. Defusing Mitchell ed Everly definiscono il defusing, che significa: «rendere qualcosa innocuo prima che possa causare danni, l'essenza del servizio di supporto che un team CISM fornisce quando impiega un team di defusing dopo un incidente. L'obiettivo generale è rendere la situazione innocua per coloro che sono stati esposti ad esso. Se la situazione non può essere resa totalmente innocua, allora viene fatto per lo meno ogni sforzo per ridurne la capacità di arrecare danno. È un breve processo di gruppo che viene attivato dopo qualunque evento traumatico. È una versione abbreviata del debriefing, ma la sua applicazione è più immediata. Il team di defusing non deve attendere le usuali ventiquattro ore per intervenire con un CISD, ma prova ad intervenire quanto prima possibile dopo l'incidente critico. Esso offre alle persone coinvolte in un evento orribile l'opportunità di parlare brevemente dell'esperienza prima di ripensarla ed interpretarla nel mondo sbagliato. Anche il processo di defusing ha un suo protocollo, ma meno articolato del debriefing, è meno complesso e non necessita dell'intervento di un professionista della salute mentale. C'è un'altra differenza significativa tra il debriefing e il defusing: il CISD è impiegato con gruppi più ampi di partecipanti e può riunire operatori di differenti categorie; il defusing e su piccoli gruppi di persone che ordinariamente lavorano insieme con gli stessi compiti». ‐ la creazione di un rapporto terapeutico particolarmente intenso che si caratterizza come un attaccamento sicuro connotato in modo somatico e viscerale; ‐ la possibilità di accedere ai ricordi del paziente mettendone in risalto le componenti sensoriali e procedurali; ‐ la modulazione dell'attivazione somatica e viscerale; ‐ una particolare attività cerebrale associata allo stato ipnotico, in particolare il coinvolgimento col sistema limbico, la corteccia cerebrale dell'emisfero destro, l'attivazione unilaterale della corteccia anteriore destra del cingolo, insieme a una parziale inibizione dell'emisfero sinistro e a un incremento delle onde theta. Quest'ultimo fattore è quali certamente associato all'aumento dell'attenzione focalizzata e del rilassamento”. Nella psicoterapia ipnotica, alcune modalità tipiche d'intervento prevedono il riaccesso ai ricordi traumatici in una condizione di sicurezza psicofisiologica che consente, consentendo di intervenire sui ricordi traumatici facilitando di gran lungo l'abreazione, il distacco, la rielaborazione ed il superamento di barriere dissociative connesse alla memorizzazione stato‐dipendente. 2.9.3. Psicoterapia cognitivo‐comportamentale La psicoterapia cognitivo‐comportamentale nel trattamento di disturbi post‐traumatici si focalizza sulle distorsioni cognitive con l'intento di correggerle. Tale approccio comprende il connubio di diverse componenti. Secondo Andrews e collaboratori le persone che hanno vissuto un trauma hanno una scarsa comprensione delle proprie reazioni psicologiche, dunque, ai fini della terapia, risulta di fondamentale importanza rivolgere le prime fasi del trattamento all'insegnamento di strategie di gestione dell'attivazione della sofferenza psicologica, utili per affrontare il processo conseguente di esposizione. Sembrano essere un ottimo punto di partenza, le strategie a orientamento fisico dirette all'eccessiva attivazione delle reazioni allo stress traumatico, come ad esempio le tecniche di controllo della respirazione, efficaci al fine di aiutare la persona ad avere un primo controllo sui sintomi fisici. Andrews e collaboratori sottolineano come gli interventi comportamentali devono essere mirati ai specifici bisogni del paziente, infatti possono essere utili interventi di programmazione delle attività e di strutturazione delle giornate del paziente e il suo reinserimento sociale, in quanto alcune reazioni tipiche di un PTSD sono il ritiro e l'isolamento sociale. Riassumendo, è possibile affermare che la psicoterapia cognitivo‐comportamentale focalizzata sul trauma utilizza 3 tecniche nelle fasi del trattamento: ‐ Le tecniche di esposizione hanno lo scopo di far familiarizzare il paziente con le situazioni che più teme in un ambiente, attraverso procedure di esposizione dal vivo ed esposizione ai ricordi con l'immaginazione. ‐ La ristrutturazione cognitiva si aiuta il paziente con PTSD ad identificare e modificare i ragionamenti errati e le convinzioni disfunzionali pregressi al trauma. ‐ Le tecniche di gestione dell'ansia mirano alla respirazione e al rilassamento attraverso strategie di distrazione mentale.