Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

I dannati della terra - Fanon, Sintesi del corso di Filosofia

Riassunto de "i dannati della terra" di F. Fanon

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019
In offerta
50 Punti
Discount

Offerta a tempo limitato


Caricato il 01/12/2019

Jimmy.lp
Jimmy.lp 🇮🇹

4.4

(8)

2 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica I dannati della terra - Fanon e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia solo su Docsity! I DANNATI DELLA TERRA Biografia Frantz Fanon è nato il 25 luglio 1925 a Fort-de-France, in Martinica, sotto dominazione francese. È il quarto di sette figli. Il padre era impiegato alle dogane, la madre gestiva un piccolo bazar; appassionato lettore dei maestri del pensiero e della letteratura europea. Studia medicina a Lione iniziando, al terzo anno, la specializzazione in neurochirurgia e neuropsichiatria. Il suo interesse per la filosofia, e in particolare per il marxismo, l'esistenzialismo e la fenomenologia, lo conduce a conseguire anche una "licence" in filosofia. Nel 1953 egli compie la scelta che deciderà della sua successiva esistenza: chiede ed ottiene di essere assegnato a un ospedale in Algeria. Nei tre anni vissuti all'ospedale di Blida-Joinville, a cavaliere tra una situazione «normale», l'esplodere e il dilagare dell'insurrezione armata e il generalizzarsi della «pacificazione» francese, F. elabora un modello assolutamente originale di analisi dell'alienazione colonialista osservata attraverso le malattie mentali del colonizzato e in relazione con le tradizioni etico-culturali del mondo arabo. Verso la fine del '56 F. è costretto ad abbandonare il suolo algerino. In quell'occasione scrive la "Lettre au Ministre Résident" (in "Pour la révolution africaine" cit.) in cui denuncia la «disumanizzazione sistematica» dell'arabo sotto la dominazione coloniale francese. Il passaggio di F. a Tunisi, sede del Comitato di Coordinazione ed Esecuzione (C.C.E.) del F.L.N., divenuto poi Governo Provvisorio della Repubblica Algerina (G.P.R.A.), è la prima conseguenza pratica della sua decisione di diventare, secondo le sue stesse parole, cittadino della rivoluzione algerina. Da questo momento, accanto all'attività psichiatrica, sede anch'essa di intensa ricerca e di audaci innovazioni, prende maggior rilievo il diretto impegno del militante entro la disciplina dell'organizzazione rivoluzionaria. Il lavoro nel Ministero dell'Informazione e quindi in quello degli Affari esteri del G.P.R.A., l'elaborazione teorico-politica nei corsi agli studenti dell'Università di Tunisi e ai quadri delle formazioni militari dislocate lungo la frontiera algero-tunisina, la ricerca del rapporto tra lavoro culturale e azione rivoluzionaria, il tentativo di inserire l'esperienza algerina in una prospettiva di unità africana e di iniziativa estesa a tutto il «terzo mondo», rappresentano non tanto i successivi momenti quanto i diversi livelli, le dimensioni in cui si manifesta la maturità di F., gli aspetti concomitanti di una battaglia condotta in uno stato di ininterrotta, lucida, accanita tensione. F. muore il 6 dicembre 1961 di leucemia. Nel libro prende corpo la tensione tra l’urgenza di offrire una prospettiva politica alle lotte di liberazione del Terzo Mondo e l’approfondimento dell’analisi del sistema coloniale. DELLA VIOLENZA 1. Qualunque siano le etichette impiegate o le formule nuove introdotte (liberazione nazionale, restituzione della nazione al popolo, Commonwealth), la decolonizzazione è sempre un fenomeno violento: la decolonizzazione è molto semplicemente la sostituzione d'una «specie» di uomini con un'altra «specie» di uomini. La definizione di “decolonizzazione” si può racchiudere, a volerla descrivere con esattezza, nella frase ben nota: «gli ultimi saranno i primi». La decolonizzazione è la verifica di tale frase. Ma se gli ultimi devono essere i primi, ciò non può essere che in seguito a uno scontro decisivo e micidiale dei due protagonisti. 2. Il mondo coloniale è un mondo a scomparti; basti ricordare l'esistenza di città indigene e di città europee, di scuole per indigeni e di scuole per europei, l'"apartheid" nel Sud Africa. La zona abitata dai colonizzati non è complementare della zona abitata dai coloni. Queste due zone si contrappongono. Obbediscono al principio di esclusione reciproca: non c'è conciliazione possibile Lo sguardo che il colonizzato getta sulla città del colono è uno sguardo di lussuria, uno sguardo di bramosia. Sogni di possesso. Il colonizzato è un invidioso, il colono non lo ignora quando, cogliendone lo sguardo alla deriva, constata amaramente ma sempre all'erta: «Vogliono prendere il nostro posto». Questo mondo a scomparti, questo mondo spaccato in due è abitato da specie diverse; ciò che fraziona il mondo è anzitutto il fatto di appartenere o meno a una data specie, a una data razza, nel senso di una differenza di mondi e di realtà abissale. Non basta al colono limitare fisicamente, vale a dire con l'aiuto della sua polizia e della sua gendarmeria, lo spazio del colonizzato. Come ad illustrare il carattere totalitario dello sfruttamento coloniale, il colono fa del colonizzato una specie di quintessenza del male. La società colonizzata non è solo descritta come una società priva di valori. Non basta al colono affermare che i valori hanno abbandonato, o meglio non hanno mai abitato, il mondo colonizzato. L'indigeno lo si dichiara impermeabile all'etica, assenza di valori, ma anche negazione dei valori. Questa logica manichea arriva anche a disumanizzare il colonizzato. A rigor di termini, lo animalizza. E, difatti, il linguaggio del colono, quando parla del colonizzato, è un linguaggio zoologico. Durante il periodo della decolonizzazione, il colonizzato arriverà a pensare di essere uguale al colono, e tutto l’ardire nuovo e rivoluzionario giungerà da qui; infatti, se la mia vita ha lo stesso peso di quella del colono, non mi turbo più in sua presenza, lui non mi impietrisce più, e inoltre sono pronto a sbarazzarmi di lui, delle sue idee. Si vede dunque che il manicheismo primordiale che governava la società coloniale è conservato intatto nel periodo della decolonizzazione. Il fatto si è che il colono non cessa mai di essere il nemico, l'antagonista, l'uomo da far fuori. 3. Tornando al mondo coloniale, esso è un mondo a scomparti, manicheo, immobile. La prima cosa che l'indigeno impara, è a stare al suo posto, a non oltrepassare i limiti. Perciò i sogni dell'indigeno sono sogni muscolari, sogni di azione, sogni aggressivi. Tale aggressività sedimentata nei suoi muscoli, il colonizzato la manifesterà dapprima contro i suoi. È il periodo in cui i negri si divorano tra di loro e in cui i poliziotti, i giudici istruttori non sanno più dove battere il capo di fronte alla strabiliante delinquenza nordafricana. Il colonizzato è un perseguitato che sogna continuamente di diventar persecutore. La tensione muscolare del colonizzato si libera periodicamente in esplosioni sanguinarie: lotte tribali, lotte di congregazioni, lotte tra individui. Al livello degli individui, si assiste a una vera negazione del buon senso. Le lotte tribali non fanno altro che perpetuare vecchi rancori Appena i capitalisti sanno che il loro governo si prepara a decolonizzare, si affrettano a ritirare dalla colonia la totalità dei capitali. La fuga spettacolare dei capitali è uno dei fenomeni più costanti della decolonizzazione. Le compagnie private, per investire nei paesi indipendenti, esigono condizioni che si rivelano all'atto pratico inaccettabili o irrealizzabili. Fedeli al principio di redditività immediata che è loro proprio, appena vanno «oltremare», i capitalisti si mostrano reticenti nei riguardi di ogni investimento a lunga scadenza. Sono restii e spesso apertamente ostili ai pretesi programmi di pianificazione delle giovani équipes al potere. Di fatto, la diffidenza dei gruppi finanziari occidentali si spiega con la preoccupazione di non assumere alcun rischio. Perciò essi esigono una stabilità politica e un clima sociale tranquillo che è impossibile ottenere se si tiene conto della situazione deplorevole della popolazione complessiva all'indomani dell'indipendenza. Allora, alla ricerca di una garanzia che l'antica colonia non può assicurare, essi esigono il mantenimento di certe guarnigioni o l'entrata del giovane Stato in patti economici o militari. Il capitalismo è però minacciato da un altro pericolo: le industrie occidentali saranno rapidamente private dei loro sbocchi oltremare. Le macchine si ammucchieranno nei depositi e, sul mercato europeo, si svolgerà una lotta inesorabile tra i gruppi finanziari e i trusts. Chiusura di fabbriche, licenziamenti e disoccupazione condurranno il proletariato europeo a scatenare una lotta aperta contro il regime capitalista. Bisogna investire generosamente e aiutare tecnicamente le regioni sottosviluppate. La sorte del mondo dipende dalla risposta che verrà data a questa domanda. GRANDEZZA E DEBOLEZZA DELLA SPONTANEITÀ 1. Queste riflessioni ci hanno portati a prendere coscienza dell’esistenza (ancora nel periodo coloniale) di una differenza di ritmo tra i quadri delle masse (esigono il miglioramento immediato e totale della loro situazione) e quelli del partito nazionalista (che, misurando le difficoltà suscettibili di essere create dal ceto padronale, limitano e restringono le loro rivendicazioni). Per questo si constata spesso un tenace malcontento delle masse di fronte ai quadri. Il moltiplicarsi delle manifestazioni rivendicative, il moltiplicarsi dei conflitti sindacali provocheranno la politicizzazione di queste masse. 2. Il grave errore, il vizio congenito della maggioranza dei partiti politici nazionalisti nelle zone sottosviluppate è stato quello di rivolgersi prima degli altri agli elementi più coscienti: il proletariato delle città, gli artigiani e i funzionari, vale a dire un'infima parte della popolazione che non rappresenta molto più dell'uno per cento. Il proletariato è il nucleo del popolo colonizzato più vezzeggiato dal regime coloniale. Il proletariato embrionale delle città è relativamente privilegiato. Nei paesi capitalisti, il proletariato non ha nulla da perdere, è quello che, eventualmente, avrebbe tutto da guadagnare. Nei paesi colonizzati il proletariato ha tutto da perdere. Rappresenta infatti la frazione del popolo colonizzato necessaria e insostituibile per il buon andamento della macchina coloniale. 3. I partiti nazionalisti, nella loro immensa maggioranza, provano grande diffidenza nei riguardi delle masse rurali. Assai presto i membri dei partiti nazionalisti (operai delle città e intellettuali) arrivano a dare sulle campagne lo stesso giudizio peggiorativo dei coloni. Ma se si cerca di capire le ragioni di questa diffidenza dei partiti politici verso le masse rurali, occorre fermarsi sul fatto che il colonialismo ha spesso rafforzato o fondato il suo dominio organizzando la pietrificazione delle campagne: le masse rurali vivono ancora allo stato feudale, l'onnipotenza di quella struttura medievalistica essendo alimentata dagli agenti amministrativi o militari del colonialismo. La giovane borghesia nazionale, mercantile soprattutto, entrerà assai presto in competizione con questi signori feudali in molteplici settori. Gli elementi occidentalizzati provano nei riguardi delle masse contadine sentimenti che ricordano quelli che si riscontrano nel proletariato dei paesi industrializzati. Le masse contadine continuano a vivere in un ambiente statico e le bocche in soprannumero non hanno altra risorsa se non emigrare verso i quartieri urbani. Il contadino che rimane sul posto difende con tenacia le sue tradizioni e, nella società colonizzata, rappresenta l'elemento disciplinato la cui struttura sociale rimane comunitaria; nella loro spontaneità le masse rurali rimangono disciplinate, altruiste. L'individuo si cancella davanti alla comunità. I contadini provano diffidenza nei riguardi dell'uomo della città. I partiti politici non vanno incontro alle masse; tentano di inquadrare le masse secondo uno schema aprioristico. I capi tradizionali sono ignorati, e i vecchi, circondati di rispetto nelle società tradizionali e generalmente rivestiti di indiscutibile autorità morale, sono pubblicamente messi in ridicolo. Gli insuccessi subiti confermano l'«analisi teorica» dei partiti nazionalisti. L'esperienza disastrosa del tentativo di irreggimentare le masse rurali rafforza la loro diffidenza e cristallizza la loro aggressività contro quella parte del popolo. Intanto si assiste, nelle campagne, alle insurrezioni armate e sommosse in opposizione alle forze colonialiste; Come reagiscono i partiti nazionalisti a questa irruzione decisiva delle masse contadine nella lotta nazionale? Sfruttano questa manna ma non tentano di organizzare l'insurrezione. Non mandano quadri nelle campagne per politicizzare le masse, per illuminare le coscienze, per elevare il livello della lotta. Sperano che trasportata dal suo movimento l'azione di queste masse non si rallenti. Si mantiene la posizione criminale di diffidenza di fronte alle campagne. I dirigenti politici si rintanano nelle città, fanno capire al colonialismo che non hanno alcun rapporto con gli insorti o se ne vanno all'estero. Le constatazioni che abbiamo avuto occasione di fare al livello dei partiti politici si ritrovano al livello dei sindacati. All'inizio, le formazioni sindacali nei territori coloniali sono regolarmente ramificazioni locali dei sindacati metropolitani e le parole d'ordine rispondono come un'eco a quelle della metropoli. Precisandosi la fase decisiva della lotta di liberazione, alcuni sindacalisti indigeni decideranno la creazione di sindacati nazionali. L'antica formazione, importata dalla metropoli, sarà disertata in massa dagli autoctoni. I responsabili sindacali che han fatto pratica nel quadro delle formazioni sindacali metropolitane non sanno organizzare le masse rurali. Durante la fase coloniale, le formazioni sindacali nazionaliste costituiscono una forza di dissuasione spettacolare. Nelle città, i sindacati possono immobilizzare, comunque inceppare in qualunque momento, l'economia colonialista, tuttavia le masse rurali rimangono estranee a questo scontro. Dopo l'indipendenza, gli operai irreggimentati nei sindacati hanno l'impressione di girare a vuoto. L'obbiettivo limitato che si erano fissati si rivela, nel momento stesso in cui viene raggiunto, molto precario rispetto all'immensità del compito di costruzione nazionale. I dirigenti sindacali scoprono che essi non possono più limitarsi all'agitazione operaistica. Adottano posizioni sempre più politiche. Di fatto, i sindacati sono candidati al potere. Tentano con tutti i mezzi di ridurre alle strette la borghesia. I sindacati si accorgono, all'indomani dell'indipendenza, che le rivendicazioni sociali, se fossero espresse, scandalizzerebbero il resto della nazione. Gli operai sono difatti i favoriti del regime. Rappresentano la frazione più agiata del popolo. Questo disagio esprime la necessità oggettiva di un programma sociale che interessi finalmente l'insieme della nazione. I sindacati scoprono improvvisamente che il retroterra deve essere ugualmente illuminato e organizzato. Ma poiché, in nessun momento, si sono preoccupati di disporre cinghie di trasmissione tra loro e le masse contadine, e siccome precisamente queste masse costituiscono le sole forze spontaneamente rivoluzionarie del paese, i sindacati proveranno la loro inefficacia. 4. Ma succede che le masse rurali, nonostante la scarsa presa che i partiti nazionalisti hanno su di loro, intervengano in modo decisivo sia nel processo di maturazione della coscienza nazionale, sia per dare il cambio all'azione dei partiti nazionalisti, sia, più di rado, per sostituirsi addirittura alla sterilità di quei partiti. In certe circostanze, invece, le masse contadine interverranno in modo decisivo, al tempo stesso nella lotta di liberazione nazionale e negli orientamenti che la nazione futura si sceglie. Questo fenomeno riveste per i paesi sottosviluppati un'importanza fondamentale. Nei partiti nazionalisti la volontà di spezzare il colonialismo va d'accordo con un'altra: quella di intendersi amichevolmente con esso. In seno a quei partiti, si produrranno anzitutto elementi intellettuali, avendo proceduto a un'analisi rigorosa della realtà coloniale e della situazione internazionale, cominceranno a criticare il vuoto ideologico del partito nazionale e la sua povertà tattica e strategica, proponendo innovazioni. Tuttavia la macchina del partito si mostra ribelle ad ogni innovazione. La minoranza rivoluzionaria si ritrova sola, di fronte a una direzione impaurita e angosciata all'idea di poter essere travolta in una tormenta di cui non immagina nemmeno gli aspetti, la forza o l'orientamento. Gli elementi rivoluzionari che difendono quelle posizioni, saranno presto isolati. Respinti dalle città, quegli uomini si raggruppano, in un primo tempo, nelle estreme periferie. Ma la rete poliziesca li scova e li costringe ad abbandonare definitivamente le città, a fuggire i luoghi della lotta politica. Ripiegano sulle campagne, sulle montagne, sulle masse contadine. In un primo tempo, le masse si richiudono su di loro sottraendoli alla ricerca poliziesca. Avranno occasione di percorrere, di conoscere il loro paese. Quegli uomini prendono l'abitudine di parlare ai contadini. Scoprono che le masse rurali non hanno mai cessato di impostare il problema della loro liberazione in termini di violenza, di terra da riprendere agli stranieri, "di lotta nazionale", d'insurrezione armata. La lotta armata è scatenata. I dirigenti dell'insurrezione prendono coscienza, un giorno o l'altro, della necessità di estendere questa insurrezione alle città. Di fatto l'insurrezione, partita dalle campagne, penetrerà nelle città attraverso la frazione del ceto contadino bloccato alla periferia urbana. È in questo popolo delle bidonvilles che l'insurrezione troverà il suo puntale urbano, che costituisce una delle forze più spontaneamente e radicalmente rivoluzionarie del popolo colonizzato. Esso, ricordiamo, è costituito da affamati de-tribalizzati, de-clanizzati, gente venuta dalle campagne che, non riuscendo a trovare occupazione, rubano, si danno al vizio; disoccupati e pezzi da galera. Tutti questi declassati ritroveranno, tramite l'azione militante e decisiva, la strada della nazione. Assistiamo quindi, all'inizio, a un vero trionfo del culto della spontaneità. Ogni colonizzato in armi è un pezzo della nazione ormai viva. Queste sommosse mettono in pericolo il regime coloniale, mobilitano le sue forze disperdendole, minacciando ad ogni istante di asfissiarle. Esse obbediscono a una dottrina semplice: fate sì che la nazione esista. Finché dura l'inquietudine del colonialismo, la causa nazionale progredisce e diventa la causa di ognuno. L'impresa di liberazione si profila e riguarda già l'insieme del paese. Ognuno con la sua azione fa esistere la nazione e si impegna a farla localmente trionfare. Lo scopo, il programma d'ogni gruppo spontaneamente costituito è la liberazione locale. Se la nazione è dappertutto, allora essa è qui. In una vera estasi collettiva, famiglie nemiche decidono di cancellare tutto, dimenticare tutto. Le riconciliazioni si moltiplicano. L'assunzione della nazione fa avanzare la coscienza. L'unità nazionale è dapprima l'unità del gruppo, la scomparsa delle vecchie liti e la liquidazione definitiva delle reticenze. borghesia nazionale si è rivelata incapace di dilatare sufficientemente la sua visione del mondo, si assiste a un riflusso verso le posizioni tribaliste; Se la borghesia nazionale scende in competizione con gli europei, gli artigiani e i mestieri minuti scatenano la lotta contro gli africani non nazionali. Dal nazionalismo siamo passati all'ultranazionalismo, allo sciovinismo, al razzismo. Come si vede, il meccanismo è identico nei due ordini di fenomeni. Se gli europei limitano la voracità degli intellettuali e della borghesia d'affari della giovane nazione, per la massa del popolo delle città la concorrenza è rappresentata principalmente da africani d'una nazione diversa. 4. Nei giovani paesi indipendenti, trionfa qua e là il federalismo. La dominazione coloniale ha, com'è noto, privilegiato certe regioni. L'economia della colonia non è integrata all'insieme della nazione. Essa è sempre disposta in rapporti di complementarità con le diverse metropoli. Il colonialismo non sfrutta quasi mai la totalità del paese. All'indomani dell'indipendenza, i nazionali che abitano le regioni prospere prendono coscienza della loro fortuna e per un riflesso viscerale e primario rifiutano di nutrire gli altri nazionali. Le vecchie rivalità precoloniali, i vecchi odi interetnici risuscitano. L'unità africana, formula vaga ma cui gli uomini e le donne d'Africa erano passionalmente affezionati e il cui valore operativo era quello di esercitare una tremenda pressione sul colonialismo, svela il suo vero volto e si sgretola in regionalismi all'interno d'una stessa realtà nazionale. La borghesia nazionale, essendo contratta sui suoi interessi immediati, non vedendo più in là della punta delle sue unghie, si rivela incapace di attuare la semplice unità nazionale, incapace di edificare la nazione su basi solide e feconde. Il fronte nazionale che aveva fatto indietreggiare il colonialismo si sfascia e consuma la sua disfatta. 5. Nascere di competizioni religiose. Nelle grandi città, al livello dei quadri amministrativi, si assisterà all'affrontarsi delle due grandi religioni rivelate: l'Islam e il cattolicesimo. Il colonialismo, che aveva tremato sulle sue basi dinanzi alla nascita dell'unità africana, riprende le sue dimensioni e tenta adesso di spezzare quella volontà utilizzando tutte le debolezze del movimento. Il colonialismo mobiliterà i popoli africani rivelando loro l'esistenza di rivalità «spirituali». Non si esita a dire che è l'occupazione araba ad aver fatto il letto del colonialismo europeo; si parla d'imperialismo e si denuncia l'imperialismo culturale dell'Islam. I mussulmani sono generalmente tenuti in disparte dagli uffici direttivi. In altre regioni si verifica il fenomeno opposto e sono gli autoctoni cristianizzati a venir considerati come nemici oggettivi e coscienti dell'indipendenza nazionale. Il colonialismo impiega senza vergogna tutte queste astuzie, troppo lieto di montare gli uni contro gli altri gli africani che ieri si erano stretti in lega contro di esso. Tutte queste osservazioni ricordano per la loro aggressività quelle che sono state così spesso descritte nel colono. Non è raro che un cittadino d'Africa nera, passeggiando in una grande città dell'Africa bianca, si senta dare del «negro» dai ragazzini o si veda rivolgere la parola in «petit- nègre» da funzionari. Parimenti, in certi giovani stati dell'Africa nera, parlamentari, o magari ministri, affermano senza scherzare che il pericolo non è affatto quello di una rioccupazione del loro paese da parte del colonialismo, ma dell'eventuale invasione degli «arabi vandali venuti dal nord». 6. Sul piano interno e nel quadro istituzionale, la borghesia nazionale darà parimenti prova della sua incapacità. In un certo numero di paesi sottosviluppati il gioco parlamentare è fondamentalmente falsato; la borghesia sceglie la soluzione che le sembra più facile, quella del partito unico. Il partito unico è la forma moderna della dittatura borghese. Siccome la borghesia non divide i suoi utili con il popolo e non gli permette affatto di approfittare delle prebende che le versano le grandi compagnie straniere, essa scoprirà la necessità di un leader popolare al quale spetterà il doppio ruolo di stabilizzare il regime e di perpetuare il dominio della borghesia. La dittatura borghese dei paesi sottosviluppati trae la sua saldezza dall'esistenza d'un leader. Nei paesi sviluppati, com'è noto, la dittatura borghese è il prodotto della potenza economica della borghesia. Invece, nei paesi sottosviluppati, il leader rappresenta la potenza morale al cui riparo la borghesia, magra e sfornita, della giovane nazione decide di arricchirsi. I circuiti economici del giovane Stato sprofondano irreversibilmente nella struttura neocolonialista. Il popolo ristagna deplorevolmente in una miseria intollerabile e lentamente prende coscienza del tradimento inqualificabile dei suoi dirigenti. Ma le minacce incipienti porteranno con sé il rafforzamento dell'autorità e l'avvento della dittatura. Il leader, che ha dietro a sé una vita di militante e di patriota devotissimo. Ogni volta che si rivolge al popolo, egli ricorda la sua vita, che fu spesso eroica. Quindi dopo l'indipendenza, il partito nazionalista sprofonda in una letargia spettacolare. I quadri locali del partito sono designati a posti amministrativi, il partito si muta in amministrazione. Adesso che hanno compiuto la loro missione storica che era quella di portare la borghesia al potere, essi sono fermamente invitati a ritirarsi affinché la borghesia possa tranquillamente compiere la sua missione. L'antico partito, diventato oggi scheletrico, non serve che a immobilizzare il popolo. Il partito, vero strumento del potere tra le mani della borghesia, rafforza l'apparato statale e precisa l'inquadramento del popolo, la sua immobilizzazione. Il partito aiuta il potere a tenere il popolo. È, sempre più, uno strumento di coercizione e nettamente antidemocratico. 7. La borghesia nazionale, sul piano istituzionale, salta la fase parlamentare e sceglie una dittatura di tipo nazionalsocialista. Sappiamo oggi che questo fascismo in formato ridotto che ha trionfato per mezzo secolo in America latina, è il risultato dialettico dello Stato semicoloniale del periodo d'indipendenza. L'opposizione diventa più aggressiva e il popolo coglie a volo la sua propaganda. L'ostilità nei riguardi della borghesia è ormai manifesta. Un tale sfruttamento e una tale diffidenza nei riguardi dello Stato scatenano inevitabilmente lo scontento al livello delle masse. In queste condizioni il regime si inasprisce. Allora l'esercito diventa l'appoggio indispensabile d'una repressione sistematizzata. In mancanza d'un parlamento è l'esercito a diventare l'arbitro della situazione. Non bisogna dunque dire che la borghesia nazionale ritarda l'evoluzione del paese, gli fa perder tempo o rischia di condurre la nazione in vicoli ciechi. Di fatto la fase borghese nella storia dei paesi sottosviluppati è una fase inutile. Quando quella casta si sarà annientata, divorata dalle proprie contraddizioni, ci si accorgerà che non è successo niente dopo l'indipendenza, che bisogna ricominciare tutto, bisogna ripartire da zero. Quindi sbarrare la strada alla borghesia nazionale, è scartare le peripezie drammatiche del periodo successivo all'indipendenza. Ma in realtà questa borghesia che ha adottato senza riserve e con entusiasmo i meccanismi di pensiero caratteristici della metropoli, che ha mirabilmente alienato il proprio pensiero e fondato la sua coscienza su basi tipicamente straniere, si accorgerà, a gola asciutta, che le manca quello che fa una borghesia, vale a dire il denaro. La borghesia dei paesi sottosviluppati è una borghesia «mentale». Non sono né la sua potenza economica, né il dinamismo dei suoi quadri, né l'ampiezza delle sue concezioni ad assicurarle la qualità di borghesia. Perciò è agli inizi, e per molto tempo, una borghesia di funzionari. Ma si rivelerà sempre incapace di dar vita a un'autentica società borghese con tutte le conseguenze economiche e industriali che ciò presuppone. 8. Politicizzazione delle masse. Quando si afferma la necessità di politicizzare il popolo, si decide di significare nello stesso tempo che si vuole essere appoggiati dal popolo nell'azione che si intraprende. La politicizzazione delle masse si propone non di infantilire le masse, ma di renderle adulte. 9. Ruolo del partito politico in un paese sottosviluppato. Abbiamo visto che la borghesia nazionale incarica il partito d'una missione di sorveglianza delle masse. Questa dittatura che si crede portata dalla storia, che si ritiene indispensabile ai primi tempi dell'indipendenza, simboleggia in realtà la decisione della classe borghese di dirigere il paese sottosviluppato dapprima coll'appoggio del popolo, ma ben presto contro di lui. Tutti i partiti d'opposizione, d'altronde generalmente progressisti, che quindi operavano per una maggiore influenza delle masse nella gestione degli affari pubblici, che auspicavano di richiamare all'ordine la borghesia sprezzante e mercantile, sono stati, dalla forza dei manganelli e delle prigioni, condannati al silenzio poi alla clandestinità. Il partito non è uno strumento tra le mani del governo. Tutt'altro, il partito è uno strumento tra le mani del popolo. È lui che fissa la politica che il governo applica. Per il popolo il partito non è l'autorità, ma l'organismo attraverso il quale egli esercita in quanto popolo la sua autorità e la sua volontà. In un paese sottosviluppato i membri dirigenti del partito devono decentralizzarsi, cioè fuggire la capitale e risiedere, ad eccezione di alcuni, nelle regioni rurali. Si deve evitare di centralizzare tutto nella grande città. Il partito deve essere decentralizzato all'estremo. È il solo mezzo d'attivare le regioni morte, le regioni che non sono ancora deste alla vita. In un paese sottosviluppato, l'impianto di direzioni regionali dinamiche arresta il processo di macrocefalizzazione delle città, il precipitarsi incoerente delle masse rurali verso le città. Il sogno di ogni cittadino è di raggiungere la capitale, di avere la sua parte di torta. Le località vengono disertate, le masse rurali non inquadrate, non educate e non sostenute si discostano da una terra mal lavorata e si dirigono verso i borghi periferici, gonfiando smisuratamente le bidonvilles. L'impianto, fin dai primi giorni dell'indipendenza, di direzioni regionali che abbiano ogni competenza in una regione per destarla, farla vivere, accelerare la presa di coscienza dei cittadini, è una necessità cui un paese deciso a progredire non può sfuggire. Non dobbiamo mai perdere il contatto col popolo che ha lottato per la sua indipendenza e il miglioramento concreto della sua esistenza. 10. In un paese sottosviluppato, il partito deve essere organizzato in modo che non si limiti ad avere contatti con le masse. Il partito deve essere l'espressione diretta delle masse. Il partito non è un'amministrazione incaricata di trasmettere gli ordini del governo. È il portavoce energico e il difensore incorruttibile delle masse. Per giungere a questa concezione del partito, occorre prima di tutto sbarazzarsi dell'idea che le masse sono incapaci di dirigersi. Un uomo isolato può mostrarsi restio alla comprensione d'un problema, ma il gruppo, il villaggio capisce con rapidità sconcertante. Se si parla il linguaggio concreto, se non si è ossessionati dalla volontà perversa di imbrogliare le carte, di sbarazzarsi del popolo, allora ci si accorge che le masse colgono tutte le sfumature, tutte le finezze. Il ricorso a un linguaggio tecnico significa che si è decisi a considerare le masse come profani. Esempio tratto dalla situazione algerina: durante gli anni 1956-57, il colonialismo francese aveva proibito certe zone, e la circolazione delle persone in quelle regioni era strettamente regolamentata. I contadini non avevano dunque più la possibilità di recarsi liberamente in città e di rinnovare le provviste. I droghieri, durante quel periodo, accumulavano utili enormi. Il tè, il caffè, lo zucchero, il tabacco, il sale dunque il suo primo limite nei fenomeni che rendono conto dello storicizzarsi degli uomini: si rendevano conto che ogni cultura è anzitutto nazionale. C’è da considerare, ancora, che l'intellettuale colonizzato si è buttato con avidità nella cultura occidentale, l'intellettuale colonizzato tenterà di far sua la cultura europea. Ma nel momento in cui i partiti nazionalisti mobilitano il popolo in nome dell'indipendenza nazionale, l'intellettuale colonizzato può talvolta cacciar col piede quelle cose acquisite che risente ad un tratto come alienanti. Quell'intellettuale che, pel tramite della cultura, si era infiltrato nella civiltà occidentale, si accorgerà che la matrice culturale che egli vorrebbe assumere per desiderio di originalità, non gli offre certo le figure rappresentative capaci di reggere al confronto con quelle numerose e fascinose della civiltà dell'occupante. L'attualità del continente che vorrebbe far suo, l'intellettuale è sbigottito dal vuoto, l'abbrutimento, la ferocia. Ora, egli sente che gli occorre uscire da quella cultura bianca, che gli occorre cercar altrove, da qualunque parte, e non trovando un alimento culturale all'altezza del panorama glorioso spiegato dal dominatore, l'intellettuale colonizzato molto spesso rifluirà su posizioni passionali e svilupperà una psicologia dominata da una sensibilità, una sensitività, una suscettibilità eccezionali. Petizione di principio, nel suo meccanismo interno e nella sua fisionomia evoca soprattutto un riflesso, una contrazione muscolare. Questa è la fase della coscienza in atto di liberarsi. Panorama in tre tempi. 1. In una prima fase, l'intellettuale colonizzato dimostra che ha assimilato la cultura dell'occupante. Le sue opere corrispondono punto per punto a quelle dei suoi omologhi metropolitani. L'ispirazione è europea e si possono facilmente riallacciare quelle opere a una corrente ben definita della letteratura metropolitana. È il periodo assimilazionistico integrale. 2. In un secondo tempo il colonizzato è scosso e decide di ricordarsi. Siccome il colonizzato non è inserito nel suo popolo, siccome mantiene relazioni d'esteriorità col suo popolo, si accontenta di ricordare. Vecchi episodi d'infanzia saranno portati su dal fondo della memoria, vecchie leggende saranno reinterpretate in funzione d'una estetica d'accatto e d'una concezione del mondo scoperta sotto altri cieli. 3. Finalmente, in un terzo periodo, detto di lotta, il colonizzato, dopo aver tentato di perdersi nel popolo, di perdersi col popolo, scuoterà invece il popolo. Invece di privilegiare la letargia del popolo, si trasforma in un ridestatore di popolo. Letteratura di lotta, letteratura rivoluzionaria, letteratura nazionale. Nel corso di questa fase un gran numero d'uomini e di donne che per l'addietro non avrebbero mai pensato di fare opera letteraria, ora che si trovano collocati in situazioni eccezionali, in prigione, alla macchia o alla vigilia dell'esecuzione, sentono la necessità di dire la nazione, di comporre la frase che esprime il popolo, di farsi portavoce di una nuova realtà in atto. Ma per assicurare la speranza, per darle densità, occorre partecipare all'azione, impegnarsi anima e corpo nella lotta nazionale. Battersi per la cultura nazionale, è per intanto battersi per la liberazione della nazione, matrice materiale a partire dalla quale la cultura si fa possibile. Non c'è un combattimento culturale che si svilupperebbe collateralmente al combattimento popolare. La cultura nazionale è l'insieme degli sforzi fatti da un popolo sul piano del pensiero per descrivere, giustificare e cantare l'azione attraverso cui il popolo si è costituito e si è mantenuto. La cultura nazionale, nei paesi sottosviluppati, deve dunque situarsi al centro stesso della lotta di liberazione che conducono quei paesi. FONDAMENTI RECIPROCI DELLA CULTURA NAZIONALE E DELLE LOTTE DI LIBERAZIONE. 1. Quindi, essenzialmente consumatrice durante il periodo di oppressione, la cultura si fa poi produttiva. Qui, mentre inizialmente l’intellettuale colonizzato produce guardando esclusivamente all’oppressore, sia per lusingarlo che per denunciarlo attraverso categorie etniche o soggettivistiche, progressivamente adotta l’abitudine di rivolgersi al suo popolo. Soltanto a cominciare da questo momento si può parlare di “letteratura nazionale”. Essa è la letteratura di battaglia propriamente detta, nel senso che essa convoca tutto un popolo alla lotta per l’esistenza nazionale. Sul piano artigianale, le forme sedimentate e come colpite da stupore progressivamente si tendono. Il lavoro del legno per esempio, che ripeteva a migliaia certi visi o certe pose, si differenzia. Quel vigore nuovo in questo settore della vita culturale passa molto spesso inosservato. Eppure il suo contributo alla lotta nazionale è capitale. Animando volti e corpi, prendendo come tema creativo un gruppo avvitato su uno stesso zoccolo, l'artista chiama al movimento organizzato. Nell'insieme, tutti questi mutamenti sono condannati in nome d'uno stile artistico codificato, d'una vita culturale sviluppantesi in seno alla situazione coloniale. Gli specialisti colonialisti non riconoscono questa forma nuova e accorrono in soccorso delle tradizioni della società autoctona. Sono i colonialisti a farsi i difensori dello stile indigeno. Tutto concorre a risvegliare la sensibilità del colonizzato, a rendere inattuabili, inaccettabili gli atteggiamenti contemplativi o fallimentari, il colonizzato ristruttura la sua percezione. Nella situazione coloniale, la cultura priva del doppio supporto della nazione e dello Stato deperisce e agonizza. La condizione di esistenza della cultura e dunque la liberazione nazionale, la rinascita dello Stato. La nazione non è soltanto condizione della cultura, della sua effervescenza, del suo rinnovarsi continuo, del suo approfondimento. È anche un'esigenza. È anzitutto il combattimento per l'esistenza nazionale a sbloccare la cultura, ad aprirle le porte della creazione. Più tardi sarà la nazione ad assicurare alla cultura le condizioni, l'ambito espressivo. Quali sono i rapporti che esistono tra la lotta, il conflitto - politico o armato - e la cultura? Durante il conflitto, c'è sospensione della cultura? La lotta nazionale è una manifestazione culturale? La lotta di liberazione è, sì o no, un fenomeno culturale? Noi pensiamo che la lotta organizzata e cosciente intrapresa da un popolo colonizzato per ristabilire la sovranità della nazione costituisca la manifestazione più pienamente culturale che esista. La lotta stessa, nel suo svolgimento, nel suo processo interno, sviluppa le diverse direzioni della cultura e ne abbozza altre nuove. Dopo la lotta non c'è soltanto scomparsa del colonialismo, ma anche scomparsa del colonizzato. Questa nuova umanità, per sé e per gli altri, non può non definire un nuovo umanesimo. Negli obbiettivi e nei metodi della lotta è prefigurato questo nuovo umanesimo. Il fatto si è che la nazione, nella forma della sua venuta al mondo, nelle sue modalità di esistenza, influisce fondamentalmente sulla cultura. Una nazione nata dall'azione concertata del popolo, che incarna le aspirazioni reali del popolo, che modifica lo Stato, non può esistere che sotto forme di fecondità culturale eccezionale. Ci sembra che l'avvenire della cultura, la ricchezza d'una cultura nazionale sono funzione anche dei valori che hanno ispirato il combattimento liberatore. DALL'IMPULSIVITA' CRIMINALE DEL NORDAFRICANO ALLA GUERRA DI LIBERAZIONE NAZIONALE 1. Non bisogna soltanto combattere per la libertà del proprio popolo. Bisogna anche, per tutto il tempo che dura la lotta, reinsegnare a questo popolo e anzitutto reinsegnare a sé stessi la dimensione dell'uomo. Il militante si accorge sovente che deve non soltanto dar la caccia alle forze nemiche, ma anche ai nuclei di disperazione cristallizzati nel corpo del colonizzato. Tra le caratteristiche del popolo algerino come il colonialismo le aveva stabilite considereremo la sua criminalità strabiliante. Prima del 1954, i magistrati, i poliziotti, gli avvocati, i giornalisti, i medici legali erano tutti d'accordo nel dire che la delinquenza dell'algerino costituiva un problema. L'algerino, si affermava, è un delinquente nato. Una teoria fu elaborata, prove scientifiche furono addotte. Questa teoria fu oggetto, per oltre vent'anni, di insegnamento universitario. Algerini studenti in medicina assorbirono quell'insegnamento e a poco a poco, impercettibilmente, accettato il colonialismo, le élites accettarono tranquillamente le tare naturali del popolo algerino. Ci proponiamo di esporre qui quella teoria ufficiale, di ricordarne le basi concrete e l'argomentazione scientifica. In un secondo tempo riprenderemo i fatti e cercheremo di reinterpretarli. - "L'algerino uccide frequentemente". È un fatto, vi diranno i magistrati, che i quattro quinti delle cause istruite si riferiscono a percosse e lesioni. Il tasso della delinquenza in Algeria - sostengono - è uno dei più cospicui, uno dei più alti del mondo. - "L'algerino uccide selvaggiamente". E per intanto l'arma preferita è il coltello. - "L'algerino uccide per nulla". Molto spesso magistrati e poliziotti restano sbalorditi dinanzi ai motivi dell'assassinio: un gesto, un'allusione, un discorso ambiguo. Infine, il furto praticato da un algerino avviene sempre con scasso accompagnato o no da assassinio, in ogni caso da aggressione contro il proprietario. Si parlò sempre più della delinquenza nordafricana. Per più di trent'anni, sotto la direzione costante del professor Porot, insegnante di psichiatria all'Università di Algeri, parecchie équipes preciseranno le modalità di espressione di questa criminalità e ne proporranno un'interpretazione sociologica, funzionale, anatomica. Ma, si precisa, quest'impulsività è fortemente aggressiva e generalmente omicida. È così che si arriva a spiegare il comportamento non ortodosso del melanconico algerino. Gli psichiatri francesi in Algeria si son trovati di fronte ad un problema difficile. Erano abituati, in presenza d'un malato colpito da melanconia, a temere il suicidio. Ora il melanconico algerino uccide. Questa malattia della coscienza morale, accompagnata sempre da autoaccusa e da tendenze autodistruttive, riveste presso l'algerino forme etero-distruttive. È la melanconia omicida. Per quanto riguarda le attitudini intellettuali. L'algerino è un gran debilitato mentale. Occorre, se si vuole capir bene questo dato, ricordare la semeiologia stabilita dalla scuola di Algeri. L'indigeno, vi è detto, presenta i seguenti caratteri:  nessuna o quasi nessuna emotività  credulo e suggestionabile all'estremo  testardaggine tenace  puerilismo mentale, meno lo spirito curioso del bambino occidentale  facilità di incidenti e di reazioni pitiatiche  non percepisce l'insieme  le domande che egli si pone riguardano sempre i particolari ed escludono qualunque sintesi  incapace d'interpretare il particolare partendo dall'insieme