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I diritti umani. Concetto, teoria, evoluzione, Sintesi del corso di Diritti Umani

Riassunto dettagliato e chiaro capitolo per capitolo

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 23/01/2019

PaterCa
PaterCa 🇮🇹

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Scarica I diritti umani. Concetto, teoria, evoluzione e più Sintesi del corso in PDF di Diritti Umani solo su Docsity! INTRODUZIONE La teorizzazione dei diritti umani risulta per molti aspetti fluttuante, priva di basi condivise e stabili e sovente condizionata da assunti ideologici. La nozione di diritti umani si presenta, dunque, complessa, in quanto si tratta di una nozione poliedrica, composta di più dimensioni -etica, sociale, politica, giuridica- tra loro interconnesse ma poggianti su logiche e strumenti diversi. Problematica, perché molte sono le questioni ancora aperte. Infine, la nozione di diritti umani presenta un carattere dinamico ed espansivo, esprimentesi nella tendenza al mutamento dello specifico contenuto dei diritti, in relazione al tempo ed ai contesti, e nella costante tendenza alla moltiplicazione. Numerosi sono i profili che tendono inevitabilmente a confluire e persino a sovrapporsi: il profilo del processo storico di affermazione dei diritti, che non può non condizionare il concreto sedimentarsi, nel tempo e nello spazio, dell'idea dei diritti; il profilo della giustificazione morale dei contenuti associati ed associabili ai diritti umani; il profilo delle scelte politiche interne agli stati e delle relazioni internazionali, che grande peso hanno sulle diverse visioni dei diritti che si diffondono all'interno della società e del tessuto culturale, a vari livelli, da quello locale a quello globale. Una prima premessa metodologica è che ciascuno di questi profili richiede strumenti, linguaggi e modalità di analisi specifiche. Una seconda premessa è l'idea secondo cui la nozione giuridica dei diritti umani poggia, sia nei contenuti che nella giustificazione, su un nucleo essenzialmente etico-politico che deve proiettarsi entro concreti contesti sociali, politici e istituzionali. Non irrilevanti risultano due tendenze ancora oggi piuttosto diffuse. Si tratta, in primo luogo, della tendenza a ridurre completamente la nozione giuridica dei diritti alle sue concretizzazioni giuridico- positive. Si ritiene, al contrario, che, proprio in conseguenza del suo contenuto intrinsecamente etico-politico, la nozione dei diritti goda di una riserva di potenzialità rispetto agli esiti di volta in volta raggiunti dal processo di positivizzazione. In secondo luogo, è registrabile la tendenza, simmetricamente opposta ma non meno problematica, ad enfatizzare, nell'idea dei diritti, il contenuto etico-politico, trascurando il nesso con il piano giuridico positivo. Parlare della nozione giuridica di diritti umani significa parlare al tempo stesso della forma (giuridica) e di quella parte o di quella versione dell'originario contenuto etico-politico che tale forma può inglobare, esprimere ed attuare. Risulta svolgere un ruolo centrale in riferimento all'interpretazione giuridica. Un terzo presupposto alla base di quanto si dirà è rappresentato dalla valorizzazione del nesso fra le teorie e le concezioni del diritto internazionale, da un lato, e le concezioni dei diritti umani, dall'altro. L'analisi teorico-giuridica non solo consente la comprensione di importanti aspetti dei processi di riconoscimento, di affermazione e di garanzia dei diritti, ma anche offre elementi indispensabili per il rinvenimento delle potenzialità insite in tali processi. L'analisi teorico-giuridica dei diritti umani può risultare particolarmente utile anche per affrontare alcuni dilemmi aperti nel dibattito sui diritti umani. Può, ad esempio, concorrere all'individuazione dei presupposti per l'universalizzazione dei diritti umani nel senso della loro giustificazione su scala tendenzialmente universale e della loro estensione al di là degli ordinamenti degli stati costituzionali. A questo proposito, i diritti umani sono esposti, nell'opinione pubblica, nella prassi politica e persino nelle teorie filosofiche, ad operazioni ora mistificatorie, ora, invece, di 1 delegittimazione. L'analisi teorico-giuridica, considerando i diritti umani al tempo stesso come un ideale morale e come concetto giuridico nel suo continuo atto di concretizzazione entro gli ordinamenti giuridici e rispetto alle molteplici forme che i rapporti tra questi sono andati e vanno assumendo, sembra offrire gli strumenti per evitare entrambi questi esiti. Indagando la struttura del concetto giuridico di diritti umani, è possibile stabilire quali siano le condizioni per un riconoscimento tendenzialmente universale e quali siano le risorse istituzionali necessarie al raggiungimento di tale obbiettivo. Norberto Bobbio ha sostenuto, nel 1964, che quanto conta, con riferimento ai diritti umani, è la loro protezione e non tanto il loro fondamento. Importante non è tanto riuscire a fondare i diritti su valori morali assolti, giacché sarebbe impossibile a fronte del pluralismo etico e culturale propri o delle società complesse e a fronte di quello che è stato, e continua ad essere, descritto come lo “scontro di civiltà” nella società internazionale. Conta, invece, l'impegno per la protezione giuridica dei diritti. Bobbio ritenne la tappa della “Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo” del 1948 come il segno di un consenso sufficiente a spronare verso la difesa e la promozione dei diritti. La considerazione della modalità con cui ha preso forma il percorso di positivizzazione dei diritti umani costringe, invero, a riconsiderare criticamente, almeno in parte, questa tesi. Diviene sempre più evidente -ed è l'analisi teorico-giuridica a dimostrarlo- come la garanzia dei diritti chiami in causa problemi connessi alla loro giustificazione e alla loro determinazione del contenuto. Pertanto, se la tesi di Bobbio risulta ancora oggi condivisibile nella misura in cui invita a non assegnare un ruolo pregiudiziale al tema ed alle questioni del fondamento, intendendo per “fondamento” unico valore assoluto o una fonte valoriale esclusiva, ciò non significa che al riflessione sulla giustificazione dei diritti sia da trascurare, ma sarà da intendersi come la ricerca delle ragioni per le quali i diritti umani meritano riconoscimento e rispetto. Ancora, l'analisi teorico-giuridica dei diritti umani dovrebbe rivelarsi utile nel contrastare il pericolo dell'uso retorico o addirittura strumentale dei diritti umani. Il problema diventa quello di distinguere tra uso legittimo ed uso teorico-strumentale dei diritti e, per fondare tale distinzione, risulta necessario: a) chiarire gli elementi che compongono la nozione di diritti umani; b) distinguere le varie tipologie di diritti sulla base di diversi elementi, quali: i soggetti, la struttura, il contenuto, le condizioni di applicabilità, il grado di positivizzazione raggiunto e raggiungibile; c) definire, di volta in volta, sulla base della loro struttura e delle “risorse” interne agli ordinamenti giuridici, lo statuto giuridico dei diritti umani, il tipo ed il grado di “copertura” giuridica di cui godono e di cui potrebbero godere; d) definire i rapporti fra dimensione giuridica e dimensione morale dei diritti; e) chiarire e indagare i rapporti tra diritti e fini dell'agire politico. La necessità dell'indagine teorica intorno ai diritti si rende, infine, necessaria con riferimento ad un momento essenziale della loro protezione: il momento della tutela giurisdizionale. I diritti sono spesso contenuti entro norme la cui formulazione presenta il carattere della vaghezza ed il loro contenuto viene precisato di fronte ai casi concreti. A sua volta, la determinazione del contenuto non può non rinviare alla giustificazione. Per questo la tutela giurisdizionale riconnette implicitamente l'applicazione dei diritti alla loro giustificazione e le giustificazioni sottese alla determinazione del contenuto concorrono a chiarire anche aspetti centrali dell'applicazione. L'analisi concettuale dei diritti può consentire, inoltre, di contrastare la tendenza all'”inflazione dei diritti”, la tendenza, cioè, ad assegnare la forma di diritto a qualsiasi pretesa. Allo stadio attuale di evoluzione dei diritti umani, nel quale questi si sono moltiplicati, specificati ed in una certa misura internazionalizzati (riconosciuti da fonti internazionali), tuttavia, stabilire il 2 b) l'estensione della titolarità, coincidente con la persona per i diritti umani e tale, invece, da ammettere o non escludere necessariamente eventuali restrizioni nel caso dei diritti fondamentali. Negli ultimi decenni, un ulteriore livello normativo, l'ordinamento comunitario, è andato riservando uno spazio crescente ai diritti fondamentali. In questo caso, da un lato è corretto parlare di “diritti fondamentali”, giacché il riconoscimento e la garanzia di questi diritti dipendono dall'adesione degli stati all'UE e sono interni ai rapporti fra Stati membri e ordinamento comunitario; dall'altro, può essere corretto parlare di “diritti umani”, nella misura in cui tra le fonti di riferimento dell'ordinamento comunitario troviamo anche fonti internazionali sui diritti umani. La distinzione analitica tra diritti fondamentali e diritti umani qui difesa non impedisce di riconoscere spazi di sovrapposizione fra le due sfere. La distinzione che si propone consente, tuttavia, di far emergere immediatamente un punto di grande importanza: anche laddove i diritti umani risultino accolti e fatti valere nell'alveo delle fonti di rango costituzionale, essi si configurano come diritti la cui titolarità spetta alla persona in quanto tale. Più in generale, invece, la titolarità dei diritti fondamentali può dipendere da criteri legati alle scelte operate nelle singole carte costituzionali, il principale dei quali è senz'altro rappresentato dalla cittadinanza. Sotto il profilo di meccanismi di garanzia, un conto è che un diritto sia riconosciuto all'interno di una carta costituzionale e un altro che sia previsto da una fonte internazionale. In entrambi i casi, siamo di fronte a diritti qualificabili come diritti umani, ma esiste una distinzione che riguarda l'ambito della loro validità ed applicabilità: nel caso della copertura costituzionale, tali diritti sono attribuiti ad ogni persona (avente o meno lo status di cittadino) abbia rapporti con lo Stato in questione; nel caso della copertura prevista da norme internazionali, la validità si esercita su uno spazio giuridico che supera l'orizzonte statale. Si parlerà di una validità erga omnes nel caso di copertura prevista tramite norme internazionali consuetudinarie e di una validità capace di penetrare gli stati parti di specifiche fonti pattizie nel caso delle norme internazionali a carattere pattizio. Altre espressioni ricorrenti nella letteratura dei diritti umani sono: a) “diritti naturali” tipica nella letteratura sui diritti umani e della tradizione giusnaturalistica. Con essa si intende fare riferimento a diritti che precedono il potere e il diritto positivo; che appartengono alla natura umana e che sono individuabili attraverso la ragione; b) “diritti pubblici soggettivi”, espressione più moderna e dalla valenza più tecnica, sorta con l'affermarsi della scuola tedesca di diritto pubblico nel secolo XIX. Si tratta di un lemma capace di esprimere i contenuti oggi associabili alle solo libertà fondamentali e tale da tradire un pregiudiziale legame con la lettura giuspositivistica dei diritti come frutto dell'autolimitazione del potere pubblico. 2. La nozione giuridica di diritti umani: elementi costitutivi e principali classificazioni I diritti fondamentali e i diritti umani esprimono -in quanto specifiche categorie dei diritti soggettivi- pretese fondate su norme giuridiche di rango costituzionale oppure internazionale. Le norme da cui sono ricavati i diritti sono scomponibili nei seguenti elementi: a) l'oggetto (ciò a cui si ha diritto); b) il titolare, ovvero il soggetto a cui il diritto spetta; c) il destinatario del dovere correlativo; d) le condizioni di applicabilità (non sempre esplicate). I diritti fondamentali/umani possono essere classificati in: 1. diritti-pretesa, ovvero diritti a ricevere qualcosa (una prestazione); 2. diritti-libertà, ovvero diritti che conferiscono la libertà di fare o non fare qualcosa; 5 3. diritti-potere, ovvero diritti che conferiscono il potere di modificare o influenzare i rapporti giuridici con altri soggetti; 4. diritti-immunità, ovvero diritti che proteggono il titolare contro l'influenza o il potere esercitabili da altri soggetti. Per descrivere questi diversi tipi di diritti è utile introdurre il concetto di obbligo correlativo: i diritti creano doveri correlativi in capo a soggetti diversi dal titolare del diritto. I doveri correlativi possono essere: - negativi: il titolare dell’obbligo deve astenersi dall’interferire con il godimento del diritto. I diritti civili implicano tendenzialmente obblighi negativi (ma non solo) - positivi: il titolare dell’obbligo deve attivarsi (risorse, politiche pubbliche, strutture) per fornire quanto previsto dal diritto. Nel caso dei diritti-libertà, l'obbligo correlativo è di tipo essenzialmente negativo ed implica l'astensione da comportamenti che con essi interferiscano; nel caso di diritti-pretesa, l'obbligo correlativo è, invece, di carattere positivo, implica che il destinatario del dovere si attivi per fornire determinati servizi o per creare precise condizioni. Una diversa classificazione dei diritti umani o fondamentali fa riferimento ai principali processi genetici di questi. Si tratta di una tassonomia che unisce tre diverse prospettive di analisi -quella storica, quella teorica e quella dogmatica- e distingue fra i diritti di prima, seconda e terza o nuova generazione. I diritti di prima generazione coincidono con la categoria dogmatica dei diritti civili e politici e con la struttura teorica dei diritti-libertà (libertà in senso negativo, la c.d. “libertà da”, per quanto attiene i diritti civili e libertà in senso positivo, la c.d. “libertà di”, nel senso della partecipazione, per ciò che riguarda i diritti politici). Si dicono di “prima generazione” perché sono i primi ad essere riconosciuti. I diritti di seconda generazione coincidono, sotto il profilo dogmatico, con i diritti sociali e, dal punto di vista teorico, con i diritti-pretesa. Si dicono di “seconda generazione” nella misura in cui il loro riconoscimento è storicamente connesso alle rivendicazioni della classe operaia concomitanti alle trasformazioni sociali indotte dalla Rivoluzione industriale e che accompagnano il graduale sviluppo dello Stato sociale. I diritti di terza o nuova generazione sono, di volta in volta, questi diritti che, o nono rientrano nelle prime due categorie, oppure si trovano ad uno stadio solo iniziale di positivizzazione, per la mancanza di una convergenza sul loro contenuto all'interno della società civile e della comunità giuridica o per il carattere innovativo della struttura della titolarità. Rientrato fra i diritti di terza o nuova generazione alcuni diritti collettivi, cui non si può attribuire uno statuto di piena positività, quali i diritti all'identità etnico-culturale di minoranze e popoli indigeni, il diritto alla pace, allo sviluppo. 3. Dai diritti naturali ai diritti umani come limite alla sovranità statale interna La nozione di diritti umani nasce dalla teorizzazione filosofica dei diritti naturali ascrivibile al giusnaturalismo contrattualista moderno. L'idea dei diritti naturali emerge, in tale retroterra filosofico, da un più ampio e complesso coagulo di categorie tipiche del pensiero politico moderno quali le idee di Stato, di sovranità, di tolleranza, nonché la concezione individualistica del rapporto tra singolo e lo stato, la distinzione tra sfera privata della coscienza e sfera pubblica, la nozione di beni civile. Una volta trasposti all'interno delle concrete istituzioni pubbliche, i diritti naturali sono intesi assolvere alla nevralgica funzione di limitare la sovranità, proteggere lo spazio privato 6 dell'individuo da potenziali abusi di potere politico o da interferenze di altri consociati, orientare il legislatore nella predisposizione di misure a tutela dei beni civili. I diritti naturali costituiscono, così, la chiave di volta di quella organizzazione politico-giuridica che, sotto la spinta innovativa delle prime Dichiarazioni, ovvero la Dichiarazione di indipendenza delle colonie americane nel contesto della Rivoluzione Americana (Dichiarazione di indipendenza delle Virginia del 1789) e la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 in Francia, porterà al concreto formarsi dello stato di diritto e dello stato costituzionale. I diritti umani si propongono come nozione tutt'altro che astratta ma tendente, invece, a connettersi strettamente a precise forme di organizzazione del potere a precise scelte in termini di principi giuridici. Sotto il profilo sostanziale è la questione religiosa, con lo scenario creato dalle guerre di religione, a solleticare la riflessione lockiana ed è questa la ragione per cui si è sostenuto che la libertà religiosa costituisca il nucleo originario dell'intero complesso dei diritti civili. La prospettiva contrattualistica, mediante la metafora del contratto sociale, con il quale gli individui passano dalla condizione dello stato di natura, pre-politico, alla condizione civile, assegna uno spazio centrale al consenso individuale. Il potere politico risulta legittimato a condizione di ricevere il consenso dei singoli, i quali razionalmente preferiranno vivere entro lo stato purché si tratti di uno stato impegnato nella garanzia di quei diritti naturali di cui già gli individui sono titolari nello stato di natura. L'organizzazione politica è un rimedio ai difetti di garanzia dei diritti naturali e della libertà naturale dell'uomo e può dirsi legittimata esclusivamente nella misura in cui rispetti le ragioni fondanti il consenso dei singoli. Nella descrizione lockiana dello stato di natura la libertà è centrale, una libertà che, diversamente dalla descrizione fornitaci da Hobbes, è “perfetta”, cioè non immediatamente esposta ai pericoli dell'altrui abuso e dell'altrui sopraffazione. In Hobbes lo stato di natura è disordine assoluto, sul quale il potere politico fonda la propria legittimità in quanto realizzatore di ordine, pace, sicurezza. Nella descrizione di Locke è, invece, assente il concetto di guerra di tutti contro tutti, sicché anche lo Stato non è sempre e comunque una soluzione preferibile allo stato di natura, ma lo è solo a condizione che rispetti determinati vincoli: - la non arbitrarietà nell'esercizio della sovranità; - il suo mantenersi entro i confini delle proprie prerogative; - il rinviare ad un diritto certo ed eguale per tutti. Inoltre, nella prospettiva lockiana, giustizia ed ingiustizia sono determinabili già nella condizione naturale, sicché risulta più coerente e motivata la tesi secondo cui il diritto positivo debba ricercare nel diritto naturale il proprio riferimento assiologico. In sostanza, Locke ci presenta un potere politico “strutturalmente resistibile”, perché non trova la propria ragione di esistenza in un disordine strutturale e irrimediabile, ma entro la legge naturale ce esso deve render efficace. Lo stato di natura lockeano finisce per assumere una duplice configurazione: da un lato descrive “l'ordine normativo conforme alla ragione umana”, dall'altro evidenzia che tale ordine naturale è consegnato alla capacità dei soggetti di realizzarlo, ed in questo senso è un potenziale stato di guerra. Si noti, tuttavia, che lo stato deve agire in modo non arbitrario e giusto, vale a dire rispettando i diritti individuali; in caso contrario ad esso sarebbe preferibile lo stato di natura. Per questa sottolineatura e per le sue implicazioni relative al modo di intendere l'esercizio dei poteri statali, il modello di stato proposto ed elaborato da Locke si dice “liberale”. I diritti naturali riconosciuti nello stato di natura e difesi dallo Stato liberale sono il diritto alla vita, diritto alla libertà e alla 7 ruolo decisivo, tanto da assorbire in sé anche il secondo. L'argomentazione di Rousseau ha come obbiettivo l'individuazione e la giustificazione di un ordine politico che rispetti la libertà del singolo individuo e al tempo stesso legittimi il dovere di osservanza nei suoi confronti. All'analisi del concetto di libertà segue, infatti, la ricerca della legittimazione del potere. Alla base del contratto sociale v'è, da parte di ciascun associato, la cessione di tutti i suoi diritti a tutta la comunità. L'idea dell'alienazione totale dei diritti è fondamentale: essa non si ritrova, peraltro, in questi stessi termini nelle teorie degli altri contrattualisti, dove le parti del contratto mantengono, proprio in quanto singoli individui, alcuni diritti fondamentali. Dal punto di vista di Rousseau, la totale alienazione dei diritti naturali è funzionale a garantire la stabilità del vincolo associativo. Il momento associativo viene interpretato come processo di alienazione totale di ciascun associato di tutti i suoi diritti a tutta la comunità, un processo che ha portato a vedere elementi totalitari nella versione rousseauiana del contrattualismo, la quale intenderebbe invece essere una legittimazione del sistema democratico. Si è coniata l'espressione “democrazia totalitaria”. Le implicazioni totalitarie di questa prospettiva sono in Rousseau evitate unicamente sulla base del presupposto della dictotomia fra individuo e cittadino. Ciò che viene ceduto dall'uomo in quanto singolo individuo viene da lui riacquistato in quanto membro del corpo sociale, in quanto cittadino. Una volta accettate queste distinzioni, è possibile escludere che nel contratto sociale vi sia, da parte dei privati, alcuna vera rinuncia; invece che una vera e propria alienazione dei diritti, i privati si trovano ad avere eseguito uno scambio vantaggioso tra una maniera di essere incerta e precaria e un'altra migliore e più sicura. Tale visione dell'individuo, al concetto di volontà generale come chiave di volta per le decisioni della vita civile si associ la tesi dell'indivisibilità della sovranità. Al di là del fatto che titolarità ed esercizio della sovranità spettino al corpo politico nel suo insieme e dunque ai cittadini in quanto parte di esso, la sovranità è per definizione nel disegno di Rousseau indivisibile [non si può dividere in quanto esiste un solo corpo politico e di conseguenza i poteri non sono né separati né limitati; per Locke, invece, la sovranità DEVE essere divisa. Alla base della sua prospettiva vi è il principio di separazione dei poteri]. Una soluzione, questa, assai lontana dal progetto lockiano, poi realizzato nella formula dello Stato di diritto, che proprio nella limitazione della sovranità e nella separazione dei poteri vede la propria fondamentale condizione di esistenza. Problema prospettiva di Rousseau: - è una prospettiva meramente astratta; la democrazia diretta non è attuabile (volontà generale è un'idea metafisica); - non esiste contrasto maggioranza-minoranza, esiste solo il corpo politico; - non vi è la società, ma solo il corpo politico (contrario di Locke: il corpo politico è in funzione della società); - i diritti non servono più in quanto sono lo spazio di contrasto tra individuo, società e ordinamento politico. La prospettiva contrattualista e liberale trova espressione, per quanto attiene ai diritti umani, nelle carte storiche del XVIII secolo. Sia la Dichiarazione francese dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 che la Dichiarazione di indipendenza delle colonie americane si aprono con il riconoscimento del principio di eguaglianza e con l'affermazione dei tre diritti teorizzati da John Locke: il diritto alla vita, alla libertà -configurata nelle sue principali forme, ovvero libertà di pensiero, di espressione e di stampa- ed alla proprietà privata (art. 1,2). 10 I contesti storici della rivoluzione americana e della rivoluzione francese costituiranno un passo decisivo, proprio attraverso l'impegno nella realizzazione dei principi affermati in queste carte, verso la realizzazione dello stato di diritto e verso la democrazia (per l'affermazione del principio di sovranità popolare e di rappresentanza) (Dichiarazione francese dei diritti dell'uomo e del cittadino, art 3; Dichiarazione di indipendenza della Virginia, sez II; Dichiarazione di indipendenza del Maryland, art V; Dichiarazione di indipendenza del New Hampshire, art XII). Funzione dello stato è garantire i diritti naturali attraverso la legge (Dichiarazione francese dei diritti dell'uomo e del cittadino, artt 5, 6, 7, 8; Dichiarazione di indipendenza del Massachusetts, art XI). Le prime dichiarazioni moderne non si limitano ad enunciare astrattamente la necessità per lo stato di rispettare i diritti, ma inquadrano il rispetto di tali diritti entro un concetto istituzionale alquanto preciso. Sia la dichiarazione francese che quelle americane introducono, inoltre, l'esigenza che il potere legislativo sia esercitato in conformità ai diritti naturali e sottolineano l'importanza del controllo dell'operato del potere politico da parte dei cittadini, ponendo così le basi per i principi che porteranno non solo allo stato di diritto -essenzialmente il principio di separazione dei poteri ed il principio di legalità-, ma anche allo stato costituzionale e democratico. Un concetto che costituisce un angolo visuale di particolare rilievo nell'analisi del processo di positivizzazione dei diritti umani è il concetto di sovranità. In senso stretto, nella sua versione moderna, esso sta ad indicare l'autonomo potere statale, dopo l'emancipazione dal potere dell'Impero e dal Papato. La struttura assegnata alla titolarità ed all'esercizio della sovranità (nella Costituzione italiana questa struttura è definita nell'art 2) determina la forma di organizzazione del potere. La sovranità si articola lungo due profili: interno ed esterno. La sovranità interna riguarda il potere dello stato verso i cittadini e si genera allorché il potere politico realizza la monopolizzazione dell'uso della forza, della tassazione e della produzione giuridica. È l'accentramento di queste funzioni a consentire allo stato di strutturare la sovranità in termini “moderni”, ossia di superare l'organizzazione politica feudale. La sovranità esterna riguarda, invece, i rapporti con gli altri stati, sulla scena internazionale. In questa direzione, il principio di eguaglianza sovrana degli stati stabilisce l'autonomia e la pari importanza nella comunità internazionale di ciascuno stato. L'idea di sovranità ha subito un processo di personificazione (e mitizzazione) con il quale lo stato è divenuto soggetto di diritti e doveri. Il rapporto che viene ad instaurarsi tra sovranità e diritti umani, nell'ambito del percorso di affermazione di questi ultimi, è di segno ambiguo: i diritti umani al tempo stesso necessitano della sovranità statale e fungono da limite ad essa. Ciò vale sia sul piano interno che sul piano esterno, con la differenza che, mentre a livello interno la limitazione della sovranità statale si realizza a partire dalla costituzionalizzazione dell'ordinamento e dei diritti, a livello internazionale non si può ancora parlare di una vera e propria limitazione della sovranità, ed è più corretto parlare di una sua erosione. Le difficoltà che la sovranità statale ha rappresentato e rappresenta per l'estensione dei diritti umani su scala internazionale ha condotto a teorizzare percorsi di affermazione dei diritti e dei principi di giustizia a tutela della dignità umana che prescindano precisamente dalla categoria di sovranità. Si tratta delle prospettive del cosmopolitismo e del globalismo giuridico. 4. Diritti fondamentali, Stato di diritto e principio di eguaglianza formale Stato di diritto è lo stato in cui il potere politico è sub lege (sottoposto alla legge) e per leges (esercitato mediante leggi). Intendiamo per “legge in senso formale” un atto giuridico dell'organo legislativo. Estendendo la considerazione agli “atti aventi forza di legge” possiamo includere gli atti normativi che, sulla base di un meccanismo di delega da parte del Parlamento, sono emessi anche 11 dal Governo. Il principio di legalità rappresenta il principio costitutivo dell'esperienza giuridica moderna ed insieme al principio di separazione dei poteri, che presuppone, è alla base del modello dello stato di diritto. “Legalità” significa “conformità alla legge”. Si dice allo principio di legalità quel principio in base al quale i pubblici poteri sono soggetti alla legge, in modo tale che ogni loro atto deve essere conforme alla legge, a pena di invalidità. Dietro il presupposto che la legge possieda le caratteristiche della generalità e dell'astrattezza, lo stato di diritto è la forma di organizzazione dello stato che essenzialmente tende a realizzare il principio del “governo della legge” in opposizione al “governo degli uomini”. In senso debole può dirsi conforme alla legge ogni atto che sia, dalla legge, espressamente autorizzato o che sia con la legge compatibile; in senso forte, si dice conforme alla legge ogni atto che abbia la forma e il contenuto predeterminati dalla legge. La legge può, infatti, disciplinare il contenuto di un atto in almeno due modi diversi o con due diversi gradi di intensità, può cioè: a) limitarlo (in negativo), circoscrivendolo entro delimitati confini; in tal caso, l'atto autorizzato dalla legge ha un margine di scelta e il potere conferito dalla legge può configurarsi come potere discrezionale; b) vincolarlo (in positivo), predeterminandolo completamente; l'atto autorizzato dalla legge non può che assumere il contenuto predeterminato dalla legge e nessun altro. Il potere conferito dalla legge è interamente vincolato. Il senso debole o debolissimo del principio di legalità tende a regolare il rapporto tra potere legislativo e potere esecutivo, il sensoforte tende invece a regolare il rapporto tra potere legislativo e potere giudiziario. L'applicazione del significato forte del principio di legalità ai rapporti tra potere legislativo e potere giudiziario trova il proprio fondamento entro la lettura del principio di separazione dei poteri tipica della prima modernità e dell'età di codificazioni (supremazia del legislativo sul giudiziario). È il potere legislativo ad essere considerato come il potere in grado di permettere il superamento del particolarismo giuridico, il raggiungimento dell'eguaglianza formale e della certezza del diritto, mentre l'attività giudiziale si presenta come legittima solo se funziona come applicazione meccanica della legge. La soggezione del giudice alla legge implica, ad esempio nel nostro ordinamento costituzionale, che: 1. i provvedimenti giurisdizionali siano conformi alla legge; 2. i giudici si limitano ad applicare le leggi e non siano autorizzati alla creazione di norme; 3. i giudici abbiano l'obbligo di conoscere le leggi; 4. i giudici non sono autorizzati a disapplicare le leggi; 5. i giudici sono soggetti solo alla legge. Per effetto del processo di “costituzionalizzazione dell'ordinamento giuridico”, ovvero del processo mediante il quale la Costituzione permea ogni livello normativo dell'ordinamento, la Costituzione risulta suscettibile di applicazione diretta anche da parte del giudice ordinario laddove la struttura della norma costituzionale sia sufficientemente completa da poter valere come regola per il caso concreto. La Costituzione non solo rappresenta un livello normativo ulteriore rispetto a quello legislativo e in grado di controllare quest'ultimo, ma anche introduce nell'ordinamento giuridico principi e concetti capaci di svilupparsi capillarmente all'interno di esso, non raramente per il tramite dell'attività giudiziaria. Inoltre, con la costituzionalizzazione dell'ordinamento si è affermato il principio per il quale la Costituzione diviene anche il punto di riferimento per l'interpretazione 12 quella formale, risulta indirizzata non solo verso i singoli ma anche verso entità collettive. Ancora, buona parte dei diritti sociali può risultare deficitaria sotto il profilo dell'universalità: la loro titolarità, infatti, risulta legata alla sussistenza di specifiche condizioni denotanti l'appartenenza del titolare a gruppi svantaggiati. E ciò può essere un problema, se si muove dal presupposto che un diritto possa dirsi fondamentale solo qualora sia attribuibile a tutti. Il principio di eguaglianza, inoltre, tanto nel suo significato formale quanto in quello sostanziale, è da tempo al centro di numerose critiche, principalmente provenienti da due prospettive: il c.d. “pensiero della differenza” e la prospettiva della “politica del riconoscimento”, interessati ad evidenziale gli effetti distorsivi imputabili al principio di eguaglianza nei confronti rispettivamente della condizione femminile e di gruppi individuati su base etnico-culturale. Entrambi propongono di fare spazio ad una valorizzazione delle differenze e delle specifiche identità radicalmente alternativa o complementare al principio di eguaglianza. 6. I limiti euristici delle classificazioni dei diritti Le classificazioni normalmente utilizzate nei discorsi intorno ai diritti umani o ai diritti fondamentali sono di tre tipologie: 1. analitico-concettuali; 2. storiche; 3. giuridico-concettuali. Tali classificazioni assumono rilievo per la riflessione teorica introno ai diritti nella misura in cui concorrono all'identificazione della struttura dei diritti e possono, così, rappresentare un utile supporto per la costruzione di un punto di vista sia descrittivo sia normativo, atto a valutare le pretese formulate ricorrendo al linguaggio dei diritti. Elemento trasversale alle diverse classificazioni è la struttura del dovere correlativo, che può essere negativa, nel caso in cui il diritto implichi per il destinatario del dovere correlativo la mera non interferenza, oppure positiva, quando la realizzazione del diritto implichi l'obbligo per il destinatario di una condotta attiva. I diritti civili sembrerebbero implicare in modo preponderante obblighi negativi, i diritti sociali parrebbero invece chiaramente implicare obblighi anche positivi. Va tuttavia riconosciuta la possibilità di correlare ad entrambe le tipologie di diritti doveri sia negativi che positivi. Un ulteriore elemento che guida nella distinzione tra diritti civili e diritti sociali riguarda il rapporto tra norme costituzionali e norme legislative nel loro processo di attuazione. Nel caso dei diritti civili, la Costituzione prevede discipline analitiche di alcuni istituti, al fine di “limitare i rischi di deviazione da parte del potere politico”, mente nel caso dei diritti sociali la legge ha un ruolo fondamentalmente positivo, attuativo. La distinzione fra diritti civili e diritti sociali ha per lungo tempo rappresentato anche una base per una separazione ideologica tra le due categorie dei diritti. In particolare, alcune peculiarità strutturali dei diritti sociali hanno in varie prospettive costituito il perno per argomenti orientati a negarne lo statuto sia di diritti fondamentali sia di diritti umani. Tali caratteristiche sono il deficit di giustiziabilità, l'essere correlati a doveri positivi implicanti un allargamento delle competenze statali e l'inevitabile interferenza dello stato nella vita degli individui, la costosità. L'esclusione dei diritti sociali del catalogo dei diritti umani risulta recentemente riaffermata all'interno di prospettive filosofiche sui diritti umani qualificate come “minimaliste”. Esse si caratterizzano per la tendenza a vedere nella categoria dei diritti civili il nucleo esclusivo dei diritti umani, che legittimamente possono essere affermati e tutelati a livello internazionale, indipendentemente dalla specificità dei contesti politico-giuridici e malgrado il pluralismo 15 culturale. In opposizione a tale approccio, la tesi dell'indivisibilità e dell'interdipendenza dei diritti, formulata per la prima volta nella Dichiarazione finale della Conferenza di Vienna del 1993, si conferma oggi come la chiave di volta per la comprensione dell'internazionalizzazione dei diritti umani. Vi sono poi delle ragioni strutturali per le quali le nuove questioni (sia filosofiche che giuridiche) connesse ai diritti umani sempre meno risultano accostabili a partire dalla tripartizione fra diritti civili (e politici), diritti sociali e nuovi diritti. Quanto così emerge è la tendenza dei diritti ad evolvere secondo linee che rischiano di risultare incomprensibili se lette attraverso rigide tassonomie. La tendenza alla contrapposizione concettuale tra diritti civili e diritti sociali risulta in via di superamento, se si considera l'emergere di prospettive teoriche che propongono una revisione della tradizionale tassonomia dei diritti. Gli obblighi correlativi ai diritti umani sono per numerose teorie contemporanee articolabili in termini di rispetto (astensione da condotte capaci di interferire negativamente con il godimento del diritto), protezione (impegno a fare in modo che anche soggetti ulteriori rispetto ai destinatari dell'obbligo rispettino i diritti in gioco) ed attuazione (fulfilment), ovvero l'impegno attivo nella promozione dei diritti. A sostegno di tale impostazione, si afferma l'idea secondo cui la violazione dei diritti umani può essere configurata tanto da atti quanto da omissioni. Capitolo 2 Positivizzazione ed evoluzione dei diritti umani 1. Normatività ed effettività dei diritti: una premessa La dimensione giuridica dei diritti umani risulta essenzialmente legata alla loro positivizzazione. Un diritto che manchi di positività non ha portata giuridica, ma esclusivamente morale. Si intende per “positività” la condizione in base alla quale un diritto trova sostegno (copertura) in una norma giuridica. Si intende per “positivizzazione” il processo tramite il quale i diritti si trasformano, da ideale morale, in situazioni soggettive come tali dotate di copertura normativa entro gli ordinamenti giuridici. La positivizzazione presenta una dimensione dinamica sia in senso storico che in senso concettuale. In senso storico perché il riconoscimento normativo dei diritti è avvenuto prima all'interno di documenti privi di vincolatività giuridica e solo in seguito all'interno delle carte costituzionali e degli atti internazionali. In questa prospettiva, si è soliti distinguere tra varie fasi di affermazione dei diritti: l'affermazione nelle teorie filosofiche, il riconoscimento nelle carte storiche, la costituzionalizzazione, l'internazionalizzazione.. in senso concettuale, giacché anche in uno stadio di positivizzazione avanzata, tale dinamismo si manifesta nei processi di evoluzione dei diritti. Con il termine evoluzione dei diritti si intendono alcuni percorsi che accompagnano la trasformazione dei diritti una volta che abbiano raggiunto lo stadio di diritti riconosciuti da un ordinamento giuridico o l'individuazione di nuovi diritti a partire dalla rielaborazione interpretativa dei diritti già espressamente riconosciuti e consolidati. Una volta assunto come punto di riferimento l'avvio del processo di internazionalizzazione dei diritti umani con la Dichiarazione universale e i due Patti Internazionali, risultano individuabili, nel processo di codificazione di tali diritti, alcune tendenze evolutive, abitualmente denominate “generalizzazione”, “specificazione”, “moltiplicazione”. Infine, l'internazionalizzazione, o l'universalizzazione, è individuato come specifico momento di positivizzazione dei diritti umani 16 nell'ordinamento internazionale. Per specificazione si intende il processo attraverso il quale diritti dalla titolarità universale vengono espressamente riferiti e precisati in relazione a specifiche categorie di soggetti, individuati sulla base di parametri quali l'età, il genere, determinate condizioni psico-fisiche. Con la specificazione, i diritti assumono come chiave di volta l'homme situé, nella varietà dei suoi bisogni e dei suoi interessi, nella realtà delle condizioni di vita, entro cui si sviluppa la personalità. Per generalizzazione si intende il processo, mediante il quale viene estesa la titolarità di taluni diritti, già positivizzati ma limitatamente ad alcune categorie di soggetti. Per moltiplicazione si intende il processo consistente nell'ampliamento del catalogo dei diritti, attraverso l'individuazione di nuovi valori o beni da tutelare, nonché di nuove sfide ai diritti. I meccanismi di evoluzione tendono, inoltre, ad avvalersi di vari strumenti normativi dal diverso impatto giuridico, con ciò contribuendo al dinamismo dei diritti. Nuovi diritti possono essere affermati prima entro fonti di soft law e poi in atti giuridicamente vincolanti. Oppure possono risultare espressi tramite principi giuridici progressivamente concretizzati attraverso l'attività giurisdizionale. Vanno tenuti distinti l'aspetto del riconoscimento da quello della garanzia dei diritti. Il riconoscimento è la previsione di un diritto entro una fonte giuridica; la garanzia è “qualsiasi tecnica normativa di tutela di un diritto soggettivo”. Un diritto può ritenersi positivizzato nella misura in cui risulti riconosciuto all'interno di un ordinamento giuridico; l'effettività di tale diritto e la sua garanzia sono invece dimensioni che possono richiedere ulteriori passaggi e che non concorrono in modo decisivo a determinare la positività del diritto in questione. Un caso tipico in tal senso si è rivelato essere quello dei diritti sociali. 2. La costituzionalizzazione dei diritti L'idea dello stato di diritto e la sua evoluzione nello stato costituzionale ha avuto una traduzione istituzionale attraverso quattro fondamentali modelli. Si tratta del Rechtsstaat tedesco, del Rule of Law inglese, del Rule of Law statunitense e dell'Etat de droit francese. Nel Rule of Law inglese la sovranità appartiene al Parlamento, che esercita il proprio potere soprattutto nei confronti del potere esecutivo; la Costituzione non è scritta ed è l'insieme delle tradizioni giudiziarie, delle convenzioni e delle pratiche sociali; l'elaborazione normativa e la tutela dei diritti sono funzioni attribuiti alle Corti ordinarie di common law. Il costituzionalismo inglese ha operato come nucleo generatore dell'intera esperienza costituzionale occidentale. Nella Rule of Law statunitense, la sovranità viene a coincidere con la supremazia normativa della Costituzione (che è scritta e rigida), la quale sottopone a limiti tutti i poteri dello stato, incluso il legislativo. La definizione dei diritti e la loro tutela dipendono in larga parte dal potere di interpretazione dei principi costituzionali esercitato dai giudici. È previsto il controllo di costituzionalità, che è successivo alla promulgazione della legge e diffuso. Nel caso delle esperienze inglesi e statunitensi, il modello dello stato di diritto viene a coincidere con quello dello stato costituzionale, giacché, sotto il profilo storico, si realizzano simultaneamente. Il modello dell'Etat de droit francese assegna il primato al Parlamento, pur sottoponendo tale primato ai limiti stabiliti dal potere costituente (che si esprime nella Costituzione). Prevede il controllo di costituzionalità, accentrato ed ex ante rispetto alla promulgazione della legge. Si nota qui l'influenza di quel “mito della legge” di Rousseau. Una concezione nella quale la legge esprime, per definizione, la volontà generale ed ha il compito di orientare le decisioni del corpo politico verso il raggiungimento del bene comune. La stessa formula ex ante del giudizio di costituzionalità, esprime un retaggio legicentrico, oltre che 17 allo stato costituzionale hanno evidenziato la strutturale tensione fra logica dei diritti, espressa dalla Costituzione, e logica democratica, espressa dal processo di formazione della legge. Due sono gli argomenti utilizzati in tale direzione: l'argomento anti-maggioritario e l'argomento della discrezionalità giudiziale. In base all'argomento maggioritario, nella fase costituente, i limiti alle decisioni della maggioranza non sono dati da una lista di criteri sostanziali, ma dal risultato di una procedura: la procedura di approvazione della Costituzione. Si evidenzia, in tal senso, che, nelle fasi ordinarie della politica, il limite reale alla decisione a maggioranza non deriva da un insieme di criteri sostanziali, ma nuovamente dal risultato di una procedura: la procedura del controllo di costituzionalità. Tutte le regole decisionali sono fallibili. Si tratta di scegliere tra due regole di decisione procedurali e ugualmente fallibili. Da questo punto di vista, il costituzionalismo restringe e limita la procedura della decisione a maggioranza, innestando su di essa altre procedure non meno fallibili e non sorrette da una più forte giustificazione. La formula della democrazia costituzionale presenterebbe il difetto di affidare la decisione ultima al significato che le Corti supreme assegnano alla costituzione. Ancora, la richiesta di maggioranza qualificata per la revisione costituzionale si configura come una procedura che non rispetta il valore dell'eguaglianza. Il controllo di costituzionalità della legge di discosta dall'ideale della partecipazione alle decisioni pubbliche, perché assegna ai giudici l'ultima parola circa il contenuto dei limiti del funzionamento alla regola di maggioranza. Un secondo argomento utilizzato contro il costituzionalismo si rivolge alla discrezionalità insita nel ragionamento giudiziale necessario per l'applicazione dei principi costituzionali e per il loro bilanciamento in caso di conflitto. La formulazione aperta (indeterminata) dei principi, a causa della quale non risultano fissate espressamente nella norma le condizioni di applicabilità, apre la porta alla libertà del giudice. Apertura, pluralità dei principi e necessità del loro bilanciamento fanno emergere la possibilità della loro diversa interpretazione in relazione alle circostanze di fatto (es: diritto ad un ambiente salubre trova il suo innesto nell'art 2 e 32; l'art 2 consente di estendere il catalogo dei diritti della persona umana). La discrezionalità così esercitata risulta tuttavia, in questa prospettiva critica, illegittima, nella misura in cui il giudice non è autorizzato a rappresentare la volontà del popolo e finirebbe invece per decidere arbitrariamente il significato e l'applicazione di principi dotati di una forte pregnanza etico-politica. Al contrario, in questa sfera, massima dovrebbe essere la deferenza verso il potere legislativo. In società democratiche e pluraliste, infatti, nessuno a parte il legislatore può esprimere, sintetizzandola attraverso la decisione a maggioranza, la volontà del popolo. Il rapporto tra diritti fondamentali e democrazia risulta dalla teoria del diritto configurato anche in modo diverso rispetto alle critiche sin qui considerate. Viene, infatti, talora enfatizzata la complementarietà tra diritti fondamentali e democrazia in virtù della co-originarietà della sovranità popolare e dei diritti (civili e politici), di autonomia pubblica ed autonomia privata dei cittadini. Autonomia privata e pubblica si presuppongono a vicenda, senza che né i diritti dell'uomo possano mai pretendere un primato sulla sovranità popolare, né questa possa mai pretenderlo su quelli. Nessuna delle due prospettive ora considerate sembra, tuttavia, cogliere appieno il problema. Rispetto alla seconda è possibile affermare che “senza dubbio i diritti trovano la loro origine nella sovranità del popolo, ma nella democrazia costituzionale il popolo stesso è tenuto a interpretare gli interessi della maggioranza alla luce dei limiti stabiliti dai diritti di ogni persona”. Forma di stato democratico e diritti non si implicano a vicenda. Al contrario, la tutela dei diritti fondamentali (e umani) può talora legittimamente comportare, in una democrazia costituzionale, la restrizione del principio partecipativo o, meglio, la limitazione dei suoi esiti. In tale prospettiva, i 20 principi necessari alla creazione dell'assetto istituzionale per la garanzia dei diritti civili sono quelli associati allo stato di diritto; la democrazia risponde all'esigenza della partecipazione dei cittadini alla vita politica -elemento senz'altro importante nell'ottica della promozione e del potenziamento dei diritti- ma non condiziona di per sé la loro garanzia. Quanto alla prima posizione, va detto che le critiche su cui si costruisce paiono influenzate da una preliminare adesione alla concezione monista della democrazia, in base alla quale il controllo di costituzionalità si configura come un illegittimo sconfinamento del potere giudiziario nel potere legislativo. I difensori del costituzionalismo hanno talora risposto all'argomento contromaggioritario. La definizione del “terreno proibito” sarebbe una sorta di vincolo preventivo (precommitment) che una comunità politica decide di stabilire per evitare che la maggioranze decidano in futuro violando i diritti delle minoranze. Come un individuo, così anche una collettività può precludersi a priori determinate opzioni, in modo da restare fedele a dei valori di primo ordine. Nell'ottica del modello dualista della democrazia, la Costituzione sarebbe l'espressione della volontà del potere costituente ed il potere legislativo sarebbe tale perché istituito dal potere costituente. Ne consegue la possibilità di vincolare legittimamente il potere legislativo al rispetto del nucleo dei diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione. Ebbene, la concezione monista risulta storicamente superata nella formula della democrazia costituzionale e può essere difesa sul piano concettuale solo a condizione che si sia disposti a rinunciare alla tutela dei diritti. Tale prospettiva, in secondo luogo, pare cadere vittima di un errore logico: nell'attaccare la legittimità della Costituzione e del giudizio di costituzionalità,, essa tende a dare per scontata la garanzia delle regole del gioco democratico, quasi potessero permanere anche una volta eliminato l'assetto costituzionale dello stato. La funzione della costituzione è effettivamente quella di contenere e fa valore un “vincolo preventivo” della comunità politica nei confronti di scelte capaci di violare i principi ed i diritti fondamentali, in un orizzonte temporale che deve necessariamente trascendere quello della legislazione. Tuttavia, il senso di tale vincolo preventivo non è solo negativo, di limitazione nei confronti di possibili evoluzioni della coscienza sociale, bensì anche e ancor prima costitutivo, consistente nel porre le condizioni di possibilità del confronto democratico stesso, le regole del gioco democratico. Senza il vincolo preventivo nessuna democrazia può presentare una garanzia di stabilità. I diritti fondamentali rappresentano la “dimensione sostanziale” della democrazia, pregiudiziale rispetto alla sua stessa dimensione politica o “formale”, fondata invece sui poteri della maggioranza. Infine, anche la critica della staticità dei contenuti che deriverebbe dall'affidare l'individuazione dei diritti fondamentali alla Costituzione va ridimensionata. Il percorso attraverso il quale i diritti vengono positivizzati ed attuati è un percorso che implica molto spesso il confronto tra canoni interpretativi, elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza, e coscienza sociale. Si tratta di un percorso sostanzialmente aperto sia rispetto alla quantità dei diritti positivizzati, sia rispetto alla precisa identificazione del loro contenuto. 3. Dalla costituzionalizzazione all'internazionalizzazione dei diritti Il processo di costituzionalizzazione dei diritti segna la fine della sovranità interna dello stato intesa come potestas legibus soluta superiorem non recognoscens. Costituzionalismo e stato costituzionale conducono all'effettivo affermarsi del principio di limitazione della sovranità. Viene infatti infranto anche l'ultimo ostacolo verso tale meta, rappresentato dal postulato dell'onnipotenza del legislatore. La Costituzione controlla, infatti, sia la forma che il contenuto della legge. Il potere costituente, all'origine della Costituzione, risulta 21 sovraordinato al potere costituito, che si articola in base al principio della separazione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario. È con la democrazia costituzionale che può realizzarsi l'ideale lockeano in base al quale il potere supremo, affidato al parlamento, è -da un lato- limitato dalla costituzione e dai diritti naturali e- dall'altro- controllato dal popolo di cui è un semplice mandatario. È con l'avvento dello stato costituzionale che può coerentemente affermarsi e prendere corpo la concezione della sovranità limitata, nonché l'idea della legge come giusto comando. La legge cessa di imporsi meramente in forza della propria esistenza formale e necessita di configurarsi secondo criteri di validità anche sostanziali. Si tratta di un processo che, appunto sino al 1948, riguarda esclusivamente il piano interno agli stati. Nel periodo che va dalla metà dell'Ottocento alla prima metà del Novecento, infatti, la sovranità esterna degli stati seguiterà a rafforzarsi e si dovranno attendere le fasi più avanzate del processo di internazionalizzazione dei diritti umani per assistere alla sua parziale riconfigurazione. I rapporti internazionali si prestano ad essere rappresentati in base all'analogia con lo stato di natura descritto da Hobbes. Ciò per effetto del loro innesto su due tesi teorico-giuridiche: la concezione statualistica del diritto e la personificazione della sovranità statale. La concezione statualistica del diritto conduce al consolidarsi dell'idea secondo cui il diritto sarebbe esclusivamente il prodotto della normazione statale ed alla ideologica identificazione tra diritto e legge. Tale modo di intendere il diritto all'esterno rende inconcepibile il diritto internazionale non solo come ordinamento sovra-statale, ma anche come ordinamento giuridico stesso. La personificazione della sovranità conduce ad ascrivere tale qualità allo stato concepito come persona giuridica. La sovranità statale come risultato della dottrina filosofica rousseauiana della volontà generale e di quella hegeliana dello stato etico, risulta così rafforzata sul suo versante esterno, ovvero nei rapporti con gli altri stati nella comunità internazionale. Tale processo incide significativamente sul percorso di affermazione dei diritti umani. Riconosciuti idealmente nelle carte storiche come diritti universali, spettanti a tutti gli esseri imani in quanto tali e indipendentemente dall'appartenenza del singolo individuo ad uno stato, essi vengono, fino al 1948, effettivamente positivizzati solo entro gli ordinamenti giuridici statili. Si dovrà attendere la Carta delle Nazioni Unite (1945) perché ci si cominci a muovere verso una graduale riconfigurazione della sovranità eterna degli stati in un senso più compatibile con il riconoscimento di valori propri della comunità internazionale in quanto tale e si stabiliscono delle regole per orientare la condotta statale nelle relazioni internazionali secondo tali valori. Questo percorso graduale procede con l'internazionalizzazione o universalizzazione dei diritti umani. 4. Dal “modello di Westfalia” al “modello della Carta delle Nazioni Unite” Si è soliti fare iniziare la storia del diritto internazionale successivamente alla pace di Westfalia nel 1648. Due sono, in tale assetto, gli elementi capaci di influire sulla concezione del diritto internazionale. In primo luogo, il fatto che l'ordine raggiunto in quel momento storico rifletta il processo genetico dello stato moderno ed alimenti il rafforzamento crescente della sua sovranità esterna. In tale prospettiva, è inevitabile che l diritto internazionale si configuri come un insieme di norme aventi l'esclusiva funzione di regolare i rapporti inter-statali. In secondo luogo, la caratterizzazione della struttura del diritto internazionale risente dell'idea di diritto che si sviluppa proprio in simultaneità con la genesi dello stato moderno e che è elaborato dalla concezione giuspositivistica del diritto tout court. In base ad essa, la norma giuridica ha origine nell'atto di posizione effettuato dall'autorità competente e con riferimento a tale atto si qualifica e si legittima. L'influenza esercitata dal fenomeno o anche soltanto dall'idea della codificazione giuridica 22 intima, ma anche nell'ambito delle formazioni sociali (Costituzione italiana, art 2) in cui la personalità dell'individuo si costruisce e si realizza. Sotto il profilo del contenuto, la Dichiarazione prevede il riconoscimento dei diritti civili, politici e sociali, senza porre tra essi alcun criterio gerarchico. Il testo esprime, sue questo punto, una sintesi tra le istanze del blocco dei Paesi Occidentali, principalmente attenti al valore della libertà, dunque all'universalizzazione dei diritti civili e politici, e le istanze del blocco dei Paesi socialisti, invece interessati esclusivamente ai diritti sociali. La UDHR ha sin dalla sua approvazione svolto due fondamentali funzioni: ha costituito il quadro ideale e contenutistico della successiva codificazione dei diritti, ossatura del sistema di protezione internazionale dei diritti umani; dall'altro, anche il qualità di strumento di soft law, non giuridicamente vincolante e non supportato da meccanismi di enforcement, ha esercitato una graduale ma persistente influenza sulla protezione interna dei diritti umani, rappresentando, in alcuni casi, un punto di riferimento autorevole per l'interpretazione dei diritti previsti dalle varie costituzioni o, in altri, per l'elaborazione delle costituzioni stesse. Non va sottovalutato il fatto che, proprio in quanto strumento di soft law, la UDHR ha potuto esercitare un'influenza assai più generale rispetto a quanto avrebbe potuto fare se avesse avuto forma vincolante: in quest'ultimo caso, infatti, avrebbe raccolto l'attenzione solo degli Stati parti. I primi atti internazionali promossi dall'Organizzazione delle Nazioni Unite, a partire dall'impulso fornito dall'UDHR, sono i due patti approvati nel 1966, rispettivamente il Patto internazionale sui diritti civili e politici e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (ICCPR e ICESCR). A partire dal 1948, i diritti civili saranno nel diritto internazionale tutelati attraverso la codificazione dei diritti umani in aree sempre più specifiche ed attraverso l'adozione di strumenti internazionali per la prevenzione e la repressione dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra (si pensi alla Convenzione per la prevenzione e la repressione del genocidio, 1948). Su questo terreno specifico, a partire dal processo di Norimberga, ha inizio un percorso che condurrà alla possibilità di applicare anche nel diritto internazionale, in relazione ai crimini contro l'umanità, il principio della responsabilità personale. Non si può, infatti, dire che ricorrere a reazioni collettive della comunità internazionale quale, ad esempio, l'embargo, sia un modo per fare giustizia rispetto a crimini di guerra o a crimini contro l'umanità, giacché si tratta di forme di reazione che non giungono a colpire i reali responsabili. I crimini internazionali hanno oggetto violazioni di norme consuetudinarie poste a protezione di “valori, beni ed interessi giuridici considerati meritevoli di tutela dall'intera comunità internazionale” e vincolanti “per tutti gli stati e tutti gli individui”. Su questa base, si considerano crimini internazionali i crimini di guerra, i crimini contro l'umanità, il genocidio, la tortura, l'aggressione, il terrorismo internazionale, l'apartheid. Nella disciplina tradizionale, la repressione dei crimini internazionali era basata sul principio di territorialità, sulla competenza delle corti interne, le quali potevano attivarsi solo in presenza di almeno un criterio di collegamento tra i seguenti: territorialità (il crimine è commesso sul territorio dello stato che intende procedere); nazionalità attiva (il crimine è commesso da un cittadino dello stato che intende procedere); nazionalità passiva (la vittima è cittadino dello stato che intende procedere); difesa dello stato (il crimine ha causato una lesione di un interesse essenziale dello stato che intende procedere). Si afferma con il tempo il principio di universalità della giurisdizione pensale, in base al quali qualsiasi stato può attivarsi mediante proprie corti interne, per giudicare e punire i responsabili di crimini internazionali, anche in assenza di qualsiasi principio di collegamento, in forza della portata universale dei valori colpiti da tali crimini. 25 Sul piano della repressione internazionale di tali crimini una svolta è rappresentata dall'istituzione della Corte Penale Internazionale (CPI), con il trattato di Roma del 1998. Con l'entrata in attività di tale corte, avvenuta alla via dei tribunali ad hoc, si aggiunge quella di una corte permanente. Lo Statuto della CPI crea la figura del Procuratore della Corte, che può ricevere petizioni (dagli stati parte, dal CDS, dai singoli individui od ONG), condurre indagini in merito ai crimini internazionali di competenza della Corte e perseguire quanti risultino colpevoli di aver perpetrato tali crimini. L'elemento della permanenza contribuisce in modo strutturale al rispetto degli elementi della naturalità del giudice e dell'imparzialità del giudizio; dall'altro lato, consentendo la prevedibilità dei criteri di applicazione del diritto, conferisce all'attività giudiziale in materia non solo una funzione repressiva, ma anche preventiva; contribuisce a costruire linee interpretative uniformi del diritto internazionale e dunque alla certezza del diritto; infine, fornisce alla decisione ed all'atto repressivo una visibilità ed un impatto maggiori rispetto a quanto raggiungibile sia mediante i tribunali ad hoc che mediante la giurisdizione interna. L'attività della CPI non manca di incontrare alcune difficoltà anche legate alla struttura complessa delle fatti specie dei crimini internazionali. Tanto l'elemento oggettivo (l'actus reus, il comportamento in quanto tale) quanto l'elemento soggettivo (la mens rea, l'intenzione con cui l'atto viene compiuto) risultano, infatti, imprescindibilmente legati al contesto politico e strutturale in cui emergono. Un contesto che rende più complessa la determinazione della responsabilità individuale. Peraltro, la rilevanza dell'elemento soggettivo risulta determinante. L'imputabilità richiede il “dolo diretto o intenzionale o almeno una forma di dolo intermedia tra il dolo eventuale e la colpa cosciente, che sussiste quando l'agente, nonostante sia consapevole della probabilità che dalla sua condotta si producano delle conseguenze dannose, pone comunque in essere la condotta, assumendo consapevolmente il rischio di causare tali conseguenze”. Ma la mens rea deve, nei crimini internazionali, presentare anche un elemento aggiuntivo, ovvero la “consapevolezza del più ampio contesto all'interno del quale tali crimini si inseriscono, vale a dire la consapevolezza che essi sono parte di una politica sistematica di abusi ovvero di abusi commessi in modo esteso e su larga scala”. Tale complessità si intrinseca alla struttura della fattispecie e la volontà, che sembra animare lo statuto, di contrastare eventuali reticenze nella repressione dei crimini in oggetto, fanno sì che spesso le definizioni si rivelino potenzialmente capaci di applicazione estensiva oppure rinviino a fonti esterne allo statuto, ma non sufficientemente precisate, aprendo spazi per un certo grado di incertezza relativamente al modo in cui possano essere applicate ai casi concreti. Quel che emerge dall'evoluzione del diritto internazionale penale è, nell'ambito dell'internazionalizzazione dei diritti civili e della repressione delle loro più gravi violazioni, la possibilità di considerare l'individuo some soggetto dell'ordinamento internazionale. Tale possibilità condiziona in parte il verdetto relativo all'impatto dei diritti umani sull'assetto della sovranità statale e al grado di realizzazione del paradigma della Carta delle Nazioni Unite. La questione della personalità giuridica internazionale dell'individuo è, tuttavia, concettualmente complessa e merita una precisazione. La dottrina internazionalistica fornisce in proposito due risposte alternative. Una parte di essa ritiene che l'individuo no possa dirsi dotato di personalità giuridica all'interno dell'ordinamento internazionale, giacché tale condizione richiede la presenza di due condizioni: l'essere destinatari diretti di norme internazionali e l'avere capacità processuale attività e passiva di fronte alla giurisdizione internazionale. Un'altra parte della dottrina ritiene, invece, che per sancire la personalità giuridica dell'individuo rispetto all'ordinamento internazionale sia sufficiente il soddisfacimento della prima condizione, ovvero l'essere l'individuo destinatario diretto di norme internazionali. 26 Rispetto alla prima tesi, quel che si dovrebbe riconoscere è che la tendenza delle norme internazionali a rivolgersi direttamente agli individui e ai soggetti non-statali va aumentando ed occupando spazi crescenti. Ed è anche la possibilità di accesso individuale alla giurisdizione internazionale non può dirsi radicalmente assente: essa è possibile di fronte alla Corte europea dei diritti umani, di fronte alla Corte inter-americana dei diritti dell'uomo, come anche in relazione agli strumenti di garanzia offerti dall'ICCPR o, infine, davanti alla CPI limitatamente alle fattispecie di sua competenza. Nondimeno, la seconda tesi nell'alternativa qui discussa risulta più difficilmente difendibile della prima, giacché viene da chiedersi che funzione abbiano norme che si rivolgano direttamente all'individuo, ma il cui contenuto sia solo eccezionalmente da quest'ultimo esigibile. Non è allora, da escludere che il punto focale, per stabilire la posizione dell'individuo nei confronti dell'ordinamento internazionale sia il mutamento di prospettiva in vario grado riscontrabile nelle fonti internazionali, per cui la tutela della persona in quanto tale rappresenta un fine in grado di orientare il diritto e le relazioni internazionali. Stando così le cose, il problema resta quello di rendere efficace l'interazione tra ordinamento internazionale e ordinamento interno e di fare in modo che tali obbiettivi incidano sulle relazioni internazionali. Dunque, ancora una volta, il successo dell'internazionalizzazione dei diritti dipenderà dalla volontà degli stati e non potrà in alcun modo emanciparsi radicalmente dalla loro sovranità. Eppure, la “rivoluzione copernicana” insita nell'internazionalizzazione dei diritti non viene meno: essa consiste precisamente nell'adattare strutture, contenuti e meccanismi già esistenti a fini e valori nuovi. L'affermazione dei diritti ed il progressivo consolidamento dello spazio riservato alla persona nell'ordinamento internazionale è un processo, processo che non si regge sull'invenzione di categorie inesistenti bensì sulla lenta trasformazione, riesemantizzazione o erosione di categorie esistenti. L'elemento più pregnante, nel passaggio dal paradigma del diritto internazionale tradizionale a quello incardinato sulla Carta delle Nazioni Unite è il nuovo modo con cui il diritto guarda all'individuo: non più unicamente con riferimento alla sovranità statale. L'individuo rileva non più solo in quanto straniero, ma in quanto persona, portatrice come tale di valori ed interessi che è compito della Comunità internazionale proteggere. I diritti dell'uomo impongono agli stati degli obblighi internazionali che condizionano non soltanto l'esercizio esclusivo della sovranità territoriale ma l'organizzazione stessa dei rapporti tra il potere pubblico e gli individui sottoposti a questa sua autorità. 6. L'internazionalizzazione dei diritti sociali Con il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali inizia il percorso di positivizzazione di quelli che si possono identificare come i diritti di solidarietà sociale. I diritti analiticamente previsti in tale strumento sono il diritto al lavoro (art 6), il diritto di ogni individuo di godere di giuste e favorevoli condizioni di lavoro (art 7), il diritto di aderire ad un sindacato, il diritto di sciopero (art 8), il diritto alla sicurezza sociale (art 9), il diritto al congedo di maternità (art 10), il diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia (art 11), il diritto alla libertà dalla fame (art 11), il diritto di “ogni individuo a godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale che sia in grado di conseguire” (art 12), il diritto di ogni individuo all'istruzione (art 13,14). l'efficacia del processo di positivizzazione di tali diritti è stata inferiore rispetto a quella dei diritti civili. L'attuazione dei diritti sociali implica risorse, impegno politico ed organizzativo ed una costante precisazione del loro contenuto, in rapporto all'evoluzione delle condizioni economiche generali, 27 emergono a livello globale e pregiudicano qualsiasi ulteriore passo verso la tutela della libertà umana. È possibile affermare che, a differenza dei diritti civili, i diritti sociali sollevano difficoltà non rispetto alla loro giustificazione intrinseca, ma piuttosto quanto agli strumenti ed alle modalità di garanzia. La tesi per cui debbano considerarsi più propriamente dei diritti fondamentali, idonei cioè ad essere perseguiti a livello statale, non costituisce una tesi propriamente contraria alla possibilità di giustificare tali diritti come diritti umani ma costituisce semmai una tesi sul ruolo e sulle potenzialità del diritto internazionale. Può darsi che l'attuazione dei diritti sociali risenta maggiormente dell'elemento della condizionalità, in particolare della dipendenza dalla disponibilità di risorse, ma quel che dovrebbe essere controllato a livello internazionale è l'assenza della dipendenza dalla volontà politica come condizione strutturale per la loro normatività. Di certo ai diritti sociali non può essere rifiutato il riconoscimento dello statuto di diritti umani per il fatto che implicano obblighi positivi: tutti i diritti implicano obblighi correlativi sia negativi sia positivi; l'interpretazione più autorevole fornita dagli strumenti internazionali chiarisce che tutti i diritti umani impongono obblighi sugli stati nel triplice senso del rispetto, della protezione e della realizzazione, la quale a sua volta comporta obblighi di fornire (beni, servizi), di promuovere e facilitare l'attuazione del contenuto dei diritti. Dette interpretazioni introducono la possibilità di qualificare la mancata attuazione di tali obblighi come vere e proprie violazioni di diritti umani. Uno stimolo di questo senso è certamente fornito dall'art 28 della UDHR, in base al quale “ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale ed internazionale nel quale i diritti e le libertà [in essa] enunciati possano essere pienamente realizzati”. Si tratta di un richiamo alla necessità di implementare tutti i diritti previsti nella UDHR a livello internazionale e non solo a livello interno. Non mancano, inoltre, gli argomenti filosofici utili per procedere in tale direzione, a partire da quello costruito sul riconoscimento della responsabilità morale che i Paesi ricchi possono avere nei confronti della condizione di povertà grave diffusa nei paesi poveri, nella misura in cui tale povertà non solo sarebbe il frutto di scelte compiute dai governi locali, ma sarebbe anche il risultato di forme di interferenza negativa dei paesi ricchi, di attori non statali ad essi collegati o delle organizzazioni economiche internazionali nelle scelte interne dei paesi poveri. 7. La regionalizzazione dei diritti umani Il processo di internazionalizzazione dei diritti umani segue due percorsi paralleli e sinergici: il percorso della codificazione dei diritti e dell'individuazione di strumenti di tutela promosso dall'ONU ed il cosiddetto percorso di regionalizzazione dei diritti. Per regionalizzazione si intende la codificazione dei diritti e l'istituzione di organi di garanzia a livello di macro-regioni geo-politiche. Obbiettivo della regionalizzazione è quello di accrescere le possibilità di tutela, consentendo, da un lato, una determinazione del contenuto dei diritti che sia più conforme alla sensibilità culturale ed alla storia delle singole aree geo-politiche; dall'altro, l'istituzione di organi di garanzia giurisdizionale, in grado di garantire effettività ai diritti umani riconosciuti. Il quadro di riferimento anche per questo processo, resta, tuttavia, la Dichiarazione universale. In nessun senso, la regionalizzazione deve essere letta come una tendenza a dissolvere l'universalità dei diritti nel particolarismo delle culture. I sistemi regionali ad oggi istituiti sono il sistema europeo, il sistema inter-americano, il sistema africano. Un discorso a parte va fatto per il sistema arabo, che risulta parzialmente individuabile, oggi, a seguito dell'approvazione di una Carta araba dei diritti umani, la quale tuttavia non prevede 30 l'istituzione di un organo giurisdizionale. Il sistema europeo si regge sulla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (CEDU), promossa dal Consiglio d'Europa e dedicato esclusivamente ai diritti civili e politici. L'organo giurisdizionale competente per la tutela dei diritti previsti nella CEDU è la Corte europea dei diritti umani, con sede a Strasburgo. Il riferimento ai diritti sociali avverrà con l'approvazione della Carta sociale europea. Tale sistema prevede due tipologie di ricorsi: il ricorso inter-statale (art 33 CEDU) e il ricorso individuale (art 34 CEDU). Con il ricorso inter-statale ogni parte contraente può deferire alla Corte la violazione delle disposizioni della Convenzione imputabile ad un'altra parte contraente. Non è richiesto alcun collegamento tra la vittima diretta della violazione e lo stato ricorrente. Con il ricorso individuale, persone fisiche, gruppi di individui e organizzazioni non governative che si reputino vittime di una violazione dei diritti previsti dalla CEDU, possono agire, presentando un ricorso alla corte di Strasburgo, contro qualsiasi parte contraente, previo esaurimento delle vie di ricorso interne (art 35 CEDU). La giurisdizione della Corte si regge sul principio di complementarietà rispetto alle corti interne. Il margine di apprezzamento è quel margine entro cui la Corte riconosce agli stati la libertà di azione e di manovra nell'interpretazione della CEDU, prima di dichiarare che la misura statale di deroga, di limitazione o di interferenza con una libertà garantita dalla CEDU configuri una concreta violazione della Convenzione stessa. Il sistema inter-americano ha come fonte di riferimento la Convenzione americana dei diritti dell'uomo, promossa dall'Organizzazione degli Stati Americani e adottata nel 1969. Se la Convenzione americana riguarda esclusivamente i diritti civili e politici, il protocollo approvato nel 1988 ed entrato in vigore nel 1999 promuove lo sviluppo dei diritti economici, sociali e culturali. L'organo giurisdizionale preposto alla garanzia del contenuto previsto da tali strumenti è la Corte inter-americana dei diritti umani. La sua attività prevede sia ricorsi individuali che ricorsi inter- statali. L'organo deputato al controllo del rispetto dei diritti riconosciuto all'interno del sistema regionale è la Commissione per i diritti dell'uomo. L'impatto di tale sistema risulta limitato dalla mancata ratifica della Convenzione americana da parte degli Stati Uniti. Il sistema africano è incardinato sulla Carta Africana dei diritti umani e dei popoli, promossa dall'Organizzazione dell'Unione Africana, entrata in vigore nel 1986. La peculiarità di questo strumento internazionale riguarda l'importanza in esso assegnata non solo ai diritti della persona, ma anche a quelli dei popoli, sintetizzati nel diritto all'autodeterminazione e nel diritto allo sviluppo. Altro elemento specifico della Carta Africana è l'insistenza sulla dimensione dei doveri, oltre che dei diritti, dell'individuo. Gli organi di garanzia sono la Commissione Africana e la Corte Africana dei diritti dell'uomo e dei popoli. Due aree geo-politiche nelle quali il percorso di regionalizzazione si trova allo stadio iniziale sono l'area dei Paesi aderenti alla Lega Araba e l'area asiatica. Per quanto riguarda il primo caso, nel 1994 si è adottata la Carta araba dei diritti dell'uomo, promossa dal Consiglio della Lega Araba, che è entrata in vigore il 15 marzo 2008. le ragioni delle difficoltà incontrate in fase di approvazione di una Carta dei diritti in questa area geo-politica sono molteplici e complesse, ma potrebbero essere schematicamente ricondotte: a) alla difficoltà di conciliare l'interpretazione letterale della legge coranica con il contenuto di taluni principi sottesi ai diritti; b) al fatto che i diritti umani e la Dichiarazione universale siano in tale contesto percepiti unicamente come frutto delle esperienze storiche e politiche del mondo occidentale. 31 La maggior parte dei Paesi Arabi non poté prendere parte alla elaborazione della Dichiarazione perché al tempo non ancora indipendenti. La conseguenza è che le tensioni politiche crescenti con il mondo arabo giocano a sfavore; c) al fatto che le posizioni ufficiali dei governi cercano di impedire la diffusione delle idee spesso elaborate all'interno di numerose organizzazioni non governative attive all'interno di tali Paesi nella promozione dei diritti, in modo da cercare di ostacolare la formazione di sinergie con le organizzazioni non governative internazionali e con la società civile dei Paesi Occidentali. Peculiarità della Carta araba è il frequente rinvio all'elemento della comunanza culturale delle parti. A prevalere, nell'identificazione delle parti, non è l'etnia o la collocazione geografica, bensì la comune appartenenza religiosa. La Carta araba non intende costruire le basi per una civiltà comune: quella base comune è identificata come già esistente e data. Gli ordinamenti giuridici dei paesi arabi presentano per lo più un'ambiguità di fondo, contendendo un generico rinvio alla Carta araba dei diritti umani, ma richiamando essi anche i principi della Shari'a islamica, la cui interpretazione letterale evidenzia fondamentali tensioni con la logica sottesa ai diritti. Nell'area dei paesi arabi, solo la Carta del 1994 omette il rinvio alla Shari'a come limite per il riconoscimento dei diritti. Configura su alcuni punti il miglioramento della condizione femminile, prevedendo per la donna il diritto di dare la propria nazionalità ai figli e la libertà di matrimonio. Essa, tuttavia, presenta alcuni limiti rilevanti, se considerata rispetto agli standard internazionali, ovvero agli obbiettivi di universalità posti dalla Dichiarazione universale. Si pensi al fatto che l'uomo e la donna sono dichiarati “uguali nella legge” e non “davanti alla legge”, il che lascia alla legge stessa margini di manovra per effettuare discriminazioni. Va ricordato che, a partire dal 1990, furono elaborate, all'interno della società civile, nel Magreb, alcune dichiarazioni di stampo laico dal contenuto decisamente più innovativo rispetto agli argomenti ora segnalati. Per quanto concerne l'area asiatica, la maggior parte degli stati asiatici ha votato nel 1948 la Dichiarazione Universale, ma non ha aderito né ai Patti del '66 né ad altri strumenti internazionali in materia di diritti umani. Tradizionalmente, a livello governativo, è risultata diffusa e sino a pochi anni fa vincente, la linea che contrappone la dottrina dei valori asiatici ai diritti umani. Al cuore di tale dottrina c'è l'idea che esistano valori “occidentali” contrapposti a valori “orientali”: all'atomismo occidentale si contrappone il senso di appartenenza alla comunità propria dell'Oriente; al consumo occidentale la parsimonia asiatica; al culto del tempo libero l'elogio del duro lavoro. In concomitanza con la seconda conferenza mondiale di Vienna sui diritti umani del 1993, gli stati asiatici proclamarono la Dichiarazione dei governi dell'area Asia-Pacifico sui diritti umani, che enfatizzava i principi del rispetto della sovranità nazionale e dell'integrità territoriale, nonché il divieto di utilizzare i diritti umani come strumento di pressione politica. È stato osservato, tuttavia, come il diritto positivo di molti degli stati asiatici contenga scarsi riferimenti ai principi propugnati entro la dottrina dei valori asiatici. Forse ciò spiega perché anche nell'area asiatica si vadano registrando significativi passi avanti nell'affermazione dei diritti umani. Per quanto riguarda la promozione dei diritti umani ad opera di organizzazioni non governative, si pensi all'Asian Human Rights Charter, che individua nella protezione e promozione dei diritti, nella realizzazione della pace e della democrazia, nello sviluppo sostenibile e nella protezione dell'ambiente gli impegni e le priorità dei governi. Nel 2007 è stata adottata la Carta dell'ASEAN, prima vera e propria organizzazione intergovernativa della regione asiatica. Il documento riserva uno spazio esplicito al rispetto dei valori democratici, 32 Il quadro del costituzionalismo multilivello non manca, tuttavia, di lasciare irrisolti due fondamentali ordini di problemi. In primo luogo, la relazione tra ordinamento comunitario e ordinamento interno non risulta configurata secondo il criterio tradizionale della gerarchia, ma secondo il criterio funzionale. Il che significa che potrebbe essere talora lasciato alle corti dei due livelli ed alla loro cooperazione lo stabilire se si debba applicare la norma interna o quella comunitaria (non si possono escludere applicazioni disomogenee delle medesime fonti). Con il superamento della fase della tutela pretoria dei diritti fondamentali, l'esigenza della formalizzazione dei rapporti tra corti interne e Corte di Giustizia, da un lato, ma anche tra quest'ultima e la Corte europea per i diritti umani, risulta acuito. Il processo di adesione dell'UE alla CEDU è destinato ad accrescere gli spazi di interazione fra ECJ e Corte Europea dei diritti umani. Per quanto la tutela dei diritti fondamentali costituisca, dal trattato di Maastrich in poi, un tratto essenziale ed identificativo dell'UE, nella giurisprudenza della ECJ l'obbiettivo della loro protezione è contemplato nell'ambito dei più generali fini dell'ordinamento comunitario e dell'Unione. Ciò lascia strutturalmente aperta la possibilità di una diversa interpretazione delle fonti da parte delle corti implicate, ECJ e Corte Europea dei diritti umani. V'è, in secondo luogo, il problema della differente struttura che la protezione dei medesimi diritti fondamentali può assumere all'interno delle varie esperienze nazionali. Ciò rende difficile la riproduzione di una scala d'intensità della protezione dei diritti fondamentali a livello comunitario. Si è finora cercato di porre rimedio ricorrendo al concetto di Wesensgehalt (nucleo essenziale): in caso di presenza di differenti tradizioni costituzionali in merito all'interpretazione di un medesimo diritto, la ECJ è tenuta a ricercare (costruire) di esso il nucleo essenziale. Problemi come quello della configurazione del rapporto tra le corti e dell'individuazione dei diritti in un senso che promuova la certezza del diritto, possono invece essere adeguatamente affrontati nel momento interpretativo. Esso si configura come la fase più delicata, ma anche quella decisiva della comprensione e della concretizzazione dei diritti. Il momento interpretativo apparirà, nell'analisi dell'evoluzione dei molteplici sistemi di tutela dei diritti, come il principale pericolo oppure come una possibile risorsa. Capitolo 3 Approcci teorici al diritto internazionale: premesse e prospettive 2. Teorie delle norme, dell'ordinamento giuridico e concezioni del diritto internazionale La gradualità del percorso di internazionalizzazione dei diritti umani si spiega anche con le difficoltà di concettualizzazione stessa del diritto internazionale. Il perseguimento degli obbiettivi fissati dalla Carta delle NU ha comportato, e comporta, u costante confronto con una radicata concezione del diritto internazionale tendente a qualificare quest'ultimo come una sorta di “pseudo-ordinamento” giuridico. Sotto il profilo teorico-giuridico, il diritto internazionale è concepito quale insieme di norme primarie frutto della volontà degli stati, che ad esse affidano la regolazione di materie residuali rispetto alla sfera di esercizio della sovranità interna. Agisce qui la premessa metodologica della c.d. “analogia domestica”. Si muove, cioè, dal presupposto che la società internazionale dovrebbe riproporre una struttura analoga a quella dello stato. Il mancato riscontro di tale requisito conduce a ravvisare in essa il carattere dell'anarchia. Si presuppone, in altri termini, che un ordinamento giuridico debba presentare caratteristiche modellate sull'ordinamento interno e secondo la concettualizzazione in senso statualistico generata dalla “ideologia della codificazione”. 35 Secondo la prospettiva di Herbert Hart, il diritto interno e il diritto internazionale presentano delle analogie quanto a funzione e contenuto, ma non nella struttura, presentandosi l'ordinamento internazionale privo di un livello normativo, precisamente quello relativo alle norme che conferiscono poteri. Gli ordinamenti giuridici nazionali si compongono, secondo Hart, di due tipologie fondamentali di norme, a seconda delle quali si suddivide a sua volta in sottoinsiemi. Si hanno: 1. le norme primarie o norme che impongono obblighi; 2. le norme secondarie o norme che conferiscono poteri, articolate in: ➢ norme di riconoscimento, le quali servono essenzialmente ad identificare le norme primarie valide, le norme appartenenti al sistema; ➢ norme di mutamento, che consentono la trasformazione e la creazione delle norme primarie; ➢ norme di giudizio, regolanti l'applicazione delle norme primarie. Fra le norme internazionali non vi sarebbero, secondo tale lettura, norme aventi la struttura delle norme secondarie, e dunque nemmeno delle norme di riconoscimento, necessarie per fondare la validità delle norme che impongono obblighi. Ne consegue che le norme internazionali non costituiscono autonomamente un ordinamento giuridico in senso proprio, ma risultano strutturabili come ordinamento solo a partire dalla loro connessione con gli ordinamenti interni (volontà statale). Una lettura del diritto internazionale interna al giuspositivismo eppure fortemente innovativa è introdotta da Hans Kelsen. Kelsen mira a riformulare la qualificazione giuridica dell'ordinamento internazionale. L'impegno kelseniano in tal senso spinge fino: a) alla difesa della prospettiva monistica circa il rapporto tra ordinamenti interni ed ordinamento internazionale, in base alla quale i primi sarebbero da intendersi come parti del secondo, ad esso subordinate; b) alla difesa della giurisdizione internazionale, rispetto alla quale si propone di introdurre il principio della obbligatorietà. L'intero programma kelseniano passa attraverso la riformulazione del concetto di sovranità statale, da intendersi come autonomia di ogni stato dagli altri stati, ma non anche come indipendenza dal diritto internazionale. Una riconcettualizzazione, questa, resa possibile dalla demitizzazione e depoliticizzazione dell'idea di sovranità statale. Kelsen poi assegna alla funzione giurisdizionale un ruolo di primo piano nell'adattamento della comunità internazionale ai fondamentali principi di giustizia che dovrebbero consentire al suo interno la pace ed il rispetto dei diritti umani essenziali. La demitizzazione della sovranità e la concezione monista del rapporto tra ordinamenti interni e ordinamento internazionale consentono il superamento delle critiche stato-centriche al diritto internazionale, incardinate su di una visione essenzialmente dualista del rapporto tra ordinamenti giuridici interni e ordinamento internazionale e sulla qualificazione dell'ordinamento giuridico in termini di ordinamento giuridico sui generis, privo di autonomi criteri di validità delle norme ad esso appartenenti. Tuttavia, il presupposto della domestic analogy non risulta assente neppure nella prospettiva kelseniana. Hart e Kelsen convergono nel ritenere che l'ordinamento internazionale si trovi ad uno stadio di evoluzione meno avanzato rispetto a quelli interni. È evidente come la peculiarità del diritto internazionale, con riguardo ai momento della produzione e dell'applicazione, sia da vedersi piuttosto come una condizione strutturale. Sulla base di quanto stabilito dall'art 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia, le fonti del diritto internazionale sono costituite dalle norme pattizie (il c.d. diritto internazionale 36 particolare, perché valido tra le parti contraenti); dalle norme consuetudinarie (il c.d. diritto internazionale generale, perché valido erga omnes all'interno della Comunità internazionale); dai principi generali riconosciuti dalle nazioni civili; e, in via integrativa, dalla giurisprudenza dell CIG. Tre elementi differenziano, nella struttura, il diritto internazionale dal diritto interno. (1) L'assenza di un foro produttivo centrale dotato di natura rappresentativa. Si parla in tal senso di carattere acefalo del diritto internazionale pattizio. Da un punto di vista normativo, gli obblighi internazionali sono obblighi che legano soggetti che si situano in una posizione paritaria, orizzontale. Le norme internazionali assumono carattere giuridico nella misura in cui sono il frutto del consenso e della volontà statale. Ciò non vale evidentemente per il diritto internazionale consuetudinario, che peraltro ha validità erga omnes e dunque non si presta ad essere legittimato con riferimento alla volontà statale. (2) La consensualità (non obbligatorietà) della giurisdizione internazionale: elemento per il quale nell'intera giurisdizione internazionale taluni hanno ravvisato una struttura simile a quella dell'arbitrio. Tale lettura evidenzia un dato reale, ovvero il fatto che il riconoscimento della giurisdizione di una corte internazionale dipende dall'adesione degli stati ad uno strumento pattizio e dalla disponibilità degli stessi a sottoporre le controversie a soluzione giudiziale. (3) La carenza di esecutività delle sentenze internazionali, causa di indebolimento della forza coattiva del diritto internazionale nel suo complesso. Per quanto concerne, poi, il diritto consuetudinario internazionale, esso pone alcune difficoltà, questa volta sul piano della lettura dei rapporti tra elementi giuridici ed elementi politici nella legittimazione delle norme. Nella misura in cui sono gli stati i soggetti suscettibili di generare, con la loro condotta, le consuetudini, non solo è possibile, muovendo da una concezione statualistica del diritto, ricondurre in definitiva anche la consuetudine alla volontà statale, ma emerge anche il rischio che l'origine stessa di una norma giuridica sia legata a valutazioni politiche. Si aggiungono problemi legati all'individuazione del suo contenuto, nonché ai tempi lunghi per la sua formazione. Si spiega, inoltre, con l'esigenza di creare norme chiare e suscettibili di una vigenza immediata il crescente ricorso al diritto pattizio nell'ordinamento internazionale. All'origine di tale processo troviamo, in altri termini, l'intensificarsi del pluralismo delle culture giuridiche rispetto alle quali deve rapportarsi l'attività di accertamento del diritto. Alcune difficoltà connesse alla struttura delle consuetudini emergono, peraltro, sul terreno delle norme imperative. Le norme di ius cogens evidenziano, sotto il profilo dell'identificazione e sotto il profilo della funzione, difficoltà significative per la comprensione di alcuni aspetti del diritto internazionale connessi con il tema della giustizia. L'identificazione delle norme imperative trova il principale punto di riferimento nell'art 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. In base a tale articolo, una norma imperativa del diritto internazionale generale è una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli stati nel suo insieme come norma non modificabile che da una nuova norma di diritto internazionale generale avente il medesimo carattere. I criteri identificativi di una norma di ius cogens sono dunque l'accettazione e il riconoscimento da parte della comunità internazionale nel suo insieme come norma inderogabile. L'individuazione del contenuto concreto e, soprattutto, delle materie regolabili con norme imperative è necessariamente rinviata al momento giurisdizionale. Le difficoltà legate alla precisazione del contenuto -ma anche all'effettività- delle norme imperative sono esemplificative delle difficoltà incontrate dal diritto internazionale tout court, in quanto diritto che deve potersi imporre agli stati senza però poter prescindere dal consenso degli stati medesimi. Sulla base di questa definizione, si ottiene paradossalmente che il fondamento di norme 37 avevano avuto alcun ruolo nella sua creazione”. L'idea propugnata da questo approccio è, invece, che una prospettiva critica del diritto internazionale dovrebbe assumere anche fonti non occidentali, ispirate a principi etici e politici delle società postcoloniali, del tutto eterogenei rispetto alle tradizioni occidentali. In questo senso, il diritto internazionale dovrebbe estendere il proprio orizzonte ai movimenti sociali, per valutare l'incidenza che essi possono assumere nei processi di formazione dei principi del diritto. Il TWAtIL si interroga sostanzialmente su quella che è stata definita la “missione civilizzatrice dell'Occidente nell'età del post-colonialismo”. L'approccio costruttivista sottolinea come il diritto internazionale on sia da vedere come un sistema di regole imposte dall'esterno degli stati né come un sistema di regole meramente frutto della volontà degli stati formatasi su basi estranee ai processi di interazione nella comunità internazionale. Piuttosto, l'interesse in senso materiale per gli stati non è precostituito rispetto alla costruzione dell'identità ma costruito attraverso questa e nell'interazione entro la compagine statuale ed entro la società internazionale. L'approccio cosmopolitico sottolinea la struttura del diritto internazionale come frutto delle interazioni fra vari livelli ordinamentali, tra diversi attori e reti di attori trans nazionali. Ciò che risulta maggiormente apprezzabile con riferimento alla tematizzazione dei rapporti fra diritto internazionale e universalizzazione dei diritti umani, è l'orientamento verso un diritto internazionale focalizzato sempre più sull'individuo e sempre più ispirato all'idea della libertà individuale e dell'eguaglianza delle persone. 4. Il diritto internazionale, oggi: tra deformalizzazione, frammentazione e costituzionalizzazione Il diritto internazionale risulta attraversato da processi di segno diverso, sintetizzabili come: 1. processo di deformalizzazione, relativamente ai criteri di identificazione del diritto stesso e delle fonti; 2. processo di frammentazione; 3. processo di costituzionalizzazione. DEFORMALIZZAZIONE Per quanto riguarda questo processo, si può fare riferimento al fenomeno di diffusione della funzione di produzione normativa, all'accrescimento di importanza del soft law e dell'auto- regolazione, alla moltiplicazione delle fonti nonché al complessificarsi dei loro rapporti reciproci. Interessante, in questo senso, è il fenomeno di emersione della c.d. nuova lex mercatoria, quell'insieme di norme create nel corso delle transazioni economiche e composte da contratti tipo, usi contrattuali, principi affermati mediante decisioni arbitrali, i quali emergono dalla condotta di quei medesimi attori non-statali che risultano anche essere direttamente coinvolti nell'attività regolata. La diffusione e l'accrescimento della lex mercatoria evidenzia gli effetti generali di fatto riconducibili a fonti giuridiche formalmente dotate di portata solo particolare e conseguentemente la capacità degli attori privati di intervenire direttamente plasmando l'assetto regolativo concernente la loro stessa attività. FORMALIZZAZIONE La formalizzazione del diritto internazionale costituisce, a sua volta, un fenomeno estremamente complesso e articolato, che comprende alcuni esiti potenzialmente negativi e disgreganti causati dall'assenza di centralizzazione produttiva, dalla crescente specializzazione del diritto internazionale. 40 In generale, la frammentazione parrebbe derivare dall'espansione e diversificazione, per l'esigenza di fornire una normazione sempre più settoriale e adeguata sotto il profilo tecnico, del diritto internazionale, e potrebbe essere vista come il fenomeno nel quale quest'ultimo diviene vittima del proprio successo. L'AG incaricò la Commissione per il diritto internazionale di studiare il fenomeno della frammentazione, inteso come un insieme di conseguenze in termini di perdita di efficacia del diritto internazionale generale a seguito della moltiplicazione dei regimi e delle corti. L'analisi venne impostata come tentativo di rilevare: - l'irrompere del diritto internazionale generale entro quelli che tendono ad apparire come “self- contained regimes”; - l'entità dei fenomeni di forum shopping (scelta delle corti), conflitto tra norme, sovrapposizione di interventi giurisprudenziali, crisi costituzionale, intesa come rischio della dissoluzione dei principi generali del diritto internazionale. Il risultato dell'indagine fu pubblicato in un report, nel quale si constata l'esistenza di una dimensione sistematica nel diritto internazionale, la quale viene trasferita anche all'interno dei singoli regimi, con riferimento alla determinazione della validità delle regole da applicare, dei loro destinatari, della loro interpretazione e delle conseguenze derivanti dalla loro violazione. Deformalizzazione e frammentazione indicano fenomeni complessi che hanno in comune la capacità di porre in dubbio la possibilità di continuare a riferire il diritto internazionale alla comunità internazionale. L'emergere della dimensione trans-nazionale aggiunge complessità e teorizzazione del concetto di società internazionale. Il diritto internazionale è venuto progressivamente ad assumere competenza su materie di tradizionale competenza statale e di pregnanza elevata: i diritti umani, la giustizia penale, la tutela ambientale. La natura di queste materie e la necessità di costruire connessioni tra diritto interno e diritto internazionale ha certamente indotto a leggere le trasformazioni del diritto internazionale e alcune caratteristiche del suo assetto contemporaneo attraverso la lente e la categoria del costituzionalismo. COSTITUZIONALISMO Vanno segnalate in primo luogo alcune resistenze ad accostare il linguaggio e la logica del costituzionalismo al diritto internazionale , resistenze fondamentalmente legate a tre argomenti di fondo. 1. Le categorie del costituzionalismo non risultano correttamente utilizzate con riferimento al diritto internazionale perché manca, qui, il percorso storico che che a livello statale ha usualmente condotto all'approvazione di una carta costituzionale ed al passaggio alla democrazia costituzionale. 2. Il senso dell'utilizzazione dell'idea di ordine costituzionale a livello internazionale sarebbe solo simbolico, finalizzato ad indicare come esistente un ordine globale compatto, laddove, nella realtà, sostengono altre prospettive, si hanno solo segmenti spesso amorfi e tra loro in relazione secondo modalità estremamente complesse. 3. La lettura in chiave costituzionalistica del diritto internazionale può contenere un messaggio di minaccia al pluralismo, può andare nel senso della “civilizzazione a senso unico”, sicché gli interessi e le tradizioni dei Paesi in via di sviluppo potrebbero essere erosi dall'evoluzione di un sistema compatto di questo tipo. Questi argomenti muovono acriticamente da una visione stato-centrica dell'autorità, dell'ordine e del diritto, e non possono, senza una discussione di tale premessa, precludere lo sviluppo di approcci diversi. In particolare, il terzo argomento poggia su di un'interpretazione fuorviante della letteratura costituzionalistica, la quale non tende a descrivere o a promuovere un governo globale, 41 ma a ravvisare elementi di costituzionalizzazione della governance globale, connotata in senso multilivello e con organizzazione multiplolare dell'autorità. Guardare al diritto internazionale attraverso la lente del costituzionalismo può, inoltre, servire ad individuare fenomeni di deformalizzazione incontrollata del diritto (nella sua produzione) o di violazione della legalità internazionale. Va tuttavia riconosciuto che il concetto di costituzionalismo sul piano internazionale soffre di una evidente vaghezza. Un approccio interessante è quello che vede il costituzionalismo come una sorta di assetto mentale, anziché come una architettura impostata sulle fonti, mirante ad elaborare una lettura del diritto internazionale tendenzialmente opposta a quella caratterizzata da una enfasi posta sull'accordo, sulla differenziazione, sulla deformalizzazione derivante in buona misura anche dal crescente ruolo svolto dagli attori privati nelle varie sfere rilevanti. Il costituzionalismo come mindset conferisce alle norme internazionali la capacità di assegnare carattere e significato universale alle esperienze. In tal senso è necessario associare all'idea di costituzionalismo un significato più preciso. Si deve innanzitutto distinguere fra international costitutionalism e international costitutional law. Il primo individuerebbe un approccio ideale, a difesa della creazione di un governo mondiale organizzato secondo una gerarchia delle fonti e una organizzazione dei poteri tale da riprodurre il modello statale sul piano globale. Il secondo identifica una pluralità di approcci accomunati dall'idea che gli elementi chiave di una costituzione internazionale possano essere già ritenuti operanti e riscontrati nel concreto funzionamento e in alcune trasformazioni del diritto internazionale e delle relazioni internazionali. Nella ricostruzione e nell'analisi di questo processo procederemo assumendo come paradigma quello dell'international constitutional law. L'obbiettivo non è quello di difendere o contestare il progetto del costituzionalismo mondiale, organizzato intorno all'idea di governo mondiale, ma quello di elaborare uno schema di lettura per il diritto internazionale, in modo da valutare se e in che misura sia reperibile al suo interno una struttura costituzionale. Le teorie che rientrano in questo secondo tipo di indagine sono varie. Vi sono, ad esempio, i tentativi di stabilire se la Carta delle Nazioni Unite possa essere vista come una sorta di costituzione a livello internazionale. In questo senso, vengono ricercati entro la Carta gli elementi che concorrono a conferirle un carattere di sopranazionalità ed il carattere di costituzione dietro la parvenza di un trattato. La Carta di San Francisco è vista come parte decisiva entro un processo costituzionale, di cui sono ulteriori tappe i Patti del '66 e l'istituzione della Corte Penala internazionale. La conclusione raggiunta nell'ambito di questo tipo di indagine è che tali elementi siano destinati a produrre tendenzialmente una riduzione del peso della sovranità statuale e autorizzi poteri della Comunità internazionale ben oltre quanto i membri siano preparati a concedere. Altre teorie hanno cercato di individuare la nascita di un costituzionalismo internazionale entro la trasformazione dei regimi internazionali, in primis quello della World Trade Organization. In questo senso, l'utilizzazione del concetto di costituzione avviene in termini più metaforici che letterali, in chiave più prescrittiva che descrittiva, e il rilievo di tale metafora sta nelle sue implicazioni, che riguardano la possibilità che il regime in esame assuma connotazioni sempre più orientate all'imparzialità nonché ai valori condivisi anche nell'ambito del diritto internazionale pubblico e veda accresciuta la propria capacità di interazione con altre organizzazioni internazionali. Ulteriori teorie hanno focalizzato l'interazione tra diritto interno e diritto internazionale come luogo di emersione di un costituzionalismo internazionale. La prospettiva maggiormente elaborata in questo senso è quella del costituzionalismo cosmopolitico, il quale si pone come uno schema 42 2. il carattere decentrato del diritto internazionale è strutturale, anche se la maggiore o minore portata delle sue norme dipende dallo specifico stadio evolutivo del diritto internazionale e della comunità internazionale; 3. la modellizzazione del diritto internazionale dovrebbe avvenire secondo un paradigma che integri il modello di Westfalia e il modello della Carta delle Nazioni Unite. La riflessione teorico-filosofica interna al diritto internazionale ora risulta impegnata a stabilire se e in che misura l'ordinamento internazionale e il suo funzionamento soddisfino standard in qualche modo riconducibili al rule of law; se nell'ordinamento internazionale il rule of law abbia una specifica configurazione, quali siano i fini propri dell'ordinamento internazionale, se la pacifica coesistenza fra gli Stati o anche la giustizia e, in questo ultimo caso come si debba declinare l'idea di giustizia commisurandola alle risorse del diritto internazionale. Tutti questi temi sono riconducibili a due ambiti generali, ovvero il rapporto tra diritto internazionale e rule of law e il rapporto tra diritti umani e democrazia. Consideriamo il primo ambito tematico. La questione è duplice: da un lato impone di domandarsi se le norme internazionali e la loro applicazione siano coerenti con i requisiti del rule of law; dall'altro evidenzia specifiche tensioni che proprio il riferimento ai diritti umani introduce nell'ordinamento internazionale. Sotto entrambe le prospettive, i problemi riguardano tre livelli della pratica giuridica internazionale: il livello e delle fonti giuridiche, il livello giurisdizionale, il livello dell'enforcement. Per quanto concerne le fonti, gli aspetti che sono oggi oggetto di indagine sono l'assenza di una gerarchia preordinata fra le norme internazionali. E se sembrano, infatti, evolvere strutturarsi in più direzioni. La stessa verticalizzazione mediante lo sviluppo delle dorme cogenti sembra, secondo alcune letture, non riuscire a superare le difficoltà della struttura decentrata del diritto internazionale e contribuire alla sua frammentazione. Per quanto riguarda la giurisdizione, le difficoltà derivano essenzialmente da una tendenziale apertura delle norme internazionali ed alla conseguente centralità acquisita dalla decisione giudiziale, a tal punto da indurre a denunciare una sorta di "giurisdizionalizzazione del diritto internazionale". Le caratteristiche delle disposizioni da cui si ricavano le norme internazionali, la specificità del sistema di enforcement del diritto internazionale e la peculiare struttura Dell'autorità della comunità internazionale sono tali da individuare per il momento giurisdizionale un ruolo di grande centralità ma, allo stesso tempo, rendono la legittimazione della giurisdizione internazionale più complessa di quella interna. La difesa della centralità del ruolo del diritto per la costruzione di un ordine internazionale retto sulla pace è da Kelsen condotta attraverso: a) la critica alla tesi della subordinazione della centralizzazione giurisdizionale alla centralizzazione della produzione giuridica: anche sul piano dell'evoluzione degli stati, la centralizzazione della giurisdizione ha storicamente preceduto la centralizzazione della funzione produttiva del diritto; b) la destituzione di fondamento della distribuzione tra conflitti politici e conflitti giuridici tra gli stati: ogni conflitto, per il fatto di riguardare interessi economici e politici, non perde la propria connotazione giuridica; c) la definizione della sovranità esterna come la reciproca autonomia degli stati che però non impedisce la loro subordinazione al diritto internazionale, l'autorità giuridica degli stati sotto l'autorità del diritto internazionale. Azzerando il riferimento alla componente pattizia, Kelsen nega, come corollario della tesi sub (c), che sia corretto far derivare dalla sovranità dello stato le tesi secondo le quali “nessuno stato può essere giuridicamente vincolato senza o contro la propria volontà; i trattati internazionali sono vincolati solo nei confronti degli stati contraenti; uno stato non può legalmente essere vincolato 45 dalla decisione di un organismo internazionale se non è rappresentato in questo organismo o se il rappresentante dello stato ha votato contro la decisione”. La teoria giuridica di Kelsen, sul piano del diritto internazionale, afferma che le norme del diritto internazionale sono valide non in quanto frutto della volontà degli stati, ma in quanto appunto parte di un ordinamento. Gli argomenti di origine kelseniana risultano in parte eludere i fondamentali problemi che costellano la legittimazione dell'attività delle Corti internazionali e necessitano di integrazione per riuscire a prevalere sulle critiche al centralismo giurisdizionale. La prospettiva kelseniana elude principalmente le questioni aperte derivanti dalla specifica natura delle norme del diritto internazionale dei diritti umani. Esse hanno, infatti, tendenzialmente un carattere “sinallagmatico” e stabiliscono “principi di sistema”. Ciò apre uno spazio determinante e imprescindibile per l'interpretazione, con il risultato che, nel diritto internazionale più che in altri ambiti, il carattere parzialmente creativo dell'attività delle Corti risulta ineliminabile. Se la definizione della sovranità esterna nei termini di indipendenza giuridica dello stato dagli altri stati consente effettivamente di impostare su nuove basi l'analisi del rapporto tra diritto internazionale e sovranità statuale, cionondimeno, a garanzia di un'applicazione imparziale delle norme del diritto internazionale, non risulta sufficiente l'appello alla validità delle norme internazionali in quanto semplicemente esistenti entro un ordinamento giuridico. Per spiegare questa posizione, Kelsen introduce l'idea che sia la sottoposizione al diritto non come un sistema di valori modificabili, ma comue un corpo di norme che cambia lentamente e costantemente, a non essere incompatibile con il principio dell'eguaglianza sovrana, poiché è solo questo diritto che garantisce la coesistenza degli Stati in quanto comunità sovrani ed eguali. È approfondendo questo punto che può essere individuata una strada per spiegare l'attuale stadio di erosione della sovranità interna ed esterna dello Stato e per legittimare l'attività delle Corti internazionali impegnate nella tutela dei diritti. Si riesce così a spiegare come la limitazione della sovranità interna realizzatasi con l'avvento dello Stato costituzionale non possa condurre, sia pure in tempi più lunghi, alla limitazione della sovranità esterna o alla sua riformulazione nel senso della eguale sottomissione degli Stati all'ordinamento internazionale, determinando così una svolta nell'opposto destino che per aver segnato rispettivamente la sovranità interna e la sovranità esterna della parabola dello stato moderno. Resta, poi, da riconoscere anche ruolo di estrema importanza ricoperta dall'interpretazione delle norme internazionali nella concretizzazione dei principi giuridici, specie se si considera l'ambito dei diritti umani. Un buon terreno di indagine per evidenziare la problematicità del dato positivo in materia di tutela dei diritti umani è rappresentato dei problemi legati alla concettualizzazione delle norme dello ius cogens. Da un lato, proprio dall'esistenza delle norme di ius cogens nel diritto internazionale si è soliti trarre una prova del declino della sovranità esterna degli Stati: le norme di ius cogens e gli obblighi erga omnes sono usualmente considerati la prova dell'esistenza di un ordine pubblico internazionale che oltrepassi il carattere contrattualistico del diritto internazionale. È però questa, una conclusione solo in parte corretta, a causa dei problemi che le norme di ius cogens pongono sia livello definitorio sia livello di legittimazione. Le difficoltà emergenti sul piano della definizione rinviano alla peculiare normatività del diritto internazionale ed alla questione del ruolo svolto dal momento giurisdizionale; mentre le difficoltà che emergono sul piano della legittimazione rinviano all'individuazione dei principi di giustizia internazionale ed alla loro base giustificatoria nell'ambito specificatamente giuridico. In sintesi, pare affrettato ritenere che la semplice esistenza di atti internazionali in materia di diritti 46 umani o l'esistenza stessa delle norme imperative del diritto internazionale decretino, di fatto e/o legittimamente, il tramonto della sovranità esterna degli Stati. Ed è invece possibile rilevare come una limitazione della sovranità esterna sia il frutto, per un verso, il sedimentarsi di certi indirizzi interpretativi del diritto internazionale e, per altro verso, dell'interpretazione del diritto interno operata attraverso il filtro delle stanze legata ai diritti umani. Per questo insieme di ragioni, non si può neppure ritenere che gli Stati abbiano esaurito il proprio ruolo giuridico e politico. Si dovrà, allora, concludere che le tesi di Kelsen costituiscono una risposta solo parziale alla critica usualmente rivolta al globalismo giuridico. Si propone, in alternativa, un approccio di tipo funzionalistico-sistemico al diritto internazionale, un approccio che non muova illusoriamente dal presupposto della separazione tra diritto e politica, ma affronti i costanti legami intercorrenti tra queste due sfere. In tal senso si propone una teoria impura del diritto internazionale: impura perché al suo interno la spinta verso l'affermazione di una legalità internazionale è considerata come indisgiungibile dalla trama degli interessi legati al potere politico degli Stati. Si propone un'analisi dell'ordinamento internazionale condotta non dal punto di vista della sua struttura, ma da quello delle sue funzioni, basata fondamentalmente sul presupposto della domestic analogy. La teoria impura del diritto internazionale si accompagna, poi, al relativismo etico, dando origine ad una concezione non oggettivistica, pluralistica e policentrica, ovvero non monistica e non gerarchica. Dalla prospettiva della teoria impura del diritto internazionale appare più fertile e legittimo puntare ad un ordine politico minimo. L'abbandono del programma insieme illusorio e mistificatorio della civitas maxima (intesa come luogo ideale della ragione in cui dovrebbero convergere una morale universale, un diritto universale e uno Stato globale) in nome di un potenziamento del pluralismo policentrico è ritenuto un modo per valorizzare, nell'ordine internazionale, l'integrità e l'autonomia delle culture. La prospettiva così ricostruita può certo considerarsi come una teoria del diritto internazionale alternativa a quella kelseniana. È possibile evidenziare, all'interno della prospettiva in esame, due aspetti problematici, direttamente implicati nella concettualizzazione dell'ordine e del diritto internazionale. Il primo aspetto riguarda il modo internamente incoerente in cui viene presentato il ruolo del potere politico nell'analisi giuridica. Da una parte, infatti, si giudica indesiderabile ogni tentativo di emancipare il diritto dalla politica, dall'altra si contesta la legittimità delle situazioni internazionali, proprio perché sarebbero condizionate da interessi politici. La contraddizione sussiste, nella critica, nella misura in cui, da un lato, si dichiara come imprescindibile, e non solo come in evitabile, il legame tra diritto e politica e, dall'altro, si contesta la legittimità dell'ordine internazionale perché porta con sé la traccia di questo legame. La critica non sarebbe in contraddizione con le premesse da cui parte solo qualora puntasse ad un totale rifiuto del diritto internazionale e non solo a una sua concettualizzazione in termini di ordine minimo. Il secondo elemento riguarda l'accettazione della concezione delle relazioni internazionali propria del realismo. A partire da un impianto realista è evidente che qualsiasi discorso intorno alla giustizia dell'ordine internazionale è preclusa in partenza. Il limite è contenuto nella risposta kelseniana può, invece, forse essere superato, pur restando fondamentalmente vicini all'ottimismo giuridico che la caratterizza, muovendo dalla concezione ermeneutica del diritto. Essa valorizza opportunamente il momento interpretativo e le conseguenze derivanti dalle trasformazioni delle fonti attualmente in atto. L'enfasi sul momento interpretativo permette di concettualizzare il diritto internazionale secondo una linea perfettamente integrabile con la prospettiva costruttivistica sulle relazioni internazionali. Anche l'interesse nazionale dipenderebbe, così, dalle regole e dalle pratiche delle istituzioni internazionali. Applicato la teoria delle relazioni internazionali, il costruttivismo consente di 47 distinti interessi nazionali, o al di là degli interessi nazionali. 7. Diritti umani e democrazia Risulta in tale contesto consolidata l'idea che diritti umani, pace e democrazia siano da considerarsi per la Comunità internazionale come obiettivi da perseguire congiuntamente, tuttavia rimangono da affrontare sia i problemi legati alla concettualizzazione della democrazia riferita all'ordine internazionale, sia le difficoltà, quasi strutturali, che il diritto internazionale incontra nel dare corpo al principio democratico. L'idea di democrazia applicabile all'ordine internazionale è stata essenzialmente concepita secondo tre paradigmi: 1. come insieme di caratteristiche riferibili ai rapporti internazionali in quanto proiezione di caratteristiche delle istituzioni interne agli stati (democrazia internazionale in senso stretto); 2. come insieme di caratteristiche proprie di un ordine internazionale che si costruisce quale rete di rapporti interindividuali su scala globale (democrazia globale); 3. come insieme di caratteristiche per le istituzioni e l'ordine internazionale in quanto tali, anche a prescindere dall'organizzazione interna degli stati (democrazia delle istituzioni internazionali). Nella prima prospettiva, la possibilità di costruire un ordine internazionale democratico è essenzialmente inteso come un processo endogeno agli stati. Il significato più peculiare del rapporto tra democrazia, diritti umani e diritto internazionale è da ricondursi al piano della giustizia internazionale. Nella valutazione di norme e istituzioni a livello interno, accanto al parametro della legittimità democratica bisogna considerare anche quello della “legittimità cosmopolitica”, ovvero la loro capacità di tenere conto di interessi della Comunità internazionale. Il filosofo statunitense John Rawls, nella propria teoria contrattualistica della giustizia internazionale, identifica il contenuto di quest'ultima con il contenuto della “legge dei popoli”, un insieme di otto principi idonei ad orientare i rapporti tra le società domestiche, improntandoli alla pace ed alla stabilità. Peculiare in tali principi è: a) il loro carattere essenziale: essi implicano obblighi chiaramente consolidati all'interno del diritto internazionale e indipendenti dal riferimento a specifici assetti istituzionali interni (rispetto della libertà ed indipendenza dei popoli, divieto di fare guerra se non per autodifesa, rispetto dei diritti umani; b) il fatto che possano risultare condivisi e giustificati da società le cui istituzioni non siano necessariamente strutturate in senso liberal-democratico purché rispettino i criteri della decenza. Sono da ritenersi “decenti”, nella prospettiva rawlsiana, le società prive di mire aggressive, dotate di un sistema giuridico ispirato ad un'idea di giustizia come bene comune, e di un'organizzazione giuridica capace di imporre diritti e doveri a tutti i membri e di garantirne segnatamente i diritti umani, intesi come il diritto alla vita, alla libertà, alla proprietà e il diritto all'eguaglianza formale. L'obbiettivo della giustizia internazionale è qui di basso profilo e consiste nel fissare una possibile via di giustificazione per un nucleo di principi capaci di garantire relazioni politiche e stabili tra le società. Anche l'idea dei diritti umani si configura in termini minimali. Muovendo dalla definizione dei diritti umani come insieme di criteri la cui osservanza costituisce la condizione minima per la decenza di una società domestica, Rawls riduce il catalogo dei diritti umani, circoscrivendoli, al fine di accrescere le possibilità di consenso intorno alla loro giustificazione, oltre i confini della cultura politica liberale e la possibilità di garanzia. Il rischio che, nella tematizzazione della giustizia internazionale e dei diritti umani, si vuole più di ogni altro evitare è quello dell'etnocentrismo. Si intende evitare la costruzione di un catalogo di 50 diritti che si radichi entro il punto di vista della cultura politica liberale. Il primo requisito in tal senso è la totale rinuncia alla concezione individualistica: i diritti umani non assumono un contenuto a partire dai bisogni, interessi o valori della persona, ma sono strumento per la coesistenza pacifica all'interno della società e tra la società. I diritti umani sono quegli standard la cui violazione giustifica l'interferenza della Comunità internazionale negli affari interni di uno stato e il cui rispetto permette invece di qualificare una società domestica come almeno “decente”. Come scrive Raz, i diritti umani sono quei diritti in relazione ai quali le misura che limitano la sovranità sono moralmente giustificate ed in questo senso “impongono gli unici limiti morali alla sovranità degli stati”. In questa prospettiva, i diritti umani nulla hanno a che vedere con la democrazia, che resta un ideale perseguibile esclusivamente a livello interno. Nella prospettiva del cosmopolitismo, le idee in termini più esigenti, democrazia e diritti risultano tematizzate in termini più esigenti, congiuntamente all'elaborazione di un modello di ordine internazionale che muove da una valorizzazione profonda dell'individuo. L'obbiettivo è una società internazionale altamente complessa, in cui istituzioni statali e sociali convivano con istituzioni cosmopolitiche, prescindendo dalla costruzione di un centro di governo unitario. La proposta dei teorici della democrazia cosmopolitica muove dalla contestazione del modello di Westfalia, ritenuto inidoneo a cogliere le esigenze di democratizzazione del mondo contemporaneo. In luogo del modello westfaliano si propone un'articolazione delle istituzioni ispirata al criterio dell'interdipendenza tra arena politica nazionale ed arena politica internazionale, ed al superamento della logica interno/esterno. Il cosmopolitismo persegue l'ideale di un ordine giuridico globale in cui le persone godano di una condizione di eguaglianza per ciò che attiene alle istituzioni fondamentali del sistema giuridico, in primis l'eguaglianza di trattamento giuridico e la tutela dei diritti della persona. La realizzazione dell'aspetto prettamente politico del progetto cosmopolitico richiede, poi, un processo di diffusione del potere con la creazione di una governance poliedrica; una rete di centri per la discussione democratica che vada dal locale al globale; la creazione di una forza militare internazionale. Sul versante economico, il progetto cosmopolitico richiede la revisione dei meccanismi di scambio; un sistema di tassazione globale; il trasferimento di risorse a favore degli svantaggiati. Il successo di tale progetto poggia, infine, anche sulla componente culturale, consistente nell'alimentare negli individui, in virtù della condizione di multiple citizenship di cui godono, essendo essi cittadini sia rispetto ad una comunità politica che rispetto alle istituzioni globali, la capacità di mediare fra le diverse tradizioni nazionali, tra le diverse comunità di destino e i diversi stili di vita. La dimensione dell'identità individuale e la possibilità di creare forme di lealtà politica poggianti sulla rielaborazione critica delle identità locali. La prospettiva non manca di presentare alcune difficoltà concettuali e tecniche. Ad esempio, la creazione di una seconda Assemblea delle Nazioni Unite, proposta da taluni esponenti del cosmopolitismo, si giustifica esclusivamente sulla base del presupposto che gli stati rappresentati si reggano tutti su un sistema politico democratico al loro interno. La realtà della comunità internazionale è, però, diversa e l'implementazione della proposta determinerebbe il paradosso per cui rafforzare le procedure di decisione democratica a livello internazionale significherebbe non solo fallire nel tentativo di portare la democrazia nella Comunità internazionale, ma persino lasciare maggiore spazio rappresentativo agli stati non democratici. Il fallimento cui si espone la proposta cosmopolitica sembrerebbe, così, confermare la tesi di quanti affermano l'impossibilità di una democrazia a livello internazionale o, quantomeno, la 51 dipendenza di quest'ultima dalla democrazia interna degli stati. Tre risultano essere i nodi nevralgici per la strutturazione del concetto di democrazia internazionale: la concezione del diritto internazionale, la concezione delle relazioni internazionali e l'individuazione dei soggetti della giustizia internazionale. L'idea che gli stati siano i soggetti della giustizia internazionale non rinvia, nella proposta che si intende proporre, a quella linea di pensiero che individua nell'orizzonte della comunità politica l'ambito di legittimazione del giusto e nello stato-apparato l'insieme esclusivo dei mezzi per garantire la giustizia. Rispetto al sistema normativo internazionale, tale prospettiva assume il concetto di giustizia in una accezione estremamente debole, tale per cui l'ordinamento internazionale risulta legittimo se tale da rispettare tre requisiti: la chiarezza, la coerenza e 'adesione che alle norme viene data, nella consapevolezza che si tratta di norme che vincolano gli stati nei confronti della Comunità internazionale. Il modo più corretto di fornire una modellizzazione del diritto internazionale odierno procede, a mio parere, secondo un paradigma che integra il modello di Westfalia e il modello della Carta delle Nazioni Unite. Si vuole, in tal modo, sottolineare l'evoluzione subita dal diritto internazionale, a seguito della quale esso sarebbe divenuto: a) meno formalista e più aperto alle esigenze etiche ed alle finalità del diritto e della giustizia; b) meno neutrale e più sensibile ai valori comuni legittimati collettivamente dalla comunità internazionale; c) meno volontarista per la crescente disponibilità a riconoscere norme imperative, valide indipendentemente dalla volontà dei singoli stati. Infatti, secondo il modello della Carta delle Nazioni Unite: - soggetti nel diritto internazionale non sono più soltanto gli stati, ma anche i singoli individui, indipendentemente dalla loro condizione di cittadini di uno stato, i gruppi e i popoli, le organizzazioni non governative; - la sovranità statale risulta subordinata al mantenimento della pace e della sicurezza e alla tutela dei diritti umani, obbiettivo, questo, rispetto al quale l'UDHR fornisce un impulso imprescindibile; - il principio di reciprocità, cardine dell'assetto del diritto internazionale inteso come diritto inter- nationes, risulta indebolito quanto siano in gioco i diritti umani. Non possiamo però dire che si sia giunti alla piena attuazione di tutti i punti del modello ora richiamato, in particolare ciò che vale per il primo punto. Allo stadio attuale, gli individui, i gruppi e anche i popoli sono per lo più soggetti in senso passivo, in quanto destinatari diretti di norme internazionale e solo eccezionalmente godono della capacità di agire in giudizio a livello internazionale. Ciò indica che non è possibile disgiungere l'attenzione per la giustizia internazionale da quella per la struttura interna degli stati, i quali sono soggetti della giustizia internazionale in senso sia attivo che passivo. Una teoria normativa della giustizia internazionale che si proponga di incidere sulla valenza tradizionalmente assegnata alla sovranità statuale, non dovrebbe prescindere dalla ricerca della possibilità di confutare la concezione realistica dello stato e, anzi, da lì dovrebbe prendere le mosse. Quest'ultima non trae la propria validità e la propria superiorità da una maggiore plausibilità empirica. L'idea degli stati come “nomadi” mosse esclusivamente dall'auto-interesse non è, quindi, più plausibile, ma semmai lo è meno, di altri modi di concepire i rapporti inter-statali. L'interdipendenza complessa può e deve essere letta come condizione in grado di creare un 52 democrazia come libere elezioni ma anche protezione dei diritti e delle libertà, rispetto della legalità e garanzia delle libere discussioni. Si può ritenere che questo significato sia in realtà l'esito espresso da uno specifico modello di democrazia, la democrazia costituzionale. L'analisi delle condizioni che rendono esperibile a livello internazionale un genuino contesto di giustizia riconfermano la necessità di mantenere distinto, nell'analisi e nelle valutazioni conclusive dei fenomeni connessi alla trasformazione del diritto internazionale, il profilo della legittimazione democrazia da quello della legalità e dai diritti umani. Il punto che emerge è l'importanza dell'interrelazione fra i livelli normativi: quello interno, da un lato, e quelli sovranazionale e internazionale, dall'altro. Detta interrelazione emerge sotto il profilo della definizione del contesto di giustizia, dove una drastica separazione tra piano interno alla comunità politica e piano internazionale risulta difficile da sostenere; emerge, poi, se si considerino i rapporti tra ordinamento degli stati membri e ordinamento comunitario con riferimento alla tutela comunitaria dei diritti fondamentali; emerge, infine, rispetto alla tutela internazionale dei diritti. La concezione dualistica dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale necessariamente cade: - rispetto al contenuto delle norme, sempre meno differenziato sulla base di competenze rigidamente determinate; - rispetto ai destinatari delle norme, che organi, in misura variabile, anche per il diritto internazionale non coincidono più soltanto con gli stati. Anche nell'applicazione del diritto internazionale, dove un consistente grado di libertà è lasciato agli stati, va incontestabilmente crescendo il grado di interazione. Piano interno e piano internazionale tendono a porsi in linea di sempre più stretta continuità. Concentrare l'attenzione sulla società internazionale e sul diritto internazionale può servire per superare l'immagine dello stato come “medaglia a due facce”, verso l'interno e verso l'esterno. Peraltro, soltanto effettuando questo superamento si può pensare di contrastare la spiegazione volontaristica dell'autorità riferita alla società internazionale, quale mero risultato della volontà statale e dei rapporti di forza tra gli stati. È ora pertanto necessario soffermarsi brevemente sul concetto di società internazionale. Pur non potendosi configurare a rigore come una comunità, la società internazionale risulta descrivibile come un insieme di stati suscettibile di lasciarsi orientare da un nucleo di valori condivisi e dotato id un crescente grado di istituzionalizzazione. Ciò vale anche nella situazione internazionale attuale, post 11 settembre, nella quale l'istituzionalizzazione parrebbe avere subito una battuta d'arresto, se non una drastica involuzione. La società internazionale è dunque concettualmente rappresentabile nei termini di un insieme di entità sovrane ma interdipendenti, la cui convivenza è regolata dal diritto internazionale e dalla diplomazia, e che nel diritto internazionale possono progressivamente rinvenire inclinazioni circa interessi propri della comunità internazionale in quanto tale. Entro una società qual è quella internazionale, il perseguimento di valori fondamentali , di principi di giustizia, verrà costitutivamente a scontrarsi con le difficoltà di emersione stessa dell'interesse collettivo alla tutela di questi valori. Questo è quanto costringe ancora, anche di fronte alla inadeguatezza della rappresentazione westfaliana della sfera internazionale, a considerare il ruolo dello stato e le interazioni tra gli ordinamenti per comprendere la formazione di principi di giustizia validi per la comunità internazionale in quanto tale. Detto altrimenti: la società organizzata introno al diritto internazionale non si configura e non potrebbe configurarsi come una comunità globale, bensì come una comunità interstatale che persegue anche obbiettivi globali. 55 Di fatto, l'internazionalizzazione dei diritti umani si è finora costruita secondo un percorso gradualistico. Capitolo 4 L'internazionalizzazione dei diritti nell'età della globalizzazione 1. Introduzione I diritti umani sono visti ora come uno degli elementi-chiave della c.d. globalizzazione dall'alto -quando si assumono come dotati di un contenuto e di una validità dati e sempre già universali- ora come uno degli elementi-chiave della globalizzazione dal basso -allorché di essi si riconosce l'universalità soprattutto potenziale ed il loro radicamento entro specifici contesti, nell'ottica di un processo di emancipazione implicante l'affermazione di principi universalizzanti. Sempre più spesso la riflessione intorno ai diritti umani, alla loro estensione, finisce col ridursi ad una affrettata difesa della possibilità di allargare lo spazio della loro affermazione oppure ad una critica che nell'estensione dei diritti ravvisa sempre un'operazione retorica, dietro la quale si celerebbero intenti di matrice imperialistica. Il presupposto principale di entrambe le prospettive può ricondursi a un'idea statica dell'universalità dei diritti così come principi di giustizia. Dal punto di vista che qui si intende difendere, invece, i diritti umani sono, di volta in volta, il frutto della convergenza delle varie culture giuridiche intorno ad un nucleo irrinunciabile di principi, che va assumendo concretezza attraverso molteplici processi di tipo giuridico, politico e sociale. 2. La nozione di globalizzazione Il concetto di globalizzazione si presenta come un concetto proteiforme, dal significato fortemente indeterminato. In primo luogo, l'idea di globalizzazione costringe a considerare seriamente l'interdipendenza, quale dato imprescindibile di realtà, riguardante la sfera politica, quelle economica, socio-culturale e giuridica. Non esiste una definizione di globalizzazione che sia unanimemente accettata né esaustiva: il termine rinvia ad un fenomeno multidimensionale, il cui tratto principale è senz'altro quello economico, ma che va sempre più manifestando importanti conseguenze sul terreno delle interazioni sociale, delle istituzioni politiche e del diritto. In generale, la globalizzazione è intesa come un complesso insieme di processi legati: a) alla contrazione del mondo, cioè al rapido abbattimento delle distanze e della loro rappresentazione sociale, reso possibile e costantemente accresciuto dallo sviluppo delle tecnologie della comunicazione, dall'imponente riduzione dei tempi e dei costi dei trasporti e delle comunicazioni, nonché dalla riduzione delle barriere nella circolazione dei beni, dei servizi e dei capitali; b) all'intensificarsi dell'interdipendenza, determinata dalla compressione spazio-temporale, per effetto della quale eventi lontani nello spazio possono avere, e generalmente hanno, ricadute a livello locale e viceversa. In questo senso, l'effetto più generale della globalizzazione sarebbe allora quello di “attenuare il rilievo dello spazio territoriale e di ridisegnare i confini del mondo senza tuttavia abbatterli”; c) alla conseguente circolazione su scala globale dei modelli culturali. Il termine globalizzazione denota una trasformazione nella scala dell'organizzazione della società, oltre che degli stati. Secondo alcune letture, la globalizzazione è ravvisabile in un insieme di fenomeni radicalmente 56 nuovi; secondo altre letture (minoritarie), esse sarebbero semplicemente una nuova forma assunta dai fenomeni di osmosi tra le culture e dagli scambi commerciali che da sempre caratterizzano l'evolvere della civiltà umana. Va detto che, quella che è certamente una caratteristica intrinseca al mercato, assume però una valenza certamente nuova per effetto dell'intensificarsi dell'interdipendenza. Se è vero che strutturalmente inerisce all'economia la capacità di oltrepassare i confini territoriali, le conseguenze di questa capacità assumono una valenza specifica in un momento in cui le forze e la logica dell'economia non solo oltrepassano i territori ma anche eludono o influenzano la politica. Considerata come fenomeno essenzialmente economico, la globalizzazione si esprime nella delocalizzazione delle funzioni produttive da parte delle imprese, nell'intensificarsi dell'integrazione fra i mercati, nella globalizzazione dei flussi finanziari. Sotto il profilo giuridico, gli effetti principali dei processi di globalizzazione si manifestano in vari modi: (1) Attraverso la deformalizzazione delle fonti e dei criteri identificanti il diritto. Sotto questo profilo, all'indebolimento dello stato corrisponde l'affacciarsi sulla scena giuridica di attori non- statali, che assumono anche una funzione di produzione normativa (si pensi alla nuova lex mercatoria). Alla proliferazione dei centri produttori di diritto non si accompagna, oggi, l'assenza dello stato. Oggi gli stati risultano forse indeboliti, la loro sovranità deve essere ristrutturata in relazione ad una distribuzione meno lineare e più articolata delle competenze, ma sono tutt'altro che assenti. Di qui la difficoltà insita nel tentativo stesso di decodificare i fenomeni connessi alla globalizzazione e la loro ambiguità di fondo. (2) La globalizzazione incide sulla cristi della sovranità, già per effetto di altre spinte, quali l'esplosione dei particolarismi interni agli stati nazionali, per un verso, e la crescente sottrazione allo stato di quote di sovranità eterna in alcune materie fondamentali, per altro verso. (3) Gli effetti della globalizzazione riguardano il mutamento del rapporto tra diritto e territorialità a favore del rapporto tra diritto e spazialità: il passaggio allo stato moderno avviene con la monopolizzazione della produzione del diritto. È proprio questa identificazione tra stato e diritto che ha portato ad assegnare al diritto un carattere territoriale (il territorio è il luogo della sovranità statale). La spazialità è, invece, la categoria con la quale il diritto ha affrontato l'interconnessione. Particolarmente soggetto alla forza centripeta che lo allontana dalla territorialità risulta essere il diritto commerciale, sempre più orientato verso la spazialità creata da esigenze di omogeneità e coerenza delle norme in senso trasnazionale. Tre sono, per tanto, i livelli da considerare quando si analizzano gli effetti della globalizzazione: - il modo in cui i processi di interconnessione economica, politica, giuridica e militare stanno mutando la natura, la sfera di azione e la capacità di operare dello stato dall'alto, via via che la sua capacità regolativa viene ridotta o modificata; - il modo in cui gruppi, movimenti e nazionalismi locali e regionali vanno contestando lo stato- nazione dal basso; - il modo in cui l'interconnessione globale crea catene di decisioni ed esiti politici fra gli stati e i loro cittadini. Sul piano della valutazione del fenomeno, tre sono le principali prospettive sulla globalizzazione. 1. Gli oppositori, che giudicano la globalizzazione come una mera costruzione ideologica finalizzata a mascherare quella che è in realtà una forma di neo-liberismo. In questa prospettiva, il concetto di globalizzazione opera come “mito necessario” per adattare le scelte regolative interne agli stati alle esigenze del mercato globale. 2. I fautori della globalizzazione, i quali respingono l'idea che essa possa venire ridotta mera 57 capacità di influire sulla formazione stessa delle norme giuridiche, entro lo spazio rappresentato dal diritto transnazionale. In questo senso si deve ricordare quanto detto a proposito della c.d. nuova lex mercatoria, come fenomeno nel quale si manifesta la capacità di autoregolamentazione e di produzione normativa da parte delle imprese transnazionali. Le imprese assumono la caratteristica di imprese transnazionali nel senso rilevante per gli strumenti del diritto internazionale che ci accingiamo ad analizzare quando: - la loro attività è in grado di toccare individui, comunità e ambiente non solo nello stato di appartenenza, ma anche nei paesi ospitanti; - la loro dimensione economica ed organizzativa le porta ad interagire con i governi. Il potere quasi-politico può essere articolato seguendo lo schema seguente: a) potere strumentale, ovvero la capacità di influenzare i fini della decisione politica e dell'attività regolativa; b) un potere strutturale, che può essere passivo, consistente nella capacità di influenzare l'input delle decisioni politiche, oppure attivo, consistente nella produzione normativa; c) un potere persuasivo, ovvero il potere di influenzare le policies e il processo politico dando forma a norme e idee. L'esercizio di questo potere esprime l'acquisizione di legittimità politica e da parte delle imprese. La consapevolezza di ciò ha indotto il diritto internazionale a strutturare dei percorsi di responsabilizzazione, sia indiretta che diretta, delle imprese verso i diritti umani. Le imprese, da un lato, manifestano la capacità di eludere determinate norme degli ordinaemnti interno, potendo esercitare forme di “shopping giuridico” (lex shopping e forum shopping). Ancora, in forza dell'”opacità” derivante dalla loro struttura giuritica, spesso quella della holding e per lo più tale da godere della caratteristiche della responsabilità limitata, il legame di fatto esistente fra impresa controllante e imprese controllate ha natura fattuale e non emerge sotto il profilo formale, con conseguente difficoltà in sede di riscontro delle responsabilità in caso di violazione dei diritti. Dall'altro lato, esse, non possedendo il carattere della personalità giuridica internazionale, risulta in buona misura invisibili a quest'ultimo. È crescente un'attenzione nei confronti delle situazioni in cui siano attori privati come le imprese, e in particolare le imprese transnazionali, per le due caratteristiche ad esse proprie sopra sintetizzate, a poter violare i diritti umani. Il fatto che esse possano non solo eludere i parametri di protezione dei diritti fissati dall'ordinamento dello stato di appartenenza (home state), ma anche operare entro contesti del tutto privi di garanzie dei diritti, attribuisce loro una specifica importanza. Con riferimento all'ordinamento internazionale, buona parte della discussione di questo tema dipende dal significato conferito al concetto di effetto orizzontale dei diritti. In linea generale, l'art 30 della Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo, in base al quale: <Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di un qualsiasi stato, gruppo o persona di esercitare un'attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuno dei diritti delle libertà in essa enunciati> l'art 2(3)(a) del Patto internazionale sui diritti civili e politici, che recida: <Ciascuno degli stati parti del presente Patto s'impregna a: (a) garantire che qualsiasi persona, i cui diritti o libertà riconosciuti dal presente Patto siano stati violati, disponga di effettivi mezzi di ricorso, anche nel caso in cui la violazione sia stata commessa da persone agenti nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali> e similmente l'art 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali configurano la possibilità di una applicazione ai rapporti tra soggetti non statali. 60 Diritto alla libertà di pensiero, di associazione […] sono certamente diritti che valgono orizzontalmente. Altri diritti, quali il diritto ad un adeguato standard di vita, alla protezione delle minoranze, possono vantare un effetto orizzontale, ma è dubbio se da ciò si possano fare derivare conseguenze per la riconfigurazione della responsabilità degli attori privati. Due sono i possibili approcci: a) il primo afferma il principio per cui la protezione internazionale degli individui dagli atti privati che minacciano i loro diritti costituisce un obbligo internazionale dello stato; b) il secondo evidenzia che la distinzione fra atti pubblici e atti privati possa essere talora difficilmente tracciabile e che escludere la sfera privata della competenza del diritto internazionale dei diritti umani porti a notevoli svantaggi per le vittime delle violazioni dei diritti commesse da attori privati. La discussione intorno all'esistenza di un effetto orizzontale dei diritti umani risulta presenta sin dai lavori preparatori del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966. riferita all'ordinamento giuridico internazionale, la questione dell'effetto diretto dei diritti umani intrattiene evidenti legami con la definizione dei soggetti giuridici e della personalità giuridica nel diritto internazionale. Nel caso delle imprese transnazionali, la nozione di personalità giuridica assume una valenza di peculiare complessità. Due risultano essere le posizioni finora rilevabili nella riflessione giuridica, a seconda che dall'assenza di personalità giuridica venga o meno conclusa anche l'assenza di una qualche forma di responsabilità delle imprese. Ancora, nel secondo caso, due possono essere i percorsi argomentativi adottati. Un percorso è incardinato su di una concezione del diritto internazionale in cui si presti attenzione al fenomeno di moltiplicazione degli attori in vario senso e a vari livelli rilevanti, al di là della loro classificazione (soggetto/oggetto) e invece valorizzando il loro ruolo di partecipanti ai processi della sfera internazionale. Quanto al rapporto fra responsabilità e personalità giuridica delle imprese, tre sono le tesi rintracciabili. La prima nega la possibilità di ascrivere responsabilità in ragione dell'assenza di personalità giuridica. La seconda, senza prendere posizione sul processo della personalità giuridica da parte delle imprese, ammette l'ascrivibilità a queste ultime della responsabilità per atti di violazione dei diritti umani. La terza cerca di indebolire il contenuto della nozione di personalità giuridica, proponendone una graduazione che tenga contro della capacità delle imprese di influenzare le dimensioni politica e macroeconomica e di partecipare all'evoluzione del diritto internazionale, sicché alle imprese dovrebbero essere attribuita la responsabilità per violazione dei diritti umani. Un ulteriore problema è rappresentato dai criteri da seguire per la definizione della responsabilità nel caso di gruppi di società aventi la forma della holding, ovvero dove una società ha il ruolo di capogruppo rispetto ad altre e dove la responsabilità per la violazione dei diritti umani potrebbe risultare di difficile attribuzione. Il rischio di impunità rispetto a violazioni dei diritti umani commesse da imprese transnazionali che si diano la forma del gruppo di società può essere specifico ed elevato. Al principio della separazione giuridica fra controllante e controllate si va, a livello di ordinamento comunitario, contrapponendo la c.d. “enterprise entity doctrine”, che procede attraverso il “sollevamento” del “velo societario” (corporate veil) prodotto dalla responsabilità delle imprese costituenti un gruppo a partire dal fatto dell'integrazione economica e della sussidiarietà, ma si tratta di una linea allo studio emergente in sede giurisprudenziale. Vi è, dunque, accordo nel constatare e riconoscere che le imprese transnazionali sono nella 61 posizione di eludere le norme sui diritti umani, come anche di concorrere alla loro protezione e realizzazione. A livello internazionale, già a partire dagli anni Settanta del Novecento, si va facendo strada una strategia mirante alla creazione di strumenti di soft law, al fine di coinvolgere le imprese nella promozione dei diritti fa sì che vi sia lo spazio per riflettere intorno all'opportunità ed alle forme di tale coinvolgimento. b) Gli strumenti internazionali in materia di diritti umani e imprese: caratteristiche e logica di fondo La produzione di strumenti orientati a disciplinare la condotta delle imprese transnazionali in materia di diritti umani è stata promossa, a partire dagli anni '70, da varie organizzazioni internazionali, intergovernative e non. Si pensi all'International Labour Organization (OIL) con la Tripartite Declaration on Fundamental Principles and Rights at Work (1977) e con i Principles Concerning Transnational Corporations and Social policy (2011), per quanto attiene la tutela dei lavoratori. La Tripartite Declaration è uno strumento volontario rivolto a stati, organizzazioni sindacali e imprese che affronta le questioni salienti connesse al nodo diritti umani -condizione del lavoratore. Un secondo esempio di strumento prodotto da un'organizzazione internazionale, in questo caso intergovernativa, è dato dalle Giuidelines for Multinational Enterprise promosse dall'Economic Corporation and Development (OECD), che è rivolto agli stati e si pone quale quadro per il perseguimento dell'obbligo di protezione dei diritti in capo ad essi; l'Interntional Chamber of Commerce (ICC), che con la Business Charter for Sustainable Development si rivolge direttamente alle imprese per orientarne il comportamento intorno ad obbiettivi e principi non immediatamente economici. L'attività normativa che va in tal senso sviluppandosi nell'ambito dell'ordinamento internazionale evidenzia un interessante mutamento di prospettiva, in virtù del quali il diritto internazionale, tradizionalmente rivolto agli stati o alle organizzazioni internazionali, tende ad imporre obblighi anche in capo ad attori privati. Parallelamente, nell'ambito dell'etica degli affari, si è affermato il paradigma della responsabilità sociale d'impresa (RSI). Esso muove dall'idea secondo cui l'impresa non avrebbe soltanto obblighi di tipo economico (realizzare profitto) né solo di tipo giuridico (verso dipendenti, fornitori, consumatori) scaturenti da norme formalmente vincolanti, ma avrebbe anche obblighi di tipo morale e sociale, verso tutti i soggetti (stakeholders) in qualche modo e a vario titolo toccati dalla sua attività. La risposta delle imprese al riconoscimento di tale responsabilità sociale può essere fornita, secondo il paradigma in oggetto, attraverso la messa a punto e l'impiego, nella concreta organizzazione e azione dell'impresa, di strumenti volontari, tra loro diversi, quali i codici etici, la rendicontazione sociale, il marketing sociale etc. Il punto di contatto fra tutela dei diritti umani e paradigma della RSI diviene esplicito all'interno delle stakeholders theories, laddove si tratti di individuare i soggetti qualificabili come stakeholders. Stakeholders è: - chi ha un interesse o una pretesa rivendicabile nei confronti dell'impresa; - qualsiasi gruppo o individuo che possa incidere sulla, o che sia toccato dalla, realizzazione dei fini dell'impresa; - qualsiasi individuo o gruppo verso il cui livello di benessere le decisioni dell'impresa risultano avere un ruolo di responsabilità causale. Proprio nella definizione di stakeholders il riferimento ai diritti umani risulta centrale. Sulla scorta della definizione fissata nel Libro Verde dell'UE, per “responsabilità sociale d'impresa” 62 Rispetto a contenuti tutelati attraverso diritti dotati di effetto orizzontale, gli strumenti etici della RSI dovrebbero essere intesi come un sostegno a favore di una più ampia efficacia delle norme giuridiche. Rispetto, invece, a diritti che non godano di effetto orizzontale, lo strumento etico può svolgere una funzione chiave, capace non solo di aumentare le possibilità di rendere effettivi gli obblighi, ma anche di concorrere in via decisiva alla loro individuazione. Si può, allora, affermare che, quando vengono in rilievo obblighi positivi il riferimento alla RSI svolge un ruolo essenziale ed autonomo rispetto agli strumenti giuridici, i quali mancano invece delle possibilità di controllare o condizionare la condotta delle imprese. L'ascrizione di doveri positivi ad attori privati manca di legittimazione giuridica, fondamentalmente a causa dell'assenza di un effetto orizzontale dei diritti, quando essi implicano obblighi positivi. È così possibile formulare una critica al modo in cui si è venuta costruendo la convergenza tra paradigma della RSI e gli strumenti di soft law impiegati dal diritto internazionale per accostare il problema della responsabilità giuridica degli attori privati in caso di violazione dei diritti umani. In altri termini, le fonti di soft law del diritto internazionale contraddicono, in questa materia nevralgica per la responsabilizzazione delle imprese, l'idea dell'effetto orizzontale dei diritti, invece ricavabili dalle fonti di hard law, fintantoché si tratti di un profilo dei diritti che comporta obblighi negativi. Ad esempio, affermando che le imprese “dovrebbero”rispettare i principi e le linee guida volontariamente accettate, le linee-guida prodotte dall'OECD rischiano di far dimenticare che tali principi sono anche il nucleo dei diritti civili aventi un prevalente profilo negativo (divieto di impiego di lavoro minorile, o di lavoro forzato) come tali capaci di imporre obblighi non solo verticalmente nei confronti degli stati, ma anche orizzontalmente tra i consociati. Nelle fonti di hard law, invece, il diritto internazionale va manifestando una tendenza tanto verso l'individuazione di una responsabilità degli stati quando non controllino la condotta di imprese transnazionali operanti sul loro territorio quanto verso la responsabilizzazione diretta delle imprese stesse. In questo senso, è possibile, pertanto, individuare nell'UN Protect, Respect and Remedy framework una battuta d'arresto, una involuzione rispetto a tale tendenza, nella misura in cui muove dalla esplicita qualificazione degli obblighi di rispetto in capo alle imprese in termini esclusivamente morali, non giuridici. È tuttavia necessario rispondere ad un ultimo interrogativo: gli obblighi correlativi ai diritti valgono nel triplice senso indicato (ovvero nel senso del rispetto, della protezione e della promozione attiva) sia per lo stato che per gli attori privati? Riprendendo l'esempio del diritto alla salute, nel quadro fornito dal Comitato sui diritti economici, sociali e culturali, si può osservare come agli attori non statali sia sostanzialmente affidato un ruolo di sostegno all'azione statale. I principali destinatari degli obblighi correlativi, individuati lungo tutto lo spettro del rispetto, della protezione e della realizzazione, sono principalmente ed essenzialmente gli stati. Dal punto di vista giuridico, pertanto, dovremmo concludere che gli obblighi correlativi positivi, siano essi riferiti a diritti civili o a diritti sociali, non godono di un effetto orizzontale. Tra i destinatari di tali obblighi non possiamo annoverare gli attori privati. Ciò non significa che le imprese non possano promuovere programmi miranti a sostenere politiche pubbliche per la garanzia dei diritti. Assai discutibile è, invece, che tale sostegno: i) possa essere giustificato come effetto di un obbligo giuridico e ii) possa spingersi sino a configurare condotte radicalmente proattive. Inoltre, ci si dovrebbe interrogare sulla desiderabilità della scelta di ascrivere ad attori privati il compito dell'attuazione ex nihlo dei diritti, particolarmente se si tratta di diritti sociali implicanti 65 obblighi positivi. Emergono tuttavia alcuni problemi legati alla possibilità stessa che attori economici possano adeguatamente assolvere al compito così configurato. Questi i principali problemi: - la stessa individuazione degli stakeholders può rilevarsi un'operazione complessa; - con lo spostamento al livello delle questioni sociali, l'obbiettivo della responsabilità sociale non è più tanto l'equilibrio tra gli interessi di breve termine dell'impresa, da un lato, e le esigenze di determinati stakeholders, dall'altro, quanto piuttosto la messa a punto di complessi sistemi di rilevazione dei bisogni e di intervento, capaci di tendere conto di variabili molteplici e multidimensionali. Al di là degli specifici problemi posti dal raccordo tra strumenti di soft law, data l'influenza che le attività e le decisioni economiche rivestono anche rispetto all'organizzazione sociale e politica, e considerato il peso che gli attori non statali hanno acquisito in tale contesto, è estremamente importante che il diritto internazionale metta a punto anche modalità flessibili per potenziare i percorsi di accountability nei confronti dei diritti umani. 4. L'individuo fra diritto internazionale e diritto globale La spinta all'universalizzazione dei diritti umani implica il potenziamento e l'ampliamento degli elementi cosmopolitici nella definizione delle sfere della giustizia. Qui l'idea di sfera è introdotta con riferimento ai soggetti, ai contenuti e all'ambito di applicazione: per tutti questi elementi la positivizzazione dei diritti umani implica una vera e propria espansione. Fra le teorie della giustizia, il cosmopolitismo è senz'altro quella che si caratterizza per riconoscere uno spazio centrale all'individuo. Il cosmopolitismo istituzionale stabilisce i requisiti che le istituzioni e le pratiche politiche e giuridiche devono rispettare per agire in conformità con i principi di giustizia. In questa sua versione, il cosmopolitismo elabora parametri di valutazione degli assetti istituzionali e ne considera gli effetti sugli individui, rifiutando di assumere come elemento in qualche modo rilevante l'appartenenza dei singoli a comunità politiche. Il cosmopolitismo istituzionale muove da tre presupposti: 1. l'individualismo metodologico ed etico, in base al quale l'unità di riferimento per l'analisi teoria delle questioni di giustizia è l'individuo ed all'interno di queste ultime i bisogni, gli interessi i valori individuali debbono ricevere un'attenzione prioritaria; 2. l'universalismo consistente nell'accoglimento del principio della pari dignità di tutti gli esseri umani; 3. l'eguaglianza, in base alla quale tutti gli individui debbono essere trattati come eguali a prescindere dalla separazione tra le comunità politiche, giudicata moralmente irrilevante. In questa prospettiva, i problemi di giustizia devono essere affrontati secondo un'ottica intrinsecamente globale. Il ruolo centrale che tale prospettiva assegna agli individui in quanto soggetti della giustificazione internazionale emerge pienamente con la proposta di modifica alle istituzioni internazionali, e principalmente all'ONU. È dei fautori del cosmopolitismo la proposta di istituire una seconda Assemblea, i cui membri rappresentino i cittadini di tutti gli stati. L'elemento importante è che essi riconoscano agli individui il ruolo di soggetti centrali della governance democratica, in quanto titolari di diritti umani. L'obbiettivo è quello di rendere formulabili, di fronte alla comunità internazionale, istanze individuali capaci di porsi in termini trasversali rispetto all'orizzonte logico, giuridico e politico degli stati. La consapevolezza di questo ci permette di comprendere per quale ragione la lotta per 66 l'affermazione dei diritti umani debba proseguire nello spazio globale. Certo, entro questo nuovo spazio globale, il percorso di affermazione dei diritti è costantemente chiamato a confrontarsi con i vari “segnali di confine” materiali e immateriali, con il proliferare di nuovi status, che non scompaiono e invece tendono a presentarsi secondo nuove forme. Il controllo dell'immigrazione, la garanzia dei diritti dello straniero; la garanzia dei diritti procedurali nei confronti di soggetti vulnerabili, che tendono a moltiplicarsi, anziché ridursi, innanzitutto all'interno delle comunità politiche, per effetto di varie dinamiche di “flessibilizzazione” all'interno e all'esterno, dei confini. La distinzione kantiana tra i percorsi del diritto internazionale e quelli del diritto cosmopolitico sembra destinata ad attenuarsi, a fronte di un intreccio sempre più profondo tra i due ambiti. Capitolo 5 Diritti dei popoli, diritti collettivi, diritti culturali 1. I popoli nel diritto internazionale e il diritto all'autodeterminazione Un importante aspetto del processo di moltiplicazione dei soggetti nella sfera internazionale sviluppatosi a partire dalla svolta della carta Onu riguarda i popoli. La condizione del popolo nel diritto internazionale è legata al destino del principio, diritto di autodeterminazione. Gli articoli 1 e 55 della carta delle Nazioni Unite sanciscono il diritto all'autodeterminazione dei popoli, poi ripreso dall'articolo uno del patto sui diritti economici, sociali e culturali. Nella carta del 1945 non viene enunciato come un obbligo da ottemperare nell'immediato, ma piuttosto come un programma d'azione; l'autodeterminazione non viene concepita come un fine in sé, quanto piuttosto in senso strumentale alla garanzia della pace della sicurezza internazionale. A partire dagli anni 50 del novecento il concetto di autodeterminazione viene assunto come obbligo in capo ad un governo che occupa un territorio non suo di lasciare che il popolo possa determinare il proprio destino. Ancora oggi il principio gode di un campo di applicazione ristretto e si esplica soprattutto nella forma della autodeterminazione esterna, ovvero nei confronti di popoli sottoposti ad un governo straniero. L'autodeterminazione interna sembra non trovare spazio nell'attuale diritto internazionale. L'esistenza, all'interno di uno Stato, di un regime che possa dirsi rappresentativo del popolo, in quanto non straniero, soddisfa il principio di autodeterminazione. Se le concezioni progressiste del diritto internazionale hanno annoverato tra i soggetti di quest'ultimo, oltre agli Stati, anche gli individui, i gruppi ed i popoli, va detto che, sotto il profilo teorico, il concetto di popolo presenta delle specifiche difficoltà, anche rispetto a quello di gruppo. Questo spiega perché i popoli si configurano effettivamente come soggetti del diritto internazionale sono i casi limitati, solo in casi rinvianti a gravi violazioni dei diritti umani, perlopiù connesse norme dello ius cogens. Risulta dalle tendenze interpretative consolidate che il diritto di autodeterminazione sia riservato i popoli, non anche alle minoranze, e che, per il timore che l'autodeterminazione possa legittimare istanze secessioniste, il contenuto di tale diritto venga limitato al profilo meramente esterno. Se i patti del 1966 fanno riferimento al diritto all'autodeterminazione ed al diritto al libero sviluppo della cultura riferendosi ai popoli senza ulteriori distinguo, le fonti che sviluppano il tema della tutela delle identità culturali fanno riferimento alle minoranze culturali. L'idea consolidata nel diritto internazionale è che l'autodeterminazione, nel suo significato prevalente, ovvero in quello esterno, sia un diritto atto a rilevare per i soli popoli degli Stati coloniali, degli stati sottoposti ad occupazione straniera o degli stati oppressi da regimi razzisti. 67 importanti relazioni con il tema dei diritti umani, sia sotto il profilo della garanzia sia sotto il profilo della giustificazione. La tutela delle differenze etniche, culturali, religiose e linguistiche compare all'interno dell'ordinamento giuridico internazionale nella forma dei diritti dei gruppi, essenzialmente classificabili secondo tre ambiti: l'ambito del diritto all'autodeterminazione, i diritti dei popoli indigeni, i diritti delle minoranze nazionali. Le fonti in materia sono sia Pat tizia che, nel caso del diritto all'autodeterminazione, consuetudinarie, di portata universale regionale, appartenenti sia la tipologia dell'hard law che a quella del soft Law. L'attenzione verso le minoranze etniche e i popoli emerge nella forma del divieto di discriminazione e nell'intento di promuovere l'assimilazione. Il dibattito contemporaneo sul tema del multiculturalismo ha evidenziato come l'aspetto pregnante per l'analisi delle forme di tutela giuridica dell'identità etnica culturale è rappresentato dal sostegno attivo il pluralismo. L'ordinamento internazionale ha considerato la tutela dell'identità rapportandosi a tre tipologie di soggetti: gli individui, le minoranze i popoli. La considerazione dell'identità culturale rispetto agli individui costituisce un esempio di specificazione dei diritti umani: il contenuto dei diritti così riconosciuti non presenta elementi innovativi ed è riconducibile ai diritti civili, ma ad essere sottolineata è la necessità di una protezione specifica per gli individui appartenenti a minoranze. La struttura dei diritti culturali riferite minoranze popoli parrebbe configurare un esempio del processo di moltiplicazione dei diritti: qui a mutare è il contenuto dei diritti. Sotto il profilo teorico giuridico, laddove si guardi alle modalità di funzionamento, alla possibilità di garanzie ed alle conseguenze giuridiche dei diritti in parola, non è tanto la titolarità ad essere decisiva, quanto piuttosto l'esercizio e la capacità di agire per il godimento di quanto previsto dalle norme in materia. Da questo punto di vista, i diritti culturali emergono come specifica categoria di diritti solo nella misura in cui sono concettualizzarlo con i diritti collettivi, perché passibili di essere esercitati dal gruppo in quanto tale. Fintantoché i diritti impongono obblighi di non discriminazione la titolarità ed il godimento possono essere individuali. Quando si passa a considerare gli obblighi correlativi positivi richiesti dalla tutela della lingua e delle tradizioni di un gruppo etnico culturale è evidente che i bisogni in cui i diritti rispondono e le misure attuative non possono non assumere un carattere intrinsecamente collettivo (Diritto dei gruppi). Non è improprio parlare dei diritti dei gruppi come del risultato di un processo di moltiplicazione dei diritti umani. È possibile superare la questione della titolarità, riconoscendone il carattere collettivo del loro esercizio la loro specificità. Il riconoscimento della natura collettiva dei diritti dei gruppi attribuisce rilievo ad una delle conseguenze più problematiche: la possibilità che tali diritti si trasformino in strumento oppressivi verso la libertà dei membri del gruppo stesso. V'è chi sostiene che l'individuo dovrebbe, tramite il diritto internazionale (e in particolare tramite diritti umani), acquisire la libertà di aderire a molteplici forme culturali. Il diritto a godere della propria cultura di origine dovrebbe essere esteso sino ad includere il diritto a godere della cultura che si sceglie o a godere di molte culture. Sul piano filosofico, i modi di guardare a tali diritti sono essenzialmente di due tipi. Da una prospettiva liberale, le richieste riassunte entro il concetto di diritti culturali non sarebbe tale da legittimare la formazione di una specifica categoria di diritti fondamentali o di diritti umani volte alla tutela dell'identità culturale. In una prospettiva più debole un individuo che venga privato di un contesto culturale, di un 70 complesso di tradizioni e eventualmente della possibilità di praticare una religione, sarà privato della base necessaria per autocomprendersi, per compiere scelte autentiche, all'insegna della libertà. I diritti culturali vengono difesi come categoria di diritti umani che si aggiunge ai diritti già tradizionalmente riconosciuti e che sarebbe finalizzata a proteggere e promuovere non tanto i singoli quanto piuttosto e prioritariamente le culture al cui interno i singoli possono ritrovare gli elementi per la costruzione dell'identità. Le differenze nelle richieste di riconoscimento nelle risposte che in termini di diritti soggettivi potrebbero venire ad esso fornite si pongono a vari livelli con riferimento al contenuto, alla struttura, alla titolarità ed alla giustificazione. quanto al contenuto, le richieste sintetizzata nella lettura teorico filosofico giuridica sui diritti culturali possono comprendere: A) la categoria delle immunità, ovvero l'esclusione di individui appartenenti a specifiche comunità religiose ed etniche dall'obbligo di osservare determinate norme, nell'intento di garantire loro la libertà nella sfera privata in termini che tengano conto di specifiche esigenze religiose culturali. Dagli interventi terapeutici per i testimoni di Geova all'obbligo scolastico per gli Amish. La logica dell'immunità non riguarda soltanto individui ma anche i popoli indigeni. B) la promozione attiva delle culture, che si esplica mediante azioni positive e tendenti a fornire i mezzi per garantire la sopravvivenza della lingua di una minoranza. Tali misure sono motivata dall'esigenza di applicare il principio di uguaglianza sostanziale. C) le misure implicanti restrizioni della libertà degli individui esterni al gruppo destinatario della tradizione: ne sono un esempio la legge 101 del Quebec che impediva il ricorso alla lingua inglese per le insegne commerciali. D) le misure di riconoscimento del diritto tradizionale delle minoranze nazionali (in paesi come l'Australia per quanto riguarda il diritto di famiglia). E) I meccanismi di rappresentanza speciale per i gruppi aventi lo scopo di garantire la partecipazione alla vita politica. F) L'autogoverno prodotto attraverso secessione. Quanto alla titolarità dei diritti culturali, l'oscillazione può riguardare la possibilità di ascrivere tali diritti ai membri di minoranze etnico culturali in quanto individui oppure ai gruppi in quanto tali. Sotto il profilo della struttura giuridica le forme di protezione legate all'identità culturale coprono uno spazio molto ampio, che va dalle libertà negative alle azioni positive ed alle misure di promozione attiva. Vi è un'elevata possibilità che in alcuni casi la tutela delle differenze confliggono con categorie consolidate di dirti fondamentali. Le misure di promozione attiva presentano problemi rispetto ai criteri di legittimazione, giacché determinano conseguenze ed eventualmente costi anche per la maggioranza. Queste misure richiedono una base di legittimazione più forte. L'autogoverno (quando implica secessione) sposta immediatamente il problema sul piano internazionale. La categoria dei diritti culturali coagula richieste e risposte giuridiche tra loro così eterogenee quanto a contenuto, struttura, titolarità e giustificazioni da non poter pacificamente costituire una categoria dei diritti fondamentali. Intesi nel senso delle immunità, i diritti culturali includono entro la categoria dei diritti di libertà, il riferimento al fattore dell'appartenenza culturale o religiosa costituisce una mera specificazione delle ragioni che motivano il limite all'applicabilità della legge. Le misure di sostegno attivo ai gruppi e alle loro culture costituiscono modalità di promozione dell'uguaglianza sostanziale. L'aggiunta del riferimento a fattori dell'appartenenza culturale non 71 costringe ad ipotizzare un mutamento nella struttura dei diritti ascrivibili. Con riferimento alla loro previsione delle fonti internazionali, sul piano teorico giuridico, di diritti culturali come categoria specifica di diritti sarebbe corretto parlare a condizioni che essi risultassero ascrivibili in senso collettivo e non agli individui. La possibilità di qualificare un diritto come un diritto collettivo dipende dalla sua capacità di esprimere un contenuto che non sia già espresso da diritti fondamentali ascrivibili ad individui. Il lemma diritti culturali sarebbe da utilizzare esclusivamente per promuovere la positivizzazione di quei diritti riconosciuti da fonti internazionali o anche da fonti statali con l'obiettivo di difendere bisogni collettivi di vitale importanza per determinate minoranze. La legittimazione di misure miranti a proteggere minoranze implica che si riconosca un qualche peso all'elemento dell'appartenenza etnico culturale. L'espressione diritti culturali non dovrebbe indicare una categoria autonoma di diritti fondamentali, finalizzata a fornire garanzie speciali rivolte all'individuo e riconducibili a sfere della libertà e dell'uguaglianza già tutelate per mezzo dei tradizionali diritti costituzionali. Capitolo 6 Diritti umani e sviluppo tecnologico 1. Diritti umani, dignità e progresso tecnologico Le trasformazioni tecnologiche tendono, per un verso, a porre costantemente in discussione il contenuto dei diritti e, per altro verso, a richiedere la messa a punto dei meccanismi di garanzia. Alcuni esempi. La videosorveglianza, il cui impiego è sempre più diffuso e motivato dal terrorismo internazionale, costituisce una crescente e sottile minaccia alla privacy. Abituati come siamo, nel mondo occidentale, a dare per scontato un certo grado di libertà, rischiamo di dimenticare come la privacy rappresenti una condizione essenziale della partecipazione politica e per il godimento dell'eguaglianza formale. Senza adeguata tutela della privacy, però, le persone rischiano di essere più facilmente esposte alla possibilità di trattamenti discriminatori in ragione, ad esempio, delle loro opinioni, del credo religioso, delle condizioni di salute. Il progresso esperito negli ambiti delle biotecnologie, della riproduzione medicalmente assistita, della manipolazione genetica, ha sollevato e continua a sollevare rilevanti questioni concernenti l'individuazione dei principi in grado di giustificare la regolazione delle pratiche tecnicamente possibili, dei soggetti di diritto, del bilanciamento tra il contenuto dei diritti di volta in volta in gioco, dei fini da perseguire mediante l'innovazione tecnologica e della loro compatibilità con i diritti della persona, oltre che con i principi di solidarietà e di giustizia sociale. Lungo il percorso di tutela dei diritti umani in relazione ai progressi tecnologici, l'idea di soggetto viene spesso configurato per mezzo del riferimento all'idea di persona, la quale “diviene il tratto, anche formale, che consente di dare rilevanza alla materialità dei rapporti in cui ciascuno è collocato, ed alle relazioni sociali che lo caratterizzano”. L'idea di persona è la nozione attraverso la quale vanno riemergendo gli elementi di concretezza che il concetto di soggetto giuridico, con il passaggio alla modernità e con l'emergere del principio di eguaglianza formale, aveva implicitamente dichiarato irrilevanti. La nozione astratta del soggetto giuridico ha progressivamente manifestato la propria insufficienza rispetto al conseguimento di una piena eguaglianza nell'ambito della giustizia distributiva e del welfare e nell'ambito della particolare tutela richiesta dalla condizione di soggetti specifici, quali le donne, i minori, i portatori di disabilità. I limiti derivanti dall'astrattezza tipica dell'idea di soggetto giuridico diventano, tuttavia, particolarmente evidenti di fronte al progresso tecno-scientifico. 72 Vittorio Hosle ha, con uno slogan, affermato che <lo stato di diritto sociale e democratico deve essere al contempo uno stato ecologico>. Dallo specifico punto di vista della riflessione sui diritti umani, la questione ambientale solleva due fondamentali nodi problematici. In primo luogo, induce ad affrontare il tema della responsabilità nei confronti delle generazioni future e di un eventuale loro diritto ad un ambiente salubre e non depauperato dalla biodiversità. In secondo luogo, spinge a rivedere il paradigma entro il quale tradizionalmente il pensiero occidentale aveva collocato il rapporto tra essere umano e natura non umana, un paradigma essenzialmente derivato dalla prospettiva dell'individualismo possessivo di matrice lockiana. L'idea lockiana di proprietà finisce, infatti, per alimentare anche la visione della natura in termini di res nullis. Scriveva Locke: <Sebbene la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, pure ognuno ha la proprietà della propria persona, alla quale ha diritto nessun altro che lui. Il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani possiamo dire che sono propriamente suoi. A tutte quelle cose dunque che egli trae dallo stato i cui la natura le ha prodotte e lasciate, egli ha congiunto il proprio lavoro, e cioè unito qualcosa che gli è proprio e con ciò le rende sue. Poiché son rimosse da lui dallo stato comune in cui la natura le ha poste, esse mediante il suo lavoro, hanno, connesso con sé, qualcosa che esclude il diritto comune di altri>. La crescente consapevolezza degli effetti negativi introdotti da un abuso del progresso tecnologico, dalla diffusione di stili di vita e di sistemi produttivi non ecologicamente sostenibili ha condotto verso l'elaborazione del concetto di diritto ad un ambiente salubre, sia al livello degli ordinamenti interni che a livello internazionale. Sul piano interno, nel caso dell'ordinamento italiano, tale diritto si è formato per moltiplicazione, mediante l'interpretazione per combinato disposto degli artt. 2 e 32 Cost. Sul piano internazionale, il percorso verso tale riconoscimento può essere ricostruito attraverso i seguenti passaggi chiave. Il primo passo è rappresentato dalla Dichiarazione ONU sull'ambiente umano, approvata a Stoccolma il 1972, nella quale si afferma che l'uomo ha un diritto fondamentale a condizioni di vita soddisfacenti in un ambiente che gli permetta di vedere nella dignità e nel benessere e dove al difesa e il miglioramento dell'ambiente sono indicati quali responsabilità verso le generazioni presenti e future da perseguire insieme a quelli fondamentali della pace e dello sviluppo economico e sociale mondiale. Segue la World Charter for Nature, promossa dall'ONU nel 1982, che stabilisce il diritto di partecipare alle decisioni in materia ambientale, il diritto di accesso ai mezzi di ricorso e avvia verso la concettualizzazione del principio di precauzione. A partire dagli anni Ottanta del Novecento, si apre un dibattito intorno alla possibilità di istituire un Tribunale internazionale dell'ambiente presso l'ONU. Dal 1982 il programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite muoverà i primi passi verso la creazione di una convergenza tra due nozioni centrali: la nozione di sviluppo umano e quella di sviluppo sostenibile. In virtù del diritto allo sviluppo, ogni persona umana e tutti i popoli sono legittimati a partecipare, a contribuire allo, e a beneficiare dello sviluppo economico, sociale, culturale e politico (Dichiarazione sul diritto allo sviluppo, approvata dall'AG nel 1986). lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri. Nel 1992 viene adottata la Dichiarazione di Rio sull'Ambiente e lo sviluppo, che sancisce due importanti principi in materia, quali: 75 a) il principio di sviluppo sostenibile, sempre inteso come il diritto ad uno sviluppo che sia realizzato in modo da soddisfare equamente le esigenze relative all'ambiente ed alo sviluppo delle generazioni presenti e future; b) il principio di precauzione, da applicare in presenza di un rischio di danno grave o irreversibile, in modo che l'assenza di certezza scientifica assoluta non costituisca un pretesto per differire l'adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale. Nel 1997 viene siglato il Protocollo di Kyoto, che, individua alcuni meccanismi regolativi tesi, nel periodo 2008-2012, alla riduzione del totale delle emissioni di gas ad effetto serra almeno del 5% rispetto ai livelli del 1990. Il principio di sviluppo sostenibile risulta ribadito nella Dichiarazione di Johannesburg del 2002. Sviluppo umano, sviluppo sostenibile e principio di precauzione continuano ad essere i cardini del diritto internazionale in materia ambientale. Tra di essi, il principio di precauzione, benché spesso richiamato soprattutto a livello comunitario, nell'ambito della regolazione delle tecnologie emergenti, con riferimento alle loro conseguenze sull'ambiente e sulla salute umana, è al centro di un intenso dibattito teorico e presenta limiti non irrilevanti nell'ottica di farne un principio atto ad orientare la regolazione giuridica e le scelte politiche in queste materie. Il principale problema a cui sembra essere esposto è quello della vaghezza: esso può assumere diversi significati, che slittano da un significato debole e tendenzialmente banale, ad un significato forte, in base al quale l'intervento regolativo, qui essenzialmente inteso come intervento che bandisce il ricorso alla tecnologia in oggetto, è richiesto ogniqualvolta un rischio per la salute, la sicurezza o l'ambiente sia ipotizzabile. Esso rappresenta, in definitiva, più uno stato mentale, per quanto legittimo, che un concetto idoneo a guidare policies. Per quanto muova dal superamento della prospettiva dell'individualismo possessivo, che riduce la natura ad oggetto esposto all'appropriazione da parte dell'essere umano, la convergenza fra tutela dei diritti umani e protezione ambientale riguarda l'approccio dell'etica ambientale, non quello dell'etica ecologica. Mentre il primo approccio resta ancorato ad un punto di vista più tradizionalmente antropocentrico e non abbandona una visione dell'ambiente come valore strumentale alle finalità umane, il secondo (rappresentato dalla c.d. Deep ecology movement) assume un più radicale ecocentrismo, afferma il valore intrinseco della natural, l'obbligo di non interferenza con essa ed individua nella natura stessa un soggetto di diritti. Capitolo 7 Portata e limiti del linguaggio dei diritti 1. L'importanza della giustificazione dei diritti umani I diritti umani sono costantemente a rischio, non solo per il mancato riconoscimento da parte di numerosi Stati, non solo per la carenza dei meccanismi di garanzia riscontrabili nel diritto internazionale, ma anche per ragioni legate alla loro giustificazione. Le fonti internazionali spesso adottano un linguaggio non standardizzato e spesso vago. alla posizione di Bobbio a proposito della fondamento dei diritti umani risulta al suo interno composita ed afferma l'impossibilità di individuare un fondamento assoluto valido per tutti i diritti umani; l'irrilevanza, di un accordo intorno al fondamento ai fini della garanzia dei diritti; l'opportunità di attenersi al consenso di fatto espresso con l'approvazione della dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 come ad un passaggio epocale in grado di archiviare le preoccupazioni relative alla fondamento dei diritti. Ancorché giustificabile nel momento storico in 76 cui Bobbio la afferma, questa posizione risulta oggi problematica. I diritti umani sfuggono ad una definizione precisa, sono tra loro eterogenei e persino antinomici Nel caso dei diritti umani, i limiti non inficiano il concetto, il loro contenuto o il loro statuto quanto piuttosto il loro esercizio. Un principio in grado di svolgere un qualche ruolo sul piano della giustificazione dei diritti è sia sul piano filosofico che sul piano della tutela giurisdizionale dei diritti, nella dignità. In base alla seconda tesi che compone la prospettiva di Bobbio, anche se fosse possibile, l'individuazione di un fondamento assoluto non sarebbe di alcun aiuto nel garantire l'attuazione dei diritti. In quella che Bobbio a efficacemente definito come l'età dei diritti, la conseguenza è proprio quanto egli stesso più volte condanna: il richiamo teorico e persino strumentale ai diritti, in quanto concetti capaci di esprimere qualsiasi contenuto. La negazione dell'importanza della giustificazione risulta discutibile a prescindere dalla specifica opzione filosofica da cui si muova e priva la difesa dei diritti di qualsiasi base teorica. Riconoscere l'importanza della ricerca intorno al senso ed alla ragion d'essere dei diritti significa chiedersi cosa vi sia dietro l'accordo via via manifestantesi intorno ad essi nel corso del processo di positivizzazione e significa poter fornire degli elementi in grado di orientare questo stesso processo. In termini di valore sono interpretabili, scrive Bobbio, in modo diverso secondo l'ideologia assunta dall'interprete. Dal fatto che si diano più concezioni morali si conclude che non sia possibile individuare un principio in grado di fondare i diritti in modo incontrovertibile. L'importanza della giustificazione emerge sotto due profili principali: -sotto il profilo del momento applicativo quando si tratta di determinare il preciso contenuto o, in caso di conflitto, si debba stabilire la priorità espressi da norme dalla struttura spesso tipicamente vaga e aperta; -sotto il profilo delle sfide che il pluralismo, sia etico che culturale, presentano rispetto all'universalizzazione dei diritti. La dimensione giuridica può strutturalmente condizionare, anche in senso limitativo, l'originario contenuto morale dei diritti. Parlare della nozione giuridica di diritti umani significa parlare al tempo stesso della forma giuridica e di quella parte o di quella versione dell'originario contenuto etico politico che tale forma può inglobare, esprimere ed attuare. 2. Le critiche ai diritti umani Dopo l'affermazione filosofica dei diritti nel 700, essi subiscono i primi attacchi teorici con le tesi di Jeremy Bentham, nel corso del XIX secolo, con quelle dello storicismo e di Karl Marx. La critica elaborata da Jeremy Bentham si sviluppa lungo due assi fondamentali: uno teorico giuridico ed uno filosofico politico. 1. In base al primo Bentham elabora l'argomento dell'infondatezza giuridica del concetto di diritti naturali: in quanto parte del diritto naturale essi non hanno dignità giuridica ma esprimono pretese di ordine esclusivamente morale. 2. Bentham ritiene i diritti umani un concetto estremamente pericoloso. Se, per un verso, essi sono uno strumento di tutela della libertà individuale nei confronti del potere politico, per altro verso, limitando il potere politico lo indeboliscono e finiscono per lasciare l'individuo privo della sicurezza che solo tale potere può garantirmi. La difesa dei diritti risulta in aperto conflitto con la salvaguardia filosofica politica di Bentham. La dottrina dei diritti naturali incontra una decisa opposizione nel corso del XIX secolo, in concomitanza con il diffondersi della prospettiva storicistica: da tale punto di vista, la nozione di diritti naturali è criticata per la sua astrattezza e per i suoi legami con l'individualismo, per il suo 77 ragioni morali, una certa condizione; inizia così il percorso che può portare al riconoscimento giuridico di un diritto. Ma questo non esclude la presenza di fratture di conflitti intra con la stessa società, se è vero che l'affermazione dei diritti passa attraverso l'esperienza di ingiustizie. I diritti fondamentali i diritti umani si caratterizzano per provocare, emergendo, fratture all'interno dell'ordine giuridico rispetto alla moralità convenzionale. L'ingresso dei diritti all'interno di una teoria etica può introdurre elementi di tensione rispetto la gerarchia dei valori in essa stabilita o rispetto al loro contenuto consolidato. Riconoscere ai diritti uno spazio nell'etica significa anche riconoscere che i diritti pongono dei limiti all'ammissibilità delle teorie etiche. Fare spazio ai diritti in una teoria etica non significa affermare eo ipso determinati valori, ma introdurre nell'etica determinati schemi argomentativi. E proprio per questa ragione che i diritti umani non possono raggiungere l'universalità in modo automatico. Il loro riconoscimento deve accompagnarsi ad una revisione delle culture, dei valori e dei modelli argomentativi. I diritti umani non sono principi di giustizia, ma richiedono, quale loro precondizione, l'adesione a determinati valori e principi di giustizia. L'universalità è da intendersi come un tratto intrinseco del concetto di diritti umani, sicché possiamo legittimamente avere dei dubbi sull'esistenza di diritti umani, possiamo anche pensare che non siano una buona cosa… Ma non possiamo sostenere che non siano universali. Un importante spazio va riservato all'analisi del ruolo svolto Al momento applicativo e dall'interpretazione giurisprudenziale delle norme sui diritti umani, dato che l'universalità di questi ultimi si manifesta attraverso enunciati normativi, che presentano, come loro caratteristica strutturale, quella che viene definita apertura semantica. In questo senso, l'indeterminatezza strutturale delle norme sui diritti umani va intesa come potenzialità di senso, grazie alla quale sono possibili il riconoscimento di nuovi diritti e la precisazione del loro contenuto, con riferimento alle sfide presenti nella realtà ed alle sensibilità emergenti nei contesti specifici. 4. L'universalità dei diritti umani come problema La domanda relativa all'universalità dei diritti umani risulta configurabile secondo tre fondamentali e distinti direttrici: quella della titolarità, quella dell'effettività e quella relativa la giustificazione. Le domande più specifiche sono: spettano i diritti umani a tutti gli esseri umani in quanto tali? Sono i diritti umani effettivamente garantiti a tutti gli esseri umani in quanto tali? Sono i diritti umani giustificabili su basi accettate universalmente? Con riferimento ai primi due profili si riconosce il deficit di effettività di cui i diritti umani soffrono, sia rispetto alle misure di tutela internazionale sia rispetto a quelle statali. Il riferimento alla dimensione normativa consente di concludere che le fonti internazionali riconoscono la titolarità dei diritti in senso universale, ovvero per l'essere umano in quanto tale, senza riferimento alla sua appartenenza ad una comunità politica. Ciò vale sia per i diritti civili che per i diritti sociali. La titolarità dei diritti umani può quindi dirsi universale. L'effettività dei diritti dipende dalla messa appunto di concreti meccanismi di garanzia, sia all'interno degli ordinamenti statali che per mezzo degli strumenti di tutela internazionale. Il livello di garanzia interno è legato alla specifica configurazione degli ordinamenti statali ed alla capacità del diritto internazionale di stabilire almeno una vis directiva su di essi e sulla cultura politica interna. Quanto alla tutela internazionale essa registra importanti successi ma anche è contrassegnata da una forte gradualità. Questo spiega perché i diritti umani non siano universali rispetto all'effettività. Il profilo della giustificazione: come ha affermato Amartya Sen, è importante non confinare la 80 giustificazione dei diritti umani all'ambito di una sola società, data la loro strutturale aspirazione all'universalità. Una prima strategia teorica per rispondere alle difficoltà dell'universalismo dei diritti umani, sia nel senso della loro effettività che nel senso della loro giustificazione è la prospettiva del minimalismo. Essa si propone come una risposta all'inflazione dei diritti e la difficoltà di pervenire ad un consenso interculturale interno ad essi. Si intende per inflazione dei diritti la loro proliferazione eccessiva, che si raggiunge quando un numero crescente e non sempre sufficientemente fondato di pretese viene ad essere formulato conferendo ad esse la forma di diritti inviolabili ed imprescrittibili, ma senza che sussistano le condizioni per garantirle e lasciando libero gioco alla loro mutua conflittualità. Il minimalismo propone: -la riduzione del catalogo dei diritti umani ad un nucleo minimo, esprimente il valore della libertà negativa; -la concezione dei diritti umani come strumenti di difesa che gli attori individuali devono essere liberi di usare se lo ritengono opportuno all'interno del più ampio contesto delle credenze culturali e religiose in cui vivono; -l'idea che per la tutela internazionale dei diritti così intesi sia legittimabile l'uso della forza. Il fatto che i diritti possono confliggere è considerato elemento capace di contribuire al processo inflattivo, perché incide negativamente sull'esigibilità dei diritti. Il carattere conflittuale dei diritti costituisce il punto focale all'interno di due argomenti distinti, ma orientati alla medesima conclusione. In base al primo argomento, la conflittualità viene rilevata nel rapporto tra diritti sociali e diritti civili, nel senso che i primi veicolerebbero richieste che, per il loro contenuto E per i meccanismi di garanzia implicati, confliggerebbero con la logica sottesa ai diritti civili. L'idea è che l'ampliamento del catalogo dei diritti inevitabilmente determina il depotenziamento del nucleo di garanzia degli stessi. In base al secondo argomento, la conflittualità è specificatamente rinvenuta all'interno delle richieste veicolati dei diritti sociali, richieste alle quali non sarebbe possibile, per il vincolo delle risorse scarse, dare completa soddisfazione. Il riferimento ai diritti umani per mascherare operazioni tendenti invece ad estendere l'egemonia politica e culturale dei paesi occidentali è una realtà con cui la difesa teorica e pratica dei diritti deve confrontarsi. La crisi dell'età dei diritti non è da ricondursi alla proliferazione dei diritti, ma semmai alla difficoltà di portare alla piena affermazione i principi fissati nel diritto internazionale dal 1945 in avanti, una difficoltà sempre più evidente dopo il 1989, con la fine del bipolarismo, e dopo l'11 settembre 2001, con le questioni aperte dal fenomeno del terrorismo internazionale. La categoria dei nuovi diritti rappresentata dei diritti culturali tende a sintetizzare in modo pregnante la persistente tensione, nel processo di giustificazione dei diritti umani, tra elementi universalistiche ed elementi particolaristici. 5. Giustificazione dei diritti e forme del pluralismo I diritti umani possono sollevare problemi di giustificazione, in virtù del pluralismo ad esse interno. I diritti umani e diritti fondamentali risultano oggi esposti ad una crisi di giustificazione e di legittimazione anche negli Stati costituzionali e liberali democratici, principalmente per effetto del carattere multiculturale assunto dalla società contemporanea. I problemi emergenti sul terreno della determinazione del contenuto dei diritti esprimono difficoltà relativa all'interpretazione dei valori a questi sottesi. Ciò è particolarmente evidente nelle 81 società multiculturali, che spingono verso l'inclusione di nuovi valori o verso la ridefinizione dei valori espressi da principi costituzionali consolidati. Questo accade soprattutto a seguito delle trasformazioni delle richieste provenienti da migranti, che in tutte le comunità politica contemporanee tendono a mutare da richieste di inclusione in richieste di riconoscimento della differenza e di visibilità pubblica delle specifiche identità etnico culturali. In alcuni casi, tali richieste, paiono entrare in conflitto con i principi della tradizione costituzionale del paese ospitante. E allora che il multiculturalismo incontra il dibattito sulla giustificazione dei diritti. L'impresa connessa alla giustificazione dei diritti può incidere anche sul destino di diritti già positivizzati. Le stesse carte costituzionali devono il loro dinamismo precisamente all'importanza che giustificazione ed interpretazione dei diritti di fatto ricoprono. John Rawls forma la teoria del liberalismo politico che intende offrire un resoconto dei criteri che garantiscono la stabilità di una società bene ordinata in un contesto pluralistico, ovvero in un contesto in cui esistono molte dottrine religiose, filosofiche e morali tra loro anche il reciproco conflitto, e dove la loro esistenza è un tratto irrinunciabile del tipo di Stato che si intende promuovere. Tutta l'elaborazione della prospettiva del liberalismo politico muove da un interrogativo centrale: in che modo i cittadini che restano profondamente divisi rispetto alle loro concezioni religiose, morali e filosofiche, possono, ciononostante, mantenere una società democratica stabile e giusta? Ciò è possibile secondo Rawls adottando una concezione solo politica della giustizia, che esuli da qualsiasi riferimento a prospettive religiose, morali, filosofiche (secondo il requisito dell'astinenza epistemica). Il fine del liberalismo politico è di realizzare le condizioni per creare una base pubblica ragionevole di giustificazione per le questioni politiche fondamentali. Se non viene nessuna dottrina religiosa, filosofica e morale condivisa da tutti cittadini, la concezione della giustizia affermata in una società democratica ben ordinata deve essere una concezione limitata a ciò che rose chiama il dominio del politico. Obiettivo del liberalismo politico e di regolare la convivenza tra diversi morali alla luce esclusiva dei principi di giustizia, con il raggiungimento del consenso per intersezione ed attraverso lo strumento della ragione pubblica. L'esempio per eccellenza Del modus operandi della ragione pubblica è da Rawls ritrovato nelle deliberazioni della corte suprema. I giudici, i quali non applicano le loro personali convinzioni morali, ma esprimono le concezioni etiche e politiche condivise dalla comunità politica di riferimento, esercitano la regione pubblica. Le società contemporanee presentano elementi di complessità riconducibili al pluralismo etico ma anche al pluralismo culturale. Il multiculturalismo pone in questione: -la tenuta e la desiderabilità della separazione tra sfera privata e sfera pubblica, così inficiando la distinzione tra valori morali e valori politici; -la lettura individualistica del rapporto tra singolo e comunità politica; -il principio di neutralità dello Stato rispetto alle concezioni etiche ed ai fattori non politici dell'identità individuale dei cittadini. La presenza di culture estranee alla tradizione che ha condotto all'individuazione dei principi riconosciuti nelle carte costituzionali pone il problema di come procedere per realizzare quella socializzazione entro una comune cultura politica. La realtà del multiculturalismo mostra che la ragione pubblica, strumento per l'individuazione dei valori solo politici, funziona a patto che si prendono le mosse da una comune tradizione politica. Ciò conferma due tesi: che i valori politici non possono essere solo politici; se la loro genesi richiede determinate condizioni significa che sono essi stessi dipendenti da un contesto, che non sono universali. In secondo luogo si conferma che gli strumenti concettuali rappresentati dal consenso per sovrapposizione e dalla ragione pubblica potranno al massimo intendersi come ciò 82