Scarica I MILLE ANNI DEL MEDIOEVO e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! I mille anni del Medioevo, di G. Piccinni. Capitolo 1 Alle origini del Medioevo (III-VIII secolo). La fase millenaria di storia d'Europa chiamata Medioevo inizia quando si esaurisce il sistema politico-economico romano; quando il calo della popolazione è seguito dalla ruralizzazione dell'economia; quando con l'arrivo dei “barbari” (cioè di non romani) si trasforma l'assetto etnico europeo; quando il cristianesimo guadagna un ruolo più ampio nella società e nella politica; quando il Mediterraneo si trasforma da un mare di scambi a mare di confine. In Italia, popoli stranieri (ostrogoti e longobardi) si alternano nel governare la penisola, mentre da Bisanzio partono effimeri progetti di restauratio imperii. La penisola è frammentata, un territorio centrale è controllato dal papa, a nord ai longobardi subentrano i franchi, mentre il Mezzogiorno rimane legato ai bizantini. 1. Medioevo: la parola, il tempo, lo spazio, la gente. La parola Medioevo è composta di due parti che ne determinano il significato complessivo di età di mezzo. Definendo così questo periodo storico, implicitamente lo identifichiamo come un periodo che si differenzia sia dal precedente (età antica) sia dal successivo (età moderna). Ovviamente, chi visse tra V e XV secolo non era consapevole di vivere in un'età di mezzo. Si tratta infatti di un concetto elaborato molto più tardi, intorno al XV-XVI secolo, quando la storia della civiltà fu immaginata come divisa in tre fasi: una luminosa, l'età antica; una oscura e decadente, quella di mezzo; infine una nuova, quella in cui si stava vivendo, piena di nuove promesse e di ideali che si ispiravano a quelli dell'antichità. L'idea che fosse esistito un Medioevo dunque, nacque solo quando il Medioevo finiva, contrapposta e speculare a quella dell'esistenza di un Rinascimento. Tale definizione è strettamente correlata allo stereotipo dei “secoli bui” del Medioevo. Nella cultura di massa, ma anche nella storiografia, il Medioevo è stato a lungo presentato come un'epoca buia, violenta, sterile, sottosviluppata, barbarica, ecc., tuttavia a questo punto, “il Medioevo è stata l'unica epoca di sottosviluppo che ci abbia lasciato delle cattedrali”. Ovviamente esiste un Medioevo “buio”, ma ce n'è anche uno di raffinata cultura, uno rurale e uno cittadino, uno illetterato e uno colto, uno guerriero e uno disarmato e mercantile. Il principale elemento unificante della storia del Medioevo è il fatto che essa di riferisce principalmente all'Europa. Il Medioevo è ascrivibile alla sola civiltà europea per sua stessa definizione. Non fu in un anno che Roma si dissolse, dando avvio alla trasformazione economica e politica, né fu in un anno preciso che i barbari irruppero nei territori dell'Impero, mettendo in moto un poderoso rimescolamento etnico, tuttavia, sebbene convenzionalmente si continui a usare il 476 (deposizione di Romolo Augustolo) come cesura, l'avvio del Medioevo fu un lungo processo lungo tre secoli, dal IV al VII. Durante questi tre secoli avvennero importanti cambiamenti. • Diverse popolazioni, in seguito a lunghi processi migratori, si stabilirono nello spazio europeo, dando vita a una nuova società latino-barbarica. Si trattava di popoli guerrieri non radicati alla terra, inquadrati in strutture sociali semplici (tribù) sotto la guida di capi militari. Ignoravano perciò forme di organizzazione statale come quelle del mondo latino, impostato sulle città e socialmente e culturalmente molto più complesso. • Si esaurì il sistema economico romano, proiettato intorno al Mediterraneo e basato sull'integrazione tra le province, il controllo dello Stato sulla produzione e in buona parte sul massiccio utilizzo di schiavi per lavorare la terra. • Nel mondo romano s'integrò una nuova religione monoteista, il cristianesimo, che infine divenne religione di Stato e si dotò di una sua organizzazione. I primi cinque secoli del Medioevo sono quelli che conosciamo con più difficoltà, perché le culture tribali, prevalentemente orali, dei popoli barbari ci hanno lasciato poche testimonianze scritte e pochi testi legislativi, determinando la scomparsa del documento scritto tanto caro ai romani. Sappiamo però che la popolazione europea diminuì in maniera inarrestabile nei secoli dello sconvolgimento delle basi della civiltà romana, sotto la spinata delle epidemie e delle grandi migrazioni. Le nuove popolazioni erano inadeguate a colmare i vuoti demografici, perché in valori assoluti non erano affatto numerose. La popolazione europea quindi, seguì un trend negativo fino al VII secolo, stagnò ai livelli più bassi tra VII e VIII, dette segni di ripresa tra VIII e il IX, seguì un trend positivo dal X secolo in poi. Circa 42 milioni di persone vivevano in Europa intorno al Mille e circa 61 milioni nel Duecento. Vi fu un aumento della speranza di vita, i nuclei abitati si fecero più numerosi e la superficie coltivata guadagnò terreno sugli spazi incolti. Nel XIV secolo, la popolazione europea cominciò a flettere, poi, sotto l'effetto delle malattie (peste nera 1347-1350) e delle guerre, crollò in modo vistoso nel giro di cinquant'anni. Il secoli del Medioevo possono essere suddivisi in alcuni blocchi. • Alto Medioevo, dal V fino al X secolo (età tardo-antica, dal IV al VII). • Basso Medioevo, dal XI al XV secolo, a sua volta suddiviso in pieno Medioevo (dal XI al XIII secolo) e in tardo Medioevo (dal XIV al XV secolo). 2. La crisi del mondo romano (III-V secolo). L'Impero di Roma e la barbaritas. Durante l'alto Medioevo, etnie di non romani, chiamati dalla cultura greca e latina barbari (dal greco bàrbaroi), si insediarono nell'Europa occidentale, provenienti dall'area germanica e dall'Europa centro-orientale. I popoli barbari non erano tutti uguali per cultura e civiltà, come invece apparivano agli occhi dei romani, i quali li vedevano come un fenomeno temibile e sostanzialmente coerente e unitario. Lo scontro fra la civiltà romana e i mondi barbarici fu sicuramente nelle armi e nei saccheggi ma molto anche nella vita quotidiana, nel confronto tra individui antropologicamente diversi. Le migrazioni dei popoli germanici, insieme alla propagazione del cristianesimo, fu uno degli eventi più importanti di questi secoli ed influì pesantemente sulla fisionomia della civiltà medievale. Ma la nuova epoca fu l'affermazione della barbarie? O quella del cristianesimo? Ovvero, il mondo romano ebbe fine per cause esterne o perché minato dall'interno? L'Impero era stata la principale forma di organizzazione del mondo antico. Quello romano, che non si chiamò mai impero, ma res publica, anche quando fu retto da un imperator, era un impero ecumenico. Questo perché per diversi secoli aveva rimescolato civiltà e popoli nel segno di un'autorità riconosciuta su un territorio vastissimo (Europa occidentale, Africa settentrionale e Medio Oriente). Secoli di guerre di conquista e di annessioni avevano creato una sorta di confederazione di regni, province e tribù che, con differenti stati giuridici e diverse forme di sottomissione, avevano Il cristianesimo non era l'unico culto orientale penetrato nel mondo romano. Tuttavia un intransigente monoteismo e la carica missionaria dei suoi adepti erano avvertiti come una minaccia per l'unità interna e per la pace nei territori dell'Impero, perché capace di far vacillare il difficile equilibrio raggiunto tra le tradizioni culturali dei popoli sottomessi. La consueta tolleranza si era pertanto tramutata in ostilità, ostilità peraltro ricambiata dai cristiani. La soluzione al problema della convivenza con il cristianesimo arrivò all'inizio del IV secolo con Costantino, il quale aveva una certa inclinazione a privilegiare le tendenze religiose monoteiste, abbandonando forme troppo complesse di politeismo. Costantino infatti, intuì che il cristianesimo era compatibile con il suo dirigismo teocratico (teocrazia) e poteva fornire una nuova legittimazione al potere imperiale. L'editto di Milano (313), con il quale aveva liberalizzato la professione del cristianesimo, parificandolo agli altri culti, segnò il primo passo dell'adesione all'Impero in declino della Chiesa nascente. Il cristianesimo si diffondeva proprio tra quei ceti dirigenti e quelle élite culturali che garantivano pieno appoggio alla causa imperiale. Esclusa la breve parentesi del regno di Giuliano l'Apostata (361-363), il cristianesimo assunse un ruolo sempre più forte nei progetti religiosi dell'Impero. Il sostegno dello Stato al cristianesimo era ricambiato dal sostegno dei cristiani alla causa imperiale, da cui derivava una piena legittimazione dell'Impero nei termini della nuova religione. Costantino aveva favorito la Chiesa dei cristiani, che si era avviata a divenire uno dei pilastri dell'Impero. I sacerdoti erano esentati dalle tasse e dalle prestazioni personali di guerra o di lavoro, alle chiese fu riconosciuto il diritto di concedere asilo, le comunità cristiane ebbero personalità giuridica e le sentenze dei tribunali ecclesiastici avrebbero ottenuto validità civile. Nel frattempo il cristianesimo aveva dovuto affrontare il problema dell'elaborazione di una dottrina compiuta e ufficiale. La questione più spinosa era quella riguardante la coesistenza nel Cristo di una natura umana e di una divina. Dal 320 Ario aveva diffuso una dottrina (arianesimo) che sosteneva che Cristo non avesse lo stesso grado di divinità del Padre. La disputa si fece accesa al punto che intervenne Costantino con intenti di centralizzazione. Nel 325 in qualità di pontifex maximus aveva riunito trecento vescovi a Nicea, dove fu deliberato in nome di tutte le comunità cristiane, cioè universalmente, il dogma della Trinità. Ario fu messo in minoranza e condannato come eretico. Il concilio di Nicea fu il primo atto visibile e rilevante di un processo che sarebbe durato secoli e che avrebbe assegnato all'imperatore il ruolo di difesa dell'ortodossia cattolica (ortodossia, dal greco, significa opinione retta, mentre cattolico significa universale). Nella seconda metà del IV secolo un vescovo ariano, Ulfila, tradusse in lingua gota la Bibbia. Teodosio, imperatore d'Oriente (379-395) intervenne nuovamente a sostegno della Chiesa, proibendo tutte le fedi non cristiane e l'arianesimo con l'editto di Tessalonica (380), infine proclamò il cristianesimo religione ufficiale dello Stato (391). Da parte loro i cristiani propagandarono l'Impero come uno strumento della Provvidenza per il trionfo della loro religione e poco dopo, anche l'Occidente fu cristianizzato, emarginando i culti tradizionali che iniziarono a essere definiti come pagani. Il carattere cittadino della nuova religione accentuò le resistenze degli ambienti rurali e il persistere di culti locali molto vari, legati soprattutto al ciclo della fertilità dei campi e alla protezione di luoghi particolari (monti, foreste, sorgenti, ecc.). Fu dunque un processo lungo, travagliato, fatto di soprusi ma anche di convivenza e assimilazione reciproca. Fine annunciata di un Impero (V secolo). Tribù di nomadi di origine non indoeuropea e dai tratti fisici mongolici si erano spostate dai luoghi di origine e avevano cercato di invadere l'Impero cinese degli Han. Alcuni gruppi di questi invasori, unendosi con altri gruppi mongolici di origine siberiana e a nomadi iranici, avevano dato vita a quella federazione di popoli mongolici dalla quale si erano sviluppate le tribù unne. Gli unni erano divisi in due grandi gruppi, unni bianchi e unni neri. Gli unni bianchi nel 480 avevano distrutto l'Impero dei Gupta (India) e nel 484 erano arrivati nel cuore dell'Impero persiano dei Sassanidi. Gli unni neri comparvero al di qua degli Urali nel 370, spingendo i goti, i vandali e gli avari verso occidente. Battuti nella battaglia dei Campi Catalunici (451) in Gallia, gli unni neri, comandati da Attila erano scesi in Italia (452) dandosi al saccheggiò, finché non furono fermati, come racconta la leggenda, da papa Leone Magno (440-461). Rapidamente scomparvero, probabilmente assorbiti dalle popolazioni locali. L'avanzata degli unni aveva modificato in maniera fondamentale il rapporto tra l'Impero e i barbari. Molte popolazioni germaniche nel tentativo di trovare scampo dagli unni avevano cominciato a chiedere di stanziarsi entro i confini dell'Impero come federate, ovvero come alleate. All'inizio del V secolo la pressione dei barbari si trasformò in una serie di corposi spostamenti di popolazione. Tutte le frontiere di Roma crollarono. Nel 401 i visigoti (goti dell'ovest) saccheggiarono Milano; nel 406 gli ostrogoti (goti dell'est) giunsero in Toscana; tra il 408 e il 410 i visigoti di Alarico invasero l'Italia e saccheggiarono Roma; nel 452 fu la volta degli unni; poi nel 455 Roma fu nuovamente messa a sacco da Genserico e dai suoi vandali. Nel 394 Teodosio era rimasto l'unico imperatore. Alla sua morte (395) l'Impero era stato diviso fra i suoi due figli: l'Oriente ad Arcadio e l'Occidente a Onorio. Da allora le due metà presero strade diverse. L'Oriente sopravvisse, mentre nella parte occidentale l'Impero si avviò verso la sua fine. Mentre l'Impero romano d'Oriente, specie sotto il regno di Teodosio II (408-450), mantenne la sua centralità, con una nuova giurisprudenza (Codex Theodosianus, 438) e un accordo di pace con i persiani (422), l'Occidente perse la sovranità sulla maggior parte delle province e alla metà del V secolo si era ormai ridotto alla sola penisola italiana. Il 5 settembre 476, un generale romano di stirpe barbarica, Odoacre, depose ed esiliò, tra l'indifferenza generale, Romolo Augustolo, innalzato al trono tredicenne dal padre Oreste. Lo stesso Romolo Augustolo era un usurpatore, essendo stato posto sul trono da Oreste, anch'egli un generale a capo di un contingente di mercenari, che con la forza aveva deposto l'imperatore legittimo in carica, Giulio Nepote. Odoacre non assunse il titolo di imperatore d'Occidente e riconsegnò le insegne imperiali, simbolo del potere in Occidente, all'imperatore d'Oriente Zenone, riconoscendogli così la sovranità sull'intero Impero romano. Odoacre allora, si propose come legittimo rappresentante di Costantinopoli in Italia e prese a governarla come un rex gentium, ovvero come re dei popoli sotto la sua guida, esattamente come avveniva già in Gallia, in Spagna e in Africa, ma con la rilevante differenza che il regno d'Italia riconosceva l'autorità dell'imperatore d'Oriente. Intorno alle cause della dissoluzione di un Impero così complesso ed esteso, si è svolto un lunghissimo dibattito storiografico. La perdita delle antiche virtù, la modifica delle istituzioni e delle tradizioni, derivanti dalla progressiva germanizzazione del mondo latino, avevano già fatto riflettere gli scrittori della Roma imperiale che le indicavano come cause di una decadenza generale della civiltà, mentre nel Medioevo si evidenziava come dalle ceneri di un Impero pagano ne fosse sorto uno cristiano. Con il tempo, si assunsero a cause della caduta dell'Impero romano due fattori: uno esterno, ovvero le “invasioni” barbariche, e uno interno, ovvero la diffusione del cristianesimo che, con le sue idee di eguaglianza, avrebbe minato l'istituto portante del sistema economico romano: la schiavitù. Per gli storici marxisti fu la trasformazione da un sistema di produzione schiavista a uno “feudale”, basato sui rapporti fra contadini e signori, a causare la crisi del mondo romano. Oggi, più generalmente, il collasso del mondo romano si considera causato da una serie di fattori sia interni che esterni, sui quali né le invasioni né il cristianesimo ebbero la preminenza. Essi al massimo contribuirono a demolire un sistema già fragile, a causa dei ritardi dell'agricoltura e della produzione artigianale, della militarizzazione e delle lotte intestine, della pressione fiscale esorbitante e dei rallentamenti commerciali dovuti alle continue guerre. Di fronte alla crisi economica, allo stato permanente di conflitto e alle epidemie, la popolazione nelle città, perno del sistema romano, si ridusse e più in generale si assistette a una ruralizzazione della società e dell'economia, con le aristocrazie terriere che si spostavano in campagna, anche perché i popoli giunti nell'Impero non avevano alcuna tradizione di vita urbana. 3. L'Europa dei romani e dei barbari. Sulle rovine dell'Impero un'Europa multietnica. Nel V secolo i romani abbandonarono a poco a poco ai barbari i territori dell'Impero d'Occidente. Nel 408 lasciarono la Britannia, nel 425 la Pannonia, poi la penisola iberica e la Gallia sud- occidentale, nel 435 i vandali conquistarono la Mauritania e la Numidia. Nel 486 Clodoveo, primo re merovingio, allargò il suo controllo alla Gallia nord-occidentale (Neustria) e a quella sud- occidentale (Aquitania) alla testa dei franchi salii, il primo gruppo di tribù germaniche a essersi dato una patria stabile nella parte orientale della Gallia (Austrasia). L'Europa che scaturì da questi mutamenti fu chiaramente multietnica, originata dalla fusione di immigrati così diversi per tradizioni etniche e livelli culturali con popolazioni latine. Il territorio si configurava in una serie di formazioni politiche definite come regni romano-barbarici o latino- germanici: latini perché l'amministrazione rimase ovunque quella romana, ma barbarici perché fondati sul predominio delle élite guerriere germaniche e perché gli immigrati mantennero usi e costumi in difesa della loro identità. Questo perché essi erano numericamente inferiori rispetto alla popolazione celtico-romana che viveva nell'ex-Impero. I popoli barbari però subirono l'influenza della civiltà romana e alcune differenze si appianarono, tuttavia motivo di contrasto fu la conversione al cristianesimo dei germani, i quali vennero principalmente cristianizzati da missionari ariani. Entro il V-VI secolo erano divenuti ariani i visigoti, i gepidi, i burgundi, gli ostrogoti, i vandali e i longobardi. Infine nelle campagne sopravvissero molti culti pagani, frammisti a elementi cristiani, come nel caso dei franchi, degli angli, dei sassoni, degli svevi e degli alamanni. Roma avrebbe portato in eredità alla nuova Europa la tradizione culturale, il senso dello Stato, il diritto, la lingua comune, all'opposto i germani, immaginati come un solo popolo culturalmente omogeneo, avrebbero avuto in comune la mancanza di leggi scritte e di un'organizzazione statale, ma avrebbero rappresentato una forza dinamica che, sulle ceneri della civiltà antica, avrebbe avviato la formazione dei nuovi popoli europei. In realtà il mondo germanico era molto diversificato al suo interno e gli scambi umani e civili tra barbari e romani erano stati intensi già prima che gli uni accelerassero la fine dell'Impero degli altri. In ogni caso il prodotto finale fu sempre l'integrazione delle popolazioni originarie in un popolo del tutto nuovo. I nuovi regni latino-germanici. Il regno fu l'istituzione politica elaborata dagli invasori, che necessitavano di strutture stabili per le proprie bande di emigranti, per le quali i punti di riferimento erano la tribù, il clan, le famiglie, la parentela. I visigoti ebbero una nozione di pubblico più chiara degli altri e concepirono il regno come un'entità separata dal re, mentre i franchi lo considerarono proprietà personale del monarca. Il lungo conflitto aveva devastato l'Italia e la nuova stagione di governo bizantino non mutò le cose. L'Italia per Bisanzio era prima di tutto una terra da spremere fiscalmente. Le Chiese e la Chiesa. Dal IV secolo, dopo che il cristianesimo era stato dichiarato religione di Stato, la Chiesa aveva avvitato la costruzione del proprio ordinamento, sostanzialmente ricalcando i quadri amministrativi dell'Impero. Il punto di riferimento del sistema erano i vescovi (episcopos, sorvegliante) che garantivano l'unità di intenti e di disciplina liturgica del territorio sottoposto alla loro giurisdizione, la diocesi. I vescovi esercitarono la loro autorità crescente dalla chiesa episcopale (cattedrale) che si trovava in una città o immediatamente fuori dalle mura. Il vescovo, eletto a vita, ordinava i sacerdoti e autorizzava la fondazione di monasteri. Egli non doveva essere reo di crimini, né bigamo o bestemmiatore, né avere incarichi pubblici, mentre dal IV secolo si iniziò a parlare del celibato obbligatorio. L'organizzazione delle Chiese locali ricalcò pressappoco quella dell'Impero in province, con il principio della centralità urbana sul territorio e la gerarchia esistente fra le diverse città. Il vescovo della metropoli di ogni provincia era detto metropolita o arcivescovo e acquisì un ruolo preminente sugli altri vescovi. Le sedi vescovili più importanti corrispondevano alle grandi città dell'Impero: Roma, Alessandria, Gerusalemme, Antiochia, Gerusalemme. L'episcopato di Roma, nel V secolo, si attribuì una maggiore autorità morale rispetto agli altri, autoproclamandosi sede apostolica per eccellenza per aver ospitato il martirio e conservare le spoglie di Pietro e Paolo. La centralità della sede romana era stata la conseguenza di un'elaborazione teorica in base alla quale solo Pietro avrebbe ricevuto da Gesù il”potere delle chiavi” (Vangelo secondo Matteo) e il vescovo di Roma era il delegato di Pietro:fu quindi papa, che in greco vuol dire padre. Roma non fu una scelta casuale. Era il centro del vecchio universo latino, l'antica capitale. L'abbandono di Roma da parte dell'imperatore (capitali divennero Treviri, Milano, Ravenna e Costantinopoli) faceva del vescovo la massima autorità rimasta in città. La scomparsa dell'Impero in Occidente non poté dunque che accelerare il rafforzamento del potere dei vescovi che spesso si ritrovarono a dover proteggere la popolazione e a mediare con gli invasori. La Chiesa si propose come erede istituzionale dell'Impero svanito, rappresentando l'unico elemento unificante in una fase di forte dispersione dei poteri. La Chiesa ricoprì un ruolo importante anche nella conservazione della civiltà latina. Fu deposito della memoria istituzionale e civile antica e favorì, attraverso i vescovi, la sopravvivenza della vita urbana in Europa. Nuovi ideali di vita: il monachesimo cristiano. Il cristianesimo era ancora prevalentemente un fenomeno urbano e mediterraneo. Nelle campagne erano ancora radicati culti pagani legati alla natura, spesso riti agrari tranquilli. L'espansione della religione cristiana nelle aree d'Europa più povere di città trovò potenti alleati nei monaci che riuscivano ad avvicinare al cristianesimo popolazioni cristianizzate dall'alto, attraverso l'imitazione forzata delle conversioni dei loro capi. Monaco (dal greco monachós, significa solitario) era il cristiano che si ritirava in solitudine spirituale. Poteva essere solo, oppure entrare in una comunità la cui vita era organizzata in base a una regola. La vita cenobitica ruotava fisicamente intorno al chiostro del monastero, uno spazio chiuso, simbolo delle chiusura nell'interiorità personale. L'importanza materiale e morale che i monaci ebbero durante il Medioevo è una componente fondamentale della vita sociale di questi secoli. L'Italia fu la culla del monachesimo, sopratutto grazie a Benedetto da Norcia (480-549), tuttavia mentre si diffondeva in Occidente, in Oriente esisteva già una forte organizzazione di monasteri, ad opera di personaggi quali Antonio (abate) o il vescovo di Ceserea Basilio (330-379). Sul monachesimo occidentale prebenedettino vi sono poche informazioni. Esso si concentrò principalmente intorno a uomini-guida come Martino, vescovo di Tours, Isidoro, vescovo di Siviglia, Cassiodoro e Agostino, vescovi in Africa. Da questo panorama variegato emersero due correnti monastiche, quella celtica e quella benedettina. La prima ebbe origine in Irlanda, tardivamente cristianizzata dall'aristocratico bretone Patrizio (V secolo), che divenne vescovo e poi patrono dell'isola. Tra i pionieri del monachesimo celtico i più conosciuti furono Brandano e Colombano che lo esportarono anche al di fuori dell'Irlanda. Il monachesimo celtico era particolare, pertanto la Chiesa di Roma ne tamponò la diffusione fuori dall'isola attraverso la diffusione del monachesimo benedettino, che esprimeva forme di vita cenobitica più moderate e non metteva in discussione il ruolo dei vescovi. Benedetto da Norcia (480-549) nel 529 fondò il monastero di Montecassino inaugurando un modello di monachesimo che limitava i rigori della disciplina ascetica orientale, evitava i pericoli della solitudine e, accanto alla preghiera, valorizzava il lavoro manuale e intellettuale (ora et labora) specie per quanto riguarda la copiatura dei libri. La regola dei monaci benedettini (540) prevedeva la fondazione di comunità molto coese, basate sulla condivisione dei beni materiali, inoltre rispettava l'autorità di un abate e mirava a un'autonomia assoluta: economica, politica e spirituale. I monasteri benedettini, maschili e femminili, si diffusero rapidamente in Italia e in Europa, divenendo uno strumento fondamentale per allontanare i culti pagani dalle aree rurali. Il modello benedettino si impose ben presto, al punto che nel 817, Ludovico il Pio, renderà obbligatoria per tutti i monaci dell'Impero carolingio una serie di norme che ricalcavano la regola benedettina. I monasteri pur essendo strutture private governate da un abate, dipendevano dal vescovo e rappresentavano un importante punto di riferimento. Essi furono molto attivi anche in campo politico, tesi a ricercare (o a garantire) l'appoggio dei potenti, in particolare dei sovrani. In Italia un forte impulso alla diffusione dei monasteri fu dato dalla monarchia longobarda. 4. Bisanzio: un Impero latino dai tratti orientali (V-VII secolo). La parte orientale dell'Impero romano. Nel 476 le insegne imperiali dell'Occidente furono accolte a Costantinopoli, la parte orientale dell'Impero romano, chiamata dalla storiografia moderna Impero bizantino (all'epoca i bizantini continuavano a definirsi romani). Bisanzio era il nome antico di Costantinopoli, rifondata da Costantino nel 330 e divenuta nuova capitale, la nuova Roma. L'Impero bizantino fu romano nella forma istituzionale e cristiano per religione, anche se greco per lingua e cultura. Da Roma, Bisanzio ereditava la struttura politico-amministrativa rigidamente accentrata intorno all'imperatore e articolata in prefetture, diocesi e province. Popolazioni slave e germaniche premevano sui confini della parte europea, mentre in Siria e Armenia occorreva fronteggiare la Persia sassanide. In Egitto e in Siria emergevano anche violenti dissidi di carattere teologico tra nestoriani e monofisiti alessandrini, in merito alla natura del Cristo. Una serie di concili (di Efeso nel 431 e Calcedonia nel 451) segnò prima la sconfitta dei nestoriani, che furono banditi dall'Impero, poi la condanna anche delle posizioni monofisite alessandrine. Fu da Calcedonia che la Chiesa di Roma uscì con il riconoscimento della propria autorevolezza su tutte le altre Chiese, anche se per tutto l'alto Medioevo la superiorità del vescovo di Roma, il papa, non ebbe riconoscimenti formali. Gli anni del conflitto lasciarono invece a Bisanzio una serie di Chiese locali, più o meno indipendenti, e si accentuarono le tendenze centrifughe. Giustiniano (527-565). Tra la fine del V e l'inizio del VI secolo si era avviato un clima di ricostruzione economica, che raggiunse l'apice con l'avvento al potere di Giustiniano (527-565). Nel 532 l'imperatore siglò una pace con la Persia e soffocò la rivolta della Nika, scoppiata per protesta contro l'inasprimento fiscale. Mise poi mano a una riforma amministrativa dell'Impero, riducendo i poteri locali. Grazie a una serie di campagne militari sottrasse l'Africa ai vandali (534), l'Italia agli ostrogoti (553), il sud della penisola iberica ai visigoti (554), riorganizzando le province secondo il modello romano (Restauratio Imperii). Nel frattempo Costantinopoli era arrivata a contare 400mila abitanti. Giustiniano si circondò di collaboratori di alta qualità, sua moglie Teodora, giuristi di spicco, esperti di riforme, grandi generali (Belisario). Tra il 528 e il 535 fece riordinare tutto il diritto romano nel cosiddetto Corpus iuris civilis, raccogliendolo in quattro testi ( Istituzioni, Digesto, il Codice e le Novelle). Fino ad allora l'amministrazione imperiale a Bisanzio si era basata su consuetudini e costumi, mentre la tradizione delle leggi in un testo scritto era un chiaro portato della cultura romana dell'Impero. Il Corpus iuris civilis venne introdotto anche in Italia, spodestando il più antico codice teodosiano. La produzione e il commercio furono elementi primari per la vita dell'Impero bizantino. L'economia ruotava intorno a tre poli: agricoltura, commercio e manifattura, sotto il forte controllo dello Stato. L'agricoltura ricevette una particolare attenzione: la legge agraria (nòmos georgikòs) garantiva l'esistenza di comunità di liberi contadini, riducendo notevolmente l'impiego di schiavi nel lavoro dei campi. Costantinopoli era il principale centro manifatturiero, dove si producevano beni di lusso (tessuti di seta) commerciati soprattutto all'estero. La capitale, con il suo porto, era infatti un importante crocevia commerciale. Per la prosperità dell'economia bizantina fu decisiva l'esistenza di una moneta d'oro forte, il solidus aureus, il bisante, moneta impiegata nel commercio mediterraneo per i successivi ottocento anni. Alla riconquista della parte occidentale. Giustiniano fece del progetto di riunificazione dell'Impero il perno della sua azione politica. Il processo di ricostruzione dello Stato e la prosperità economica lo indussero a impegnarsi in diverse guerre di riconquista in Occidente. Fra il 535 e il 553 si svolse così una vasta campagna militare, combattuta in Africa settentrionale contro i vandali, in Spagna contro i visigoti, ma soprattutto in Italia contro i goti. Giustiniano riconquistò l'Africa romana, l'Italia e parte della Spagna, facendo sì che fossero nuovamente soggetti all'autorità imperiale tutti i paesi che si affacciavano sul Mediterraneo. Va sottolineato come tutte quelle terre che erano appartenute all'Impero romano ed erano passate sotto il dominio dei barbari, venivano considerate ancora dipendenti dall'imperatore d'Oriente che le aveva affidate ai loro re (dato di fatto teoricamente riconosciuto anche da questi ultimi). Dunque i bizantini non erano invasori: quella verso Occidente non era una guerra di conquista, era una L'editto fu una parte importante del processo di rafforzamento del potere regio ed è fondamentale per conoscere l'organizzazione sociale dei longobardi. La loro forza risiedeva nell'organizzazione tribale, che identificava ogni uomo libero come un guerriero (arimanno). Gli arimanni erano inquadrati in farae, famiglie allargate composte da più nuclei imparentati tra loro. Gruppi di fare erano agli ordini dei duchi, i comandanti dei corpi di spedizione calati nella penisola. Sebbene limitata dall'editto, la faida, ovvero la possibilità di vendicare privatamente i torti subiti rifacendosi sui parenti del colpevole, era molto diffusa. Dal punto di vista penale l'editto si basava su un complesso sistema di multe che finivano nelle casse reali. Le leggi proteggevano il guerriero da qualunque comportamento dannoso o offensivo, e recavano traccia di conflitti tra contadini, romani, e proprietari, longobardi. Dal punto di vista amministrativo l'editto testimonia lo sforzo di costruire una burocrazia del regno. Vi compaiono infatti i gastaldi, funzionari regi incaricati di rappresentare il re nel territorio e di amministrare le sue aziende agricole (casali). Infine l'editto introduceva norme a tutela degli elementi indifesi della società (pauperes) tra i quali troviamo le donne. Nell'Italia longobarda, nella prima fase del regno, si accentuarono alcuni di quegli elementi di regresso che già si erano intravisti in precedenza. Il progressivo spopolamento delle città fu accentuato dalla diffidenza che i longobardi avevano per la vita urbana, preferendo concentrare il loro potere nei castelli e negli insediamenti fortificati. Nonostante ciò l'Italia longobarda ebbe le sue capitali: Pavia, Milano, Cividale, Lucca, Spoleto, Benevento e Salerno, tuttavia gli occupanti ne accentuarono le funzioni militari, limitando quelle economiche, commerciali e produttive. Dopo l'età di Rotari però, il quadro dell'Italia longobarda conobbe un miglioramento, come del resto in tutta Europa si registravano già i primi timidi accenni di una ripresa. Il re Liutprando (712-744) cercò di espandere il territorio del regno longobardo a parti dell'Italia dominate ancora dai bizantini. L'espansionismo longobardo preoccupò molto il papa, Gregorio II (751-731), che non si tranquillizzò nemmeno quando Liutprando gli donò una serie di castelli del Lazio, la cosiddetta donazione di Sutri (728). Con l'epoca di Liutprando si può parlare di una prima rinascita dell'Italia, caratterizzata da una certa ripresa dei commerci, dalla maggiore circolazione del denaro e da una ripresa dell'agricoltura. Il regno si regionalizzò ancora di più e intere sue parti (Spoleto e Benevento in primis) andarono assumendo sempre più autonomia. Anche nelle parti della penisola in mano ai bizantini si accentuarono le spinte autonomistiche. Ci furono ribellioni in Sicilia (717-718) e i governi di molte città si dotarono di eserciti propri, esercitando sempre maggiore autonomia. Venezia ad esempio, restò a lungo, formalmente un ducato bizantino, ma di fatto era sostanzialmente indipendente. La Chiesa di Roma lega il suo destino al regno dei franchi. L'Impero bizantino era ormai da qualche secolo lontano dall'Occidente. In Italia era stata la Chiesa a proporsi come mediatrice fra romani e germani, divenendo uno dei pochi punti di riferimento in una penisola divisa. La Chiesa per eccellenza era quella di Roma e questo primato aveva gettato le basi di un conflitto a tratti anche molto aspro. Già nel concilio di Calcedonia (451), la Chiesa di Costantinopoli aveva rivendicato pari dignità a quella romana. Come risposta papa Gelasio I (492- 496) aveva seguito una linea intransigente nei confronti dell'imperatore d'Oriente Anastasio, sostenendo che papa e imperatore erano ambedue necessari al governo del mondo, ma con diverse funzioni. Gelasio proclamava la separazione dei due poteri e il primato della Chiesa di Roma e del suo pontefice contro ogni forma di cesaropapismo dell'imperatore bizantino. Su questa linea si mossero altri papi. Tra essi primeggia la figura di Gregorio Magno (590-604), papa in un momento difficile, nell'Italia che aveva subito le ondate successive della dominazione degli ostrogoti, dei bizantini e ora dei longobardi. Il Papato rinunciò definitivamente all'obiettivo di dirigere l'intera Chiesa cristiana e legò il proprio destino all'Europa occidentale. Del resto i principali popoli germanici insediati in Europa erano ormai cristiani e ciò rendeva possibile per la Chiesa un preciso scopo: persuadere i nuovi governanti a impegnarsi per fini morali e religiosi. Papa Gregorio Magno mantenne stretti contatti con la dinastia merovingia in Gallia e con i visigoti in Spagna, e impresse un forte impulso all'evangelizzazione dell'Inghilterra (tornata pagana dopo le invasioni di angli e sassoni). Il papa risiedeva a Roma, in una fascia di territorio che faceva riferimento all'Impero bizantino e con i longobardi che lo attorniavano. Nel 666 l'arcivescovo di Ravenna aveva ottenuto dall'imperatore Costante II l'autocefalia,ovvero l'autonomia amministrativa e religiosa dalla Chiesa di Roma. Successivamente il contrasto dottrinario tra Roma e Bisanzio si fece aspro sul tema dell'iconoclastia che, tra VII e IX secolo, divise i cristiani occidentali dagli orientali. Il timore del pontefice di vedersi stritolato trail peso dell'imperatore bizantino e l'espansionismo dei longobardi si accentuò durante il regno di Astolfo (749-756) soprattutto quando egli si impadronì dell'Esarcato. Il papa, con il consenso imperiale, chiese allora aiuto ai franchi. La fine del regno longobardo (755-774). Il re dei franchi Pipino il Breve (figlio di Carlo Martello) intravedendo la possibilità di espandersi, scese in Italia nel 755. Egli aveva stretto un accordo con papa Stefano II, in base al quale i franchi sarebbero corsi in aiuto del papa ogni volta che questi fosse stato minacciato. In cambio il papa confermò il ruolo di Pipino come re, consacrandolo con l'olio santo. Unto dal papa, Pipino non era più un re guerriero che aveva preso il trono con la forza (sottraendolo al legittimo erede merovingio) ma un personaggio al di sopra degli altri membri dell'aristocrazia franca. Pipino scese così in Italia, tolse ai longobardi l'Esarcato, ma anziché restituirlo ai bizantini lo consegnò al papa. Furono inutili le proteste di Bisanzio. Papa e re tennero duro, rinsaldando il loro rapporto. La Chiesa di Roma ricevette l'Esarcato, l'Emilia, la Pentapoli e Roma, la base del potere temporale dei papi. Il Papato tutto proteso a creare il suo dominio territoriale in Italia centrale, aveva tradito l'Impero bizantino e da allora nessuna ambasceria bizantina comparve alla corte pontificia. Tuttavia il modo in cui si concluse la vicenda era solo il segno visibile di un antico conflitto tra la Chiesa di Roma e l'Impero/Chiesa di Costantinopoli, conflitto accentuato dalle posizioni iconclaste dei bizantini. Fu anche il primo atto concreto dell'alleanza fra Papato e franchi che sarebbe culminata nell'anno 800 con l'incoronazione di Carlomagno come imperatore d'Occidente. Così come suo padre Pipino, Carlo scese in Italia nel 773, invocato da papa Adriano I a contrastare le incursioni del re longobardo Desiderio (756-774). Carlo con una rapida e dura azione militare sconfisse i longobardi e ne incorporò i territori nel vasto dominio che si era andato costruendo. Desiderio fu fatto prigioniero e il figlio, Adelchi, fuggì a Costantinopoli. La sconfitta militare era solo la conclusione delle difficoltà di fondo che avevano da sempre travagliato il regno longobardo: la debolezza istituzionale, la lentezza con cui si era trovato uno stabile punto di coesistenza con il mondo latino, l'impossibilità di stabilire un rapporto con il Papato. Finiva così nel 774 l'autonomia del regno longobardo in Italia. Il territorio delle Langobardia maior conservò però una propria identità, tanto che Carlomagno assunse il titolo di rex francorum et langobardorum e Pavia continuò ad essere la capitale del regno d'Italia. Nella Langobardia minor il duca di Benevento, Arechi III, continuò a rappresentare la patria longobarda, finché le lunghe lotte per la sua successione non si risolsero con l'intervento dei franchi e la divisione in due principati (Benevento e Salerno). I bizantini seppero rientrare in gioco dall'inizio del secolo X, restaurando la propria autorità sulla Puglia, sulla Lucania e sulla Calabria. mercante e il beduino erano affiancati da un minoranza di popolazione stanziale di contadini e di artigiani che viveva nelle città. L’equilibrio tra questi popoli era precario, i nomadi erano una minoranza dal punto di vista numerico, ma erano anche gli unici che vivevano armati, aveva quindi il predominio sul contadini. La Mecca era il punto di partenza della via commerciale delle spezie, che andava dal sud al nord dell’Arabia. Governata da un’aristocrazia mercantile, la città rappresentava un autentico centro politico e la sua autorità era accresciuta dalla presenza di un santuario, la Ka’ba, la meta di pellegrinaggio più importante della penisola. Nel VII secolo avvenne l’incontro decisivo di tutte queste culture e si assistette alla nascita di un nuovo ordine politico. Il gruppo dominate del nuovo ordine fu costituito dagli Arabi dell’ovest. Questo gruppo dirigente si richiamò alla rivelazione che Dio, aveva fatto discendere sotto forma di un libro santo, proprio su di loro un cittadino della Mecca di nome Maometto. Gli arabi dilagano fuori dalla penisola. Il profeta aveva dato forma a una comunità e ad un organizzazione politica, centrata su Medina, ma non aveva pensato alla sua successione. Fu così che alla sua morte, nel 632, si aprì una specie costituzionale, risolta da un gruppo di seguaci che nominarono Abu Bakr, parente del profeta, come “successore dell’inviato di Dio” califfo. Dunque il califfo era il successore del profeta, ma non era il profeta, era a capo della comunità, ma non un messaggero di Dio. Tuttavia attorno ai primi califfi continuò ad aleggiare un’aura di santità. La guerra di conversione all’Islam cominciò gia con Abu Bakr, ma fu soprattutto Omar a costruire una sorta di impero teocratico, dove fede religiosa e amministrazione e potere militare si fondevano nella mani di un’unica persona. Iniziata come guerra civile, la conquista militare dilagò fuori dall’Arabia. Alcuni storici cercando di spiegare l’espansione dell’Arabia solo con l’entusiasmo religioso, che avrebbe spinto gli arabi a diffondere l’Islam in territorio infedele, convinti dopo i primi successi di godere del sostegno di Allah, e di essere i solo rappresentati della vera religione. Ma spiegare l’espansione tramite il fanatismo musulmano è un errore, in quanto i beduini avevano ancora una conoscenza superficiale dell’Islam quindi la religione non era il motivo dominante. Erano davvero pochi quelli che dopo la conquista si convertivano alla nuova religione. Con il 661 aveva termine la serie di califfi legati da vincoli familiare con Maometto. Con la nuova dinastia chiamata Omayyade, La Mecca e Medina furono sostituite da Damasco, nella funzione di centro coordinatore degli eventi politici e religiosi. Damasco si trovava al centro regione agricola, capace di mantenere una corte, un governo e un esercito ed era situata in un punto da cui era facile controllare le coste del Mediterraneo. La Siria diventava quindi il centro del califfato, che nel periodo omayyade si allargò ancora. I soldati musulmani avanzarono verso Maghreb, conquistando l’ex provincia romana d’Africa, poi si estesero fino alla costa atlantica del Marocco. Arrivarono fino a Costantinopoli e in Armenia, fino al cuore dell’Asia e cominciarono ad avanzare nel nord-ovest dell’India. In Spagna gran parte della popolazione, stanza dell’amministrazione visigota, accolsero con favore l’arrivo dei musulmani, rimasero cristiano solo alcuni focolai, da dove sarebbe poi partito l’attacco cristiano che prende in nome di riconquista. La capitale dell’emirato fu Cordova. Si è soliti generalizzare con il termine arabi, tutti i musulmani, ma i musulmani che passarono nella penisola iberica, che conquistarono la Sicilia, venivano dall’Africa, perciò non erano arabi. Il vasto spazio del mondo musulmano, si estendeva su una serie di paesi, che si possono raccogliere in re grandi aree di produzione. - Le aree di coltivazione sedentaria Erano quelle dove coltivare era sempre possibile, le fasce costiere dove prosperava l’olio, pianure a fondovalle dove si coltivava i cerali, oasi ricche di palmizi. In queste zone si producevano anche frutta e verdure. - Le aree dell’allevamento nomade Erano quelle dove acqua e vegetazione era sufficienti solo per allevare cammelli o altri animali che migravano stagionalmente su grandi distanze. Le aree più importanti di questo tipo erano il deserto arabico e il Sahara. - Situazioni intermedie Erano quelle che si realizzavano ai margini delle altre, soprattutto attorno ai deserti dove erano possibili precarie coltivazione e l’allevamento animale. Contadini sedentari e pastori nomadi convivevano in queste zone e si dividevano l’uso della terra. L’impero bizantino si ritrae ancora. Sotto l’avanzata dei musulmani, l’impero bizantino arretrò ulteriormente i suoi confini. La penisola balcanica fu abbandonata dagli slavi, Costantinopoli dovette difendersi dalle incursioni fra il 674 e il 678, subì un assedio tra il 717 e il 718, e subito dopo la guerra si spostò in Anatolia, dove fu assediata Nicea e occupata Cesarea. Furono anni anche di forte stabilità interna, dalla quale emerse una nuova dinastia di imperatori, di origine siriana, che fronteggiarono la minaccia araba, riuscendo a contenerla. Nel 740 Leone III Isaurico riportò sugli arabi una vittoria ad Akroinos. La dinastia Isaurica aumentò l’ellenizzazione dell’impero bizantino. Leone III propose la traduzione in greco delle leggi di Giustiniano. Nel frattempo vi era un accentuarsi della crisi dei rapporti tra Roma e Costantinopoli. La dinastia degli imperatori Isaurici si contraddissi soprattutto perché combattè contro il culto delle immagine sacre. Lo scontro fra iconoclasti ( i fedeli che rifiutavano le immagini sacre) e iconoduli (quelli che invece si opponevano alla loro rimozione) riguardava un aspetto molto sentito della sensibilità religiosa della popolazione bizantina. Le immagini era stato usate nei primi tempi del cristianesimo a scopo didattico, per insegnare i principi della fede a chi non sapeva leggere, poi i pittori bizantini aveva cominciato a dipingere anche su pannelli più piccoli che le porsene potevano tenere a casa propria, a questi era stato cominciato ad attribuire una funzione miracolosa, fino ad arrivare a sostenere che non erano atti da mani umane. La devozione alle immagine sacre aveva giunto così dei livelli che iniziavano a preoccupare una parte della classe dirigente. Gli imperatori isaurici avevano imposto di sostituire i personaggi con le croci e motivi stilizzati, ma la maggior parte dei monaci aveva preso la difese della icone e delle reliquie. L’opposizione al culto delle icone era forte soprattutto nelle regioni più orientali dell’impero, dove la propaganda islamica, che accusava di idolatria l’adorazione delle immagini sacre, aveva influenze più marcate. Leone III Isaurico voleva liberare la religione dalle superstizioni ereditate dal paganesimo, divenendo così sempre più impopolare nelle regioni europee, Costantinopoli si allontanò ancora di più da Roma. Il califfato degli Abbasidi, una dinastia di riformatori. Non fu tutto merito degli imperatori isaurici, se Costantinopoli sfuggì alla conquista musulmana, a metà del VIII secolo lo slancio travolgente di conquista dell’Islam si era ampiamente esaurito. Il califfato era in difficoltà, travagliato da problemi interni, sciiti e karigiti due sette che non avevano mai voluto riconoscere la legittimità dei successori del Profeta, appoggiati via via da gruppi diversi, incoraggiavano rivolte contro la dinastia. Chi continuava a professare la propria fede in cambio di un tributo fu spinto a convertirsi e venne equiparato ai musulmani da punto di vista fiscale, producendo una crisi nelle entrate del califfato. Nel 750 le popolazioni musulmane della Persia rovesciarono la dinastia Omayyade, gli ultimi superstiti si rifugiarono in Spagna dando vita all’emirato di Cordova. Con la nuova dinastia persiana Abbaside, si affermava un’idea di eguaglianza per tutti i musulmani, e diminuiva il predominio arabo. Gli Abbasidi ridussero drasticamente il potere dei ceti dirigenti arabi e spostarono il nuovo centro del califfato da Damasco a Baghdad. La città divenne la più grande del tempo. Accanto a Baghdad sorsero altre città. Il punto forte degli Abbasidi furono le riforme fiscali e in quello dell’agricoltura, le due riforme erano strettamente funzionali l’una all’altra. Le terre incolte erano affidate ai contadini disposti a metterle a frutto in cambio di sgravi fiscali e i tributi versati erano rimborsati a chi migliorava i sistemi di irrigazione del terreno e a chi introduceva nuove coltivazioni nei propri campi. In questo modo si otteneva un maggior numero di prodotti commercializzabili. Questo però non significava che la condizione dei contadini cambiasse di colpo, ma comunque la riforma abbaside produsse miglioramenti. La situazione di prosperità fu rafforzata anche dalla moneta d’oro, favorita dalla rande quantità di questo metallo accumulato durante la conquista della Siria, della Persia e dell’Egitto. Attraverso il Caucaso si aprirono vie commerciali tra in califfato e i paesi russi, attraverso il Golfo Persico passavano le vie del commercio con la Cina e con l’India. Tra il VIII e il IX secolo risalgono le storie delle Mille e una notte trascorse da Shahrazàd a narrare allo scià, diffuse in Europa nel XIII secolo, intrise della passione araba per il viaggio continuo, con i suoi labirinti che sospingono i protagonisti di regno in regno. Mentre Shahrazàd, racconta Sindibàd e il Marinaio, con eterna fatica e insaziabile fame di conoscere, attraversa paesi fantastici dove si concentra tutto il meraviglioso dell’universo, i mercanti continuano a camminare a vendere le loro merci e a cambiare le monete, nel susseguirsi interminabile delle notti e dei giorni. Spuntano e spariscono le carovane, i porti, i mercati, le navi e i mercanti e intercalati con essi, i cavalli che sanno volare, i tappeti magici che annullano distanza e fatica. È così che si riempiono di sogni le notti di Shahriyàr, scià della Persia. I musulmani in Sicilia (IX secolo) La dinastia abbaside governò fino al 1258 quando Baghdad venne distrutta dai mongoli. Le uniche imprese militari di rilievo furono quelle verso Creta e la Sicilia. La conquista della Sicilia fu soprattutto ad opera di barberi o saraceni e accrebbe la diversità tra queste regione e il resto della penisola. L’invasione cominciò nell’872, e tra 830 e 831 Palermo fu conquistata. Nel 843 con l’aiuto dei cristiani di Napoli conquistarono Messina, e nell’859 Castrogiovanni (Enna). Nell’878 la caduta di Siracusa, la più importante città dell’isola, rappresentò per Bisanzio il segnale che la Sicilia era diventata indifendibile. Taormina fu presa nel 902. Siracusa non riuscì a riprendere dal saccheggio, cominciò così l’ascesa di Palermo, che l’avrebbe ben presto sostituita come capitale dell’isola. Oltre a Palermo cominciarono l’ascesa anche altre città come Agrigento. Si trattò per l’isola intera di un momento di particolare benessere. I musulmani introdussero in Sicilia la coniazione del tarì, moneta d’oro. Portarono innovazioni colturali (cotone, gelso, nuovi tipi di cereali) e diffusero la produzione di tessuti. Dettero impulso alla pesca del tonno. La Sicilia divenne un nodo importante del traffico commerciale fra il mondo musulmano e l’occidente. I musulmani si spinsero anche in Puglia e occuparono Brindisi, e diedero vita all’emirato di Bari, impiantarono le loro basi sotto Cassino, spingendosi da qui entro i muri di Roma. La fine dell’unità del califfato (IX-X secolo) Dalla seconda metà del IX al X secolo il califfato si disintegrò in formazioni politiche distinte, rimanendo a controllare direttamente solo il territorio della Mesopotamia. Nell’869 esplose la rivolta degli schiavi neri, reclutati in Africa orientale, per farli lavorare in condizioni pesantissime, per prosciugare le valli del Nilo e trasformarle in terre adatte alla coltivazione della canna da zucchero. La rivolta finì nell’882, quando i rivoltosi aveva costruito un vero e proprio contropotere in alcune regioni. Il califfato uscì a pezzi dallo sforzo che aveva dovuto affrontare per controllare la rivolta, inoltre approfittando della situazione Siria e Egitto si erano resi indipendenti. Intanto l’Islam fu scosso da un’altra insurrezione, la rivolta dei karmati testimonianza del malcontento degli strati più umili della società. Era un movimento eretico di beduini, fortemente religioso che attirava la speranza dei contadini senza terra, schivi e mercenari. Attaccarono Damasco nel 903, L'ultima fase delle campagne militari di Carlo vide il sovrano carolingio impegnato contro diverse popolazioni a est del Reno e nella zona del Danubio (avari, slavi, croati) e portarono all'annessione al regno della Baviera, dell'Istria e della Croazia. Carlo Magno imperatore. L'espansione dei franchi e il loro rapporto sempre più stretto con il Papato, non fecero che acuire le tensioni con i bizantini. Nel 797, mentre le Chiese di Roma e Costantinopoli erano sempre più lontane a causa della disputa tra iconoclasti e iconoduli, l'imperatrice Irene aveva avvelenato il marito, accecato il figlio e ora sedeva sul trono: il papa dichiarò lei usurpatrice e vacante il trono imperiale a causa della sua indegnità in quanto donna. Da questo evento, il papa prese sempre più le distanze da Bisanzio e cominciò ad adoperarsi affinché fosse Carlo a rimpiazzare, in Occidente, il potere imperiale screditato dall'imperatrice Irene, d'altronde il re franco, alleato del papa, protettore della Chiesa, attaccava ovunque i nemici di Roma. La politica di avvicinamento tra il Papato e Carlo raggiunse il suo culmine nell'anno 800, quando papa Leone III (795-816), accusato di immoralità e spergiuro, fuggì da Roma rifugiandosi alla corte di Carlo, per poi tornare in città scortato dal sovrano franco. Riottenuta la cattedra di Pietro, la notte di Natale dell'anno 800, il papa incorona Carlomagno imperatore dei romani. Dopo 324 anni dalla deposizione di Romolo Augustolo, tornava ad esistere in Occidente, almeno sul piano formale, un Impero romano: difatti si trattava di un regno sovranazionale che all'Impero romano faceva astrattamente riferimento. Il nuovo Impero, forte della legittimazione papale, nasceva cristiano: al regno di Dio nei cieli corrispondeva quello di Carlo sulla terra. Senza mezzi termini, l'Impero carolingio si proponeva come erede di quello romano e come difensore della cristianità e pertanto era in netta contrapposizione con l'altro Impero romano e cristiano, quello d'Oriente, per il quale l'idea di una restaurazione imperiale in occidente, pur non mutando nulla nella sostanza, rappresentava un affronto terribile. Nonostante ciò, Bisanzio non aveva i mezzi per opporsi e dovette adeguarsi al fatto compiuto: nell'812, l'imperatore d'Oriente Michele I riconobbe a Carlo il titolo di imperatore, ma non quello di imperatore dei romani. Per i bizantini Carlo fu il capo dell'Occidente tacitamente ancora sottoposto all'autorità imperiale detenuta dall'imperatore d'Oriente, mentre per Carlomagno e i suoi eredi, l'incoronazione dell'800, rappresentò la resurrezione dei due imperi, d'Occidente e d'Oriente, che avevano caratterizzato l'ultima fase della storia di Roma. L'organizzazione amministrativa dell'Impero. Carlomagno organizzò l'Impero con un forte dirigismo centrale (concentrato sulla sua figura) tuttavia utilizzando le aristocrazie delle regioni sottomesse per controllare i vasti domini imperiali, inquadrandole in nuove istituzioni. L'Imperatore delegava ai conti (comites o graf), alti funzionari di fiducia del re, l'amministrazione della giustizia e il reclutamento dell'esercito di territori non troppo ampi, chiamati appunto comitati o contee, che facevano solitamente capo ad una città. Nei territori di confine vennero istituite le marche, amministrate dai conti della marca, detti anche marchesi o margravi, che avevano una più decisa configurazione militare. Il re teoricamente, controllava l'operato dei suoi funzionari attraverso degli agenti, i missi dominici, di fatto però, nelle mani dell'aristocrazia amministrativa si andò concentrando un potere vastissimo, essendo impossibile per l'imperatore impedire l'occupazione, da parte dei nobili, dei territori che venivano affidati loro. Questi infatti, iniziavano a considerarli come beni personali e a disporne di conseguenza, arrivando persino a lasciarli in eredità. Fu nel tentativo di ottimizzare la gestione di un così vasto territorio, abitato da numerose etnie latine e germaniche, che vennero paradossalmente gettate le basi per la dissoluzione dell'Impero stesso. A favorire il passaggio di una parte di potere sempre più ampia nelle mani dei cosiddetti vassalli del re, fu la nuova ondata di invasioni a cavallo tra IX e X secolo, al punto che nell'847, con il capitolare di Mersen, Carlo il Calvo avrebbe invitato tutti gli uomini liberi a scegliersi un capo potente e a mettersi sotto la sua protezione, dando così un forte impulso alla diffusissima pratica del vassallaggio. Il vassallaggio e la nascita del sistema feudale. Per assicurarsi la fedeltà dei funzionari regi, il sovrano ricorse ai rapporti cosiddetti vassallatico- beneficiari, o più semplicemente di vassallaggio, alla base di quel sistema che comunemente viene chiamato “feudale” o “feudalesimo”. In breve, chi deteneva l'autorità a vari livelli (sovrani, conti, marchesi, ecc.) poteva fare appello, in caso di necessità, in genere militare, a una rete di individui che gli avevano giurato fedeltà, i vassalli appunto. Tale sistema aveva origine dall'incontro di due tradizioni antiche e simili: quella germanica dei fedeli che si riunivano intorno ad un capo in cambio di protezione e quella romana della clientela in cui avvenivano reciproci scambi di favori. Oltre a tale predisposizione, a favorire la diffusione di tale sistema furono: • un'economia poco monetizzata, per cui il re non disponeva di denaro per retribuire i servizi prestatigli, ma aveva molta terra di sua proprietà; • un potere pubblico centrale poco presente che non era capace di amministrare la giustizia né di mantenere un esercito e che quindi non soddisfaceva il bisogno, molto sentito, delle popolazioni di essere difese. Il sistema delle fedeltà vassallatiche fu una forma di organizzazione politica e sociale che si costruì progressivamente e che si basò sul rapporto fra due persone libere, una delle quali, più potente dell'altra, concedeva protezione e beni in cambio di fedeltà e servizi, fino a diventare tra il VII e il IX secolo il cemento della società occidentale. Carlomagno applicò tale sistema ai rapporti con i suoi funzionari, i conti e i marchesi, che esercitavano una carica pubblica in nome del sovrano stesso, al quale erano vincolati da un giuramento di fedeltà che serviva, teoricamente, a tenere sotto controllo le tendenze centrifughe dei nobili. Questi a loro volta avevano le loro reti di clienti armati che ne accrescevano potere e prestigio, a discapito di un potere centrale sempre più debole e circoscritto alla figura dell'imperatore. Il vassallo (dal germanico gwas, uomo) che giurava fedeltà a un signore, faceva atto di omaggio (hominagium) cioè diventava uomo di un altro uomo. I suoi compiti erano di servizio militare al signore, di assisterlo nell'amministrazione della giustizia, di pagare le taglie per il riscatto se fosse stato fatto prigioniero o di aiutarlo a sostenere ingenti spese. In cambio, il sovrano o il signore, si impegnava a mantenere il vassallo concedendogli una fonte di reddito, i proventi dell'esercizio di una funzione pubblica o, sempre più spesso, una terra da sfruttare a vita, il cosiddetto beneficium o feudo (dal tedesco feohu, oggetto prezioso). In origine il feudo indicava il bene prezioso per eccellenza delle popolazioni germaniche, il bestiame. In seguito la parola assunse il significato di dono obbligante, vale a dire un dono per obbligare qualcuno ottenendo la sua fedeltà. Il termine beneficium aveva lo stesso significato e indicava i beni dati in uso precario, ma non in proprietà, al vassallo. In origine il feudo poteva essere un qualsiasi tipo di bene: armi, vestiti, denaro, cavalli, ma sempre più spesso questo termine iniziò ad indicare la concessione della terra. Il feudalesimo fu l'elemento giuridico, politico e sociale caratterizzante i secoli dal X al XII, tuttavia esso non si manifestò sempre e dovunque con le stesse forme. Un nuovo sistema monetario. Completando un progetto già avviato da Pipino, Carlomagno intervenne anche nel settore monetario: • stabilì che a battere moneta potevano essere solo il re o suoi delegati e non i privati; • basò l'intero sistema solo su monete d'argento (monometallismo argenteo), mentre per tutta l'età tardo-romana il sistema si era basato sul trimetallismo (oro, argento, bronzo); • la riforma prevedeva che la libbra o lira si dividesse in 20 soldi, mentre il soldo si dividesse a sua volta in 12 denari. Tuttavia i carolingi non riuscirono a controllare tutto il conio delle monete, e le zecche private (gestite da re, vescovi, abati, nobili, città) ricomparvero dalla fine del IX secolo Dopo il breve periodo di centralizzazione carolingia infatti, la produzione della moneta si restrinse nuovamente ad ambiti regionali. L'uso delle monete d'oro ricomparve solo dopo la metà del XIII secolo. Dopo Carlomagno: la frammentazione dell'Impero. Con molta probabilità, se a Carlomagno non fosse sopravvissuto il solo figlio Ludovico il Pio (814- 840), l'Impero si sarebbe disgregato nelle lotte dinastiche già all'indomani della sua morte nel 814. Non era scomparsa infatti, la concezione patrimoniale del regno, tipica dei franchi, che permetteva agli eredi di spartirsi il regno paterno alla pari di un qualsiasi bene privato. Era evidente come questa concezione minasse l'unità dell'Impero, Ludovico, pertanto, con la Ordinatio imperii (817), stabilì che l'Impero era res sacra (in quanto voluto e consacrato da Dio) ed era perciò indivisibile, almeno nella forma. Cominciando a concepire l'idea di uno Stato che potesse sopravvivere alla morte del suo re, distinguendo la cosa pubblica da quella privata, Ludovico cercò di attuare una riforma legislativa che unificasse tutti i diritti dei popoli sottomessi. Non ci riuscì, come non riuscì ad attuare una riforma dell'aristocrazia amministrativa dei conti, che andava assumendo sempre più potere a discapito del sovrano. Ludovico riuscì ad alienarsi anche le simpatie del papa quando, nel 824, stabilì la centralità dell'Impero rispetto al pontefice, il quale non poteva essere eletto se non avesse prima giurato fedeltà all'imperatore. Si gettarono così i primi semi del secolare conflitto tra l'Impero e il Papato. Avendo come obiettivo l'unita imperiale, Ludovico pensò anche ad organizzare la successione, nel tentativo di evitare che, dopo la sua morte, i suoi eredi entrassero in conflitto fra di loro. Pipino avrebbe ereditato il regno d'Aquitania, il nipote Bernardo l'Italia, Ludovico la Baviera, mentre il figlio maggiore, Lotario, oltre al regno di Austrasia, avrebbe ereditato il titolo di imperatore e la potestà sugli altri tre che non avrebbero potuto seguire politiche estere autonome, dichiarare guerre, stringere alleanze, senza il suo consenso. La nascita di un quarto figlio, Carlo, diede inizio alla crisi dinastica, addirittura prima della scomparsa di Ludovico. A Carlo infatti, l'imperatore aveva assegnato il regno d'Alsazia, parte dei territori che sarebbero spettati al futuro imperatore Lotario che, non contento, si ribellò al padre, sostenuto dai fratelli. Ebbe così inizio una lunga e convulsa guerra tra il padre e i suoi figli. Nell'833 Ludovico fu deposto, poi due anni dopo rimesso sul trono continuando a regnare solo formalmente. Alla sua morte (840), la guerra continuò fra i figli: Ludovico e Carlo, uniti, sconfissero Lotario e Pipino II (figlio di Pipino I) nella battaglia di Fontenoy (841). Nell'842, con il Giuramento di Strasburgo, Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico giurarono fedeltà reciproca ognuno nella lingua delle milizie dell'altro: Carlo giurò quindi in lingua germanica (alto tedesco) mente Ludovico in lingua franca (antenata del francese). Lotario, vista l'impossibilità di sconfiggere i fratelli, scese a patti e nell'843 si giunse al Trattato di Verdun che segnò la fine dell'unità dell'Impero carolingio: • a Carlo il Calvo andò la parte occidentale, corrispondente più o meno all'odierna Francia, e il titolo di re dei franchi occidentali; nei confronti del Papato e fu così che nel 951 Ottone scese in Italia per ristabilire l'ordine, assumendo egli stesso il titolo di re d'Italia salvo poi restituirlo a Berengario, dopo che questi gli ebbe giurato fedeltà divenendo suo vassallo. Tuttavia, non appena Ottone rientrò in Germania per sedare alcune rivolte (953), Berengario riprese la sua politica antipapale, costringendo papa Giovanni XII a chiedere un nuovo intervento dell'imperatore. Nel 861 Ottone scese nuovamente in Italia, eliminò definitivamente Berengario e l'anno dopo venne incoronato imperatore del Sacro Romano Impero delle nazioni tedesche, con sovranità anche sui territori dell'Italia (le corone di Italia e Germania rimasero però separate). Il papa in cambio dell'incoronazione ottenne di mantenere la signoria di Roma e si legò in un rapporto sempre più stretto con l'imperatore al punto che, ogni nuovo papa, appena eletto, avrebbe dovuto giurargli fedeltà prima di essere consacrato. Non appena Ottone ebbe lasciato l'Italia però, papa Giovanni, per allentare la presa dell'imperatore sul Papato, si alleò con i vecchi nemici tra cui lo stesso Berengario. Tradito dal papa, Ottone fu costretto a tornare in Italia e a deporre Giovanni XII (963), mettendo al suo posto Leone VIII e imponendo all'aristocrazia romana di accettare il principio che da ora in poi nessun papa sarebbe stato non solo consacrato, ma nemmeno eletto se prima non avesse giurato fedeltà all'imperatore (Privilegium Othonis). In seguito, Ottone I cercò di estendere il suo dominio su tutta l'Italia (Sicilia esclusa): prima costrinse i duchi di Capua e Benevento a giurargli fedeltà, poi raggiunse un accordo con i bizantini (che controllavano ancora parte della Puglia e della Calabria). L'accordo, sancito dal matrimonio fra Ottone II e la principessa bizantina Teofano, fu di natura perlopiù politica: l'imperatore bizantino infatti, riconobbe ufficialmente la legittimità dell'Impero ottoniano. Nei confronti della Chiesa Ottone ebbe un atteggiamento ambivalente. In Germania si appoggiò moltissimo ai vescovi per tenere a bada l'aristocrazia, portando alla nascita della figura dei vescovi- conti, dei feudatari ecclesiastici, scelti dall'imperatore, che spesso amministravano una città e i territori ad essa limitrofi. In Italia al contrario, Ottone cercò di limitare i già vasti poteri politici detenuti dai vescovi, sostenendo alcune famiglie dell'aristocrazia di ascendenza longobarda che si opponevano ad essi. Nel 973 a Ottone I succedette il figlio Ottone II (973-982) che, dopo aver domato alcune rivolte e respinto le incursioni dei danesi (norreni di Danimarca), riprese il tentativo paterno di sottomettere le terre mussulmane e bizantine nel Mezzogiorno. Radunato un esercito e alleatosi con i duchi longobardi nel 982 sconfisse l'emiro di Sicilia al-Quasim nella Battaglia di Capo Colonna: si trattò tuttavia di una vittoria pirrica in quanto le perdite furono talmente numerose da impedire a Ottone di continuare la spedizione. L'imperatore, colpito dalla malaria, rientro a Roma dove morì in attesa di rinforzi (983). Alla morte di Ottone II, Ottone III era ancora un bambino. Fino al 996 a regnare al suo posto furono la madre Teofano (parente degli imperatori bizantini) e poi la nonna Adelaide di Borgogna. Una volta divenuto imperatore, Ottone III abbandonò a se stessa le Germania e si trasferì a Roma, dove aumentò il controllo imperiale sul Papato e dedicandosi ad una improbabile restaurazione imperiale sul modello di Costantino e di Carlomagno. Nel 1001 l'aristocrazia romana, che considerava il soglio pontificio come cosa propria, costrinse alla fuga l'imperatore e il papa Silvestro II. Nel 1002 l'imperatore morì, seguito dal papa e da Ugo di Toscana, al quale Ottone aveva affidato il controllo della penisola che sprofondò nuovamente nel caos. In Germania, alla morte di Ottone, divenne re il cugino, il duca di Baviera Enrico II il Santo (1002- 1024), che dovette impegnarsi a lungo per ristabilire la sua autorità su vassalli ribelli e per respingere le incursioni degli slavi (ancora pagani). In Italia nel frattempo, era stato eletto re il marchese Arduino d'Ivrea, manifestando nuovamente la distanza politica tra la penisola e la Germania. Enrico nel 1004 scese in Italia, sconfisse Arduino, e si fece incoronare re d'Italia, tuttavia le aristocrazie e alcune potenti città italiane, insofferenti per la politica di controllo imperiale, continuarono a sostenere Arduino. Nel 1013 Enrico scese nuovamente in Italia, facendosi incoronare imperatore l'anno seguente (1014), e costringendo Arduino alla resa. Nel 1021-1022 compì una terza spedizione nella penisola, stavolta contro i bizantini. Alla sua morte nel 1024, mentre in Germania la situazione restò tranquilla, in Italia scoppiarono numerose rivolte. Gli succedette Corrado II il Salico (1024-1039), lontano parente di Ottone I, fondatore della dinastia salica. L'Europa intorno all'Impero ottoniano. • La Francia dai Carolingi ai Capetingi. Alla morte di Carlo il Calvo (877) il regno dei franchi occidentali aveva cominciato a disgregarsi in entità più piccole, al punto che la Bassa e l'Alta Borgogna erano divenute regni autonomi. Nell'888 il successore di Carlo il Calvo, Carlo il Grosso, fu deposto e sostituito dal conte di Parigi, Oddone I, della dinastia robertingia. Da allora, per un secolo, i veri sovrani di Francia furono i conti di Parigi, mentre formalmente la dignità regale rimase ai Carolingi. Nel 987, Ugo Capeto, membro della dinastia dei Robertingi da parte di padre, e nipote dell'imperatore Enrico I da parte di madre, divenne re di Francia inaugurando la dinastia capetingia. L'affermazione totale di questa famiglia si avrà con re Luigi VI (1108-1137), che ridurrà all'obbedienza i conti, stipulerà un'alleanza con il pontefice e creerà le basi per un'amministrazione centrale. Tale politica fu continuata dai suoi successori tra cui Filippo II Augusto (1180-1223). • L'Inghilterra. Oggetto delle incursioni dei vichinghi, in particolare dei danesi, l'Inghilterra venne strenuamente difesa dal re sassone Alfredo il Grande (871-899). Alfredo promosse un fitto incastellamento, costruendo insediamenti fortificati dai quali poi si sviluppò la rete urbana inglese, e si dotò di una flotta, elemento essenziale per respingere le incursioni danesi. Alfredo promosse anche raccolte legislative e una generale riorganizzazione della cultura. Nonostante i massicci sforzi dei suoi successori, nel 1016, il re danese Canuto il Grande conquistò l'isola e si convertì al cristianesimo. La convivenza tra occupanti e occupati fu possibile grazie alle intuizioni di Canuto: egli affidò l'organizzazione statale, già molto sviluppata, a esponenti di entrambi i popoli. • La Spagna. Nella Spagna mussulmana viveva una società multietnica e tollerante, culturalmente molto avanzata. L'emirato omayyade di Cordova era dotato di strutture amministrative funzionali, di una manifattura sviluppata e di un'agricoltura florida. Intorno alla Spagna mussulmana si muovevano i focolai della resistenza cristiana, regni e contee meno sviluppati, più poveri, più rozzi, ma orgogliosamente ancorati alla tradizione visigotica e cristiana e intenzionati a sottrarre all'Islam le terre perdute secoli prima. Fino al X secolo il primato era detenuto dal regno delle Asturie e Léon, sostituito poi dalla contea di Castiglia, dal regno di Navarra e dalla Catalogna. Quest'ultima avviò il suo cammino di autonomia, rendendosi indipendente e maturando caratterizzazioni linguistiche e culturali diverse da quelle del resto della penisola iberica. La Catalogna divenne talmente potente che, intorno all'anno Mille, non solo era in grado di difendersi dalle incursioni mussulmane, ma era giunta ad assediare e saccheggiare la capitale dell'emirato, Cordova. • A est: Ungheria, Boemia, Polonia e Russia. In questi anni anche in Europa orientale si andarono definendo nuove formazioni politiche. L'Ungheria, con re Stefano, si convertì al cristianesimo e divenne un regno, la Boemia, anch'essa cristianizzata, nel X secolo divenne un ducato, sottomesso formalmente all'imperatore, ma che di fatto godeva di un'ampia autonomia. Anche la Polonia nel X secolo divenne autonoma e si cristianizzo. Il suo principe, Miecislao mantenne rapporti di fedeltà con l'imperatore, ma pose il suo paese sotto la protezione del papa, assicurandosi così il predominio della Polonia nei confronti degli altri paesi slavi. Ancora più a est, intorno al lago Ladoga, dal IX secolo si erano formati dei principati per iniziativa di guerrieri e mercanti vichinghi penetrati nei territori abitati dagli slavi orientali. Importante fu il principato di Rus (dal nome dei vichinghi variaghi) che raccolse i paesi attraversati dalla lunghissima via commerciale che collegava il Baltico al Mar Nero passando per Kiev, città fluviale che divenne capitale del principato. Le prime missioni religiose bizantine raggiunsero Kiev nel 860, ma la conversione dell'intera città e del principe russo Vladimir, a seguito di negoziati commerciali e politici con Bisanzio, avvenne solo nel 989. tra il 980 e il 986 a Kiev fu costruita la prima cattedrale e fu istituita la prima figura religiosa russa, il metropolita, di nomina bizantina (è per questo motivo che ancora oggi i russi seguono il rito greco). Nella prima metà dell'XI secolo dall'incontro del diritto consuetudinario slavo e la tradizione bizantina, nacque il primo codice di leggi russe. Tuttavia, alla morte di re Jaroslav (1054) la Russia si sgretolò in una serie di principati e signorie locali. o censo. Con lo sviluppo della signoria territoriale, chi lavorava la terra, fosse servo prebendario o servo casato, fosse affittuario o piccolo proprietario, si ritrovò sottomesso allo stesso modo al potere signorile. Un nuovo modello: la curtis o villa. La curtis o villa è il sistema attraverso il quale i grandi proprietari terrieri organizzavano il lavoro agricolo tra VIII e X secolo. Interessò particolarmente l'Inghilterra, la Francia settentrionale, la Renania e l'Italia del nord, senza rappresentare tuttavia un modello unitario e omogeneo. • La curtis franca. Diffusa principalmente nei territori tra i fiumi Loira e Reno, la curtis, incontrandosi con forme in parte simili, caratterizzò i territori conquistati da Carlomagno. Era un'azienda agraria le cui terre prevedevano due tipi di gestione. La pars dominica delle terre, le terre del dominus, aveva come centro i magazzini e la residenza del padrone, che se ne riservava i frutti per il proprio fabbisogno. Era coltivata dai servi prebendari, il cui lavoro era integrato da quelli che coltivavano l'altra parte dell'azienda, la pars massaricia. Quest'ultima era composta da piccoli poderi, detti mansi, sufficienti ad alimentare una famiglia, affidati al lavoro di servi della gleba oppure in affitto a famiglie di massari liberi in cambio di un canone in denaro o in natura. I massari, oltre al canone, pagavano il proprietario attraverso il proprio lavoro: affiancavano i servi nella coltivazione della parte dominica, impegnandosi a effettuare un certo numero di servizi gratuiti, previsti nel contratto, detti corvées o opere. In questo modo il proprietario risolveva il problema della carenza di manodopera, tuttavia le corvées, che potevano superare anche le tre giornate di lavoro per settimana, furono un segno della dipendenza personale dei contadini, anche quando questi erano uomini liberi che lavoravano in base a un libero contratto. In genere, le terre migliori erano comprese nella pars dominica, tuttavia le due parti non risultavano divise nettamente l'una dall'altra: terre massaricie potevano essere circondate da appezzamenti dominici e viceversa, di conseguenza l'azienda aveva una forma a pelle di leopardo. Nella curtis si tendeva a produrre di tutto, compresi gli abiti e gli attrezzi da lavoro, tuttavia si ricorreva spesso anche al commercio. È un eccesso, infatti, definire quella curtense come un'economia chiusa e autarchica, poiché un certo numero di scambi commerciali interessò sia le produzioni agricole sia i prodotti artigianali. • Il maniero inglese. Anche se con notevoli differenze, un sistema simile alla curtis franca si diffuse contemporaneamente in Inghilterra. Qui però, le aziende erano meno estese e facevano ancora largo uso di schiavi, poiché le guerre contro i popoli scandinavi fornivano un gran numero di prigionieri. Anche in Inghilterra, gli uomini liberi erano tenuti a dei servizi e vivevano intorno alla hall o maniero del signore che offriva protezione e aiuto militare. • In Italia: tra la curtis franca e il casale longobardo. In Italia, l'azienda curtense di tipo franco si sviluppò nelle terre longobarde a partire dal 774, interessando particolarmente l'area padana, la Toscana e il ducato di Spoleto, mentre rimasero totalmente estranee a tale modello le terre longobarde dell'Italia meridionale. In Italia il modello curtense fu meno sviluppato e più debole rispetto a quello d'oltralpe e s'incontrò con un altro sistema, in parte simile, già presente nella penisola: il casale longobardo. Anche nel casale l'azienda era stato organizzata in gruppi di poderi, ma differentemente dalla corte franca, non prevedeva una quota di terra dominica, e la casa del signore si configurava come un centro di riscossione dei tributi più che come cuore dell'azienda. Il casale longobardo inoltre, non prevedeva servizi regolamentati da contratto, al posto dei quali i contadini erano costretti a fornire servizi di volta in volta, a richiesta e pieno arbitrio del proprietario (angarie). Infine, nel casale longobardo, lavoravano principalmente contadini servi o semiliberi. Più simile al modello curtense franco era stata l'organizzazione delle terre personali dei re longobardi, i cui casali, infatti, presentavano una pars dominica intorno alla quale ruotavano le terre dei contadini. Tuttavia, a causa delle particolari caratteristiche economiche della penisola, non si arrivò mai ad una totale sostituzione dell'organizzazione agraria longobarda con quella franca. In Italia infatti, il commercio non era mai scomparso del tutto e la moneta aveva continuato a circolare. In alcuni casi infatti, i contadini del massaricio sostituirono i servizi che dovevano al signore con censi in denaro, e la produzione dell'azienda non fu prevalentemente destinata all'autoconsumo ma interessò anche i mercati. In Italia inoltre, si affermarono importanti aziende intorno ai monasteri, poiché i monaci portavano i propri beni in dote al monastero nel quale entravano. In epoca carolingia, circa un terzo dei territori produttivi della penisola era in mano agli ecclesiastici. Intorno alle loro aziende si organizzò poi tutta una serie di artigiani che fornivano oggetti e beni dei quali la comunità aveva bisogno per il lavoro e per la vita quotidiana (attrezzi, vestiti, ecc.). Fuori dalle curtes. Grandi proprietà e piccoli appezzamenti. Non tutta l'agricoltura era organizzata sulla base delle aziende curtensi. Una parte delle terre infatti, rimaneva frammentata in piccoli appezzamenti di proprietà dei singoli contadini. Su questi piccoli proprietari, i grandi esercitavano solitamente una forte pressione affinché cedessero loro le proprie terre, spesso ricorrendo alle minacce fisiche, nel caso dei laici, spirituali, nel caso degli ecclesiastici: c'erano religiosi che terrorizzavano i contadini minacciando l'inferno se non avessero venduto le loro terre agli enti ecclesiastici. In piena età carolingia, i re erano stati costretti ad emanare dure (anche se inutili) disposizioni per arginare tale fenomeno, poiché così diminuiva il numero dei liberi direttamente sottoposti all'autorità del re mentre aumentavano le clientele private dei singoli signori. Spesso erano gli stessi contadini a cedere le loro terre, in quanto non riuscivano a pagare i tributi che su di essi gravavano. In cambio il signore affidava loro, dietro un corrispettivo, gli stessi appezzamenti che avevano venduto. Il problema però, sorgeva per le generazioni successive a quella del contadino che aveva venduto la terra: i suoi discendenti infatti, sarebbero stati via via sempre più sottoposti all'autorità del signore fino a perdere la libertà. Ciò nonostante, contadini liberi rimasero ovunque, soprattutto in Inghilterra, in Italia del nord, in Germania e nell'Aquitania, mentre la grande proprietà non si diffuse affatto in Scandinavia e in generale nell'area del Mare del Nord, dove prevalevano l'allevamento e la piccola proprietà. Nei paesi slavi rimase in vita una consistente proprietà collettiva della terra (in alcune aree fino al XX secolo), mentre nel principato di Kiev la grande proprietà si diffuse a partire dal X secolo. Nella Spagna cristiana, i piccoli proprietari resistettero a lungo alle pressioni dei grandi signori, tuttavia a partire dal XI secolo essi presero il sopravvento. Le città. Roma aveva seminato l'Occidente di centri urbani che avevano costituito la struttura portante dell'amministrazione imperiale. Dal V secolo però, proprio le città iniziarono a perdere buona parte della popolazione: sotto la spinta delle incursioni dei barbari (attratti da luoghi ricchi come le città appunto) i grandi proprietari di stirpe romana avevano preferito trasferirsi nelle campagne, disinteressandosi dell'amministrazione urbana. Allo stesso modo, i proprietari di stirpe germanica, non conoscendo una tradizione di vita cittadina, si erano insediati nelle campagne, contribuendo al graduale processo di ruralizzazione della società europea. Non avendo più quella funzione rispetto al territorio che aveva fatto la loro forza in età romana, fra IV e VIII secolo molte città si erano spopolate, alcune erano scomparse, altre, chiamate città “retratte” erano rimaste in vita ma molto ridotte: un gruppo di abitazioni radunate intorno a una chiesa, in quanto l'attività religiosa era l'unica rimasta in vita. Così Orléans, Verona, Pavia, Firenze, Lucca, Bologna, Napoli e molte altre. Parigi si restrinse sull'isola della Cité, nel mezzo della Senna. Roma subì un drastico calo della popolazione, diluita ora in tanti borghi sparsi all'interno delle mura aureliane. Anche Aquisgrana, dove Carlo aveva fatto costruire la corte imperiale e la cappella palatina, somigliava ad una capitale ma non lo era, anzi, non era neppure una città. Questo perché la corte imperiale aveva preferito rimanere itinerante, facendosi così mantenere durante gli spostamenti. Così la vita politica si svolgeva in gran parte nei grandi castelli imperiali o in quelli della feudalità maggiore. La stessa cultura altomedievale si sviluppò nei castelli, dove per esempio nacquero i romanzi del ciclo arturiano o le Chanson de geste che celebravano le imprese degli eroi. Le città dell'Alto Medioevo dunque non erano più le stesse dell'età romana, tuttavia l'Europa non fu tutta eguale e molti dati ridimensionano l'opinione tradizionale di un irrimediabile declino della vita urbana. Anche l'Italia non fu tutta uguale: al sud le città escluse dal circuito mussulmano o bizantino scomparvero, mente nel centro e nel nord, strati un po' più larghi di popolazione rimasero fedeli alla tradizione di risiedere nei centri urbani. Nelle città romane, abbandonate dai ceti dirigenti e dai proprietari, una certa continuità di vita istituzionale era stata garantita dalla Chiesa che le aveva trasformate nei centri della sua organizzazione nel territorio basata sulle diocesi. Nell'Italia del nord, le diocesi erano piccole e diffuse, pertanto facilmente controllabili da un centro cittadino. Tutto questo spiega perché i vescovi divennero così potenti, in molti casi le uniche autorità cittadine, ed ebbero poi un ruolo molto importante per lo sviluppo delle autonomie comunali del centro e del nord Italia. Aldilà delle Alpi invece, le città romane erano poche, le diocesi troppo vaste: qui la campagna divenne autonoma anche nell'organizzazione ecclesiastica e la vita urbana entrò totalmente in crisi. Il commercio. Il commercio subì una serie di importanti trasformazioni nella prima metà del Medioevo. Innanzitutto con il rarefarsi della popolazione e degli scambi via terra e il contemporaneo avanzare del bosco e dell'incolto, si era molto deteriorata gran parte della rete di strade costruite dai romani: addirittura, nelle zone di confine, esse erano state deliberatamente mandate in rovina per non favorire le incursioni nemiche. Percorrere gli itinerari di terra era dunque divenuto disagevole, lento, pericoloso e costoso: i signori esigevano pedaggi, i boschi nascondevano ladri e banditi, lupi e orsi. Il commercio medievale perciò, aveva seguito soprattutto le vie d'acqua: mari e in particolar modo fiumi navigabili, che consentivano risparmio nelle spese e nei tempi di trasporto. Un'altra importante trasformazione che riguardò il commercio medievale fu il ridimensionamento del ruolo centrale che il Mediterraneo e l'Italia avevano avuto nell'antichità. Anche la moneta rappresentò un aspetto controverso. Nonostante la sua diffusione sembri oggi meno trascurabile di quanto si ritenesse prima, resta innegabile il fatto che il mercato monetario altomedievale fosse molto ristretto rispetto a quello antico. Anche se la moneta d'oro aveva continuato a circolare nella Spagna mussulmana e in alcune città costiere italiane sottoposte all'influenza bizantina (come Venezia), nel mondo franco nell'VIII secolo essa era stata completamente sostituita dal denarius d'argento dal modesto potere d'acquisto. La rarefazione dei pagamenti in oro rivela una fase di rallentamento della vita economica basata sul commercio e la Capitolo 4 La crescita dell'Occidente. 1. L'anno Mille: la verità e la leggenda. La leggenda della grande paura. L'attesa dell'anno Mille è senza dubbio un mito romantico, secondo il quale al compimento del millesimo anno dalla nascita di Gesù la popolazione cristiana, travolta dal terrore, si sarebbe radunata per aspettare la fine del mondo che avrebbe accompagnato la seconda venuta in terra di Cristo non più in veste di buon pastore ma di giudice e re; poi poichè il giorno era arrivato senza che fosse accaduto niente le folle cristiane si sarebbero riprese dalla paura e avrebbero ritrovato, con la speranza, le energie per cambiare il mondo. Si tratta ovviamente di una leggenda, tuttavia ogni leggenda contiene un nucleo di verità consistente, in questo caso, in alcune profezie che circolavano tra la fine del X e i primi anni del XI secolo e che si basavano sulla tradizione ebraica dell'attesa e sul recupero che ne aveva fatto Giovanni nell'Apocalisse. Quando nacque Gesù, gli ebrei attendevano ancora, infatti, l'arrivo del Messia cui sarebbe seguito il giudizio universale e la fine del mondo. I cristiani fecero propria questa dottrina, e cominciarono ad attendere la seconda venuta di Cristo in terra. Nell'Apocalisse Giovanni aveva lanciato la sua profezia: dopo mille anni dalla nascita di Gesù, Satana sarebbe stato sciolto dalle sue catene, si sarebbe inaugurato sulla terra il regno dell'Anticristo, capo delle forze del male che dall'Oriente avrebbe travolto l'Occidente; dopo una lotta aspra Cristo sarebbe tornato in terra a giudicare e sarebbe cominciata l'età della Gerusalemme celeste. È dall'Apocalisse che è nata l'idea di millenarismo, ovvero l'attesa del giudizio, della punizione, della salvezza, del regno di Satana, del regno di Dio, della discesa della Gerusalemme celeste sulla terra, del trionfo della giustizia sociale. Dotti e storici ragionavano, in quegli anni, su quale ne sarebbe stata la data esatta, e perciò è credibile che in alcuni ambienti si generasse realmente, sulla scorta della profezia giovannea, un sentimento di attesa del millennio. Tuttavia le cronache del tempo danno scarsissimo rilievo al millesimo anno dall'Incarnazione di Cristo e la leggenda della grande paura cominciò a crescere da una a quattro secoli dopo gli eventi ai quali si riferiva. La crescita demografica. La popolazione europea, negli anni del declino dell'Impero romano, era diminuita in maniera inarrestabile, sotto la spinta di un'ondata di epidemie e dell'insicurezza dell'età delle invasioni. Da parte loro, le nuove popolazioni che avevano fatto irruzione nello scenario europeo si erano dimostrate inadeguate a colmare i vuoti demografici poichè non erano affatto numerose. La popolazione europea aveva così toccato il minimo tra V e VIII secolo. A questa fase di decrescita ne seguì una di stagnazione ai livelli più bassi durante l'VIII secolo. Tra VIII e IX la popolazione dette segni di ripresa, seguì un trend positivo dal X, sempre più vorticoso nell'XI, XII e XIII. Fu il protrarsi di questo trend positivo per quattro o cinque secoli a ripopolare l'Europa e a cambiarne la fisionomia. Tradurre in numeri questa crescita è molto difficile, tuttavia le stime dicono che circa 40-55 milioni di persone popolassero l'Europa nel III secolo, circa 30-40 nel VI, 20-35 nel VII, 42 intorno al Mille e circa 61 duecento anni dopo. Le fonti sono limitate, povere e poco precise. L'unica davvero importante è il Domesday book, una grande inchiesta-inventario disposta nel 1086 dal re Guglielmo il Conquistatore per buona parte dell'Inghilterra, e realizzata capillarmente di villaggio in villaggio: dai dati contenuti in quel registro si è calcolato che in Inghilterra vivessero circa un milione e centomila abitanti. Gli storici sono dunque concordi nell'anticipare tra la fine dell'VIII secolo e l'inizio del IX una prima espansione demografica, tuttavia è certo che con il nuovo millennio la popolazione crebbe molto più velocemente che in passato: dalla genealogie delle famiglie si scopre che crebbe la media dei figli per ogni matrimonio, dallo studio degli scheletri emerge un forte aumento della speranza di vita, inoltre rispetto al passato, gli uomini hanno lasciato più tracce di sé. I nuclei abitati si fecero più numerosi e la superficie dei campi guadagnò terreno sui boschi e sulle paludi. Se è unanimamente riconosciuto che la popolazione cominciava ad aumentare, non altrettanto si può dire sul perché. L'unica cosa certa è che l'estensione delle superfici coltivate andò di pari passo con la crescita demografica. È facile intuire che mangiando meglio si muore meno, si vive cioè più a lungo, inoltre, quando hanno mangiato di più le donne hanno sempre fatto un numero maggiore di figli che nei periodi di penuria (uno dei primi effetti della fame è la sterilità). Anche la mortalità infantile può un po' diminuire quando madri meglio nutrite hanno più latte per i loro bambini. Il periodo caldo medievale. Un motore importante dello sviluppo della popolazione fu sicuramente il miglioramento dell'agricoltura e dei consumi alimentari, ma perché la terra avrebbe cominciato a produrre di più? I motivi di questo genere di sviluppo non s'incontrano nei grandi eventi narrati nelle cronache, ma nella storia anonima del lavoro dei contadini, delle piccole innovazioni introdotte progressivamente. In mezzo a cause che continuano a rimanere oscure si può pensare che la scomparsa delle grandi epidemie (dopo l'ultima del 742-743) e quindi un maggior numero di gente sana e robusta che potesse lavorare abbia avuto una grande influenza sulla resa dei campi, tuttavia questa motivazione non è sufficiente: più braccia per il lavoro significa infatti, anche più bocche da sfamare. È importante perciò, considerare i cambiamenti climatici che interessarono i secoli dal X al XIII. Inizialmente definiti come “periodo caldo medievale”, successivamente come “anomalia climatica medievale”, questi furono anni caratterizzati da un addolcimento del clima, segnati da un alternanza equilibrata tra siccità e freddo che incise sicuramente sulla resa dei campi: più l'agricoltura è arretrata, infatti, più l'andamento climatico (specie quello delle precipitazioni) influenza i raccolti. Il miglioramento naturale del clima europeo (sempre se ci fu) rappresentò, però, soltanto la prima molla che rese possibile il miglioramento delle condizioni di vita. Mangiando un po' di più la popolazione crebbe di numero e a questo punto occorreva che aumentassero i prodotti della terra. 2. La svolta: le campagne. Nuove terre e nuovi villaggi. La produzione agricola può aumentare per tre motivi oltre che per lo spontaneo miglioramento del clima: perché si estende a nuovi campi la superficie agricola; perché si organizza meglio il lavoro; perché si coltivano più intensamente gli stessi campi. Tuttavia il fattore che riuscì a cambiare davvero le cose fu l'estensione delle terre coltivate, a cavallo del Mille, risultato del graduale dissodamento di terre incolte e boschi promosse dai monasteri, dai signori dalle comunità e, più tardi, dalle città. Dal 1100 al 1150 l'attività dei colonizzatori cominciò a essere coordinata; dal 1150 al 1200 raggiunse il massimo: fu questa l'età dei dissodamenti collettivi e della creazione di nuovi villaggi; dai primi decenni del XIII secolo il moto dei dissodamenti diminuì progressivamente; poi dal XIV secolo l'incolto riprese il sopravvento. La novità dell'XI e XII secolo sta nel fatto che non si trattò più soltanto di episodi isolati e temporanei: ora si trattava di conquistare in modo permanente nuove terre per l'agricoltura. Da quel momento l'economia delle campagne europee assunse un carattere più accentuatamente agricolo e il pane ricoprì un ruolo sempre più importante nell'alimentazione della popolazione. Questo vasto processo di conquista di nuovi spazi coltivabili è testimoniato dai toponimi dei luoghi, che in molti casi ne conservano ancora oggi le tracce: Ronco, pastina, cetina sono infatti alcuni dei nomi che venivano dati alle nuove terre (il ronco o roncone ad esempio era lo strumento utilizzato per il disboscamento). Allo stesso modo molti toponimi francesi finiscono in -essart, -sart, -écart, sono la trasformazione del termine latino exarare (dissodare, appunto). Il bosco era un ostacolo faticoso da superare: è ovvio dunque che il contadino, se poteva, cercasse di lottare più contro gli sterpi piuttosto che contro la foresta, dunque si può immaginare che inizialmente si spingesse semplicemente un po' più in là con l'aratro senza attaccare direttamente i boschi. Per spingersi nella profondità delle foreste, per dissodare terre vergini, infatti, fu necessario che gruppi di contadini lasciassero le proprie case e si spostassero lontano, costruendo nuovi villaggi nel cuore delle macchie incolte: dall'XI-XIII secolo questi borghi franchi o ville nuove o ville franche, come furono chiamati, cambiarono la fisionomia del popolamento rurale. È difficile sapere chi erano i coloni, perché partivano, che cosa si aspettavano e come vivevano nelle nuove terre, tuttavia sappiamo che nei nuovi villaggi si trasferì a poco a poco un numero crescente di giovani, espulsi dal proprio paese e dal proprio ambiente sociale. La creazione di nuovi villaggi, dunque, nella maggior parte dei casi non fu un processo spontaneo, bensì fu ben diretto dall'esterno. L'arrivo e l'insediamento di contadini-pionieri furono fortemente sollecitati da chi esercitava a vario titolo il potere sui territori. Sono rimasti gli atti con i quali i re, i conti, i castellani, i monasteri, i comuni, disposero concreti incentivi per convincere i contadini a stabilirsi in luoghi molto impegnativi come i boschi o le paludi. avuto a sua disposizione un cibo vario e abbondante. Oltre che coltivatore, era cacciatore, pescatore, allevatore, raccoglitore. La sua dieta comprendeva formaggio, pesce, carne di maiali, pecore, capre e selvaggina che era più numerosa perché l'ambiente era ecologicamente più integro. Insomma la dieta contadina era stata allora molto più varia e abbondante di quanto no fu più avanti quando crebbero le città, la gente divenne troppo numerosa e cominciò a sfamarsi con un prodotto solo: il pane. L'incolto non era mai stato né vuoto né improduttivo, vi si trovava la materia prima più utile, il legno, vi si raccoglievano radici, erbe e frutti, oltre alla cacciagione che procurava un considerevole apporto di carne. Nel giro dei due-tre secoli a cavallo e dopo il Mille grandi tratti della foresta europea vennero distrutti e si persero dunque molti spazi preziosi quanto la terra coltivata. Dopo il Mille anche la dieta, di conseguenza, cambiò, e non per forza in meglio. Con l'aumento della popolazione di determinò un conflitto tra terreni coltivati e terre incolte e se da un lato mettessimo il progresso dell'agricoltura dall'altro troveremmo la riduzione del bosco e delle palude e dei loro frutti. Nell'alimentazione dei ceti popolari, dopo il Mille, diminuirono e poi quasi scomparvero le proteine della carne e sulle tavole troneggiò un pane sempre più povero. La dieta si fece meno equilibrata, favorendo la diffusione della lebbra, che raggiunse le punte più alte in Europa nella prima metà del XII secolo. Con l'uso di integrare il pane povero con la segale si diffuse l'ergotismo. Contare su un numero limitato di prodotti alimentari espose di più ai rischi delle carestie. Gli effetti del disboscamento si videro più avanti: nel Trecento ad esempio l'Arno inizierà a straripare periodicamente a causa dell'erosione degli argini. Si è parlato tanto dell'alto Medioevo come dei secoli bui della storia, ma se scopriamo che il punto dal quale li guardiamo, cioè i secoli dopo il Mille, è un po' meno luminoso di quanto si crede, anche i secoli che l'hanno preceduto ci appaiono un po' meno bui. La trasformazione del sistema curtense. Nel momento del suo massimo sviluppo, fra IX e X secolo, l'azienda curtense aveva posto le basi per la sua trasformazione e per il suo superamento. In alcune zone, come l'Italia e la Francia del sud, le corvées si estinsero in fretta e scomparve la terra gestita direttamente dal padrone (pars dominica). Questa trasformazione non si realizzò con gli stessi tempi in tutta Europa e non comportò la fine improvvisa della curtis. Il dominico tese a scomparire poiché i contadini cominciarono a rifiutarsi di sacrificare giornate di lavoro per coltivare le terre del signore. Questo, così, decise di aggirare la resistenza sostituendo le corvées con un canone in denaro. In ogni caso le prestazioni d'opera furono sempre più contratte e fu ben presto evidente che era molto più proficuo per ambedue le parti rinunciare ai servizi monetizzandoli: così l'azienda si trasformò e tutte le terre vennero concesse in affitto. L'affitto incoraggiava i contadini a produrre di più e permetteva al signore di intascare più denaro, tuttavia siccome il numero di famiglie aumentava i mansi si fecero sempre più piccoli. Non tutte le prestazioni sparirono, anzi, ne vennero introdotte di nuove: per costruire e mantenere castelli e mura, il signore imponeva agli uomini residenti nelle vicinanze un nuovo tipo di servizio, che possiamo considerare di interesse pubblico. 3. La svolta: le città. A cavallo del nuovo millennio anche la vita urbana subì una marcata ripresa. Le città recuperavano vigore, prima con lentezza, poi sempre più velocemente, fino a cambiare gli equilibri complessivi della popolazione tra città e campagna. La vita urbana rinasceva, non nasceva di certo per la prima volta, basti infatti ricordare che già in epoca romana il bacino mediterraneo e l'Occidente erano stati seminati di città, sedi stabili dei magistrati, dei sacerdoti e importanti centri organizzativi del territorio. Era stata proprio la dissoluzione del sistema romano a portare ad una lunga eclissi della vita urbana, tuttavia in alcuni territori, in particolare nelle aree d'Italia dove la tradizione urbana era più forte, tale crisi era stata meno accentuata e molti centri erano rimasti in vita seppur ridimensionati. Il recupero di vigore del fenomeno urbano tra l'XI e il XII secolo si manifestò sia con il ripopolamento dei centri più antichi (Europa meridionale), sia con la nascita di centri nuovi (Europa centro-settentrionale), lì dove i romani non si erano mai spinti o non avevano costruito città. Secondo lo studioso francese Herni Pirenne, la nascita di nuove città sarebbe intimamente legata alla ripresa dei commerci di lungo raggio nella seconda metà del X secolo, quando alcuni mercanti avrebbero deciso di darsi una sede stabile, cioè di risiedere in un punto strategico per la propria attività, nei pressi di un castello, una cattedrale o un'abbazia. In realtà gli abitanti delle città aumentarono soprattutto sotto la spinta all'inurbamento della popolazione rurale che, seguendo un processo inverso a quello dei primi secoli del Medioevo, si spostava ora dalle campagne verso i nuovi o i vecchi centri cittadini. Fu infatti lo sviluppo agricolo a determinare quell'abbondanza di uomini e derrate alimentari che trovò esito nelle città. La rinascita del commercio, che in realtà in alcune aree dell'Europa meridionale non era mai scomparso, fu senz'altro un fatto importante per la crescita della vita economica delle città (si pensi alle Fiandre) ma accanto a tale rinascita dobbiamo collocare necessariamente la rinascita associata al rinnovamento delle campagne. ➢ Che cos'è una città? Secondo lo storico francese Pirenne «la città del Medioevo, quale appare a partire dal XII secolo, è un comune che vive, al riparo di una cinta fortificata, del commercio e dell'industria, e che gode di un diritto, di un'amministrazione di una giurisprudenza eccezionale, che fanno di essa una personalità collettiva privilegiata». Yves Renouard diceva delle città italiane: «Una città è un agglomerato recinto da mura, dove vivono stabilmente uomini di famiglie differenti, dediti ad attività diverse, raggruppati in case numerose, costruite intorno ad una Chiesa dedicata ad un patrono locale, e più spesso anche intorno ad una fortezza. Essa costituisce una comunità particolare, che gode di condizioni giuridiche sue proprie, è cosciente della sua originalità e coordina le attività della campagna circostante per un raggio più o meno esteso». Per Brunetto Latini, notaio, intellettuale fiorentino e maestro di Dante, la città era un «raunamento di gente fatto per vivere a ragione». Altri intellettuali italiani del Medioevo richiamavano, invece, prima di tutto all'identificazione tra città e sede episcopale. Iacopo da Varagine, vescovo di Genova, scriverà per esempio che «civitas non dicitur nisi que episcopali honore decoratur», mentre il giurista trecentesco Bartolo da Sassoferrato dirà che «civitas vero secundum usum nostrum appellatur illa quae habet episcopum», questo poiché il vescovo rappresentò per secoli una delle autorità, se non l'autorità, più importante delle città medievali, soprattutto di quelle italiane. Nell'agiografia di Anselmo, vescovo di Lucca, si trova ad esempio scritto: «cum fugit Anselmus, perdis decus imperiale et nomen perdis nec caput urbis habes!». È indispensabile però, tenere ben presente che all'origine delle città medievali non ci fu un solo fattore, e che ogni singola città ha la propria storia. Esistevano vecchi abitati che erano sedi episcopali che, quanto a popolazione, non erano più di un villaggio. C'erano al contrario, nuclei più recenti che presentavano un insieme di attività economiche e un complessità sociale di tipo cittadino, ma non erano considerate città dato che non erano sede della diocesi. In Italia, dal punto di vista del diritto, soltanto una sede vescovile poteva dirsi città. Tale fatto le attribuiva infatti, la funzione di centro di un territorio. In realtà città era un luogo che aveva funzioni di mercato, amministrative, giudiziarie, religiose, militari, politiche e che estendeva qualche forma di influenza sulla campagna circostante. Era città un luogo fortificato da mura che difendevano gli abitanti e delimitavano lo spazio all'interno del quale si era sottoposti a un diritto diverso, un diritto urbano, con le porte che filtravano ciò che entrava e usciva, uomini e merci. Alcune città furono evoluzione di centri di mercato, altre si svilupparono da centri di amministrazione ecclesiastica o laica, altre nacquero dall'evoluzione in senso urbano di castelli, mentre altre ancora erano centri che erano stati fortificati per motivi militari, altre inoltre furono l'evoluzione di tappe dei pellegrinaggi, mentre infine, città come Toledo, Cordova, Saragozza e Siviglia furono l'evoluzione di città arabe, occidentalizzate dopo la reconquista. In sostanza, le città possono essere divise in tre aree geografiche, scelte in base all'influenza che su ognuna di esse aveva avuto l'eredità romana: • un'Europa nord-orientale, a est del Reno, dove Roma non si era mai spinta o lo aveva fatto limitatamente, dove cioè le città erano un fatto del tutto nuovo; • un'Europa dell'ovest, dove una certa eredità romana di vita cittadina si era mantenuta; • un'Europa mediterranea, dove le città romane, più numerose, rimasero in vita anche se ridimensionate e degradate. L'Italia presentava una situazione molto varia: al sud erano scomparse una quantità impressionante di città, mentre al centro e al nord furono innanzitutto pochissime le città di nuova fondazione (Ferrara, Alessandria, Vercelli, Viterbo), mentre nelle città romane si era mantenuta una certa continuità di vita, soprattutto grazie alla Chiesa, che ne aveva fatto i centri della sua organizzazione nel territorio. La popolazione delle città aumentò soprattutto, dunque, per il nuovo processo di spostamento di una parte degli abitanti dalle campagne. La spinta iniziale venne dall'allargarsi delle famiglie contadine, quando i più giovani si spostavano in città. In alcune aree, soprattutto in Italia, oltre ai contadini espulsi dalla crescita della popolazione se ne andarono dalle campagne anche molti proprietari e membri delle famiglie nobili, attratti dalle prospettive professionali, culturali e politiche che offriva la città. L'incremento della popolazione divenne particolarmente evidente quando, nei castelli e nelle città antiche, iniziò a mancare lo spazio per costruire nuove case. Allora le abitazioni si disposero ai lati delle strade che uscivano dalle porte e formarono dei borghi, popolati in genere da immigrati. La crescita della popolazione può dunque essere ricostruita osservando il ritmo di crescita delle cinte murarie per inglobare e proteggere i nuovi agglomerati: Firenze ad esempio, la cui prima cinta muraria fu costruita intorno all'800, allargò la sua cinta muraria una prima volta nel 996, poi nel 1071 e nel 1090. Tuttavia, non tutte le città si comportavano allo stesso modo. Inizialmente favorirono l'arrivo di immigrati, ma più tardi, nel XIII secolo, quando non vi era davvero più spazio e iniziava a profilarsi il rischio di uno spopolamento della campagna, i governi avrebbero cominciato a espellere vagabondi, mendicanti e prostitute, privilegiando l'arrivo di professionisti, medici, artigiani, piccoli proprietari. quanto quelli di pietra erano costosissimi e difficili da mantenere. La velocità dei viaggi per terra dunque, rispetto all'antichità, era rimasta molto ridotta. La via principale durante il Medioevo era la cosiddetta via Francigena: univa Calais, sulla Manica, a Roma (proseguendo lungo l'Appia si arrivava poi a Brindisi da dove ci si imbarcava per la Palestina), ed era la colonna vertebrale di una vasta rete viaria europea. In realtà, non si trattava di una strada, poiché non fu mai progettata né tanto meno realizzata: era un fascio di strade a grandi linee parallele tra loro e che costituivano una miriade di itinerari differenti. Attraverso la Francigena molta gente si spostava per l'Europa, in particolare i pellegrini. Roma, però, non era soltanto un meta di pellegrinaggio, era la capitale della cristianità e pertanto vi circolava molto denaro, attirando così mercanti e banchieri. Data la lentezza dei viaggi per terra, era più agevole, soprattutto per i mercanti, viaggiare per mare o navigando i grandi fiumi: il Po, il Rodano, la Senna, il Reno, il Danubio, l'Oder erano tutti fiumi che si potevano navigare in ambedue le direzioni, essi dunque ebbero un ruolo di primo piano nel commercio e furono sedi di porti importanti. Anche il traffico marittimo ebbe un grande sviluppo. Il mare aperto era sicuramente pericolosissimo, tuttavia viaggiare per mare presentava dei vantaggi: non c'erano pedaggi, si andava spediti e nel Mediterraneo vi erano moltissime isole che facilitavano la navigazione a vista e gli scali. Per l'Occidente il Mediterraneo era il confine a sud, ma si trattava di un confine aperto, punto di contatto di tre continenti. Non a caso, per facilitare i viaggi e i commerci, si creò spontaneamente una sorta di lingua nuova, detta lingua franca, che si fondava su una mescolanza di italiano, spagnolo, arabo, con verbi all'infinito, usata fino all'Ottocento nei porti come mezzo di comunicazione dei rapporti commerciali fra europei, mussulmani e turchi. Il commercio in Italia. L'Italia fu il perno del sistema del commercio dell'Europa meridionale grazie a quelle città nelle quali non aveva mai cessato di esistere un'attività economica: Venezia, Bari e Ancona nell'area adriatica, Palermo e Messina in Sicilia, Napoli, Gaeta, Salerno e Amalfi nell'area tirrenica, sono tutte città che già dal IX secolo avevano assunto la funzione di centri di scambio tra Oriente e Occidente, manifestando come l'Italia bizantina e mussulmana non si fosse mai chiusa verso l'esterno. Dall'XI-XII secolo si aggiunsero altre due città del Tirreno settentrionale: Genova e Pisa che, insieme a Venezia e Amalfi costituirono quelle che vengono ricordate come repubbliche marinare. Amalfi, già prima dell'anno Mille, ricopriva il ruolo d'intermediazione commerciale tra longobardi, bizantini e mussulmani, commerciando soprattutto con l'Egitto, la Siria e la Tunisia. Tuttavia la sua crescita fu interrotta nel 1073 quando venne conquistata dai normanni. In realtà la società amalfitana era ancora profondamente contadina e la conquista normanna mise fine all'attività di una minoranza di coraggiosi contadini-mercanti che dopo una fase avventurosa per mare tornarono alla loro vita precedente. In età carolingia, Venezia era diventata, insieme a Pavia, l'unico centro del commercio internazionale dove circolava moneta d'oro: i veneziani infatti, acquistavano i prodotti europei pagandoli in argento, poi li rivendevano ai mussulmani o ai bizantini che pagavano in oro. Nel 1082 Venezia ottenne dall'imperatore bizantino Alessio Comneno un privilegio (crisobolla) con il quale la città si impegnava a fornire assistenza navale a Bisanzio in cambio di esenzioni fiscali. Grazie a questo privilegio, che le consentiva di commerciare a nome dell'Impero, ma di seguire una politica autonoma, Venezia divenne sempre più florida e potente: acquistava prodotti di lusso, come la seta, e vendeva ferro, legname, schiavi, vetro, sale. L'imperatore di Bisanzio concedendo tale privilegio a Venezia, rinunciava completamente alla sua antica posizione di predominio nel commercio mediterraneo, tuttavia aveva bisogno del sostegno veneziano per affrontare turchi e normanni. Genova e Pisa, invece, si erano arricchite saccheggiando le basi saracene in Corsica, Africa settentrionale, Baleari e Sardegna, e operavano spesso congiuntamente. Nel 1087, pisani e genovesi saccheggiarono la costa tunisina e per mettere fine alle loro razzie ottennero numerosi privilegi per i loro mercanti. Nel 1099, in cambio del trasporto dei crociati in Terrasanta, acquisirono numerose basi commerciali importantissime sparse per tutto il Mediterraneo. 5. I poteri sugli uomini e sui territori. All'interno dei regni in formazione il potere non aveva sempre padroni riconoscibili e tendeva a concentrarsi in centri di potere locali più piccoli che si reggevano quasi in autonomia. Nei secoli X e XI infatti, si assistette a un cambiamento profondo delle forme di potere: la capacità di controllo dei re si fece ovunque più debole e i territori affidati a conti, marchesi, duchi, aristocratici o ecclesiastici, si trasformarono in signorie dotate di poteri locali autonomi. Non si trattò di un processo di delega dall'alto, bensì tali poteri signorili furono una costruzione politica che si mosse dal basso, dai castelli, dalle terre e dalle clientele armate. In questo scenario, le grandi proprietà videro rafforzate quelle tendenze che avevano già assunto da secoli, che le ponevano come centri di governo sul territorio oltre che di potere economico sulla terra e sui contadini. Il proprietario della curtis era infatti chiamato signore, ad indicare la sua superiorità sugli altri. La trasformazione delle signorie fondiarie nelle quali il signore esercitava l'autorità sui contadini che lavoravano le sue terre, in signorie territoriali nelle quali tutti gli abitanti di una determinata zona, avvenne principalmente poiché i sovrani non erano in grado di proteggere le popolazioni, dunque accadeva che i proprietari fortificassero il centro della curtis o i villaggi prendendo l'intera popolazione locale (non solo i contadini) sotto la sua protezione. I proprietari finirono dunque per occupare il ruolo lasciato vuoto dal potere pubblico e assunsero, oltre a quelli di protezione, compiti politici e amministrativi. Ai signori più potenti vennero così trasferiti diritti sugli abitanti che in passato erano stati una prerogativa regia: ricevettero il cosiddetto diritto di banno, ovvero il potere di comandare, costringere, punire, per mantenere l'ordine pubblico, non solo i loro contadini, ma tutta la popolazione residente in una determinata area. In base al diritto di banno i signori esercitavano la giustizia e ne ricavavano i proventi, ricoprivano funzioni di polizia, riscuotevano taglie, tasse e pedaggi, in particolare sui mercati e sulle fiere. Centro della signoria bannale era il castello, dove il signore risiedeva e dove la popolazione si rifugiava in caso di pericolo. Per garantire il controllo sul territorio il signore si affidava a bande armate di uomini a lui legati attraverso legami vassallatici. Tra i diritti detenuti dal signore uno dei più importanti erano quelli sulle acque. In sostanza il signore aveva il monopolio sul mulino e obbligava gli abitanti a macinare soltanto in esso e a pagarlo con una parte del prodotto. Tale monopolio era spesso esteso al frantoio e al forno. È priva di fondamento invece, l'idea che al signore spettasse il cosiddetto ius primae noctis, il diritto cioè a giacere con la sposa di un suddito durante la sua prima notte di nozze: esisteva soltanto una tassa, detta formariage, se si intendeva sposare una donna appartenente ad un'altra signoria. Uno degli effetti di questa trasformazione fu l'espulsione dei contadini dagli spazi incolti comuni (boschi, paludi ecc.) che divennero riserva personale del signore. Riassumendo, molti proprietari, soprattutto quelli molto ricchi, si trovarono a esercitare sulla popolazione residente all'interno di un dato territorio un potere che andava oltre gli impegni di natura contrattuale, fino ad acquisire la capacità di porre divieti, vincoli, punizioni, che esulavano dalla sfera economica. Per quanto riguarda i sudditi invece, oltre a dover pagare molti più tributi, dovevano sopportare abusi e sopraffazioni di ogni sorta. La maturità delle signorie si colloca tra XI e XII secolo, poi il sistema iniziò ad entrare in crisi a causa soprattutto dell'impoverimento di molti signori e del progressivo controllo delle città sulla campagna circostante che raggiunse l'apice tra XII e XIII secolo. Il castello. Comunemente la parola castello fa pensare a una dimora isolata, magari arroccata, difesa da torri, fossati e ponti levatoi. In realtà il castello fu soprattutto un nucleo di abitazioni accentrato, un villaggio fortificato da una cinta di mura. Il processo attraverso il quale in tutta Europa ne vennero sia costruiti di nuovi sia molti villaggi aperti furono fortificati è noto come incastellamento. L'organizzazione del potere locale ebbe come centro proprio il castello, che divenne, oltre a un luogo che assolveva funzioni difensive, sede amministrativa ed economica. Fu proprio attraverso i castelli infatti, che i signori radicavano il loro potere sul territorio. Sul piano del diritto, costruire castelli era una prerogativa del re, che poteva ovviamente delegarla ad altri. Tuttavia moltissimi castelli venivano costruite del tutto contro la volontà o all'insaputa dei re, inoltre i signori disponevano dei castelli reali come se fossero di loro proprietà. I signori detenevano poteri di fatto, anche militari, quindi costruire edifici a questo scopo appariva come logico completamento di tale situazione di fatto. Le invasioni del IX e X secolo e i progetti signorili rappresentarono alcuni motori dell'incastellamento, ma in molti casi i castelli erano già stati costruiti prima. Dal III secolo infatti, per proteggersi dalle incursioni dei barbari, la popolazione aveva cominciato a fortificare i villaggi. Gli stessi barbari, goti e longobardi ad esempio, costruirono molti castelli, così come i bizantini. Dal IX secolo l'esigenza di difendersi dalle incursioni dei saraceni (Italia meridionale, Provenza) dei vichinghi (Inghilterra, Francia settentrionale) e degli ungari (Germania, Francia orientale, Italia settentrionale) portò alla costruzione di villaggi fortificati, torri d'avvistamento e vere e proprie fortezze. I castelli però, vennero costruiti anche per sostenere la ripresa commerciale e quella demografica e per garantire ai signori il controllo su quelle persone che avrebbero protetto in caso di necessità. 6. I regni, gli imperi. Il quadro di partenza. L'Europa del nuovo millennio intraprese una fase di cambiamenti, è dunque utile conoscere il quadro politico di partenza. L'Impero, restaurato dagli Ottoni a partire dal 962, attraversava una fase di difficoltà: le incursioni degli slavi, le rivolte dei principi in Germania, un controllo sempre più effimero sull'Italia, per farla breve esso non aveva più la preminenza in Occidente. Comprendeva il regno di Germania, il regno sovrano e ancora una volta era da lui che i vassalli la ricevevano. Era fondamentale, perciò, che qui re, quei regni non avessero mai smesso di esistere e potessero rivendicare titoli e funzioni superiori a quelle dei signori. Il progresso della monarchia fu più rapido nei regni normanni, in Inghilterra e in Sicilia, poiché la conquista militare aveva indebolito le aristocrazie locali. In Francia invece, dove la frammentazione era stata più grave, il processo fu lento ma efficace. In Spagna, dopo la reconquista, ci volle molto tempo affinché i vari regni della penisola, con strutture e tradizioni diverse, riuscissero a coesistere in un'unica entità. Un progresso in questo senso mancò del tutto in Germania e nell'Italia centro-settentrionale. L'esistenza dell'Impero infatti, seppur debole, impediva che si formassero delle monarchie nazionali. In Germania i ripetuti tentativi di trasmissione ereditaria del titolo imperiale non si conclusero mai con la fondazione di una dinastia e l'imperatore rimase sempre in uno stato di forte dipendenza dai grandi principi elettori. Il regno di Francia. Il regno di Francia era organizzato come una monarchia feudale, basata cioè sul rapporto di fedeltà che legava al re i titolari di vari tipi di principati territoriali. Già dal 987, con Ugo Capeto, si erano sviluppare molte signorie, più di cinquanta, che detenevano buona parte dei poteri e dei diritti regi. La sola parte amministrata dal re era difatti l'area parigina. A complicare la situazione era la Normandia, feudo appartenente sovrani d'Inghilterra. In realtà, proprio perché debole, la monarchia francese veniva ben accettata dai signori come semplice simbolo dell'unità morale e storica della Francia. I re capetingi si accontentarono di questo ruolo modesto, costruendo però una dinastia solida: tutto questo consentì loro di mantenere vivo il regno e poi di aumentare progressivamente il loro potere, per esempio intervenendo come giudici nelle dispute fra i feudatari. I rapporti feudali inoltre, permisero ai sovrani di garantirsi il sostegno di una clientela di signori fedeli, traendo così vantaggio da quel sistema che li aveva annichiliti. Tra XII e XIII secolo, la propaganda reale rilanciò l'immagine del sovrano, presentandolo quasi come un essere soprannaturale, in quanto unto del Signore, capace con il suo tocco di curare anche gravi malattie. La popolarità dei re di Francia crebbe quindi a dismisura e li aiutò a recuperare prestigio e potere. Nel corso del XII secolo i capetingi inizieranno a gettare le basi per governare meglio il regno e verso la fine iniziarono ad ampliarne i domini diretti, prima con Luigi VI (1108-1137) che ridusse all'obbedienza i feudatari dell'Île-de-France, poi con Filippo Augusto (1180-1223) che riuscì a imporre la monarchia all'interno del regno e la Francia all'esterno, nel panorama europeo. Il regno d'Inghilterra. Con Enrico II (1154-1189), capostipite della dinastia dei Plantageneti, il prestigio e l'autorità della monarchia inglese raggiunsero l'apice. Enrico conquistò l'Irlanda, tuttavia assegnando le terre ai nobili inglesi, gettò le basi delle future frizioni fra la popolazione celtica locale e gli occupanti. Enrico limitò molto il potere dei baroni, approfittando di una loro rivolta per portare avanti il processo di accentramento del potere nelle mani del sovrano. I nobili inglesi, nonostante fossero privati di alcuni privilegi importanti (come riscuotere le tasse e amministrare la giustizia), rimanevano comunque molto ricchi e molto potenti, al punto che il re doveva riunire un gran consiglio per prendere le decisioni più importanti. Principalmente i nobili inglesi ricavavano la loro rendita dalla coltivazione delle terre, organizzate in manieri facenti capo ad un castello e lavorate da contadini liberi e salariati. Enrico ridusse molto anche i poteri della Chiesa inglese: con le Costituzioni di Clarendon del 1164, stabilì il controllo del re sull'elezione dei vescovi. Nel contesto di queste lotte, nel 1170 fece assassinare il suo ex-cancelliere Thomas Becket, nel frattempo divenuto arcivescovo di Canterbury. L'espansione tedesca verso est. I secoli XII e XIII, in Germania, furono segnati da un processo di espansione politica e religiosa verso est. Prima gruppi di eremiti, di missionari, di monaci-guerrieri (i cavalieri teutonici) si impegnarono a diffondere la fede cristiana anche ricorrendo alla violenza, poi molti contadini vennero inviati a colonizzare terre quasi disabitate e incolte. Non fu un processo spontaneo ma fortemente voluto dai nobili tedeschi che così espandevano i loro domini senza ricorrere necessariamente alle armi. 7. Le origini del comune. Il governo delle città. A partire dalla fine dell'XI secolo, gli abitanti di molte città sperimentarono nuove forme di governo. L'organizzazione giuridica e politica che si dettero si chiamò comune. Chi faceva comune acquisiva autonomia rispetto a coloro che detenevano il potere: re, signori, eccetera. I comuni dunque, iniziarono a battere moneta, riscuotere dazi, costruire fortificazioni, tenere mercato, amministrare la giustizia. Comune, però, non è sinonimo di città. Quasi ovunque infatti, si sviluppò qualche forma di autogoverno cittadino, ma non nacque in tutte le città e non ovunque nello stesso modo e con gli stessi tempi. Il comune è dunque un'astrazione, non ne esistette un solo tipo, anzi, ognuno era caratterizzato da peculiarità che lo distinguevano dagli altri. Un tratto simile era però l'autonomia politica, che prese forma quando alcuni cittadini iniziarono a creare magistrature con le quali esprimevano le proprie decisioni. Eccezion fatta per l'Italia, le nuove autonomie si svilupparono nella forma di concessioni di diplomi da parte delle autorità superiori (carte di franchigia o di comune) che riconoscevano prerogative e diritti ma contemporaneamente imponevano la presenza dei propri ufficiali, creando perciò forme di governo miste. In molti casi, la figura di maggior rilievo delle città era rimasta il vescovo che, in Francia e in Germania, assunse spesso anche compiti comitali, era perciò un vescovo-conte, cosa che invece non accadde mai nell'Italia centro-settentrionale. In definitiva si svilupparono tre forme comunali: una in Italia, nelle città del regno italico (fine XI secolo), uno in Provenza e nelle Fiandre (dal XII secolo) e uno in Francia e Germania (tra XII e XIII secolo). I primi rappresentanti della collettività erano detti boni homines o più spesso consoli o scabini, richiamando così l'esperienza repubblicana romana. I primi consoli apparvero a partire dal 1081 a Pisa, Asti, Arezzo, Genova, Piacenza, Bologna, Perugia, dal 1131 a Arles, Nizza, Narbona, Roma, Tolosa e poi dal 1198 nelle città tedesche. Essi inizialmente ricoprivano cariche provvisorie, nate per risolvere problemi eccezionali, tuttavia con il passare del tempo e data l'assenza di un potere centrale, divennero magistrature stabili, oscurando anche il ruolo politico del vescovo e rimanendo in funzione in nome della collettività. Nascendo appunto per dirimere scontri e dissidi, le prime associazioni cittadine vennero chiamate amicizie o paci, proprio a significare la volontà di contenere l'alta conflittualità sociale. I consoli essendo i garanti della concordia dei cittadini, prestavano giuramento davanti alla cittadinanza: da questi giuramenti nacquero poi i primi statuti cittadini. Uso dei consoli era poi quello di redigere dei memoriali nei quali riportavano l'elenco delle opere da loro realizzate o cominciate. ➢ Non tutti gli abitanti della città sono cittadini. Non tutti gli abitanti della città formavano la collettività dei cittadini a pieno diritto. Ad esempio, nel breve redatto a Genova nel 1143, è ben spiegato come per essere ammessi al comune occorreva essere invitati dal console e accettare entro quaranta giorni: se non si accettava, però, si finiva spesso isolati e boicottati specie se si era mercanti o proprietari di un'attività artigianale. Di base, per partecipare al potere, bisognava essere maggiorenni, maschi e cristiani, possedere una casa e poter pagare una tassa d'ammissione: donne, ebrei, mussulmani, servi, immigrati poveri, girovaghi, lavoratori a giornata non potevano dunque partecipare alla politica cittadina, non erano dunque cittadini e non avevano il diritto di eleggere i propri rappresentanti. In ogni caso a prendere parte attivamente alla politica cittadina era circa il 20-25% della popolazione della città, una percentuale alta se consideriamo che nelle democrazie moderne tutto il potere è delegato a pochissimi individui. Altra differenza con la modernità è il concetto di libertà: nel Medioevo, le libertà erano l'insieme dei privilegi o delle garanzie di cui godeva un soggetto. Nel caso delle libertà comunali, dunque, erano l'insieme dei privilegi e dei diritti che ponevano la città fuori dalla legge con cui si governa il resto del territorio. Nella concezione moderna, invece, libertà significa che tutti i cittadini rispondano ad un'unica legge. L'autonomia politica delle città d'oltralpe. In tutta Europa si sviluppò almeno qualche forma di autogoverno delle città, tuttavia i modi e i tempi in cui si realizzarono furono diversi da luogo a luogo. Ci furono anche aree che non conobbero mai il comune o lo conobbero assai tardi e in forma assai ridotta (come ad esempio Parigi). In molte città dell'Europa nord-occidentale le associazioni che unirono i cittadini ottennero il riconoscimento attraverso le carte di comune o di franchigia, tuttavia non sempre in modo indolore. In alcune città i comuni ottennero il riconoscimento dopo lunghi e duri scontri con le autorità, sopratutto con i vescovi. In Francia i comuni ebbero l'appoggio della monarchia, dunque lo scontro fu principalmente tra signori e principi da una parte e comuni, sostenuti dal re, dall'altra. Anche in Germania accadde lo stesso, poiché intenzione dei sovrani era di ridurre il potere dei signori locali, tuttavia il comune non riuscì a scalfire davvero tale potere e fu soltanto un altro potere che si sommava a quelli già esistenti. Nella Francia del sud, in Provenza, i comuni presero forme simili a quelle italiane: anche qui viveva un ceto di nobili che spesso governava assieme a quello dei mercanti. Anche in Provenza, come in Italia, le città si distaccarono dal potere vescovile, tuttavia non fu un processo immediato, quindi spesso e volentieri i due poteri convissero. In Inghilterra, in Spagna, ma anche in Russia, i comuni furono diffusi e incoraggiati per le medesime ragioni. I comuni d'Italia. (ma non dalla dottrina) della Chiesa di Roma, in parte a causa dell'antico e mai sanato distacco culturale e politico tra Oriente e Occidente, in parte perché la Chiesa greca seguiva fedelmente l'imperatore bizantino. Il patriarca di Costantinopoli, Michele Cerulario, fu scomunicato e scomunicò a sua volta il papa, lo seguirono gli altri patriarchi orientali: Antiochia, Alessandria e Gerusalemme si separarono da Roma e si unirono a Costantinopoli nella Chiesa ortodossa. Nel 1059, presieduto da papa Nicolò II (1058-1061), si tenne il sinodo di Roma, durante il quale il pontefice detto tre regole nuove e radicali della vita della Chiesa: in primis condannò il matrimonio dei sacerdoti, che esponeva al rischio di trasmissioni ereditarie dei beni ecclesiastici, poi stabilì che nessun prete potesse ricevere una Chiesa dalle mani di un laico né gratuitamente né per denaro, infine decretò che a eleggere il papa sarebbero stati i cardinali, ovvero i titolari delle diocesi intorno a Roma e delle chiese della città, che per la prima volta furono riuniti in un concilio in rappresentanza della Chiesa universale. Nel 1061, Alessandro II fu il primo papa eletto con le nuove regole. Gregorio VII (1073-1085) e la lotta per le investiture. Nonostante le decisioni del sinodo, il problema dell'investitura laica degli ecclesiastici si fece più insistente: l'imperatore infatti, continuava a nominare vescovi a suo piacimento e tra i suoi sostenitori c'era chi affermava che ciò era legittimo poiché egli non era un vero laico, essendo sta unto del Signore. Nel 1073 però, divenuto papa, Gregorio VII passò all'azione: convocati due concili (1074-1075), dichiarò decaduti tutti i vescovi simoniaci e concubinari, vietò a chiunque di ricevere dalle mani di un laico un vescovado o un'abbazia, pena l'annullamento, condannò le investiture con le quali i re conferivano ai vescovi poteri pubblici. Le azioni di Gregorio VII portarono all'inevitabile rottura con l'imperatore, Enrico IV, che rispose conferendo la nomina all'arcivescovo di Colonia e a vari altri vescovi. Gregorio passò al contrattacco e nel 1075, con il Dictatus papae, proclamò la superiorità del papa su ogni altra autorità terrena: solo il papa dunque, poteva deporre o trasferire i vescovi, deporre un imperatore, sciogliere i sudditi dai doveri di fedeltà verso gli iniqui. Tra papa e imperatore fu lotta aperta. Il clero filoimperiale in Germania era la maggioranza, ma anche in Italia esso era numeroso. Nel 1076 ventiquattro vescovi tedeschi osarono dichiarare decaduto Gregorio VII. Il papa rispose scomunicando l'imperatore e in Germania spuntò subito un nuovo pretendente alla corona. Enrico IV fu però abile: implorò il perdono del papa e, dopo trattative preliminari, nel 1077 si presentò nel castello di Canossa dove soggiornava il papa. L'imperatore era in abito da penitente, a piedi scalzi nella neve e nel freddo; il papa dopo tre giorni gli concesse il perdono e la comunione. Assolto dalla scomunica, Enrico IV tornava ad essere imperatore, tuttavia pretese nuovamente di deporre il papa, fu dunque ancora scomunicato e nel 1083 occupò Roma con la forza, sostenendo l'antipapa Clemente III (1080-1100). Gregorio VII venne liberato con le armi dai normanni di Roberto il Guiscardo, suo fedele alleato. La lotta con l'imperatore continuò con i successori di Gregorio che si opposero ai sostenitori dell'antipapa, eleggendo al soglio pontificio Urbano II (1088-1099), tuttavia era già una lotta che puntava all'accordo che arrivò nel 1112 con il concordato di Worms sottoscritto dall'imperatore Enrico V (1105-1125) e papa Callisto II (1119- 1124). Il concordato era un compromesso onorevole: quando una sede episcopale restava vacante, il nuovo vescovo doveva essere eletto da un consiglio ristretto composto dai canonici della Chiesa cattedrale e dagli alti dignitari della diocesi; l'imperatore era escluso nel regno d'Italia e Borgogna, mentre vi continuava a presenziare in Germania. Nel 1123 il Primo concilio ecumenico lateranense confermò il concordato, ribadì l'obbligo del celibato per i preti, la condanna per i simoniaci e l'indulgenza per i crociati. Il movimento di riforma della Chiesa era quindi divenuto, con la lotta per le investiture, lotta tra papa e imperatore per il potere in Occidente, lotta che ebbe almeno tre risultati importanti. Il primo fu una nuova distinzione tra spirituale e temporale, riconoscendo per la prima volta una separazione tra la sfera di azione della Chiesa e quella dello Stato. Il secondo fu la perdita da parte dell'imperatore dei diritti nella scelta dei vescovi in Italia e in Borgogna, diritti che mantenne invece in Germania. Il terzo, infine, fu la conferma della centralità della Chiesa di Roma nella cristianità. Ne usciva esaltata la figura del pontefice che non era più vicarius Petri ma vicarius Christi. Fu da questo momento che la Chiesa si orientò chiaramente verso una soluzione monarchico-papale, divenendo una monarchia teocratica, con un forte apparato burocratico che prese il nome di curia, dal nome delle corti dei re e dell'imperatore. Il progetto di Federico I Barbarossa (1125-1190). Il concordato di Worms (1122) era stato un compromesso. Il conflitto tra Chiesa e Impero continuò infatti a lungo. Enrico V era morto senza eredi (1125) e il regno di Germania era retto dalla famiglia sveva degli Hohenstaufen, i cui sostenitori furono chiamati ghibellini dal nome di uno dei loro castelli. A portarli sul trono, nel 1138, era stata un'elezione non del tutto regolare, ottenuta dopo aspri scontri con la famiglia dei guelfi, duchi di Baviera, la cui candidatura aveva l'appoggio del papa. Federico I, imparentato con entrambi i gruppi, fu scelto come re di Germania nel 1152. Federico I detto il Barbarossa (1125-1190) aveva ampi progetti e volle risollevare l'Impero dalla crisi nella quale versava. Innanzitutto dovette risolvere la situazione in Germania, dove la quasi continua guerra civile aveva dato grande potere ai principi elettori. A Roma le cose non andavano meglio: la nobiltà romana voleva sempre più potere e si appoggiava al popolo della città per influenzare l'elezione del pontefice. Papa Eugenio III (1145-1153) per riportare l'ordine in città chiese l'aiuto di Federico, tuttavia l'imperatore non era personaggio da accontentarsi di essere uno strumento nelle mani del papa. Egli infatti aspirava al governo del mondo (dominium mundi), cioè al controllo sul Papato, sull'Italia e sulle altre monarchie europee. La riflessione teorica dietro questo progetto era opera dello zio di Federico, Ottone di Frisinga: l'Impero germanico è un potere di portata universale, superiore agli altri, perché tale fu quello romano del quale è continuazione diretta. Anche se si tratta palesemente di una finzione, Federico cercò in tutti i modi di ribadire le ascendenze romane del suo Impero, anche attraverso la richiesta di canonizzazione di Carlomagno (1165), ma sopratutto attraverso lo studio del diritto romano, che era il diritto imperiale per eccellenza. Il papa, l'imperatore e le città d'Italia. I re di Germania erano automaticamente re d'Italia e, in quanto tali, imperatori. Si era trattato però di re assenteisti, quasi per nulla presenti nel governo del regno. Nelle intenzioni del Barbarossa invece, tornare a occuparsi dell'Italia, per recuperare il prestigio e la pienezza dei diritti imperiali su quelle terre, era divenuto una priorità. Uno dei grandi problemi irrisolti del regno erano i vasti territori governati dalla grande contessa Matilde di Toscana (da Brescia, Bergamo e Mantova, fino ad Arezzo, Siena e Corneto). Matilde, sebbene fosse grande feudataria dell'imperatore, aveva donato i suoi beni alla Santa Sede, ricevendoli indietro dal papa a titolo di vassallaggio, infine, dopo aver sostenuto il papa nella lotta per le investiture, nel 1111, li aveva di nuovo affidati come feudi all'imperatore Enrico V, che si era dunque trovato a essere, per quei territori, vassallo del papa: una situazione insostenibile. La morte di Matilde (1115) aggravò la situazione, poiché il papa rivendicava quei beni, mentre l'Impero li pretendeva per sé. A complicare il quadro italiano c'erano poi due nuove realtà: i comuni del centro-nord e il regno normanno, alleato del papa, a sud. Federico Barbarossa scese in Italia una prima volta nel 1154, per farsi incoronare da papa Eugenio III. Dieci anni prima, c'era stato un moto popolare, il papa era stato cacciato ed era divenuto capo della città Arnaldo da Brescia, che aveva predicato la necessità che la Chiesa tornasse ad essere povera e ponesse fine al suo potere temporale. Federico, incoronato nel 1155 da papa Adriano IV, aiutò il papa a porre fine al regime comunale e Arnaldo finì sul rogo. I rapporti tra papa e imperatore però, si raffreddarono in fretta. Federico non apprezzava l'alleanza del papa con i normanni, mentre il papa non apprezzava gli interventi sempre più frequenti dell'imperatore sulle nomine vescovili, specie in Germania. Lo scontro iniziò verbalmente quando il cardinale Rolando Bandinelli dichiarò che tutto l'Impero non era che un grande feudo concesso dal papa all'imperatore. Dal 1158 però, Federico iniziò a rafforzare il suo potere in Italia: poteva ricavare prestigio e denaro ripristinando i diritti imperiali (perlopiù imposte) sulle ricche città venete e lombarde. L'Italia comunale difatti, era il punto debole dell'Impero, in quanto le città si autogovernavano e non riconoscevano più l'autorità imperiale. La città più potente a quel tempo era Milano, pertanto nel 1158, Federico scese in Italia alla testa di un grande esercito e obbligò i rappresentanti della città a giurargli fedeltà. Convocò poi la dieta di Roncaglia dove, sostenuto sul piano teorico dai giuristi dell'Università di Bologna, ordinò che i comuni gli restituissero tutte le regalie, ovvero gli introiti e le funzioni di competenza regia: imposte sugli scambi e sulle merci, sul diritto di battere moneta, sulle saline e sui metalli, amministrazione della giustizia e difesa del territorio. Nella mente di Federico l'Italia era destinata a finanziare il suo progetto di dominio sul mondo, sperava infatti di ricavarvi almeno trentamila libbre d'argento all'anno. Milano gli fu subito ostile quando egli cercò di imporvi un podestà di sua fiducia che governasse insieme ai consoli. L'imperatore infatti, diversamente da come si crede, non voleva sopprimere i comuni, bensì voleva costringerli a pagare e soprattutto a riconoscere l'autorità imperiale, pertanto voleva riappropriarsi di tutti quei diritti che avrebbe poi riconcesso a tutti. La salita al soglio pontificio del cardinale Bandinelli, con il nome di Alessandro III (1159-1181), complicò la situazione: intorno al papa infatti, si formò un esteso movimento anti-imperiale che comprese, oltre allo stesso pontefice, molti comuni veneti e lombardi. Federico allora sostenne un antipapa, Vittore IV (1159-1164), ma venne scomunicato, fatto gravissimo considerando che nessuno era obbligato a obbedire a uno scomunicato. Nel 1161 Milano si sollevò contro l'imperatore, venne ripresa, duramente piegata e costretta a pagare cifre smodate. Ben presto però, Federico si trovò a fronteggiare due leghe di città appoggiate dal papa, prima la lega veronese (1164) formata da Verona, Padova, Vicenza e Treviso, poi la potente lega lombarda, sancita dal giuramento di Pontida (1167), tra Cremona, Brescia, Bergamo e Mantova. Nel 1176, nella battaglia di Legnano, l'esercito imperiale venne battuto, così nel 1177 si arrivò a una tregua e poi nel 1183 alla pace di Costanza: Federico riconobbe la lega lombarda (nella quale era confluita anche la lega veronese) e rinunciò alla nomina degli ufficiali delle città e ai diritti sulle imposte, i comuni in cambio si dichiararono suoi vassalli. Simboli del pellegrinaggio, singna peregrintionis, erano la bisaccia e il bordone, la conchiglia, la croce e infine la palma. La reconquista della Spagna. Gli “infedeli” non erano solo in Oriente. Il califfato di Cordova e l'emirato di Granada infatti, occupavano ancora l'Andalusia e confinavano con regni cristiani forti: quello di León, quello di Castiglia, quello di Navarra, la contea di Barcellona e quella di Portogallo (feudo del regno di Castiglia). Il culto di san Giacomo, santo nazionale iberico, alimentò lo spirito di reconquista, ovvero della riconquista dell'Andalusia dai mussulmani. Si trattò di un lungo processo, in atto già dal VIII secolo, e che culminerà solo nel 1492 con la caduta di Granada. La reconquista non fu uno scontro tra regni confinanti, fu un'impresa collettiva della cristianità occidentale. I re cristiani di Spagna furono molto abili, s'imparentarono con le casate francesi e ottennero l'impegno delle altre potenze occidentali nella penisola: dalla metà dell'XI secolo i pontefici iniziarono esplicitamente a invitare i cavalieri cristiani ad andare in aiuto dei regni iberici. Nel 1063, papa Alessandro II dette il suo appoggio alla guerra portata avanti dal regno unito di León e di Castiglia e dal 1102 l'impresa della reconquista ebbe la qualifica di crociata. Il re Ferdinando I e suo figlio Alfonso VI strapparono ai mori diverse città, soprattutto grazie all'aiuto di cavalieri francesi e del condottiero castigliano Rodrigo Diaz de Bivar, detto il Cid Campeador (il signore guerriero), che ispirò un noto poema epico, “Cantar de mio Cid” (1207). Come nasce l'idea della crociata. L'idea della resistenza e della lotta armata contro gli infedeli era radicata in antico nel pensiero cristiano, basti pensare alla risonanza che venne data alla modesta vittoria di Carlo Martello nella battaglia di Poitiers (732). In seguito, dalla metà del secolo XI i pontefici si erano impegnati a sostenere la reconquista in Spagna e avevano diffuso l'idea della giusta utilizzazione della guerra in difesa della Chiesa, contro i pagani e gli infedeli che la minacciavano. Tra le due civiltà esiste, oggi, una profonda differenza dal punto di vista del rapporto con la religione, dato che attualmente in nessun paese occidentale il cristianesimo può definirsi religione di Stato, mentre in alcuni paesi arabi Stato e religione si identificano e le leggi si modellano sulle norme del Corano. In passato anche il cristianesimo è stato però uno degli strumenti principali della politica e della cultura delle aree in cui si è diffuso: nel Medioevo lo spazio europeo infatti tese a identificarsi con la cristianità. Tra il X secolo e l'inizio dell'XI all'interno del mondo mussulmano si era profilato un rimescolamento, cui era seguito una nuova fase di scontri con i cristiani. L'Islam era infatti diviso in due tronconi, uno che faceva riferimento al califfo abbaside sunnita di Baghdad e uno che invece obbediva al califfo fatimida sciita del Cairo. Siria e Palestina erano divisi in una serie di stati piccoli e deboli oggetto di contesa dei due califfati. Nel frattempo popolazioni turche, dall'Asia centro-meridionale, si spostavano verso ovest e molti turchi selgiuchidi (convertiti all'Islam) erano stati assoldati dai califfi come mercenari e, venendo ricompensati con estesi possessi terrieri, avevano acquistato grande potere. Dal 1055 i turchi iniziarono a imporsi in Persia, Iraq e poi in Armenia e Cappadocia dove sconfissero i bizantini nella battaglia di Manzikert (1071). Gerusalemme e la Siria furono strappate ai fatimidi e in pochi anni l'Impero selgiuchide si estendeva dall'Egeo all'Afghanistan, tuttavia, sebbene più restrittivi degli arabi, i turchi non impedirono mai ai cristiani l'accesso ai luoghi santi. Gli antefatti. Quanto erano pericolosi i turchi per l'Occidente? Quanto lo erano per Bisanzio? C'era davvero bisogno di liberare il Santo Sepolcro? Le crociate servirono davvero a permettere ai cristiani di compiere i pellegrinaggi? Si trattò di difesa o di attacco all'Islam in un momento critico della sua storia? L'escalation che portò alla prima crociata iniziò nel 1054, quando alcune chiese latine di Gerusalemme erano state chiuse al culto. Nonostante un controllo più militarizzato della città e l'imposizione di tasse e dazi ai pellegrini, non erano stati i turchi, però, a dare l'ordine, bensì il patriarca di Costantinopoli all'indomani dello scisma. Questo e altri incidenti negli anni successivi erano stati riportati in Occidente con grande allarmismo, c'erano stati insomma diversi abusi di potere, ma non risulta che i pellegrini corressero pericoli più gravi che in passato. Nel 1095, l'imperatore bizantino Alessio Comneno chiese aiuto all'Occidente, tuttavia la situazione dell'epoca non era più grave di quanto non lo fosse stata all'indomani della sconfitta di Manzikert (1071). Tutto ciò significa che le ragioni della crociata, non erano tanto negli “infedeli”, quanto interne alla cristianità occidentale. L'appello di Urbano II a Clermont (1095). Nel 1088 era stato eletto papa Urbani II, un monaco cluniacense, fervente riformista ed erede morale di Gregorio VII. Tra il 1094 e il 1095 non potendo risiedere a Roma, dove resisteva l'antipapa Clemente III, viaggiò molto nel sud-est francese e nell'Italia centro-settentrionale, con lo scopo di serrare le fila dei suoi sostenitori per la vittoria definitiva all'interno della Chiesa. Nel progetto del papa c'erano una serie di concili, in particolare uno da tenere con degli emissari bizantini per tentare di ricucire lo scisma del 1054. Il concilio si tenne a Clermont-Ferrand, nel 1095. Alla sua conclusione Urbano II pronunciò un celebre discorso nel quale invitava i cristiani a frenare i conflitti, a tornare uniti e intraprendere un pellegrinaggio di penitenza durante il quale li autorizzava a soccorrere con le armi la Chiesa orientale minacciata dagli “infedeli”. Li invitava anche a portare sulle vesti, come segno, una croce rossa ricamata o cucita, pertanto chi partì fu chiamato crucesignato o più semplicemente crociato. Il papa dunque faceva appello ai latini per aiutare i bizantini, ma aggiungeva abbastanza esplicitamente di volere questa guerra per liberare l'Occidente dai litigiosi conflitti che lo laceravano. L'appello ebbe il risultato sperato, d'altronde un appello alle armi lanciato da un papa non poteva passare inosservato. La crociata dei poveri di Cristo (1096). Pietro l'Eremita, un predicatore di Amiens che godeva della fama di santità, nel 1096, a Colonia, mentre predicava con fervore la necessità del pellegrinaggio ai luoghi santi come mezzo di redenzione, trovò l'ascolto di un cavaliere, povero ma abile con le armi, Gualtieri Senza Averi. Intorno ai due si riunirono diverse migliaia di persone che ben presto sfuggirono a tutti i controlli. La crociata dei poveri di Cristo, come venne chiamata, era costituita da un pugno di predicatori, di poveri cavalieri poveri, diseredati, secondogeniti, un misto di contadini senza terra, di poveri abituati a pellegrinare, avventurieri, malati, vecchi. Essi partirono verso i luoghi santi senza organizzazione e senza vettovagliamento e per sfamarsi saccheggiarono le campagne e le città lungo il percorso, massacrando soprattutto gli ebrei che fino ad allora avevano convissuto tranquillamente con i cristiani. Seminarono violenze selvagge tra Worms, Treviri, Colonia, Praga, Ratisbona. Molti si dispersero, in parte furono annientati dal re d'Ungheria, i pochi che giunsero a Costantinopoli, i più vecchi e inermi, appena passati nei territori turchi furono sterminati. La prima crociata (1099). La prima vera crociata ebbe inizio quando partirono vari contingenti militari guidati da personaggi prestigiosi, esponenti delle nobiltà europea, come Ugo di Vermandois, fratello del re di Francia, Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, Boemondo d'Altavilla, figlio di Roberto il Guiscardo, infine il conte di Tolosa e quello di Fiandra. Quest'esercito si mise in marcia nel 1097 da Costantinopoli senza un progetto preciso: nel giro di due anni espugnarono Nicea, Edessa e Antiochia, infine nel luglio del 1099, conquistarono Gerusalemme, massacrando quasi tutta la popolazione mussulmana ed ebrea. Finalmente il Sepolcro era liberato. Dopo la conquista i capi crociati si riunirono per organizzare le terre occupate ed elessero Goffredo di Buglione avvocato (difensore) del Santo Sepolcro. Si gettarono così le basi del regno latino di Gerusalemme o regno di Terrasanta, di cui però Goffredo non fu mai ufficialmente re, in quanto il titolo regale spettò al papa. Alla morte di Goffredo (1100) gli succedette il fratello Baldovino, già conte di Edessa. Oltre al regno di Gerusalemme si crearono altre tre formazioni politiche, tre signorie feudali concesse da Goffredo: il principato di Antiochia, assegnato a Boemondo d'Altavilla, il principato di Edessa, affidato a suo fratello Baldovino di Borgogna, e la contea di Tripoli, conquistata nel 1109 e affidata a Raimondo conte di Tolosa. Pisa e Genova ottennero numerosi privilegi commerciali, come compenso per aver trasportato i crociati in Palestina, e da allora colonie di pisani e genovesi si impiantarono in tutti i centri commerciali delle regioni conquistate. Anche Venezia, nonostante non avesse partecipato alla crociata per non inimicarsi i clienti mussulmani, prese parte a questa espansione commerciale. Gli ordini religiosi cavallereschi. Uno dei prodotti della crociata fu la nascita in Terrasanta degli ordini dei monaci guerrieri, per difendere i luoghi santi appena conquistati e i pellegrini. Alla fine della crociata infatti, il regno di Gerusalemme era di nuovo sguarnito e, trattandosi di un piccolo regno cristiano in mezzo al mondo mussulmano, andava difeso da uno forza militare stabile. Nacquero così degli ordini religiosi del tutto nuovi che vennero detti monastico-militari, in quanto si trattava effettivamente di monaci, che giuravano fedeltà al papa, facevano voto di castità, assistevano i pellegrini, che al contempo però, svolgevano anche funzioni militari. Il teorico di questa figura ibrida di monaco-guerriero fu Bernardo di Chiaravalle nel suo “De laude novae militiae”. Tra i principali ordini di monaci cavalieri vi erano: l'ordine degli Ospedalieri di San Giovanni (1113, tutt'ora esistente con il nome di Cavalieri di Malta), incaricati di accogliere e difendere i pellegrini; l'ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro, incaricati della difesa della tomba di Cristo; l'ordine dei Cavalieri del Tempio o Templari (1120), si diffuse presto in tutta Europa e divenne Capitolo 5 “L'età d'oro”: il Duecento e il primo Trecento. Nel corso del XIII secolo la popolazione europea raggiunge il suo massimo. Le città crescono, si fortificano di nuove mura e si trasformano. Nelle campagne si estende ancora lo spazio dedicato all'agricoltura. La crescita materiale delle città è accompagnata da una crescita culturale, commerciale, produttiva e politica. Alla metà del Duecento si cominciano a coniare nuove monete d'oro, tra le quali si impone il fiorino di Firenze. Cresce il potere monarchico del papa e prende il via una forte ondata di repressione del dissenso (eresie). Si rinnova il conflitto tra Papato e Impero per la supremazia, mentre si assiste all'ascesa delle grandi monarchie europee che rafforzano la propria autorità su nobili, clero e città. L'Italia va incontro a grandi trasformazioni politiche, con i comuni del centro-nord che avviano una nuova fase di espansione nelle campagne. Ai primi del XIV secolo si annuncia la crisi. La popolazione smette di crescere, la produzione e le banche sono in difficoltà, si segnalano carestie frequenti, compaiono tensioni nel mondo del lavoro. 1. La grande crescita delle città e delle campagne. Le città. La popolazione europea, dopo aver dato segnali di ripresa a partire dall'VIII-IX secolo, aveva cominciato a crescere vorticosamente dai secoli XI e XII. Nel corso del XIII raggiunse il suo massimo. Circa 42 milioni di persone vivevano in Europa intorno al Mille, 61 intorno al 1200 e circa 70 milioni all'inizio del Trecento. La Francia, con la Fiandra, contava circa 20 milioni di abitanti, la Germania 14, la penisola iberica e l'Italia ognuna 8-10 milioni, l'Inghilterra 3-4, mentre solo in Svizzera sarebbero vissute 600.000 persone. Queste cifre hanno però solo valore indicativo e non tutti gli studiosi concordano su questi numeri. Per quanto riguarda le città, escluse Costantinopoli (350-450.000 abitanti) e Baghdad (circa 1 milione), al vertice troviamo le città italiane, in primis Milano (150-200.000 abitanti), poi Venezia e Firenze (100.000). Delle altre città europee solo Parigi superava i 100.000 abitanti, mentre intorno ai 50.000 abitanti si trovavano città come Cordova, Granada, Genova, Palermo, Gand, Colonia, Novgorod e Salonicco. Londra contava circa 35.000 abitanti (in Inghilterra solo York, Norwich e Bristol superavano i 10.000), così come Tolosa, Barcellona e Valencia. Intorno ai 20.000 abitanti si trovavano città quali Ypres, Praga, Strasburgo, Atene, Corinto e Durazzo. In Italia si trovavano città: da 40 a 50.000 abitanti (Bologna, Verona, Brescia. Cremona, Siena e Pisa); da 20 a 40.000 (Padova, Pavia, Mantova, Parma, Piacenza, Ancona, Fano, Lucca, Roma, Perugia, Napoli, L'Aquila e Messina). Vi erano poi 59 centri tra i 10 e i 20.000 abitanti e altre 67 tra i 6 e i 10.000, definibili come piccole città. Il flusso di gente che si spostò in città nel corso del Duecento fu dunque molto intenso: erano stati soprattutto i contadini a trasferirsi, seguiti poi da molti proprietari fondiari. Tuttavia ben presto le città iniziarono a regolare l'afflusso di persone. Occorreva infatti, che la città non fosse né poco popolata, per evitare la scarsità di manodopera, né troppo, per evitare mancanza di abitazioni o di pane. Il segno più evidente della crescita della popolazione fu la costruzione di nuove mura: tra XII e XIII secolo le mura di Firenze si allargarono per tre volte, Milano nello stesso arco di tempo raddoppiò la sua estensione. Le città duecentesche però, quando lo spazio iniziava a scarseggiare, crebbero anche verso l'alto e sono un esempio le numerose torri costruite dalle famiglie nobili, per motivi di difesa e di prestigio. Verosimilmente, dunque, le città erano tutte un cantiere e per tanto, in particolare in Italia, i comuni iniziarono a emanare regolamenti sull'edilizia, sulle misure delle strade, sull'igiene e sullo spegnimento degli incendi. Si costruirono ospedali, fonti, acquedotti, palazzi pubblici per gli uffici e anche grandi cattedrali come quella di Notre-Dame di Parigi o Santa Maria del Fiore a Firenze. La crescita dell'attività edilizia generò la necessità di manodopera, in particolare di manodopera specializzata (capomastri, carpentieri e muratori), ma provocò anche diffusi disboscamenti dato che il legno rimaneva il principale materiale di costruzione. La campagna. Nonostante il forte inurbamento la maggior parte della gente continuava a mantenersi con il lavoro della terra. La popolazione aumentò anche in campagna e continuò a farlo almeno fino al 1240. parti ampie di territorio furono coperte di una rete di piccolissimi centri abitati e case isolate che si frapposero tra le città e i villaggi. La prosperità generale continuava a dipendere dalla terra: città ben popolate non avrebbero potuto vivere in mezzo a campagne spopolate, in quanto più cresceva una popolazione che non produceva da sola di che sfamarsi, più alla campagna veniva chiesta una produzione che superasse il semplice autoconsumo. Una risposta importante alla minaccia delle carestie era data dal commercio, attraverso una fitta rete di scambi tra i “granai” dell'epoca (Provenza, Sardegna, Sicilia, Puglia, Tunisia) e le città. Esse si occupavano di organizzare il trasporto, la conservazione e la vendita dei cereali ai mercati urbani. In Italia il grande sviluppo demografico, l'accentramento urbano, l'addensarsi di numerosi centri in aree limitate contrastava con la povertà delle campagne, spesso incapaci di assicurare il necessario alle città dalle quali dipendevano, anche in annate di buoni raccolti. Pertanto, tutte le città più grandi, a continuo rischio fame, misero a punto leggi eccezionali per i tempi di carestia: tassavano i cittadini oppure cacciavano dalla città i forestieri, le prostitute e i mendicanti. Nonostante la difficile situazione dell'approvvigionamento, però, nel corso del Duecento le carestie furono un po' meno gravi e frequenti di quelle del passato e di quelle che a fine secolo e soprattutto nel Trecento gettarono l'Europa nella fame. L'aumento del bisogno di alimenti per la popolazione urbana spinse a destinare alcune zone ad agricoltura intensiva, favorendo il latifondo alla piccola proprietà. Nei paesi mediterranei si intensificò la produzione di vino e olio, generando una demarcazione tra l'Europa meridionale consumatrice d'olio e quella più settentrionale che al suo posto utilizzava grassi animali quali il burro o lo strutto. La liberazione dei servi e i nuovi contratti agrari. Le città rivestirono, secondo il sociologo Max Weber, il ruolo fondamentale nel processo di sgretolamento del potere signorile nelle campagne, ed intorno ad esso si è costruito un mito storiografico, immaginando un flusso ininterrotto di povera gente nascosta in città nell'attesa del riconoscimento della libertà. In realtà i vincoli di carattere servile di molti contadini del tempo si erano allentati, e molti grandi proprietari, signori laici ed ecclesiastici, incontravano difficoltà nella gestione dei loro grandi patrimoni. È presumibile, dunque, che molti contadini, che fino al XII secolo avevano continuato a dipendere da un signore, iniziassero da allora in poi a estendere spazi di libertà. Fuggire in città non era l'unica soluzione. Dalla fine del XII secolo infatti, iniziarono ad apparire le carte di franchigia o di libertà, frutto di laboriose trattative e accordi economici dettagliati. In queste carte diritti e doveri venivano messi per iscritto e i contadini, seppur continuando a giurare fedeltà a un signore, ottenevano una certa autonomia. In Italia una delle più antiche è quella concordata nel 1207 a Rocca di Tintinnano in Toscana. Tuttavia, nonostante questi accordi, molti contadini italiani si trovarono progressivamente esclusi dall'uso degli spazi comuni e ciò si tradusse in un nuovo motivo di impoverimento. Un altra modalità si basava sulle liberazioni collettive. Nel corso del Duecento ci fu un'accelerazione del processo di liberazione dei servi, con affrancazioni di interi villaggi o territori, volute dalle città. Il più noto è il Liber paradisus, con il quale, tra il 1256 e il 1257, Bologna riscattò 5791 servi. «Dio», si legge nel Liber, «creò gli uomini liberi per loro natura e bisogna restituirli all'originaria libertà». In realtà i comuni liberavano i servi per due motivi: per sfoltire le città sovraffollate e ricacciare i contadini in campagna, ma soprattutto per aumentare la popolazione tassabile. Infine la libertà si poteva comprare, riscattandola direttamente dal signore che la metteva in vendita. Così, alla fine del XIII secolo, tanti contadini europei arrivarono a coltivare la terra da uomini liberi. In qualche caso la terra che lavoravano era di loro proprietà, tuttavia per la maggior parte si trattava di campi altrui coltivati in base a un contratto di lavoro, dietro il pagamento di un canone in denaro o in natura. Anche per i contadini quindi, cresceva il bisogno di denaro per pagare i canoni, per riscattare la libertà personale, per rifornirsi di prodotti e attrezzi. Di conseguenza dal XIII secolo le campagne iniziarono a pullulare di usurai che prestavano denaro a un forte interesse. Le università e la crescita culturale nelle città. Nell'alto Medioevo le scuole monastiche avevano rappresentato i centri del sapere, ricoprendo un ruolo notevole nella conservazione ed elaborazione della cultura. Dall'età carolingia avevano poi iniziato a diffondersi le scuole episcopali o cattedrali, con sede nelle città. Le più importanti erano nel nord della Francia (Chartres, Reims, Orléans, Laon, Parigi) in Inghilterra (Canterbury), e in Spagna (Toledo). Queste mano a mano superarono per importanza i monasteri, tuttavia accanto ad esse crebbero anche delle scuole che possono essere definite laiche. La crescita dell'economia urbana fu accompagnata infatti da una marcata crescita culturale. Gli uomini d'affari avevano bisogno di notai, uomini di legge, insegnanti, avevano la necessita di saper leggere e scrivere, di tenere i conti, di conoscere altre lingue oltre al latino. Soprattutto nell'Italia comunale, dunque, la borghesia istituì scuole pubbliche laiche per trasmettere ai propri figli una cultura prevalentemente pratica. S'infrangeva così il monopolio dell'istruzione detenuto dagli uomini di Chiesa. Tra le opere più importanti vi era il Liber abaci, del matematico pisano Leonardo Fibonacci, il quale importò dagli arabi la numerazione indiana, che diventerà l'unico modo di scrivere i numeri e di far di conto. Tuttavia, non si deve commettere l'errore di credere questo accesso più largo all'istruzione come un fenomeno di massa: la maggior parte della popolazione, e in particolare le donne, continuavano definizione dei lombardi come calcolatori, usurai, avidi, e al tempo stesso pavidi e poco adatti alla guerra e alla cavalleria, arrivò ad assumere coloriture razziste. Ben presto si diffuse l'uso della lettera di cambio o contratto di cambio, un atto notarile con il quale il mercante che si recava all'estero evitava di trasportare grandi quantità di denaro liquido e che consentiva di nascondere con il cambio delle monete gli interessi ottenuti manipolando appunto i tassi di cambio tra le valute. La lettera di cambio era ritenuta lecita dalla Chiesa, prestare denaro invece, era considerato peccato di usura quando non fosse per puro spirito di carità e solidarietà. In realtà ogni interesse, anche quello che oggi viene definito come legittimo, incappava nella definizione di usura, creando così un giudizio automaticamente negativo sui prestatori di denaro che però svolsero un'attività fondamentale. L'attività creditizia infatti è fondamentale per i consumi ed un segno di dinamismo dell'economia, pertanto la presenza di tanti prestatori fu importantissima per lo sviluppo di tante attività urbane. Le leggi antiusura medievali rallentarono lo sviluppo del credito, ma impegnarono i cristiani che operavano nel settore a cercare mezzi leciti per percepire comunque degli interessi aldilà dei divieti e a discutere sul concetto di giusto prezzo. In realtà nonostante la condanna globale della Chiesa, la pratica rimase diffusa e diversificata. I tassi d'interesse infatti, variavano dal 12% fino al 60%. L'attività di prestito consentì la rapida formazione di cospicui patrimoni e così accadeva che gli usurai cristiani, in punto di morte, spesso, donassero parte dei propri beni ai poveri o alle chiese per mondarsi l'anima. Per questa forte ostilità morale nei confronti dell'usura, questa pratica divenne ben presto appannaggio degli ebrei, che non avevano limiti alla propria attività. Il ritorno della moneta d'oro in Europa. Alla metà del Duecento in varie parti d'Europa si cominciò a pensare al conio di nuove monete, prima in argento, poi in oro. Il prezzo dell'argento infatti, aveva subito un aumento eccezionale e le monete con esso coniate erano molto instabili, dato il loro scarso valore, dunque difficilmente utilizzabili per il commercio su scala internazionale. Diverse città della Francia e dell'Italia quindi, su imitazione delle monete arabe e bizantine, iniziarono a coniare in oro. L'augustale fu coniato nel regno di Sicilia dal 1231, il genovino dal 1252, il ducato di Venezia (zecchino) dal 1284, lo scudo in Francia dalla fine del secolo, l'amborgino di Milano dai primi anni del XIV secolo, tuttavia fu il fiorino di Firenze, coniato dal 1252 con impresso il giglio, simbolo della città, a spodestare rapidamente tutte le altre monete, assumendo un ruolo simile a quello che il dollaro ha poi avuto nel Novecento. Il fiorino d'oro ebbe tanta presa perché era una moneta sicura, il cui titolo non cambiò mai: gli stessi grammi d'oro (3,35) e sempre la stessa lega (24 carati). Inoltre i mercanti fiorentini avevano un raggio d'azione più ampio e questo contribuì a diffondere ovunque la loro moneta. 3. La Chiesa Teocratica. Innocenzo III (1198-1216) e l'apogeo del potere monarchico del papa. Nel 1198, Lotario dei conti di Segni, membro della nobiltà romana, salì al soglio pontificio con il nome di Innocenzo III. Il suo pontificato (1198-1216) segnò il trionfo del progetto, iniziato nel XII secolo, di fare della Chiesa una teocrazia, rivendicando il potere assoluto su tutti i governi della terra. La teoria politico-religiosa sviluppata da Innocenzo III non era del tutto originale. Egli infatti applicò con abilità le teorie formulate dai suoi predecessori, trasformandole in principi nettissimi: «Pietro ha ricevuto da Cristo il compito di governare l'intero mondo secolare»; «il papa non è il successore di Pietro ma il vicario di Cristo»; «la Chiesa è come l'anima mentre l'Impero è come il corpo che ne ricevi gli impulsi vitali»; «la Chiesa è il sole e l'Impero la luna che da esso riceve la luce». Traducendo questi principi in scelte di governo concrete, alla fine del pontificato di Innocenzo III (1216), il Papato era davvero la prima potenza politica d'Europa. Innocenzo innanzitutto dovette risolvere alcune questioni interne: ridusse il ruolo del capo del comune di Roma (senatore) a quello di un semplice funzionario pontificio; costrinse i feudatari a giurargli nuovamente fedeltà; recuperò i territori dell'Esarcato, come la marca di Ancona e il ducato di Spoleto, che erano finiti nell'orbita imperiale. Fondamentale fu poi il rapporto che legò il papa alla normanna Costanza d'Altavilla, figlia del re Ruggero II e sposa dell'imperatore Enrico VI. Ella raggiunse un accordo con il papa, definendo i caratteri della dipendenza feudale della Sicilia dal papa, e assegnando al pontefice la tutela sul figlio Federico. Fu così che dal 1198, anno della morte di Costanza, al 1208, anno della maggior età di Federico, Innocenzo III fu reggente del regno di Sicilia. Il pontefice intervenne anche nella successione al titolo imperiale. Nel 1201 riconobbe i diritti di Ottone di Brunswick, guelfo, contro quelli di Filippo di Svevia, fratello del defunto Enrico VI. In cambio del sostegno del papa, Ottone concessa ampie libertà alla Chiesa tedesca e rinunciò alle pretese sulla corona di Sicilia che andò così a Federico II di Svevia (1208), pupillo del papa. Quando però Ottone IV, divenuto imperatore, disattese le promesse fatte in precedenza, Innocenzo III lo scomunicò, poi spinse affinché fosse Federico II a divenire imperatore, forte del sostegno del re di Francia Filippo Augusto. La contesa divise i sovrani europei: Filippo Augusto si schierò con Federico e con il papa, il re d'Inghilterra e il conte di Fiandra, in aperto conflitto con il sovrano francese, si schierarono invece con Ottone IV, venendo però sconfitti dai francesi nel 1214 nella battaglia di Bouvines, ricordata come il primo esempio di guerra continentale europea, sia per il numero dei contendenti sia per la consistenza degli eserciti. Nel 1215 Federico fu quindi incoronato imperatore, rinunciando alla corona di Sicilia che passò al figlio. Con le sue manovre politiche e diplomatiche, Innocenzo III, pur rimanendo teologicamente fedele alla concezione della separazione tra spirituale e temporale, riuscì a diventare un punto di riferimento per l'Impero e per le altre monarchie europee. I re di Castiglia, Aragona, Portogallo, Sicilia, Polonia, Inghilterra, Boemia, Bulgaria, resero tutti omaggio al papa che assunse così quel ruolo che più di un secolo prima aveva teorizzato Gregorio VII con il Dictatus papae (1075), ovvero quello di maggiore autorità terrena dell'Europa cristiana. La quarta crociata e il sacco di Costantinopoli (1204). Alla morte del Saladino (1193) i suoi domini si frammentarono dando così la possibilità ai crociati di organizzare nuovi interventi. Innocenzo III rilanciò allora l'idea di crociata, definendo giusta ogni guerra combattuta in nome della Chiesa, comprese quelle contro gli eretici. La nuova ondata di crociate ebbe tre tappe fondamentali: il sacco di Costantinopoli (1204), il massacro degli albigesi, catari della Francia meridionale (1209), e la spedizione di Las Navas de Tolosa (1212), nella quale i re cristiani di Castiglia, Aragona e Navarra sconfissero il califfo di Cordova, riducendo la Spagna islamica al solo regno di Granada. Quello che sorprende maggiormente è che nel 1204 i crociati presero e saccheggiarono Costantinopoli, una città cristiana, e non una terra mussulmana. A prima vista potrebbe sembrare che ciò fu il frutto della deviazione dell'itinerario originario della crociata, ma a ben guardare, il sacco di Costantinopoli fu la conclusione inevitabile del grave deteriorarsi dei rapporti tra i bizantini e l'Occidente. Da tempo ormai Bisanzio aveva intrapreso la fase calante della sua storia e aveva perso il controllo su porzioni estese del suo territorio. Lo scisma (1054) e la nascita della Chiesa ortodossa, non avevano fatto che aggravare il distacco. Le prime crociate, partite in teoria per aiutare i bizantini, ne aggravarono soltanto la crisi, mentre gli italiani avevano completamente soppiantato i bizantini nel controllo del commercio mediterraneo. A Costantinopoli, dove per secoli avevano convissuto in pace mercanti di diverse etnie, si moltiplicarono gli episodi xenofobi contro veneziani, genovesi e pisani. L'imperatore di Bisanzio aveva così iniziato ad avvicinarsi al Saladino, con il quale raggiunse un accordo religioso nel 1185: i mussulmani potevano pregare liberamente nelle moschee di Costantinopoli mentre il rito greco veniva garantito in Terrasanta. Non a caso dunque, le imprese dei crociati miravano a sbriciolare le forze dei nemici dell'Occidente, si trattasse di mussulmani come di bizantini, nonostante l'obiettivo dichiarato della quarta crociata fosse sempre la liberazione di Gerusalemme. I crociati partirono nel 1202 e non giunsero mai né a Gerusalemme né in Egitto (dove avevano intenzione di attaccare i mussulmani). Il piano era infatti il seguente: i crociati sarebbero stati trasportati gratuitamente da navi veneziane, a patto che prima aiutassero il doge, Enrico Dandolo, a recuperare l'isola di Zara e a insediare sul trono bizantino un sovrano gradito a Venezia. Zara fu conquistata senza grandi difficoltà e nel 1203 i crociati giunsero a Costantinopoli, dove insediarono Isacco II Angelo, che era stato detronizzato poiché amico dell'Occidente. Il 13 aprile 1204, però, in seguito a una rivolta, i crociati attaccarono la città e si diedero al saccheggio ottenendo un grande bottino. Il sacco di Costantinopoli provocò una forte crisi di coscienza per molti crociati che, partiti per liberare il Santo Sepolcro dagli infedeli, si erano ritrovati a uccidere cristiani e a saccheggiare una delle capitali stesse della cristianità. Dopo il sacco, i territori bizantini furono divisi: nacque un effimero Impero latino d'Oriente, guidato dal conte di Fiandra Baldovino I, gli stretti, i porti, tre quarti di Costantinopoli andarono ai veneziani, mentre l'imperatore si ritirò nel regno di Nicea, mantenendo formalmente in vita l'Impero. Da Nicea, nel 1261, con l'aiuto dei genovesi, Michele VIII Paleologo riconquistò Costantinopoli e abbatté l'Impero latino, ricostituendo almeno formalmente l'Impero bizantino. Nei fatti si trattava di un debole stato greco, limitato alla Tracia, alla Grecia e alla Macedonia, che rimase in vita fino al 1453. Le eresie. La Chiesa conobbe molte posizioni dottrinali che furono definite eresie (dal greco hairesis, filosofia scelta in libertà), ovvero dottrine che la documentazione di parte cattolica descrive come eterodosse in quanto opposte all'ortodossia romana. Molte di esse crebbero tra XI e XII secolo, quando gruppi di eterodossi comparvero in Francia, Germania e Italia. Onorio III. La crociata si indirizzò contro l'Egitto ma con scarsi risultati. In seguito nel 1228, Federico II risolse la questione dell'accesso ai luoghi santi con accordi diplomatici che gli valsero l'accusa di infamia per aver trattato con gli infedeli. La sesta crociata (1248-1250), alla quale partecipò anche l'imperatore fu diretta nuovamente contro l'Egitto, tuttavia la cattura del re di Francia Luigi IX mise fine alla spedizione e il re fu liberato solo dopo il pagamento di un riscatto. Infine Luigi IX condusse una settima crociata (1270) assieme al fratello Carlo d'Angiò, re di Sicilia, e ai genovesi. Diretta verso Tunisi, anch'essa si risolse nel nulla. Nel 1291 cadde nelle mani dei mamelucchi (i turchi d'Egitto) l'ultima piazzaforte cristiana in Oriente, San Giovanni d'Acri. 4. Il cristianesimo evangelico. Domenico e Francesco. Mendicanti per imitare Cristo Innocenzo III sapeva che di fronte ai mutamenti che investivano la società a tutti i livelli la chiesa doveva rispondere con un’arma di rinnovamento, l’arma adatta la trovò negli ordini mendicanti. Punto di partenza come in passato fu la povertà. Ma con una novità, non bastava la povertà del singolo monaco nella ricchezza complessiva del monastero, occorreva che fosse povero il singolo nella povertà di tutti gli altri fratelli. La chiesa intuì che questa poteva essere la risposta che finora era mancata di fronte ai fermenti di rinnovamento della società. Predicando tuttavia un messaggio simile a quello degli eretici, questi mendicanti iniziavano la riconquista della coscienza della chiesa. Con loro essa provava a riassorbire senza armi, senza roghi ne condanne, le spinte eretiche presenti nella cultura laica. I mendicanti scelsero di vivere di carità. Essi somigliavano agli eretici prima di tutto per la loro ispirazione al vangelo. Si radicarono in ambianti popolari, non furono cioè il prodotto di dispute colte. A differenza degli eretici questi però predicavano l’obbedienza alla chiesa e crebbero più nelle città che nelle campagne, in quelle città da dove i monaci si allontanavano per l’isolamento. Comparve vicino a quella del monaco la figura del frate. Il frate non era un monaco, perché non viveva in un chiostro isolato, anzi cercava il punto più popolato del mondo, che era la città e da li diffondeva il vangelo. Domenico e Francesco (vedi libro pag 276-277) La nascita dell’ordine francescano Francesco non approvò mai la trasformazione della comunità in ordine, non amava lo schema rigido che ne derivava. Ma le gerarchie della chiesa avevano fatto forti pressioni e Francesco l’accettò per quello spirito di obbedienza e nel 1224 si ritirò sul monte della Verna e li tornò al modello di vita dei primi anni, alla cura dei lebbrosi e all’eremitaggio. Francesco morì nel 1226 e appena due anni dopo fu dichiarato santo e nello stesso anno Assisi cominciò a costruire la basilica che porta il suo nome. Quella di Francesco si rivelò un eredità difficile. La frattura all’interno dell’ordine quando era ancora vivo si accentuò alla sua morte. Gli storici hanno molto discusso se i compagni e i successori di Francesco abbiamo tradito i suoi ideali o se si sia trattato solo di adattamento alla realtà della chiesa di quel tempo. L’ordine si divise in due gruppi avversi, quello più radicale e rigorista degli spirituali e quello più moderato dei conventuali, i primi volevano tornare ai propositi die primi tempi, professando povertà assoluta, i secondi volevano costruire un’organizzazione ordinata, colta e adatta a servire la curia romana, che li sosteneva. Gregorio IX autorizzò i frati minori ad accettare le offerte in nome della chiesa che le avrebbe amministrate. Chiara rifiutò questa dispensa per il convento femminile da lei fondato sulla scia della scelta di Francesco, l’accettò invece Bonaventura per quello maschile. Gli spirituali ebbero un momento felice quando nel 1294 fu eletto papa Celestino V, un frate molto vicino alle loro idee. Ma Celestino il “papa angelico”, abdicò poco dopo e la vita per gli spirituali tornò ad essere difficile, fino a quando non furono perseguitati come eretici da papa Bonifacio VIII. I parroci per poter presentare ai fedeli i valori di Francesco avevano bisogno di un testo ufficiale che potesse essere letto durante le liturgie. Papa Gregorio IX affidò a Tommaso da Celano, che era estraneo alle due parti, di scrivere la biografia del santo. E Tommaso lo fece, descrivendo la vita semplice di un uomo, sempre obbediente al vangelo, nel suo testo erano citati due fatti miracolosi: la predica agli uccelli e l’impressione delle stimmate. Ma i dirigenti che ormai reggevano l’ordine convinsero Tommaso ad aggiungere altri miracoli. In tutte le immagino che lo rappresentano, Francesco è segnato dalle stimmate che sintetizzano la sua identità con Cristo. Sul fatto che le avesse ricevute esistono solo due testimonianze. Chiara (vedi libro pag 282) Fermenti e trasformazioni tra Due e Trecento Dopo la canonizzazione di Francesco cominciarono a sorgere conventi e chiese dedicati a lui. A chi non se la sentiva di lasciare la famiglia, veniva poi proposta un’alternativa più moderata, che fu detta terzo ordine francescano. Tra francescani e domenicani ci furono molte somiglianze, ma anche profonde differenze. Quello dei domenicani fu un nuovo clero, perché i compagni di Domenico erano preti. La povertà fu per Francesco una scelta più radicale che per i domenicani. La predicazione domenicana era dotta e prendeva in esame i dogmi della fede, mentre quella di Francesco era più popolare. Questo non significa che fra i francescani non ci siano stati personaggi dotti. Del resto dopo la morte di Francesco anche i frati minori erano stati avviati allo studio della teologia e quindi della filosofia. All’interno dell’ordine ci furono delle resistenze da parte di chi desiderava continuare a ispirarsi alla primitiva esperienza di Francesco che aveva messo in guardia i suoi compagni dalle insidie della scienza. Sia francescani che domenicani furono coinvolti nella gestione dei tribunali dell’Inquisizione contro gli eretici, ma furono molto più spesso i domenicani a ricoprire il ruolo di inquisitori. Sul finire del secolo in Italia si erano sviluppate nuove correnti pauperistiche. Quella di fra Dolcino fu la più esplosiva, condannava la ricchezza delle chiesa e praticava la povertà e l’attesa delle fine del mondo. I dolciniani si dispersero alle prime persecuzioni, Dolcino rimasto solo, fu preso per fame e poi bruciato. 5. Il tramonto dell'Impero e delle idee universali. Federico II, l'ultimo grande imperatore. Dopo la morte del Barbarossa (1190) l'idea che potesse esistere un potere imperiale universale, superiore a quello del papa e dei re, si rivelò un sogno irrealizzabile. Enrico VI (1190-1197) aveva comunque un chiaro progetto politico. Divenuto re di Sicilia per aver sposato la normanna Costanza d'Altavilla (1186), nel 1190 aveva unito il regno di Sicilia ai domini imperiali, ma morì troppo presto perché potesse attuare i suoi progetti. In ogni modo il potere imperiale doveva fare i conti con la forza consolidata della Chiesa, con la vitalità delle monarchie e con la forza dei comuni dell'Italia centro-settentrionale. L'idea di un Impero universale trovò il suo ultimo interprete in Federico II (1215-1250), pupillo del papa Innocenzo III (1198-1216) e nipote del Barbarossa. Re-bambino di Sicilia sotto la tutela papale (1198-1208), a quattordici anni re di Sicilia a pieno titolo, infine a ventuno re di Germania, Federico di Svevia fu eletto nel 1215 e incoronato imperatore nel 1220. Fu un sovrano importante, nonostante la relativa brevità del regno, e lasciò un segno profondo. Lo Stato che tentò di costruire portava con sé delle pesanti eredità storiche: l'anarchia dei feudatari che avevano lottato contro i re normanni, gli interventi di un papato teocratico, le opposizioni antisveve nate in relazione all'attività di Enrico VI, le turbolenze interne e le difficoltà economiche dovute alle guerre. Egli ebbe molti nemici, la propaganda guelfa e antimperiale lo accusò di eresia e ateismo poiché affascinato dalla cultura araba, mentre il papa finì per scomunicarlo. Federico II era un uomo molto colto e si circondò di intellettuali. Intorno a lui si riunirono i poeti della scuola siciliana, interpreti del volgare poetico italiano, ma anche dotti di varie lingue e culture (arabi, ebrei, greci, spagnoli), intellettuali al servizio della politica. L'imperatore progettò che il suo Impero divenisse universale, assoluto, romano e che si fondasse su singoli regni, robustamente organizzati. Il regno di Germania aveva una sua organizzazione politica e amministrativa feudale-vassallatica (una sorta di federazione di principi, tutti vassalli dell'imperatore), all'inverso il regno di Sicilia era una monarchia centralizzata, mentre l'Italia centro-settentrionale era caratterizzata da forti comuni ormai molto autonomi. A Roma, centro del potere papale, infine, non c'era posto per l'imperatore. L'imperatore rafforza la monarchia nel Mezzogiorno d'Italia. Nel disegno politico di Federico, il regno di Sicilia occupava una posizione centrale, pertanto egli riorganizzò su basi più solide il modello normanno, fondato su una burocrazia e un sistema fiscale forti, e su un economia monopolistica, funzionale agli interessi del regno. Egli rafforzò il potere monarchico soprattutto nel tentativo di imporsi sui feudatari del regno. Il giurista Pier delle Vigne divenne il suo più stretto consigliere e insieme a lui l'imperatore costruì una legislazione unificata per tutto il regno, il Liber augustalis o Liber constitutionum Regni Siciliae, noto con il nome di Costituzioni di Melfi (1231), un codice di leggi che, rifacendosi al diritto romano e tenendo conto della legislazione normanna, superava il diritto consuetudinario. Federico centralizzò le scritture pubbliche, organizzò un archivio del regno e istituì una cancelleria. Nell'isola attuò poi una vera e propria destrutturazione della cultura saracena e deportò verso la Puglia gli ultimi mussulmani rimasti. La stabilità monarchica passò anche attraverso il possesso di castelli. L'imperatore si occupò di tutte le fortificazioni esistenti e ne edificò di nuove, come il famoso Castel del Monte (1240), sintesi dell'architettura gotica, romanica e orientale. Tenuti sotto controllo feudatari e città, cacciati i saraceni, Federico organizzò il regno in province, fondò l'Università di Napoli e, siccome gli occorreva molto denaro, creò un sistema di monopoli e imposte permanenti, ma non solo: il sovrano si occupò anche di commercio, in particolare delle esportazioni di cereali. L'imperatore, il papa e i comuni italiani. La seconda parte del progetto di Federico prevedeva il recupero dell'autorità imperiale sul regno d'Italia e il controllo dei territori della Chiesa. Solo così la penisola avrebbe potuto essere unificata in un solo regno diviso in vicariati, separati ma dotati del medesimo sistema amministrativo. Nel 1226, dopo una fase iniziale in cui Federico non diede filo da torcere né a Onorio III né ai comuni, l'imperatore convocò una dieta a Cremona per discutere della lotta all'eresia e della preparazione della crociata che Federico continuava a rimandare, ordinando ai comuni di inviare i loro rappresentanti e di sottomettersi all'autorità dei vicari imperiali. Immediatamente si ricostituì la Lega lombarda. Federico annullò la dieta. Nel 1227, con la salita al soglio pontificio di Gregorio IX (1227-1241), il progetto imperiale prese insediamenti affidati agli ordini monastico-cavallereschi. Ampie distese di terreno spopolato furono affidare a esponenti della piccola nobiltà (hidalgos), ma i cristiani popolarono soprattutto le città, mentre grandi comunità ebraiche rimasero attive soprattutto in Andalusia. Gran parte delle campagne fu mal coltivata e dominava il latifondo. Nel 1284, la Navarra, attraverso un'unione dinastica, fu unita al regno di Francia e il resto della penisola rimase diviso tra Portogallo, Castiglia e Aragona. L'Aragona era a sua volta una confederazione di regni (chiamata “Corona”) e comprendeva oltre alla montuosa Aragona, Valencia e Barcellona. In Castiglia gli hidalgos si organizzavano in clientele rivali e le città difendevano la loro autonomia, mentre in Portogallo l'Algarve continuò a essere quasi un corpo separato. Tuttavia lentamente, il potere monarchico si rafforzò. Il regno di Castiglia si espanse nel centro della penisola, con Ferdinando III (1217-1252) e Alfonso X (1252-1284). L'Aragona volse le sue mire espansionistiche verso il Mediterraneo e divenne una solida potenza: conquistò le Baleari (1229- 1235), la Sicilia (1282) e la Sardegna (1325). La monarchia francese e il “mestiere di re”. Filippo II Augusto (1180-1223) fu il vero fondatore della potenza francese, che impose la monarchia all'interno e all'esterno. Fu un conquistatore che estese il dominio del regno, a scapito delle terre feudatarie del re d'Inghilterra. Tra il 1202 e il 1206 entrarono a far parte del territorio francese la Normandia, il Maine, l'Angiò, la Turenna, il Poitou; fu ancora per queste terre che Francia e Inghilterra si trovarono a combattere a Bouvines (1214). A vincere furono proprio i francesi, sostenitori di Federico II e del pontefice. Negli stessi anni la crociata contro gli albigesi si risolveva con la sottomissione delle regioni meridionali della Francia all'autorità reale. Filippo Augusto fu anche un abile amministratore che si rese conto che quello di re era un “mestiere”. Rafforzò le competenze dei funzionari reali (balivi), incaricati dell'amministrazione della giustizia e finanziaria in tutti il regno; riorganizzò la cancelleria e la curia del re (che comprendeva una specie di consiglio e un parlamento o camera dei conti; concesse ampie autonomie alle città; introdusse la trasmissione ereditaria del titolo regale, evitando così una crisi per la successione alla morte di ogni re; approfittò delle divisioni fra i nobili feudatari per imporre la sua autorità di arbitro. Filippo Augusto infine, rafforzò la coscienza nazionale francese ottenendo dal papa il riconoscimento dell'indipendenza completa del regno di Francia dall'Impero, attraverso la formula «rex in regno suo est imperator» (il re è imperatore nel suo regno). Filippo Augusto inoltre non si definì più re dei francesi ma re di Francia. Fu dunque, il primo re di Francia. Si trattò di un processo importante di trasformazione politica e istituzionale. Da una monarchia debole, simbolica, priva di potere concreto, la Francia passava a una monarchia che era ancora feudale, ma nella quale il re amministrava con piena autorità, pur concedendo potere ai vassalli. Fra i successori di Filippo Augusto, vanno ricordati Luigi IX (1226-1270) e Filippo il Bello (1285- 1314). Con Luigi IX il prestigio della monarchia francese crebbe ancora. Fu lui a dare vita a quella piramide di signorie della quale il re era il vertice. E fu lui a completare l'allontanamento degli inglesi dal continente, assegnando la contea di Angiò a suo fratello Carlo. Con Luigi IX dunque, se non completo, il processo di unificazione della Francia poteva dirsi molto avanzato. Uomo di prestigio morale e religioso, fu proclamato santo nel 1297, anche per aver guidato le crociate in Egitto e in Tunisia. Fu con Filippo il Bello, però, che l'autorità e il potere della monarchia francese raggiunsero il punto massimo, in seguito a una politica di forte accentramento. 7. I grandi mutamenti politici tra la fine del XIII e l'inizio del XIV secolo. Filippo il Bello e il trionfo della monarchia francese. Con Filippo il Bello (1285-1314) la monarchia francese raggiunse il suo apice. Il fatto che l'Impero si stesse indebolendo a vantaggio dei principati, gli consentì di estendere la propria influenza su alcuni feudi imperiali di confine. Il re di Francia ottenne l'omaggio feudale del duca di Lorena, del conte di Savoia e del conte di Borgogna. Francia e Inghilterra si scontrarono per il possesso dei feudi inglesi nel continente. A scatenare il conflitto ci pensarono i francesi che nel 1294 confiscarono i feudi rimasti agli inglesi nella Guienna e nel Poitou. A sua volta il re d'Inghilterra bloccò l'esportazione delle lane inglesi destinate ai centri dell'industria tessile della Fiandra. Nel frattempo però, l'autorità politica francese era messa in discussione in Fiandra, mente l'Inghilterra doveva fronteggiare le continue rivolte del Galles e della Scozia, così i due sovrani cercarono e trovarono la pace, con la mediazione di papa Bonifacio VIII. Una spina nel fianco del re di Francia rimaneva, però, il conte di Fiandra, un vassallo difficile. In quell'area vivevano popolazioni francesi e fiamminghe, c'era perciò chi spingeva per un legame più stretto con Parigi e chi invece spingeva il conte verso una politica di autonomia e filoinglese. Nel 1300 i francesi occuparono le Fiandre con le armi e la popolazione si sollevò contro di loro. Nel 1302 un moto popolare liberò Bruges, l'anno dopo a Courtrai la fanteria fiamminga sconfisse la cavalleria francese. Solo nel 1328 una violenta repressione riuscì a spegnere i focolai di resistenza. Filippo il Bello aveva però un altro problema. La mancanza di denaro necessario ad affrontare le ingenti spese amministrative e militari. Decise di ovviare confiscando i beni dei cavalieri Templari, l'ordine che dalla Terra Santa si era diffuso in tutta Europa, ammassando grandi ricchezze e finendo per svolgere funzioni bancarie. Il re si era pesantemente indebitato con loro, e la soluzione che trovò per non pagare il dovuto fu semplice e spregiudicata: processò per eresia un gruppo di Templari di Parigi, i più potenti, li mandò a rogo e soppresse l'ordine, confiscandone le ricchezze (1308). Una seconda fonte di entrate fu la liberazione dei contadini che consentì al re di sostituirsi ai signori come destinatario delle imposte, rafforzando la sua autorità e indebolendo quella dei signori. Nel 1302, inoltre, Filippo aveva deciso di appropriarsi delle decime, cioè il decimo del raccolto che i fedeli pagavano alle chiese e queste alla Chiesa di Roma. Tale decisione provocò uno scontro durissimo con il papa, ma fu l'occasione per convocare una riunione del tutto nuova, nella quale si è vista l'origine degli Stati generali, ovvero l'assemblea dei rappresentanti di nobiltà, clero di Francia e borghesia. Il re chiamò a Parigi i rappresentanti di tutte le città del regno, insieme ai nobili e agli ecclesiastici, ottenendo da loro il riconoscimento della piena e totale sovranità del re all'interno dei suoi territori. Il clero, dopo un momento di incertezza, si allineò a tale posizione. Il Mezzogiorno d'Italia dagli Svevi agli Angioini (1266). Dopo la morte di Federico II (1250) sul trono di Sicilia sedette, come reggente, un figlio naturale dell'imperatore, Manfredi. Egli si mise alla testa dei ghibellini d'Italia e andò allo scontro aperto con le città guelfe di Toscana, battendole a Montaperti (1260), battaglia che vide da una parte i guelfi di Firenze e dall'altra i ghibellini di Siena. Il suo successo durò poco. Il Papato, sempre più vicino alla Francia, cercò di contrapporgli qualcuno di più fedele. Urbano IV, francese, si rivolse allora al connazionale Carlo d'Angiò, re di Provenza e fratello del re di Francia, e gli assegnò la corona di Sicilia. Il papa rivendicava a sé l'autorità di nominare il re di Sicilia, poiché considerava quel regno come un suo feudo, in base all'antico accordo stretto con i normanni nel 1059. Così Carlo e le città guelfe attaccarono e sconfissero Manfredi a Benevento nel 1266. I ghibellini italiani dirottarono allora le loro speranze sul nipote di Federico II, Corradino, che attraversò le Alpi nel tentativo di ripristinare l'autorità della dinastia sveva sull'Italia. Nel 1268, sostenuto dai nobili siciliani, entrò a Roma, ma poco dopo Carlo d'Angiò lo sconfisse a Tagliacozzo e lo fece decapitare. Finiva così la presenza sveva in Italia, mentre le città guelfe trionfavano e Carlo assumeva il titolo di re di Sicilia. Nei progetti di Carlo d'Angiò, la Sicilia avrebbe costituito la rampa di lancio per costruire un egemonia sul Mediterraneo. Con l'aiuto di Venezia, Carlo mirava alla riconquista di Costantinopoli, dove dal 1261, erano tornati i bizantini. Tale ambiziosa politica, preoccupò il papa, tuttavia l'elezione al soglio pontificio di Martino IV (1281), un altro papa francese, legò ancora di più le sorti del Papato a quelle del re di Francia. Firenze ricavò importanti vantaggi economici dal finanziamento della spedizione di Carlo per la conquista del Mezzogiorno, con il re che attribuì ai mercanti fiorentini un accesso privilegiato all'economia meridionale, consentendo a Firenze di acquisire un più deciso predominio sulle altre città toscane. I Vespri siciliani portano gli Aragonesi in Sicilia (1282). Un tumulto popolare a Palermo, nel 1282, costrinse le truppe e i funzionari angioini ad abbandonare la Sicilia. Fu l'insurrezione anti-angioina passata alla storia con il nome di Vespri siciliani. Interpretata da sempre come la difesa dell'autonomia siciliana contro gli stranieri, in realtà la rivolta palermitana del 1282 fu il prodotto di una congiura ordita contro gli Angioini in ambienti politici siciliani contro il processo di “francesizzazione” del ceto dirigente. La rivolta (rebellamentu) era stata sollecitata certamente da ambienti esterni al regno: i ghibellini d'Italia, l'imperatore bizantino, i nobili rimasti fedeli agli Svevi che si erano rifugiati in Aragona. Furono questi a chiamare in gioco il re d'Aragona Pietro III che, marito di una figlia di Manfredi, poteva rivendicare il regno di Sicilia. Fu così che la rivolta di Palermo divenne una guerra internazionale per l'espansione nel Mediterraneo. Pietro II d'Aragona sbarcò a Trapani e fu incoronato re di Palermo. Ebbe inizio la guerra che provocò lo sfascio del potere centrale del regno e si chiuse solo nel 1302 con la pace di Caltabellotta. Il regno di Sicilia si scisse in due: il regno di Napoli rimase agli Angioini, mentre in quello di Sicilia, ristretto ora solo all'isola, subentrarono gli Aragonesi. Il re di Napoli Roberto il Saggio (1309-1343) fu considerato il capo indiscusso del partito guelfo, ma inutilmente, sia lui sia sua nipote, la regina Giovanna I (1343-1382) cercarono di riconquistare la Sicilia. La dominazione angioina nel Mezzogiorno, segnò tuttavia l'avvio di un intenso sviluppo di Napoli sia dal punto di vista edilizio e urbanistico sia come piazza commerciale. Gli aragonesi creano la “via delle isole”. Bonifacio VIII (1294-1303). L'indebolimento del papato, che fu evidente dopo la guerra del Vespro, andò di pari passo con il crescere delle lotte tra le famiglie romane e del legame dalla Santa Sede con il regno di Francia. Tuttavia la Chiesa aveva anche altri motivi di crisi ed erano tanti i cristiani che guardavano con malumore il compromettersi delle gerarchie ecclesiastiche nella guerra contro i ghibellini, negli intrighi delle corti reali, che non vedevano di buon occhio, l’Inquisizione e l'abuso di scomuniche a lotte interne, lo invocava come pacificatore è arbitro, sognavano l'impero come unico modo per rimediare ai mali d'Italia. L'imperatore nel 1310 scese in Italia per ricevere le corone, convinto un po' ingenuamente di essere ben accolto. Prima fu incoronato come re d’Italia a Milano, in Sant'Ambrogio, poi chiese al Papa di predisporre l’incoronazione imperiale a Roma. Il viaggio di Enrico VII in Italia fu un fallimento. L'imperatore incontro l'ostilità di quasi tutti i governanti della penisola. È dalla sua parte l'imperatore, più che dei sostenitori, trovava dei questuanti: esuli della città che chiedevano di essere aiutati a tornare in patria. Non ce la fece ad apparire l'imperatore di tutti, a essere il pacificatore, l'arbitro. Improvvisamente, nel 1313, morì. Le ultime due tappe della definitiva germanizzazione dell'impero sono segnate con il nome di Ludovico il Bavaro è di Carlo IV di Lussemburgo e di Boemia. Ludovico portò a compimento il distacco della corona imperiale dalle riconoscimento papale, oltre si fece incoronare imperatore non dal Papa, ma da un esponente della famiglia dei Colonna. Nel 1338 d'accordo con lui, i principi elettori tedeschi stabilirono formalmente che da allora le elezioni dell'imperatore non aveva più bisogno di conferma papale. Carlo IV di Boemia fece un ultimo passo, con la cosiddetta Bolla d’oro (1356) stabilì che l'imperatore sarebbe stato eletto dai più importanti principi tedeschi, quattro laici, è tre ecclesiastici. L'impero fu da allora sono un regno i tedesco, formato da una federazione di principati senza più alcuna pretesa di universalismo. 8. Un'Italia, due Italie, tante Italie. 9. Fuori d'Europa. Il mondo delle steppe e l’impero dei mongoli. La steppa, è un'enorme terra asiatica senza alberi esistenti tra l'Europa centrale e la Cina. Vi abitavano nel medioevo tribù di pastori nomadi alle quali il clima di quelle terre avere insegnato a spostarsi su grandi distanze, seguendo l'alternarsi della pioggia e del bel tempo. I turchi erano stati i primi a costruire nella steppa un vastissimo impero. Ma dal 750 all'inizio del 200 nessuna tribù aveva più avuto la supremazia sulle altre. Il mondo delle popolazioni nomadi dell'Eurasia era un mosaico di tribù. I mongoli erano in parte cacciatori, in parte si trattava di un popolo di pastori, rude abituato a un clima inclemente, che apprezzava molto la resistenza fisica, anche perché ne aveva bisogno dato che poteva trovarsi a dover marciare con i propri animali anche per dieci giorni di seguito senza alcuna sosta. Sul finire delle XII secolo in più di una tribù si erano create delle aristocrazie alcuni capi avevano cominciato a pensare ad un'unificazione politica. Tre le tribù si erano formate subito rivalità e alleanze. L'artefice dell'unificazione della Mongolia si chiamò Temujin. Dopo 25 anni di lotta nel 1206, venne riconosciuta Gengis Khan, cioè “sovrano universale”. Unificò la Mongolia dei nomadi e trasformò le tribù mongole, in un efficiente macchina da guerra. Mise insieme un esercito di 300.000 guerrieri e conquistò enormi territori di popolazione sedentaria. Nelle 1211 si lanciò sulla Cina del Nord, e prese Pechino nel 1215. Negli anni seguenti attaccò l'Asia centrale, impadronendosi del Turchestan, dell'Afghanistan di Samarcanda e Buchara. Nel 1222 invase il sud della Russia. Sconfisse i principi russi che tentavano una resistenza, poi si ritrasse per qualche tempo è una quindicina d'anni più tardi marciò direttamente su Kiev. Alla morte di Gengis Khan le conquiste mongole continuarono con suo figlio Ogodei e suo nipote Kubilai: furono mongoli l’Iran, la Georgia, l'Armenia, la parte più orientale dell’Asia minore. Nel 1241 i mongoli si spinsero fino al Danubio, poi entrarono in Bulgaria, conquistarono Kiev, Cracovia e Pest. Nel 1245 il Papa cercò di stabilire contatti con loro, anche perché si era sparsa la voce che il khan volesse convertirsi al cristianesimo: la più importante missione cristiane in Mongolia fu affidata al francescano Giovanni del Pian del Carpine. Nel 1258 Baghdad fu saccheggiata e iniziò conquista del sud della Cina per opera di Kubilai Khan. Dopo il 1260 il dominio si divise in quattro aree: l'Orda d'oro, un vasto territorio è eurasiatico a cavallo degli Urali, il khanato dell'Iran, il khanato di Chatagai in Asia centrale, l'impero Yuan in Cina. I mongoli governarono le Cina per quasi un centinaio d'anni: dal 1271 il Kubilai si proclamò imperatore fino al 1368, anno della cacciata dei mongoli e dell’instaurarsi della dinastia Ming. Dalla Cina i mongoli provarono a impadronirsi anche dell’India e del Giappone e del sud-est asiatico ma qui incontrano difficoltà: i guerrieri delle steppe non seppero affrontare il mare. L'invasione del Giappone fu un disastro, la flotta mongola fece naufragio, i samurai massacrarono chi sbarcò. Fallì anche la spedizione per conquistare Giava. L'India rimase in mano ai musulmani. Il dominio mongolo della Cina si basò su una segregazione netta dei mongoli dai cinesi, tanto che tra le due popolazioni furono vietati i matrimoni. I mongoli, erano gli unici che potevano tenere armi, conservavano per via ereditaria il governo delle province. Kubilai spostò il centro del potere a Pechino. Rinunciò al cristianesimo, e si convertì al buddhismo rimanendo sempre molto tollerante in fatto di religione. I mongoli, nel corso del duecento, si avvicinarono alle religioni dei popoli con i quali entrano in contatto. La maggior parte si convertirono all'Islam. All'interno della Cina Kubilai adottò una politica fiscale meno pesante di quella precedente e questo portò tanti grandi proprietari ad appoggiare il suo governo; migliorò le comunicazioni interne, costruiti canali d'acqua, immise cartamoneta con un valore stabile. Tutto questo rese il “Gran Khan” Kubilai leggendario in Occidente. L'unificazione dei popoli asiatici per opera dei mongoli fu seguita da un periodo relativamente pacifico, che prende il nome di pax mongolica. Ma in realtà una vera pace non ci fu e i mongoli continuarono a condurre spedizioni. Le conquiste dei mongoli avevano creato un rapporto diretto tra Cina, India e Occidente che tagliava fuori il mondo musulmano dalla rete degli scambi. Molti mercanti, soprattutto italiani, intrapresero un lungo viaggio verso oriente per raggiungere direttamente i luoghi di produzione delle sete e delle spezie. Dalla morte di Kubilai in Cina si aprì una fase di insurrezione permanente contro il dominio mongolo che si chiuse solo nelle 1368, quando la dinastia Ming si sostituisce a quella mongola. Alla scoperta dell’Asia. L'Occidente cristiano, atterrito dalla loro travolgente avanzata, aveva identificato i mongoli con i leggendari popoli demoniaci di Gog e Mogog che, secondo antiche profezie, avrebbero invaso l'Europa da oriente prima della fine del mondo: Magog diventava mongoli tata, il nome originario tartari perché il tartaro era l'inferno. Del resto fino al 200-300 la maggior parte dei luoghi leggendari, del mito e della fantasia, era posta in oriente, perché solo allora quelle terre vennero più profondamente conosciute. Misteriosa appariva infatti la natura ai confini di quello che si riteneva il mondo abitato, oltre alle foreste delle quali non si intuiva il limite, al di là dell'oceano sterminato. S'immaginava che l'ignoto generasse cose mostruose. A mano a mano che ci si allontanava dei luoghi familiari in cui si viveva, aumentavano gli esseri misteriosi e mostruosi. I punti fermi allora valicati per la prima volta erano: all’estremo confine occidentale le colonne d'Ercole, al di là delle quali c’era il paese da cui non si faceva ritorno, che sarebbe stato l'ossessione dei marinai di Colombo; e un estremo confine orientale rappresentato dal muro che sarebbe stato eretto da Dio dietro preghiere di Alessandro Magno per tener lontani Gog e Magog. Ma nell’ignoto dell'oriente non c'era solo l'inferno. La dove si leva il sole che da la vita, la fantasia dell'uomo del medioevo collocava anche l’Eden, il paradiso terrestre descritto nella Genesi. Così per gli europei, l’India dalla quale provenivano profumi, sete e merci preziose era un mondo meraviglioso e di traboccanti ricchezze. Così, chi si fosse avventurato verso l'Asia avrebbe potuto incontrare, oltre a popoli musulmani pagani, anche un cristiano, il mitico Prete Gianni, che secondo una leggenda regnava in qualche luogo misterioso del profondo oriente, come una sentinella cristiana nel regno degli infedeli. I grandi viaggi europei che inaugurarono la scoperta dell'Asia si situano in un arco di un secolo e mezzo circa. Prima alla metà del duecento mercanti, ambasciatori missionari cattolici, si avventurarono, per terra, poi nella seconda metà del trecento, cominceranno a praticare, per mare, le coste dell'oceano indiano. Alcuni dei più noti protagonisti narratori di questi viaggi furono italiani. Con la circolazione di alcuni di questi racconti di viaggio l'Europa cominciò ad allargare quelle conoscenze della geografia dell'Asia dei costumi e dei popoli. Marco Polo e Giovanni da Pien del Carmine sono due dei più noti personaggi europei del 200, Ibn Battuta è grande viaggiatore trecentesco dell'Islam. Giovanni frate francescano di pian del Carmine presso Perugia, viaggiò dal 1245 al 1247, quando fu invitato dal Papa come latore di un lettera al Gran Khan dei mongoli. Attraversò Germania, Boemia, Polonia è il Ducati Russi, poi s’inoltrò nel territorio controllato dei mongoli fino al Volga, affrontando l'enorme deserto, poi le steppe, infine i monti, arrivando alla città di Kakakorum. Il viaggio durò più di due anni e Giovanni ne fece il resoconto. I due mercanti Matteo e Nicolò Paolo raccontarono al ritorno a Marco che aveva appena quattro anni quando partirono. Salpati da Venezia nel 1260 su una nave carica di mercanzie varie preziose, i due fratelli sostarono a Costantinopoli. Da lì partirono per mare alla volta della Crimea del Mar del Nord, dove Venezia aveva una sua base. Arrivarono a Bukhara e lì rimasero fermi per tre anni in attesa che si fermassero gli scontri militari. Li arrivarono gli inviati di Kubilai Khan sovrano dei mongoli: cercando proprio loro i mercanti veneziani con l’ordine di condurli al cospetto del re. I Polo gli presentano i prodotti dell'Occidente, li parlarono della cristianità e il Gran Khan li rispedisce in Italia con una missione diplomatica, recarsi dal Papa e ritornare con 100 sapienti disposti a illustravi la dottrina cristiana. I Paolo ripartirono dall'Italia non con 100 sapienti ma con due soli frati domenicani abilitati dal Papa a ordinare vescovi e preti con un olio santo nella lampada del Santo sepolcro e con Marco figlio di Nicolò ormai quindicenne. Il loro viaggio lo tenne lontano 25 anni. Marco descrisse con abbondanza di particolari i luoghi per i quali passò e quelli di cui sentì parlare. Il viaggio di andata si svolse via terra e durò tre anni. Il viaggio di ritorno invece fu quasi tutto via mare. L’agonia di Bisanzio e l’ascesa dei turchi ottomani. Costantinopoli era stata riconquistata nel 1261 da Michele VIII Paleologo, fondatore dell'ultima dinastia che governò un impero bizantino che di imperiale aveva ormai solo il nome. Comprendeva Tracia, Macedonia, Peloponneso e l'area intorno al Bosforo e ai Dardanelli. L'agonia di Bisanzio venne accompagnata la lotte interne, crisi economica è arretramento costante delle frontiere a vantaggio dei popoli confinanti. Gran parte di quello che era stato il suo dominio era adesso in mano agli occidentali, oppure formava Stati indipendenti. Nel 1290 in Egitto e in Siria avevano preso il potere li mamelucchi, alla guida di contingenti di mercenari di origine Caucasica. Il mondo islamico era in espansione a partire dalle sultanato di Rum. Il sultanato, che era il principale stato dell’Asia minore, si era poi scomposto in una quantità di piccoli Emirati tra i quali quello dei turchi ottomani era destinato alla più grande espansione. Gli ottomani erano dunque il vero pericolo per l'occidente e per ciò che restava dell'impero bizantino. Dai primi decenni del 1300 giunsero ad affacciarsi sul Mar di Marmara, prendendo il controllo del lato asiatico dei Dardanelli, e istituirono la loro capitale a Bursa, a meno di 250 km da Costantinopoli. Più tardi occuparono la Tracia: e da li, nel corso della seconda metà del trecento si distenderanno sulla maggior parte dei Balcani, avanzando inesorabilmente verso la capitale, accerchiandola. 10. Si annuncia la “crisi”. La popolazione smette di crescere. Il 1148 è diventata la data simbolo del tracollo, sarebbe arrivata la peste nera, destinata a decimare la popolazione e rendere evidente, in modo drammatico, il profondo malessere che già permeava la società. Gli storici sono d'accordo sul fatto che la difficoltà dei tempi non furono attraverso i porti in cui quelle navi si fermarono. A metà del 1348 aveva già coperto buona parte dell’Europa. Le città appena si resero conto della vastità dell’epidemia si sforzarono di ridurre le occasioni di contagio, limitando i movimenti delle persone, istituendo le quarantene e vietando gli assembramenti per processioni o funerali. Provvedimenti di buon senso, ma non di grande efficacia, poiché non sapevano del ruolo che avevano i topi nella trasmissione della malattia. Giovanni Boccaccio come altri contemporanei descrissero la paralisi della vita cittadina, con le botteghe e le taverne chiuse e le strade vuote e la paralisi dei rapporti umani. La maggior parte dei medici provarono a curare la malattia, molti di loro la contrassero a loro volta. Ognuno reagiva come credeva meglio, tra baldorie, giochi, feste e banchetti. Nacquero i gruppi di flagellanti, uomini incappucciati che giravano per le piazze d’Europa cantando, che si frustravano in pubblico con violenza e incitando la popolazione al linciaggio dei cristiani ritenuti responsabili della malattia. Nel 1349 papa Clemente VI condannò il movimento che svanì di colpo. La maggior parte delle cronache indica la causa della peste nei peccati degli uomini: la corruzione politica, le guerre, gli omicidi e addirittura la moda troppo frivola. La peste veniva da oriente, da un mondo magico popolato da infedeli. Li si diceva era piovuto fuoco e vermi che portavano la morte, erano saliti al cielo vapori che avevano coperto il sole ed erano morti i pesci nel mare. Dio intendeva punire i musulmani, i cristiani erano solo vittime innocenti. Anche il sospetto che avvelenatori avessero sparso polveri pestifere nei pozzi e nel vento, serpeggiò rapidamente tra la gente in preda al panico. La rabbia e l’impotenza si sfogò soprattutto sugli ebrei, molti finirono squartati, linciati o bruciati vivi. In Inghilterra la gente si scagliò su alcune donne accusate di essere streghe, in Germania nacque la leggenda della ragazza della peste che usciva sotto forma di fuoco dalla bocca dei morti e che uccideva se alzava una mano. Ci fu anche chi cercò le cause della pesta nel cielo e credette che fosse causa dell’allineamento dei pianeti. È impossibile calcolare quanta gente morì di peste. I numeri riportati dai contemporanei erano senza dubbio esagerati. La perdite non furono ovunque uguali. La peste di propagò più velocemente dove le persone vivevano vicine, nelle pianure e soprattutto nelle città, di più tra i poveri che fra i ricchi. In Inghilterra la peste uccise un quarto della popolazione e tra un quarto e la metà morì nelle città italiane, complessivamente era scomparso un terzo della popolazione europea. All’indomani del 1348 i matrimoni aumentarono e di conseguenza il numero dei figli, ma la popolazione continuò a diminuire. Questo perché alla prima seguirono altre pestilenze. La peste non se andava mai scompariva da un luogo e ricompariva in un altro. Solo dopo quattrocento anni allentò la presa. La scomparsa di un numero così alto di persone ebbe importanti conseguenze, in molte aree la boscaglia cominciò a ricrescere, regioni spopolate dalle epidemie non furono più popolate. Diminuendo la superficie coltivabile aumentò ovunque la terra destinata all’allevamento, ci furono più carne sulla tavola, più concimi nei campi, più buoi per lavorare la terra. Tensioni sociali nelle campagne. Il potere signorile e padronale sulle campagne uscì indebolito dalla crisi del Trecento, anche se la maggior parte degli studiosi crede che sia esagerato parlare di una “crisi della signoria rurale” dato che essa continuò a sopravvivere in gran parte dell’Europa fino al settecento. È vero però che i signori furono messi in difficoltà dal calo del prezzo dei generi alimentari, soprattutto da quello del grano, dal crollo delle rendite derivate dallo spopolamento e da un certo aumento dei salari agricoli in conseguenza della diminuzione di manodopera. L’aumento dei salari e il miglioramento della vita dei contadini furono solo temporanei, perché i governo presero le loro contromisure. In Inghilterra fu messo a punto uno statuto dei lavoratori che vietava l’aumento dei salari. Così pure in Italia. Nel corso del trecento si segnalarono numerose esplosioni di malcontento contadino. Francia e Inghilterra furono teatro di due importanti rivolte. La jacquerie fu un movimento contadino improvviso, breve e violento che esplose nel 1358. Si tratta della più grande rivolta contadina nella storia della Francia. I ribelli venivano chiamati dai nobili jacques. Alla base della rivolta c’era la condizione generale di difficoltà nella quale cresceva il malcontento contadino, le difficoltà alimentari e il fatto che dieci anni prima la peste aveva decimato la popolazione, inoltre la Francia era coinvolta in una serie di scontri armati con l’Inghilterra. Si aggiunse a questo un sentimento nuovo e sempre più diffuso di disprezzo verso i nobili, accusati d’incapacità. Trovando ascolto a Parigi, i seguaci di Etienne Marcel, potente capo dei mercanti parigini, volevano togliere alla nobiltà privilegi e potere politico e inaugurare un governo della borghesia. I parigini perciò inviarono una lettera tutta le città, borghi e villaggi del regno per insorgere e prendere le armi contro i nobili. Nonostante l’appoggio della borghesia la jacquerie fu soffocata nel sangue. Nel 1381 in Inghilterra a causa di una nuova imposta la pool-tax, esplose una violenta rivolta. Parteciparono all’organizzazione anche alcune preti ribelli che predicavano l’eguaglianza sociale e il comunismo dei beni, contro i ricchi. Tra i rivoltosi che marciarono su Londra, trascinando con se anche molti artigiani salariati di città, c’erano sia contadini agiati sia salariati a giornata. Gli storici si chiedono se tra i contadini inglesi ci fosse qualcosa che si avvicina alla lotta di classe. Tensioni sociali nelle città. La peste del 1348 provocò nelle città un vero e proprio terremoto nei rapporti tra i lavoratori, sottoposti ai datori di lavoro. Le prime avvisaglie della tensione si videro già mentre era in corso l’epidemia, quando come narra Boccaccio, i serventi smossi da smisurata avarizia chiedevano salari grossi e sconvenevoli. I salari aumentarono fino al 1370 e con lor migliorarono le condizioni di vita dei salariati. In seguito però furono di nuovo abbassati, la legge aveva protetto i datori di lavoro, e molti lavoratori erano riprecipitati nella condizione di miseria. Nel giro di pochi anni esplosero importanti rivolte, a Firenze come in altre città, soprattutto in quelle impegnate nel settore tessile. Le tensioni si fecero acute perché la guerra impediva alle lane inglesi di rifornire i laboratori, gettando molti nella rovina. Nel 1378 esplose a Firenze la più nota rivolta urbana del 300 alla quale è stato dato in nome di tumulto dei ciompi i lavoratori salariati che svolgevano nelle botteghe la parte meno qualificata del lavoro. La rivolta guidata da Michele Lando, cominciò come una ribellione armata d’artigiani che protestavano per i salari troppo bassi e rivendicavano il diritto di riunirsi in un arte riconosciuta dal governo. Continuò poi con richieste più radicali, il programma di articolava in cinque punti: • i rivoltosi si rifiutavano di rimanere subordinati ai padroni • chiedevano di partecipare al governo del comune • volevano che fosse eliminata la carica dell’ufficiale forestiero, che aveva il compito di vigilare che i dipendenti non fondassero associazioni • chiedevano un aumento dei salari • e volevano l’impunità per i partecipanti al movimento Le loro richieste erano quindi sia contro lo stato che contro i lavoratori. Dopo qualche giorno i ricoltosi assediarono il palazzo del podestà, e s’impadronirono per sei settimane del governo di Firenze, ottenendo per i propri rappresentanti un terzo delle cariche di governo e il diritto di formare nuove arti. Ma un dura repressione rimise le cose com’erano prima della rivolta. Intorno alla rivolta dei ciompi è esplosa una vivace produzione storiografica. Gli studiosi di orientamento marxista hanno visto nella rivolta una manifestazione precoce della lotta di classe, i loro oppositori hanno negato il carattere sociale delle rivolte. La crisi, una febbre benefica? Quell’insieme di cambiamenti che oggi chiamiamo crisi del Trecento, non sfuggi nei suoi aspetti generali a due dei più importanti studiosi del 900, Henri Pirenne e March Bloch. Nessuno dei due però parlò della peste ne del crollo demografico, cercando le cause delle difficoltà europee nella guerra dei cent’anni e nei cambiamenti nelle monete. Pochi anni dopo aveva preso forma l’idea che quella del trecento fosse una crisi di tipo malthusiano, quella che secondo le teorie dell’economista inglese Malthus, nasce quando la popolazione aumenta più in fretta die mezzi di sussistenza, quando l’economia non ce la fa a tenersi al passo, quando il mondo non produce abbastanza per sfamarsi, la peste in questa prospettiva sarebbe solo un regolatore per riportare le cose in pari. Parlare della crisi del 300 è fondamentale per capire come si è chiuso il medioevo, con un momento di decadenza come sostengono alcuni o con una trasformazione, una spinta alla nascita di qualcosa di nuovo. Gli storici hanno tuttora opinioni diverse. C’è chi punta il dito contro il clima, chi attribuisce tutto alla peste, chi sposta l’attenzione su certe difficoltà alimentari italiane, dimostrando così che la crisi non esplose all’improvviso in un giorno sfortunato del 1348. Non tutti sono d’accordo nemmeno sul fatto che la crisi ci sia stata, soprattutto dal punto di vista economico. Non tutti ritengono che ci sia stata una recessione economica e comunque tutti sono convinti sul fatto che la crisi non coinvolse tutti allo stesso modo, alcune piazze commerciali decadevano, altre si facevano più forti al loro posto. C’è chi ritiene che le difficoltà abbiano avuto effetti positivi, stimolando i mercanti a rendere più efficiente la loro attività. Il trecento può essere descritto anche come un momento di difficoltà dal quale stava nascendo qualcosa di nuovo che faticava a venire fuori, quel qualcosa secondo alcuni era il capitalismo, e non c’entrava il popolamento malthusiano, nel trecento era entrato in crisi il sistema feudale, perché ormai non era più possibile premere sui contadini. 2. Fermenti della cristianità fra Tre e Quattrocento Una nuova sensibilità religiosa. Nel corso del trecento molti monasteri attraversarono una fase di difficoltà. La gente cercò una religiosità più personale poco legata alle istituzioni ecclesiastiche. Si svilupparono forme collettive d’impegno nel mondo, attraverso il volontariato negli ospedali. Tra le correnti religiose nel medioevo le più note sono quelle segnate da una ricerca di una religiosità più interiorizzata e più mistica. Misticismo è chiamato, l’atteggiamento di chi si pone in contatto diretto con la divinità, cercando l’illuminazione interiore , escludendo volontariamente la ragione. La chiesa non lo rifiutò, il misticismo condusse certe donne verso atteggiamenti profetici, estati e visioni divine. Vennero circondate da discepoli convinti che Dio parlasse attraverso loro. Si trattò in molti casi di figure forti e intraprendenti che non esitarono a rivolgersi ai potenti, per manifestare quella che ritenevano fosse la verità di Dio. Giovanna d’Arco chiamo il re di Francia Carlo VII alla riscossa contro le armate inglesi, Caterina da Siena incitò il pontefice a tornare a Roma. In quest’epoca nell’arte sacra comparve e trionfò il tema della morte, la Danza macabra, è l’opera più conosciuta, composta da trenta coppie di personaggi di ogni strato sociale che danzano tenendo per mano il loro cadavere, dipinta nel cimitero degli Innocenti di Parigi. Una parte della storiografia vuole che sensibilità dominata dalla morte e una religiosità che valorizza il dolore fisico siano da includere nelle conseguenze della peste. La gente avrebbe avuto allora bisogno di consolazione, di sperare che espiando la colpa sarebbe arrivata la salvezza. Il culto della Passione di Cristo di propagò proprio in quegli anni perché la gente era attratta dal dolore. Un altro tema importante è il Trionfo della Morte, che cavalca spazzando tutto ciò che trova, dipinto per la prima volta nel Camposanto di Pisa.