Scarica i romani e l’arte: stile e tecniche e più Appunti in PDF di Elementi di storia dell'arte ed espressioni grafiche solo su Docsity! I Romani e l’arte: storia di un rapporto difficile La produzione artistica che è possibile definire romana iniziò tardi. Almeno sino all’età imperiale è difficile identificare una vera e propria arte romana, per quanto oggetti d’arte fossero presenti fin dai tempi più antichi nell’Urbe. È il caso della Cista Ficoróni, un recipiente di rame sul quale si trova per la prima volta il nome di Roma. La cista, simile ad altre prodotte nella vicina Prenèste, fu eseguita sì a Roma, ma da un artista campano. I Romani, d’altro canto, ebbero sempre con l’arte un rapporto che oggi si definirebbe molto problematico. Essi, infatti, erano più interessati alle questioni concrete che non a quelle astratte. La loro indole, dura e sobria, si era definita nel corso di secoli di guerre quasi ininterrotte. Le discussioni artistiche e filosofiche, tanto care ai Greci, erano pertanto ritenute perdite di tempo e inutili oziosità. Gli oggetti d’uso di cui i Romani – specie quelli di età repubblicana – si circondavano, erano costituiti da materiali poveri e caratterizzati da una fattura modesta. Il lusso non era ben visto, il vasellame era solitamente di terracotta, mentre le argenterie dovevano essere semplici e senza indulgere all’ornamentazione alla quale, più tardi, l’opulenza della città e dei suoi possedimenti condusse. Fu soprattutto l’eccezionale concentrazione in Roma delle immense ricchezze derivanti dalla spoliazione dei templi e delle città dei popoli vinti che costrinse e abituò i Romani a un rapporto nuovo e continuo con l’arte. Una gran quantità di metalli preziosi e di denaro confluì nella città dopo la conquista della Magna Grecia (Italia Meridionale), mentre opere d’arte ellenistiche vennero portate a Roma in seguito alla presa e al saccheggio di Siracusa. Infine, la definitiva conquista di tutti i territori ellenici portò Roma a diretto contatto con la terra che aveva visto nascere, crescere e prosperare l’arte classica e poi diffondersi l’arte ellenistica in un Oriente mediterraneo ormai già totalmente ellenizzato. La concentrazione di tesori d’arte in Roma e il contatto sempre più frequente con popoli diversissimi furono alle origini del fenomeno del cosiddetto collezionismo eclettico. Tutto quanto sembrava aver valore, perché di materiale prezioso o perché raro o unico o, ancora, perché eseguito da un noto maestro greco. Un’arte anonima: l’arte romana si manifestò soprattutto in quelle forme che rientravano nelle regole della tradizione e cioè: nelle grandi opere pubbliche realizzate per l’utilità comune e dello Stato; nel ritratto, che trasmetteva alle generazioni future realisticamente le fattezze degli antenati; nei rilievi e nelle architetture onorarie che avevano la funzione di celebrare un evento o un’importante personalità. È anche per il prevalere dell’interesse dello Stato su quello dei singoli cittadini che difficilmente viene ricordato il nome dell’artefice di un manufatto artistico, tanto che, per la maggior parte, l’arte romana è anonima. Le tecniche costruttive dei Romani Considerando l’architettura greca e quella romana si è colpiti dalle forme diverse, persino in costruzioni destinate allo stesso uso, e dalla differente concezione dello spazio. L’architettura greca, infatti, nelle sue espressioni più note e importanti, basa le proprie tecniche costruttive su un principio che è il più semplice e il più intuitivo: quello dell’architrave appoggiato sui piedritti. L’architettura romana, invece, come in parte già anticipato dagli Etruschi, basa i propri schemi costruttivi sul principio dell’arco e della volta: in tal modo i sostegni si fondono con la copertura creando un insieme uniforme, continuo e solido. Poiché le volte e gli archi, a causa di ben precise leggi fisiche, spingono i propri sostegni verticali verso l’esterno, con il rischio di farli crollare, è necessario opporre una forte resistenza a questa grande spinta. A tale esigenza la tecnica romana fa fronte grazie al grande spessore delle murature. L’uso sistematico dell’arco e della volta permi- se ai Romani di coprire spazi immensi. In ciò i Romani furono aiutati anche dall’abilità nel servirsi di nuove e potenti macchine da cantiere quale, ad esempio, la gru del tipo di quella mostrata nel Rilievo della tomba degli Hatèrii. Tale apparato consentiva di sollevare grandi pesi facilitando notevolmente la costruzione. L’arco: l’ arco è una struttura architettonica composta da un insieme di elementi di pietra sagomata, altrimenti detti conci; quello situato nella parte più elevata dell’arco è detto concio di chiave o concio di chiusura. Le linee radiali che separano i conci si dicono giunti. Il piano orizzontale da cui si comincia a costruire l’arco prende il nome di piano di imposta, mentre le linee curve che in basso e in alto delimitano l’arco sono dette rispettivamente intradosso ed estradosso. La linea di intradosso si chiama anche sesto . Si chiama invece freccia o saetta o monta la distanza verticale fra il piano di imposta e il punto più elevato della linea di intradosso, mentre luce o corda è la distanza fra i sostegni o piedritti. Si dice ancora archivòlto o ghiera la parte esterna (la faccia) visibile dell’arco. I conci di pietra si dispongono uno accanto all’altro a secco, cioè senza l’impiego di malta né di alcun altro legante. A tal fine occorre dare ai conci di pietra la forma di un cuneo e ai mattoni crudi una più o meno accentuata rastrematura. Se, invece, si impiegano mattoni di forma parallelepipeda, per la loro messa in opera occorre utilizzare la malta, il cui spessore aumenta, fra un concio e l’altro, dall’intradosso verso l’estradosso. L’arco si comincia a costruire dai due estremi del piano di imposta. La volta: la volta è un sistema di copertura che si basa sul principio dell’arco, poiché risulta composta da tanti conci affiancati che trasmettono alle murature che la sostengono il peso proprio e quello di tutto quanto sta loro sopra. Il materiale che i Romani impiegarono più diffusamente nella costruzione delle volte e delle cupole fu il calcestruzzo: si parla, allora, di volte e cupole in concrezione. • Botte: la volta a botte, è la più semplice tra le coperture in muratura e viene im- piegata soprattutto per coprire spazi di forma rettangolare.Geometricamente appare come se fosse generata da un immaginario arco a tutto sesto (direttrice) che scorre lungo due rette parallele (generatrici) costituite dalla sommità dei muri, gli elementi verticali di sostegno. • Anulare: la volta anulare è un particolare tipo di volta a botte che ha le generatrici costituite da due cerchi concentrici. • Crociera: la volta a crociera è data dall’intersezione di due volte a botte le cui direttrici stanno sui quattro lati dell’ambiente da coprire. • Padiglione: la volta a padiglione è ottenuta dall’intersezione di due volte a botte che hanno le linee di imposta sui lati opposti dell’ambiente da coprire. La cupola: la cupola emisferica, vera e propria invenzione romana, geometricamente è una superficie detta di rotazione in quanto viene generata facendo ruotare un semicerchio attorno al proprio asse verticale. La cupola è una struttura che si presta ottimamente a coprire soprattutto ambienti a pianta circolare ma, con opportuni raccordi (pennacchi), può essere utilizzata anche per spazi quadrati o poligonali. I parametri murari: i paramenti murari, cioè le superfici dei muri a vista, erano eseguiti con apparecchiature di conci che, in base al materiale impiegato o al disegno che formavano, sono chiamate nei modi che seguono: • opus incèrtum (opera incerta): il muro è realizzato con pietre piccole e di forme svariate; • opus reticulàtum (opera reticolata) : il muro è composto da elementi in pietra di forma all’incirca tronco-piramidale affogati nel calcestruzzo, dei quali rimangono in vista solo le basi maggiori quadrate • opus vittàtum (opera listata): tecnica che consiste nel disporre blocchetti di pietra, parallelepipedi e tutti della stessa altezza, in filari orizzontali; • opus testàceum (opera di mattoni): si dice di ogni tipo di muratura che faccia esclusivo uso dei mattoni. Fu il paramento murario di cui, tra l’altro, i Romani si servirono con maggior frequenza. Le più antiche costruzioni erano invece in mattoni crudi: si parla allora di opus laterìcium (opera in laterizio); • opus spicàtum (opera a spiga): le pietre sagomate o i mattoni vengono disposti inclinati di circa 45° rispetto all’orizzontale e fra loro di 90° invertendo la loro inclinazione a ogni filare. Il disegno molto decorativo che si ottiene in questo modo assomiglia, per l’appunto, a una spiga di grano o anche a una lisca di pesce; • opus mìxtum (opera mista): consiste nel raggruppare nella stessa opera vari tipi di muratura. L’architettura Romana La disposizione degli accampamenti militari, a pianta quadrata e divisi in quattro settori da due strade fra loro ortogonali, il cardo e il decumano, fu l’esempio che i Romani seguirono nelle terre conquistate per la fondazione delle colonie e, più in generale, per l’organizzazione del paesaggio agrario. Tutto il territorio, infatti, venne diviso in appezzamenti regolari, le centùriae, secondo linee parallele e linee perpendicolari alle strade principali e secondarie. Questa operazione, che viene detta centuriazione, ha disegnato tanto incisivamente le nostre terre, soprattutto quelle dell’Italia centro-settentrionale, che ancora oggi ne risultano caratterizzate. Quell’antica ripartizione, infatti, continua a suggerire una ben precisa griglia di riferimento anche per un corretto e ordinato sviluppo del territorio. Inoltre la distanza fra la cornice dell’ordine inferiore e la sommità della cupola è pari al lato del quadrato inscritto nella circonferenza del vano interno. Il cilindro (o tamburo) ha uno spessore di circa 6 metri ed è profondamente scavato all’interno da sette nicchie. Queste sono inquadrate da pilastri e schermate da due colonne corinzie dal fusto scanalato, in pavonazzetto o in giallo antico, che costituiscono il passaggio dal buio profondo della nicchia alla luminosità del grande vano cupolato. Al di sopra di esse corre una trabeazione anulare che sporge solo in corrispondenza delle colonne che affiancano l’abside. Lesene angolari sottolineano gli spigoli interni delle nicchie quadrangolari. Nello spazio fra una nicchia e l’altra sono introdotte delle edicole timpanate su alto basamento, che un tempo accoglievano statue di divinità. La gigantesca massa muraria è alleggerita, oltre che dalle nicchie, anche da cavità interne alle quali gli architetti del Rinascimento attribuirono la capacità di rendere la struttura del Pantheon asismica. Esternamente, nel corpo cilindrico, si rendono evidenti numerosi archi di scarico di mattoni, archi, cioè, che attraversano l’intero spessore murario e che liberano la zona sottostante dal peso superiore, indirizzandolo verso le imposte. La cupola emisferica è fortemente rinfiancata, tanto che, esternamente, il suo profilo appare ribassato, cioè meno di mezza sfera, ed è realizzata in calcestruzzo, nella cui composizione, via via che ci si avvicina alla sommità, intervengono materiali sempre più leggeri. Le costruzione onorarie: fra le costruzioni onorarie, cioè quelle realizzate per onorare, celebrare e ricordare qualche personaggio importante e le sue imprese gloriose, i Romani fecero uso, già dal periodo repubblicano, di strutture ad arco o della colonna isolata sormontata da statue, da monumenti equestri o anche da fontane. L’arco trionfale ebbe largo impiego soprattutto in epoca imperiale, a cominciare dal principato di Augusto. Arco di Augusto a Rimini: per Augusto vennero eretti ben diciassette archi di trionfo. Tra questi l’Arco di Rimini, risalente al 27 a.C. Il monumento, che è un esempio fra i più limpidi di arco trionfale, concepito anche come porta della città di Rimini, a conclusione della via Flaminia, consiste in un solo fòrnice. La sua massima altezza è di 17,50 metri, mentre la sua larghezza è di 14,90 metri cioè esattamente 50 piedi romani. L’arco a tutto sesto, del diametro di 8,84 metri, si eleva su bassi piedritti e il piano d’imposta è evidenziato da leggere cornici in aggetto. L’arco è affiancato da due semicolonne corinzie addossate alla parete, sulle quali grava la trabeazione sormontata da un frontone decorato con mensole a voluta. I piedritti dell’arco e le basi delle semicolonne poggiano su un comune, alto basamento. Al di sopra dell’attico, su cui un tempo dominava una quadriga bronzea con la statua di Augusto, si ergono adesso i merli (elementi di coronamento terminanti a coda di rondine) aggiunti in epoca medievale. I conci dell’arco, come pure la sottile ghiera che lo sottolinea, contribuiscono a chiaroscurare lievemente lo spazio compreso fra l’arco, le semicolonne e l’architrave, rompendo in tal modo l’uniforme candore della pietra d’Istria. Il timpano accoglie anche le figure di Giove, Apollo, Nettuno e della dea Roma all’interno di clipei, secondo la tradizione delle imàgines clipeàtae. Le costruzioni per lo svago ed i giochi cruenti: lo schema semplice, allo stesso tempo strutturale e decorativo, dell’arco su pilastri inquadrato da semicolonne addossate ai pilastri e sormontate dalla trabeazione tangente al cervello degli archi sarà tipico di tutta l’architettura romana. Il suo più precoce impiego a Roma lo si nota nel Tabularium ma viene sviluppato nel Teatro di Marcello e in forma compiuta ed esemplare configura l’Anfiteatro Flavio o Colosseo. Il Teatro: il teatro romano, contrariamente a quello greco, non ha la cavea poggiante contro il declivio di una collina, ma su una struttura muraria prevalentemente in pietra e in calcestruzzo. Le volte a botte e quelle anulari ne permettono la costruzione che, all’esterno, presenta solitamente una facciata monumentale rettilinea e una curvilinea, composta da più piani di archi inquadrati da semicolonne trabeate. Queste si susseguono dal basso verso l’alto con la successione di dorico, ionico e corinzio, originando, così, la cosiddetta «sovrapposizione degli ordini». La sommità della cavea reca solitamente un porticato. I vari livelli della stessa cavea, divisi in settori, cùnei. Gli accessi laterali, gli itìnera, sono in muratura. Essi stessi reggono una parte della cavea e, nello sfociare nell’orchestra, danno luogo agli àditus màximi con un sovrastante ripiano sporgente, il tribùnal, una tribuna. L’orchestra, da grande e rotonda che era nella maggior parte dei teatri greci classici, si riduce ora a un semicerchio. Parte della sua superficie risulta occupata dai seggi dei magistrati e degli uomini più in vista della città. Il luogo dell’azione è definito pulpitum ed è circondato da diversi scenari che permettono l’esecuzione di svariate tipologie di opere teatrali. Teatro di Marcello: il Teatro di Marcello venne iniziato da Cesare e compiuto da Augusto che, nel 13 a.C., lo dedicò al nipote e genero Marco Claudio Marcello, prematuramente scomparso. Poco si conosce dell’interno, tuttavia le due aule che si concludono con delle esedre e che affiancano la scaenae frons, sono il prototipo delle basilicae che diverranno uno dei motivi tradizionali dei teatri, così come lo schema esterno degli ordini sovrapposti lo sarebbe diventato per gli anfiteatri. In questo caso, infatti, la facciata curvilinea si caratterizza per il ricorso agli archi sostenuti da pilastri contro i quali si addossano delle semicolonne trabeate, doriche al piano terra e ioniche al piano mediano. Non è noto l’aspetto del terzo ordine, ma studi recenti suggeriscono la presenza di un attico, cioè di una superficie continua, piuttosto che quella di un terzo ordine di archi. L’anfiteatro: raddoppiare il teatro vuol dire avere una struttura perfettamente circolare o ellittica: l’anfiteatro. Tale nuova tipologia di costruzioni ha potuto avere luogo, al pari dei teatri romani, grazie alle tecniche costruttive basate sull’impiego dell’arco a tutto sesto, delle volte e del calcestruzzo. Essa, inoltre, superava il principio della doppia facciata dei teatri, quella curvilinea, corrispondente alla cavea, e quella piana (solitamente rettangolare), riferita al corpo retrostante alla scaenae frons. L’anfiteatro infatti si fonda sull’omogeneità della facciata curvilinea. Il Colosseo: la più nota di tali costruzioni dedicate al divertimento è certamente l’Anfiteatro Flavio a Roma. L’anfiteatro sorge sul luogo un tempo occupato da un lago artificiale negli immensi giardini della Domus Aurea, la sontuosa residenza neroniana. Con la restituzione ai cittadini romani del sito privatizzato da Nerone, la nuova dinastia dei Flavi intendeva rendere evidente la differenza tra il vecchio ordine e il nuovo principato. Di forma ellittica, l’anfiteatro ha dimensioni massime in pianta di 188×156 metri, un’altezza di 50 metri circa e poteva contenere tra i 50 000 e i 73 000 spettatori. L’edificio, in massima parte costruito di tufo e laterizi, è rivestito in travertino. Le strutture voltate sono in opus caementicium. La faccia esterna si compone di quattro piani. I tre inferiori sono costituiti da una successione di 80 arcate su pilastri per ciascun livello; ognuna di esse, al piano terreno, consentiva l’accesso ai vari settori dell’immensa cavea interna. Nei piani superiori le arcate inquadravano delle statue. Per la prima volta gli ordini architettonici si sovrappongono, nella facciata curvilinea, secondo la loro completa successione, anche se l’ordine dorico del piano terreno è sostituito dal tuscanico. Al di sopra del terzo livello (le cui semicolonne sono corinzie) è situato un attico in muratura continua. Lesene corinzie ne spartiscono la superficie in spazi alternativamente occupati da finestroni squadrati. Le mensole a gola dritta sporgenti a due terzi circa dell’altezza dell’attico costituivano la base d’appoggio per le antenne lignee che avevano la funzione di sorreggere il velario, una grande copertura di stoffa che, all’occorrenza, poteva essere rapidamente spiegata da un apposito gruppo di marinai della flotta romana allo scopo di proteggere gli spettatori dal sole e dalla pioggia. Il pubblico accedeva alle gradinate tramite i vomitòria, gli ingressi che riuscivano a convogliare velocemente un gran numero di persone ai corridoi anulari di smistamento. La vasta cavea era divisa in senso orizzontale in tre settori detti maeniana (gallerie), come nei teatri. Quella superiore aveva le gradinate di legno per ridurre la spinta delle volte (sulle quali erano appoggiate) contro la parete dell’attico, la meno spessa, quindi anche la meno resistente. Al di sopra dell’ultima galleria, un ampio corridoio con balconata offriva solo posti in piedi. In senso verticale le scalinate dividevano la cavea in spicchi, detti cunei. Due ingressi ai due lati opposti lungo l’asse maggiore davano l’accesso diretto all’arèna, lo spazio più basso, cosparso di sabbia dove si svolgevano gli spettacoli. Mentre nei teatri si portavano in scena recite in senso proprio (commedie, tragedie, farse, satire, recitazioni) negli anfiteatri avevano luogo spettacoli grandiosi, della durata anche di molti giorni, quali, ad esempio, le battaglie navali – o naumachìe – e anche combattimenti cruenti tra gladiatori e tra uomini e animali feroci. Le costruzioni per lo studio e la lettura: fu Giulio Cesare a istituire la prima biblioteca pubblica di Roma, anche se la morte prematura gli impedì di portare a compimento l’impresa. Con il tempo, però, la città si dotò di più biblioteche dove numerosi armadi conservavano un gran numero di volùmina e dove le opere scritte potevano essere consultate e lette. Se già l’imperatore Traiano fece costruire una biblioteca per le opere latine e una per quelle greche di fronte alla Basilica Ulpia e ai fianchi della Colonna onoraria che porta il suo nome, la più nota tra queste strutture dedicate allo studio e alla conservazione degli scritti scientifici e letterari risale all’età di Adriano. Si tratta della Biblioteca di Celso a Efeso in Asia Minore. Biblioteca di Celso ad Efeso: costruita fra il 117 e il 120 d.C. per volontà del console Giulio Aquila in ricordo del padre, il notabile locale Giulio Celso Polemeano, sostenendone per intero l’ingente spesa, l’edificio si articola attorno a un grande ambiente rettangolare dotato di un’abside assiale che ospitava una statua di Athena, la dea della sapienza, e il sarcofago dello stesso Celso. Per proteggere i libri dall’umidità la sala è circondata da un’intercapedine che consente la libera circolazione dell’aria. I volumina erano conservati in armadi situati su tre livelli. Una scalinata corre lungo l’intera facciata, nella quale si aprono tre porte inquadrate da quattro nicchie. Il carattere esuberante della facciata, priva di un rapporto diretto con l’interno e con le funzioni che vi si svolgono, e che vede anche la presenza di bassorilievi attorno alle nicchie e sulle facce delle paraste, che sul muro ripropongono la scansione delle colonne è motivato dal fatto che il prospetto della biblioteca è pensato soprattutto come un arredo della piazza su cui si affaccia. La casa: la struttura abitativa più comune, destinata ai ceti più ricchi, era la domus, che aveva poche aperture verso l’esterno: infatti, un alto e compatto muro perimetrale la isolava dalla con- fusione della città. La porta che dava sulla strada immetteva nel vestìbulum (vestibolo) e poi nelle fàuces , il corto corridoio che conduceva all’atrium centrale. L’atrio era aperto in alto: la sua copertura, infatti, era costituita da un tetto con le falde sporgenti inclinate verso l’interno, il complùvium. Tale particolarità permetteva di raccogliere l’acqua piovana in una vasca sottostante, detta implùvium, collegata con una cisterna di raccolta. Attorno all’atrio si aprivano i cubìcula, cioè le camere da letto. Di fronte alle fauces era situato l’ambiente di rappresentanza per eccellenza, il tablinum, affiancato da due locali di servizio, le ale. Al di là del tablinum poteva esserci o un giardino interno, l’hòrtus, o un secondo grande ambiente aperto e porticato, il peristylium. Attorno a questo si aprivano la sala da pranzo – il triclìnium – e gli altri ambienti domestici. Nel VI libro del suo trattato di architettura, Vitruvio distingue gli atri in cinque tipi: il Tuscanico, il Corinzio, il Tetrastilo, il Displuviato e il Testudinato. Le Insualae: se i ceti più abbienti risiedevano nelle domus, la maggior parte della popolazione abitava in edifici in condominio con poche stanze a disposizione, solitamente in affitto. Si trattava di costruzioni multipiano in muratura, con piccoli cortili interni di uso comune e con magazzini e botteghe al piano terreno. La loro edificazione aveva la funzione di sfruttare quanto più possibile gli spazi delle città. I quartieri, che prendevano il nome di Insualae, venivano abitualmente costruiti addossati l’uno all’altro, in modo da avere un muro in comune e l’ingresso indipendente agli estremi opposti, su due strade parallele. Casa di Diana ad Ostia Antica: un esempio fra i più noti di insula è quello detto Casa di Diana a Ostia Antica, la cittadina portuale alla foce del Tevere. L’edificio, che deve il suo nome a una terracotta raffigurante Diana situata nel cortile – assunta a protettrice della casa –, si componeva di almeno due piani, oltre al piano terreno, ed era interamente di mattoni. Un cornicione in forte aggetto e dall’intradosso curvilineo separava il piano terreno da quelli soprastanti. Il corridoio d’ingresso aveva a lato la scala che conduceva ai piani superiori ed era affiancato da un vano con la latrina di uso comune. Comune era pure la fontana situata nel cortile centrale, circondato da un ambulacro, attorno al quale si aprivano numerosi ambienti. Due stanze erano state trasformate in mitrèo , un luogo di culto, cioè, dedicato a Mitra, una divinità del sole. La Villa: i grandi proprietari terrieri possedevano spesso, oltre alla domus cittadina, una o più ville in campagna, destinate al riposo e agli svaghi. Spesso fortificate, erano ingentilite da giardini, viali, orti, vigne, piscine, ma si presentavano anche sfarzose e dotate di ogni comodità, incluse – a volte – addirittura terme e templi privati. Ancor più grandiose, sia per dimensioni, quantità degli edifici e concezione architettonica, sia quanto a estensione, erano le ville imperiali, quelle, cioè, commissionate dagli imperatori. Il palazzo imperiale: per magnificenza, dimensioni e ricchezza, sopra tutti gli edifici destinati alla residenza si collocano i palazzi imperiali. La Domus Aurea: il più smisurato di essi fu certamente la Domus Aurea, costruita per Nerone dagli architetti Severo e Celere tra il 64 e il 68 d.C. Il complesso si snodava, per circa 80 ettari, nel cuore di Roma, tra i colli Palatino, Celio ed Esquilino. Organizzato attorno a un lago si componeva di edifici, padiglioni, giardini, boschi, pascoli, terrazze, viali, ville, orti, campi coltivati, vigneti, terme, templi, porticati, bacini d’acqua, ninfei. Della grande Domus Aurea rimangono resti raffigurano Flora e Leda con il cigno, le altre due, su fondo azzurro, riguardano, invece, Medèa e Artemide. Viste da dietro, di tre quarti o di profilo, le quattro figure non hanno altro sostegno se non le leggere ombre a filamenti bianchi sotto i piedi. Leggiadre, delicatissime nelle movenze, avvolte in vesti vaporose, esse colgono fiori (Flora), si lasciano accarezzare dal cigno (Leda) o, pensose, stringono nelle mani la spada che trapasserà i corpi dei figli (Medea) o approntano frecce preparandosi alla caccia (Artemide). Cubicolo B della villa della Farnesina: gli affreschi della Villa della Farnesina offrono esempi di alta qualità del terzo stile nella città di Roma. Sulle pareti del cubicolo B un’architettura sottile ripartisce lo spazio in modo da avere figurette su mensole o entro piccole, graziose edicole, ovvero quadretti sorretti da figure alate che, a loro volta, poggiano su aggetti ornatissimi di un basamento poco profondo. Infine, entro un’edicola al centro della parete, sormontata da un frontone vegetale, un quadro centinato illustra, a tinte chiare, l’infanzia di Dioniso. Cubicolo 16 della Villa di Agrippa Postumo: il paesaggio è un ulteriore tema trattato nelle pitture di terzo stile; mai, però, esso rappresenta un luogo reale né la natura allo stato puro. Il pittore romano, infatti, concepisce solo una natura controllata e trasfigurata dall’intervento dell’uomo. L’esempio più armonioso è, forse, quello del cubicolo 16 della Villa detta di Agrippa Postumo. Qui, contro un fondo rosso, inquadrato da snelle colonnine ioniche, campeggia un quadro raffigurante un paesaggio idilliaco. Lo sfondo è bianco-avorio, mentre la composizione piramidale si incentra su un albero fronduto, uno specchio d’acqua, un pastore con delle capre, figurette di viandanti, piccoli edifici e tempietti fra balze scoscese e cipressi. Il quarto stile: il quarto stile, o fantastico o dell’illusionismo prospettico (seconda metà del I secolo d.C. o età neroniana; a Pompei: dopo il terremoto del 62 d.C.), si serve di prospettive architettoniche e di decorazioni del tipo di quelle del terzo stile, ma in maniera del tutto fantasiosa. Inoltre le architetture sono estremamente teatrali: la prospettiva è virtuosistica, complessa e moltiplicata in profondità. Le vedute sono sempre più difficili da dipingere, la decorazione è sovrabbondante. Frammento di affresco da Ercolano: elaboratissimo, ricco, il frammento presenta un insieme complesso di architetture, le cui tante porzioni si intravedono fra le numerose logge e arcatelle che moltiplicano la veduta rendendola fastosa. Tale moltiplicazione è ottenuta con un solo colore che, aumentando o diminuendo di intensità, stabilisce la vicinanza o la lontananza degli edifici raffigurati. Il frammento, la cui architettura in primo piano si regge sulla combinazione del rosso e del giallo-oro, è incorniciato in alto da un tendaggio verde-azzurro dalle tante pieghe, come fosse il sipario di un moderno teatro. Casa dei Vettii a Pompei: ma la più compiuta realizzazione in questo stile è nella Casa dei Vèttii a Pompei e mostra chiare le derivazioni dal terzo stile. Infatti, i quadri a soggetto mitologico, nella metà inferiore delle pareti, sono gli stessi del terzo stile, tuttavia l’ornamentazione architettonica principale è ridondante di dettagli decorativi. Inoltre, le architetture, in ardita prospettiva, inquadrate come da finestre aperte e secondo scorci scenografici che si sovrappongono e si moltiplicano, aggiungono all’intero ambiente una pluralità illusiva di spazi. La maggior parte delle piccole scene che ornavano le pareti dipinte in questo quarto stile sono realizzate con la tecnica cosiddetta compendiaria. Ritratto di Terentius Neo con la moglie: anche il ritratto rientra fra i generi trattati nei quadri che ornano le pareti dipinte nel quarto stile. Collocato nella posizione più centrale del tablino della casa, il ritratto presenta i due coniugi, lui ricco panettiere, rivolti verso l’osservatore. Ambedue di tre quarti, ruotati, però, in senso opposto, e l’una più avanzata rispetto all’altro. La donna tiene fra le mani le tavolette cerate e uno stilo per scrivere, l’uomo, stringe un rotolo di papiro contenente un’opera letteraria e lo porta, pensoso, sotto il mento. I volti non sono idealizzati, ma trasmettono le reali fattezze dei giovani sposi: gli occhi grandi a mandorla di ambedue, l’ovale appena puntuto di lei coronato da una successione di riccioli, la barba rada e i capelli stempiati di lui. La pittura dopo il 79 d.C.: dal 79 d.C.: è possibile affermare che le invenzioni pittoriche cominciarono a diminuire e che le decorazioni si trasformarono, col tempo, in schemi sempre meno elaborati e riassuntivi anche delle finte architetture (no testimonianze sicure) La scultura: Roma fu ben presto invasa da singole statue e da gruppi statuari greci, originali o in copia, frutto di bottino di guerra, ma anche di esportazione da parte delle fiorenti botteghe artigiane greche. In essa iniziarono così a diffondersi i valori e la nuova visione artistica propri della koinè ellenistica. Molti scultori dall’Oriente ellenizzato si trasferirono, aprendovi floride botteghe, in quella città che cominciava a brillare di luce propria in mezzo al Mediterraneo e che prometteva di diventare il nuovo centro propulsore di un potere quasi universale. L’arte greca si sovrappose, inizialmente, alla tradizione artistica romana, e con essa si intrecciò, e anche si amalgamò, successivamente. Altrettanto avveniva, da parte dell’arte romana, nei confronti delle forme artistiche di popolazioni di nuova conquista. Il ritratto: fra i generi artistici, quello che più di ogni altro risulta inscindibilmente legato alla mentalità romana è senza dubbio il ritratto. Mentre la statuaria greca difficilmente si spinge fino a mostrare le fattezze dell’effigiato, e anzi ne generalizza gli atteggiamenti e ne rende quasi impersonale il volto, la statuaria romana, al contrario, cerca soprattutto la rassomiglianza. La statua Barberini: dalla maschera funebre proviene in certa misura la particolarità di limitare il ritratto al solo volto e al collo, dando così origine alla fortunata tipologia del busto. È quanto si può osservare nella cosiddetta Statua Barberini della fine del I secolo a.C. Un patrizio, dal ricco e complesso panneggio della toga, sembra in posa davanti all’artista che o ritrae e reca con sé le immagini di due suoi antenati, dei ritratti limitati alla testa, al collo e all’attaccatura delle clavicole. I due volti hanno la stessa fronte alta, il medesimo volto pieno, uguali labbra serrate e sottili, simili rughe naso-guanciali pronunciate. La Statua Barberini, quindi, sta a testimoniare tre diverse generazioni di una stessa famiglia. Ritratti di anziani: in due ritratti, l’uno virile, di età repubblicana, l’altro femminile, di età augustea, si possono leggere le stesse caratteristiche di perfetta rassomiglianza al modello che abbiamo appena rilevato per la Statua Barberini. Il primo mostra un patrizio romano in età avanzata. Il naso è forte e gibboso, i capelli sono radi. Gli occhi, stanchi, ma ancora acutamente indagatori, appaiono infossati entro orbite sottolineate dalle palpebre inferiori gonfie e da un’arcata sopracciliare ricalante lateralmente. La carne avvizzita delle guance, senza più la tonicità della giovinezza o della maturità, appare come appesa agli zigomi pronunciati. Il labbro inferiore è portato in fuori e quello superiore, senza volume, è appena una linea, mentre la bocca assume una piega verso il basso. Le rughe attraversano il volto del vecchio come fossero solchi su un terreno arido e bruciato, conferendo all’effigiato un aspetto pensoso, grave e autorevole. Il Ritratto di donna anziana testimonia un’attenzione particolare della persona ritratta nei confronti del proprio corpo e della propria femminilità, pur nella nascente decadenza dovuta all’età, condita con un pizzico di civetteria che non spiace in un volto pacato, mite e un po’ rassegnato. I pochi capelli, accuratamente pettinati, scavalcano le orecchie con morbidezza e docilità. Al di sopra della fronte essi formano un ciuffo mentre vengono riportati indietro. Una lunga treccia si arrotola a crocchia, alta sulla nuca. Curiosamente, l’andamento quasi conico dell’acconciatura definisce un naturale asse di equilibrio rispetto al volto proteso in avanti e culminante nel naso puntuto. Gli zigomi prominenti, le guance incavate, la bocca grande dalle labbra sottili, gli occhi un po’ sporgenti, al di sotto di ben disegnate arcate sopracciliari, non cancellano ancora l’impressione di un volto che un tempo doveva essere stato piacente. Imagines clipeatae: cioè i ritratti contenuti entro uno scudo. Ne sono esempio il Busto virile proveniente da Ostia Antica, risalente al I secolo d.C., e il Ritratto di Traiano in età avanzata databile al 117 d.C. circa. Nel primo caso un uomo anziano, dagli occhi infossati, con i capelli a ciocche fin sulla fronte, e che indossa la toga è raffigurato entro la concavità centrale di uno scudo. Quest’ultimo è ornato da fasce concentriche con perle, rilievo baccellato e motivo a doppia treccia. Nel secondo, invece, l’imperatore, ormai anziano e stanco, è mostrato come un uomo qualunque, pur se coronato e se, con la testa, supera i margini dello scudo stesso. La testa è volta a destra e il naso forte domina il volto segnato dalle rughe; le labbra sono sottili e chiuse. Al contrario gli occhi sono bene aperti e sembrano guardare con attenzione qualcosa. Augusto di Prima Porta: l’Augusto di Prima Porta, una copia in marmo di un originale bronzeo, riprende l’atteggiamento equilibrato del Doriforo di Policleto. Ma colui che si ergeva a protettore della tradizione e della moralità, non poteva essere nudo come un generico eroe greco o un guerriero. Fu così che al corpo del prìnceps venne apposta una corazza, però aderente, in modo da rivelare comunque il disegno anatomico del busto con i muscoli pettorali ben pronunciati. Il paludamèntum militare cinge i fianchi di Augusto ricadendo dal braccio sinistro. Il volto dell’imperatore venne modificato quel tanto che bastava per renderlo sereno e idealizzato. I principi della statuaria greca d’età classica contribuivano in maniera notevole a conferire al volto caratteristiche atemporali ed è difficile, infatti, percepire l’età stessa di Augusto che nel 27 a.C. non aveva che 36 anni. Il ritratto in questo caso è portatore anche di altri valori. In esso, infatti, la figura di Augusto è quasi divinizzata. I piedi di Augusto sono nudi come quelli delle statue degli dei e degli eroi, mentre Eros a cavallo di un delfino – in basso a sinistra – allude a Venere e alla gens Iulia, la famiglia dell’imperatore, di cui la dea dell’amore era ritenuta la mitica progenitrice. Nella corazza, infine, la scena centrale con il re dei Parti, che restituisce le insegne romane a un generale vittorioso o, forse, allo stesso Marte Ultore, affiancata dalla personificazione di popoli vinti, avviene in un contesto mitico. In alto la personificazione del Cielo dispiega la volta celeste come fosse una vela dalle dimensioni inesprimibili. La Terra, in basso, mostra già i frutti che la nuova era promette. Apollo e Diana volteggiano, l’uno su un grifone, l’altra su una cerva, vegliando sul nuovo ordine stabilito da Augusto. In alto il Sole corre sulla sua quadriga rincorrendo la Luna, che lentamente viene nascosta dall’Aurora che versa fresca rugiada. Augusto come Pontefice Massimo: eseguita in più pezzi e in marmi di diversa origine e colorazione, la statua mostra il princeps che veste la toga tradizionale che forma quattro ampie pieghe. Un lembo gli copre la testa, secondo le prescrizioni per colui che compie un sacrificio. Il volto dell’imperatore, coronato dai capelli a ciocche e con i realistici zigomi sporgenti, è calmo, mite e sereno, mentre si mostra come un uomo legato alla tradizione, che ama e onora gli dei. Statua Virile (Claudio Marcello): conseguenza del ricorso in età augustea alla statuaria greca del V secolo e vero capo d’opera del tempo è la Statua virile del Louvre, identificata con il ritratto di Marco Claudio Marcello. Alla posa stante e alla ponderazione fidiaca con ambedue i piedi saldamente poggiati a terra, al manto che scivola lungo il braccio sinistro e al braccio destro piegato con la mano portata in alto all’altezza della fronte, si sommano la testa leggermente rivolta in basso e dall’ovale coronato da capelli in ciuffi virgolettati aderenti alla calotta cranica, un volto giovane e pensoso che suggerisce introspezione. Il rilievo di arte plebea: la mentalità, la cultura e le preferenze artistiche romane non si esaurivano con quelle della classe dirigente. La maggior parte dei cittadini romani, infatti, era plebea, certo la classe più legata a usi e tradizioni italiche e la meno vicina alla cultura ellenistica. L’arte romana, allora, è come se avesse due anime, ugualmente vitali: quella àulica e quella plebea, tanto che si parla anche di arte plebea, che prende anche il nome di arte popolare. Corteo funebre da Amiternum: il funerale doveva essere quello di un ricco: ci sono ben otto portatori, il feretro è preceduto dai musici e dalle donne gementi ed è seguito dai familiari e dagli amici. Il corpo del defunto è adagiato su un lettuccio coperto da un baldacchino. È evidente la scomparsa di ogni riferimento realistico e prospettico. I portatori, pur essendo di diversa altezza, come ci si aspetta, dal momento che gli uni sono vicini e gli altri più lontani, poggiano, però, tutti sullo stesso piano. I musici, invece, sono collocati su due livelli diversi, l’uno sopra l’altro. Per le figure disposte nella parte superiore della lastra esistono delle strisce di appoggio. Tutti i personaggi sono raggruppati in modo da non lasciare un solo spazio libero da figure. Il baldacchino è mostrato ribaltato, cosicché possiamo vederne la decorazione con una falce di luna e il cielo stellato. Rilievo votivo: la composizione rappresenta il porto della cittadina laziale con il grande faro e due navi, una delle quali a vele ancora spiegate. Su ambedue si affaccendano molti uomini, ma non c’è proporzione fra essi e le navi, né interviene la visione prospettica a mostrare gli uomini più vicini più grandi e quelli lontani più piccoli. Una grande statua di Nettuno quasi supera in altezza gli alberi della nave ancorata nel porto. In secondo piano altri simulacri di divinità, probabilmente, suggeriscono luoghi noti di Ostia, mentre un edificio di cui si vede un fianco con, sulla sommità, una quadriga di elefanti domina la porzione destra del rilievo. Fregio dell’arco di Augusto a Susa: il fregio dell’Arco di Augusto a Susa (Torino), eretto per celebrare l’accordo politico tra Roma e il re dei Segùsi, rappresenta invece una processione Luoghi, Oggetti e Memorie Il giardino fiorito della villa di Livia a Prima Porta: nel 39 a.C. Augusto si innamorò di Livia Drusilla, moglie del senatore Tiberio Claudio Nerone, al quale aveva già dato un figlio, Tiberio. Ottenuto il divorzio, la sposò mentre ancora aspettava dal primo marito un secondo figlio, Druso, che nacque poco dopo. Augusto aveva allora 24 anni ed era già stato sposato due volte. Visse con Livia per tutto il resto della vita. Si tramanda che alla morte di Nerone – l’ultimo imperatore della dinastia Giulio-Claudia, di cui, per l’appunto, Augusto era stato l’iniziatore – l’intera selva fosse seccata e tutte le galline fossero morte (legata alla sfera naturale). La villa amata da Livia ci ha conservato uno dei più estesi e raffinati affreschi di giardino dell’intera produzione romana; le sue dimensioni, infatti, sono di 5,90×11,70 metri. Databile tra il 40 e il 20 a.C., recentemente è stata avanzata l’ipotesi del 38 a.C., anno del matrimonio di Augusto e Livia. La pittura di giardino nella pittura romana: la pittura di giardino è uno dei generi pittorici che, con frequenza, ornano le pareti delle domus e delle ville romane affrescate nel terzo stile. Se ne hanno esempi di sicuro impatto visivo soprattutto nelle case di Pompei. La cosiddetta Casa del bel frutteto (o dei cubicoli floreali) è invasa da piante e frutti. Il Giardino fiorito nella Villa di Livia: la copertura, una volta a botte, di cui si conservano solo dei frammenti, era decorata con un cassettonato in stucco i cui lacunari, alternativamente color avorio e azzurro, accoglievano delle figure, anch’esse in stucco. Le quattro pareti mostrano ancora la fascia superiore dipinta a imitazione di rocce. La natura lussureggiante si rivela in tutto il suo luminoso splendore. L’anonimo artista ha costruito un luogo in cui a uno steccato di canne segue una transenna di marmo. Lavorata a motivi geometrici, quest’ultima si allarga a formare sei piccole esedre poligonali. Fra lo steccato e la transenna si configura, per-tanto, uno spazio adatto al passeggio. Quattro abeti occupano le piccole esedre dei lati orientale e occidentale, un pino troneggia in quella del lato settentrionale, mentre una quercia prospera sul lato meridionale. Soggetti che sono un po’ la sintesi del territorio naturale, rinviando alla collina, al mare e alle montagne. Al di là della transenna molti alberi da fiore e da frutto sono in primo piano, seguiti, nei piani successivi, da arbusti, da alberi frondosi o svettanti. Le ultime piante annegano in un colore verdastro, mentre fiori variopinti fanno capolino dalla transenna di marmo. L’azzurro monocromo dello sfondo, senza sfumature né profondità definisce un limite invalicabile per la natura e per la fantasia dell’osservatore. Le più diverse specie di uccelli popolano il giardino. É importante sottolineare che in questo ciclo pittorico non è definita una stagione ben precisa. Il Foro Romano e i Fori Imperiali: nelle città romane il foro, che è il centro della vita cittadina, sorge lì dove il cardo s’incrocia con il decumano ed è costituito da una piazza, spesso porticata, sulla quale si affaccia anche un tempio. I Fori occupano uno spazio pianeggiante fra i colli Quirinale, Viminale, Palatino e Capitolino e sono sempre stati fra loro in diretta comunicazione. Purtroppo tra il 1932 e il 1933 il regime fascista decise la realizzazione della fastosa via dell’Impero, fra piazza Venezia e il Colosseo, che tagliò irrimediabilmente in due l’intero e unitario complesso. Riesce così impossibile all’odierno visitatore ricostruire l’ideale, antico percorso che, attraverso la Via Sacra, che si snodava nell’intrico del tessuto del Foro Romano, conduceva all’arioso, geometrico insieme dei Fori Imperiali. Il Foro Romano Plutei di Traiano: le scene raffigurate si riferiscono alla distruzione dei libri nei quali erano iscritti i nomi dei debitori dell’erario pubblico, dopo la conquista della Dacia, e all’istituzione degli alimènta, cioè degli aiuti ai fanciulli romani di famiglie bisognose. Ambedue gli avvenimenti si svolsero solennemente nel Foro Romano che fa da sfondo alle narrazioni figurate. Nel primo pluteo, dietro agli uomini che portano i libri al cospetto dell’imperatore, si vedono ancora gli archi della Basilica Giulia. Procedendo verso destra compaiono il Tempio di Saturno, con un pronao esastilo ionico, quindi un arco di trionfo e infine il Tempio di Vespasiano e di Tito, esastilo corinzio. Nel secondo pluteo, sempre procedendo da sinistra verso destra, dietro a un gruppo di uomini al di sopra di un podio rostrato, si notano l’Arco di Augusto, il Tempio di Castore e Polluce, esastilo corinzio e le arcate della Basilica Giulia, di fronte alla quale Traiano, seduto e circondato da dignitari, istituisce gli alimenta. Tabularium: Ii possente edificio del Tabularium sembra chiudere il complesso dei Fori come una grande diga lunga 73,60 metri. L’edificio costituisce attualmente la porzione inferiore del Palazzo Senatorio, a cui si accede dalla sovrastante piazza del Campidoglio. Tale palazzo, pur non facendo parte, a rigore, del Foro sottostante, lo domina costituendone uno sfondo architettonico di suggestiva importanza storica. Il Tabularium era composto da due piani realizzati con paramenti in opus quadratum, di cui l’inferiore aveva undici grandi arcate, impostate su pilastri ai quali erano addossate delle semicolonne doriche sovrastate da un architrave con fregio a metope e triglifi. All’interno, altre arcate in mattoni suddividono il porticato in undici campate coperte da ampie volte a padiglione in opus caementicium. Tempio di Saturno: il Tempio di Saturno, esastilo ionico, con una sola colonna sui lati, fu edificato attorno al 498 a.C. Il tempio, che originariamente ospitava anche l’Erario, subì una prima ricostruzione nel 42 a.C. da parte di Lucio Munazio Planco e, successivamente, un secondo restauro dopo il disastroso incendio del 283 d.C. È a questi due ultimi interventi, infatti, che risalgono le parti dell’edificio che ancora si conservano, cioè il podio e il colonnato del pronao. Le colonne, dal fusto liscio, sono di granito grigio sul fronte e di granito rosso sui lati. Il marmo bianco, invece, caratterizza sia le basi sia i capitelli ionici, del tipo a quattro volute. L’architrave e il fregio, che nelle facce esterne della trabeazione appaiono indifferenziati, nelle facce interne si configurano rispettivamente a tre fasce e con decorazioni a palmette Tempio di Vespasiano e Tito: ai piedi del Tabularium, di fianco al Tempio della Concordia, di cui poco resta, tra l’86 e l’87 d.C. venne edificato il Tempio di Vespasiano, per volontà del figlio, l’imperatore Domiziano che, successivamente, lo dedicò anche al suo predecessore, il fratello Tito. Una grande cella quasi quadrata, ma la cui larghezza è comunque maggiore della lunghezza (18x19 m), è preceduta da un pronao esastilo corinzio con l’aggiunta di due colonne su entrambi i lati. La gradinata del podio proseguiva fra le colonne, invece di concludersi di fronte ad esse, a motivo della mancanza di spazio dovuta alla presenza di una piccola strada e del fianco Nord dell’attiguo Tempio di Saturno. Dell’edificio rimangono solo tre colonne dell’angolo Nord-Ovest con la relativa trabeazione: architrave tripartito, fregio figurato, cornice dentellata e sostenuta da mensole. Separati da dei bucrani, in corrispondenza degli assi delle colonne, il fregio porta scolpiti vari strumenti sacrificali e alcuni attributi dei sacerdoti. Tali oggetti sono un riferimento evidente a quella che forse veniva considerata la principale virtù di Vespasiano: la pìetas. Arto di Settimio Severo: eretto per celebrare le guerre Partiche, condotte dall’imperatore Settimio Severo, l’arco è del tipo a tre fornici intercomunicanti. Ciascuno di essi è coperto da una volta a botte cassettonata ornata di rosoni. Gli archi sono affiancati da paraste fronteggiate da quattro colonne libere dal fusto scanalato, che poggiano su un alto piedistallo marmoreo e che sono coronate da un capitello composito. Al di sopra della trabeazione, sporgente in corrispondenza delle colonne, si eleva l’attico. I piedistalli delle colonne recano dei rilievi con soldati romani e prigionieri della Partia, mentre delle Vittorie alate sostengono trofei di armi, nello spazio dei timpani corrispondenti all’arco centrale. Divinità fluviali adagiate, invece, sono ospitate nei timpani di fianco agli archi minori. I rilievi onorari al di sopra di questi ultimi, infine, rispecchiano le caratteristiche dell’arte plebea. La Curia: fondata, secondo la tradizione, dal re Tullo Ostilio, fu più volte riedificata, soprattutto nell’80 a.C. da Silla e, dopo il 52 a.C., da Cesare che ne modificò anche la collocazione, la forma, le dimensioni e l’orientamento, allineandola al Foro che porta il suo nome. L’edificio attuale è un’ulteriore ricostruzione effettuata sotto il regno di Diocleziano, che comunque rispettò proporzioni e dimensioni della Curia Iulia. La Curia è uno degli edifici meglio conservati del Foro. L’interno presenta una grande aula dalle dimensioni di 27×18 metri. Su ciascuno dei due lati maggiori tre ripiani affrontati accoglievano i seggi per i senatori. In fondo, in corrispondenza di due porte che danno sul Foro di Cesare, un piccolo podio era riservato al presidente delle sedute. Dietro al podio era collocata la statua della Vittoria con l’altare a essa dedicato. Le pareti dei lati lunghi, infine, accoglievano anche tre nicchie ciascuna. Il pavimento, di età tarda e in parte opera di restauro moderno, è in òpus sèctile (lastre di marmo appositamente tagliate e sagomate). Basilica Fulvia Emilia e Basilica Giulia: la Basilica Fulvia Emilia, che verso il Foro è preceduta dalle Tabernae Novae e dal portico di Gaio e Lucio Cesari, subì numerosi restauri, soprattutto a opera della gens Aemilia. L’aspetto attuale è dovuto alla ricostruzione del 14 a.C. e al restauro di Tiberio del 22 d.C. Tre file di colonne suddividevano in senso longitudinale lo spazio interno in quattro navate dalle dimensioni diseguali. Altre due file di colonne chiudevano anche le estremità trasversali. Allo sfarzo dell’ambiente contribuivano anche i marmi dai colori vivaci dei pavimenti. Tre ingressi, affiancati dalle tabernae , consentivano l’accesso alla grande aula, l’unica conservatasi dell’età repubblicana. Il portico era a due piani e la facciata era costituita da semicolonne doriche addossate a pilastri sui quali si impostavano archi a tutto sesto. In tal modo l’esterno della basilica, verso la piazza del Foro, si presentava stilisticamente e tipologicamente simile alla facciata esterna del Tabularium. La Basilica Giulia inglobava al suo interno anche le Tabernae Veteres, potendo in tal modo affacciarsi direttamente sulla piazza del Foro. Le grandi dimensioni dell’edificio (101×49 metri) racchiudevano uno spazio regolare, scandito da pilastri di mattoni rivestiti di marmo che delimitavano cinque navate: più ampia quella centrale, di uguali e minori dimensioni le altre. I pilastri proseguivano anche lungo i lati corti dell’edificio, originando, in tal modo, un doppio deambulatorio. Speciale significato assumeva la navata Nord-orientale che, separata dalle altre da gradini, svolgeva la particolare funzione di portico di facciata. Come la Basilica Fulvia-Emilia, anche la Giulia doveva essere dotata di un doppio ordine esterno di arcate su pilastri, con semi- colonne doriche addossate. Tempio di Castore e Polluce: è uno dei più antichi templi del Foro, l’unico fra essi di tipo periptero. Dell’edificio primitivo non rimangono che pochi blocchi di tufo. Il tempio fu consacrato dopo la vittoria dei Romani sui Latini al Lago Regillo, quando, secondo la tradizione, furono proprio Castore e Polluce, i leggendari gemelli figli di Leda e di Giove, a portare a Roma la notizia del successo con la loro apparizione nel Foro. Un podio, preceduto da una gradinata frontale e da due, minori, laterali, sostiene l’intero tempio che, come si è anticipato, è un edificio periptero, octastilo di ordine corinzio. Le colonne, scanalate, sono di marmo pario. Di notevole importanza è la presenza della «cornice a modiglioni», nella sua più compiuta evoluzione della cosiddetta «cornice a volute». Tempio di Antonino e Faustina: il Tempio di Antonino e Faustina è quello meglio conservato dell’intero Foro. L’edificio fu voluto dall’imperatore Antonino Pio nel 141 d.C. per onorare la propria consorte Faustina, divinizzata dopo la morte. Il tempio poggia su un podio in opus quadratum un tempo rivestito di lastre di marmo asportate nel corso del Cinquecento. La cella è preceduta da un portico esastilo con, in più, due colonne su ciascuno dei lati lunghi. Le colonne sono di marmo cipollino, dalle caratteristiche striature verdi-azzurrine, ma hanno basi e capitelli in marmo bianco. Notevole è il fregio con girali di acanto. Arco di Tito: l’arco venne eretto per celebrare le vittorie dell’imperatore Tito Flavio Vespasiano e del figlio Tito nella guerra giudaica. Inglobato parzialmente entro strutture medievali che lo han-no preservato dalle distruzioni, l’Arco è stato isolato e restaurato nell’Ottocento. La costruzione è a un solo fornice e presenta su ogni fronte quattro colonne dal fusto scanalato. Tutte le colonne sono coronate da capitelli di ordine composito, che compare qui per la prima volta in un monumento trionfale. La trabeazione corre appiattendosi contro le facce dei pilastri, ma sporge in corrispondenza sia delle semicolonne sia dell’intercolunnio centrale. Al di sopra della trabeazione l’attico conserva ancora l’iscrizione con la dedica all’imperatore vittorioso. La volta a botte cassettonata è introdotta da un arco il cui concio di chiave è costituito da una doppia voluta, che qui, per la prima volta, è impiegata in un monumento ufficiale. All’interno del fornice due rilievi rappresentano momenti del corteo trionfale celebrato nel 71. Il primo rilievo mostra la quadrìga dell’imperatore, a cui la Vittoria porge simbolicamente la corona. I cavalli sono trattenuti dalla dea Roma, mentre un certo numero di personaggi movimenta la scena, suggerendo un’ampia partecipazione di popolo e di magistrati al trionfo. Il secondo rilievo, invece, mostra l’ingresso del corteo attraverso la Porta Trionfale con i portatori che alzano sopra le teste alcuni dei preziosi tesori saccheggiati dal tempio di Gerusalemme. I Fori Imperiali Il Foro di Cesare: il Foro di Cesare fu costruito accanto alla Curia. Esso comprendeva una grande piazza porticata su tre lati, affiancata da tabernae. Il quarto lato era invece occupato dal Tempio di Venere Genitrìce, del tipo octastilo, con otto colonne sui lati maggiori. La cella, con un doppio ordine di colonne addossate alle pareti, si concludeva con un’abside, appositamente creata per ospitare la statua della divinità. In tal modo veniva accentuata l’assialità della costruzione, cioè il Narciso, giovane bellissimo che, specchiandosi nell’acqua di una fonte si innamora della propria immagine riflessa e, acceso di desiderio, protendendosi per baciare il volto che lo incanta, cade nell’acqua e annega. Una versione diversa del mito presenta, invece, Narciso che muore consumato dall’amore per la propria immagine che non riesce mai ad afferrare e a fare sua. La Casa di Meleagro: la casa, che prende il nome da un affresco dell’ingresso rappresentante Meleagro e Atalanta, alla quale offrì la pelle dell’animale appena ucciso, è situata al centro della nona insula della sesta regio. Essa è formata dall’unione di due diverse unità abitative. Le pareti affrescate: i tre frammenti pittorici delle pareti Nord, Est e Sud sono attualmente conservati al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Eseguiti secondo le novità del quarto stile, i dipinti costituiscono a tutt'oggi l'unico esempio presente in un'abitazione privata pompeiana di affresco comprensivo di parti a rilievo in stucco. Delle architetture fortemente scenografiche con edicole che definiscono degli sfondamenti prospettici delle pareti, sono coronate da terminazioni ondulate sormontate da un'ornamentazione a grottesca su fondo azzurro. Le edicole minori, ma che appaiono illusionisticamente le più profonde, ospitano figure dipinte diofferenti rivolte verso edicole maggiori. Il decoro-rilievo alterna e combina porzioni gialle, rosse, verdi e azzurre, mentre si arricchisce di nature morte con pesci, di quadretti idilliaci con animali al pascolo paesaggi, puttini cacciatori, episodi mitologici e porte a due battenti aperte, attraverso le quali si intravedono delle figure minute e poco caratterizzate. Notevole è, invece, la figura femminile inquadrata dalla porta che compare nel frammento Est. Tra le più raffinate dell’intera decorazione, ammantata di rosso, essa volge lo sguardo e il viso a sinistra, mentre avanza recando in ma- no un piccolo scrigno: quasi un’offerta agli ospiti della casa. La Casa del Poeta Tragico: il piccolo edificio, riportato alla luce tra il 1824 e il 1825, sorge nell’ottava insula della sesta regio, con ingresso dal più settentrionale dei due decumani. La costruzione, con dieci locali al piano terreno e altrettanti al primo piano, ora distrutto, risale agli inizi del I secolo d.C. ed è decorata da numerosi affreschi del quarto stile, oggi per la maggior parte conservati al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Sacrificio di Ifigenia: Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Ifigenia è figlia di Agamennone, re di Argo e capo dell’esercito acheo in partenza da Aulide per la guerra contro i Troiani. La fanciulla deve essere sacrificata alla dea Artemide affinché la flotta greca possa salpare verso la Troade. Agamennone, dopo aver attirato la figlia in Aulide col pretesto di farla sposare ad Achille, esita a sacrificarla perché le è molto affezionato. Ma di fronte a Menelao, che lo accusa di non essere un vero capo, disposto a vincere la guerra a qualunque prezzo, il padre decide di compiere il sacrificio. Il vaso Blu di Pompei: rinvenuta nel corso dell’Ottocento negli scavi di Pompei, la piccola anfora è uno degli oggetti in vetro d’età romana meglio conservati. Nella forma richiama i grandi vasi in terracotta utilizzati per il trasporto e la conservazione del vino: la superficie allungata del recipiente è arricchita da due anse costolate e un puntale a bottone sul fondo. La tecnica utilizzata per quest’opera è quella del cosiddetto «vetro-cammeo». Su una lastra vitrea di fondo veniva applicato uno strato di pasta vitrea bianca nel quale erano intagliati decori e figure eliminando le parti superflue. Il risultato così ottenuto rendeva la superficie dell’oggetto simile a quella dei cammei, che risultavano molto più costosi e difficilmente lavorabili in forme tanto complesse. Il vasetto pompeiano presenta una fitta decorazione con figure ed elementi vegetali che ha inizio nello spazio sottostante le anse. Due sono le scene principali: da un lato un putto è semidisteso su un letto con una piccola coppa in mano, mentre un secondo amorino suona la cetra e altri due, posti su alti piedistalli, sono intenti a raccogliere alcuni grappoli d’uva; sull’altro lato, invece, un fanciullo sta versando l’uva in un grande recipiente dove un altro puttino, munito di un lungo tirso, si preoccupa di pigiarla con i piedi. Seduti sui podi laterali due amorini suonano una siringa, quello di destra, e un flauto doppio, quello di sinistra. Tutt’attorno la superficie dell’anfora è occupata da ghirlande vegetali e tralci di vite intrecciati in lunghi girali e carichi di grappoli, nei quali sono nascosti alcuni uccelli. Nella parte inferiore del vaso la decorazione è completata da piccole figure di animali separate da alcuni alberi. L’opera venne prodotta da un’abile bottega campana del I secolo d.C. ed è considerata un simbolo dell’agiata raffinatezza in cui vivevano i Pompeiani nella prima età imperiale.