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Il carcere: riabilitazione o istituzione totale?, Guide, Progetti e Ricerche di Sociologia Del Diritto

Elaborato in sociologia del diritto, nello specifico in ambito penitenziario, che mira ad analizzare l'istituto carcerario dalle sue origini ad oggi in maniera critica, facendo riferimento anche agli studi di Goffman, Clemmer, Sykes e Vianello. Lo scopo è di dare una risposta alla domanda presente nel titolo, cioè se il carcere, per come attualmente si presenta, è idoneo alla rieducazione o è soltanto un'istituzione totale?

Tipologia: Guide, Progetti e Ricerche

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Caricato il 11/03/2020

EvaLunadeipoveri
EvaLunadeipoveri 🇮🇹

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Scarica Il carcere: riabilitazione o istituzione totale? e più Guide, Progetti e Ricerche in PDF di Sociologia Del Diritto solo su Docsity! IL CARCERE: RIABILITAZIONE O ISTITUZIONE TOTALE’ 1.La mancata evoluzione del carcere. Gli istituti penitenziari nascono nel Settecento quando l’industrializzazione e la nuova sensibilità per i diritti umani determinano il disuso delle pene corporali a vantaggio di pene che permettano di sfruttare la forza lavoro del detenuto. In tal modo la pena assume una funzione riabilitativa, volta a rieducare il condannato al fine di un suo corretto reinserimento in società: essa non si indirizza più quindi sul corpo, ma sulla mente del detenuto1. A seguito delle esperienze totalitarie del Novecento, in cui le prigioni diventano teatro di sofferenze e annichilimento della persona, a livello nazionale e internazionale si è garantito il rispetto dei diritti umani dei detenuti e si è data preminenza alla funzione rieducativa della pena. Nonostante tali normative, la realtà carceraria non si presenta troppo diversa da come appariva in origine e in particolare si mantengono salde due caratteristiche: la sottrazione alla vista della società esterna e il disvalore associato ai detenuti. Il carcere continua a presentarsi come un edificio chiuso, spesso con mura, in cui non è possibile accedere o uscire liberamente, con un proprio apparato burocratico e una rigida organizzazione interna. Per tali ragioni il sociologo Ervin Goffman in “Asylums. Essays on the social situation of mental patients and other inmates” (1968) annovera il carcere tra le istituzioni totali, cioè strutture sociali all’interno delle quali un gruppo considerevole di persone passa la propria vita nello stesso luogo e al cospetto della stessa autorità, disabituandosi alla società esterna e alle sue regole. Molti aspetti dell’analisi di Goffman sono stati anticipati da Donald Clemmer e Gresham Sykes. In “La comunità carceraria” (1941), Clemmer individua la Sindrome di prigionizzazione, cioè un processo per il quale il condannato si integra alla cultura tipica della comunità detenuta, con effetti devastanti per la sua personalità e per qualsiasi tentativo di riabilitazione sociale. La tesi di Sykes, elaborata in “The Society of Captives "(1958), è che la moderna pena della detenzione non sia necessariamente più umana delle pene corporali, date le sofferenze psicologiche patite dai detenuti durante la prigionia. Clemmer, Sykes e Goffman concordano nel dire che il carcere non sia adeguato ad una riabilitazione sociale del detenuto, ma anzi conduca spesso ad effetti estranianti tali per cui il condannato non sarà più in grado di reinserirsi in società, se non addirittura ad effetti criminogeni o di aumento dell’aggressività. Il fallimento dello scopo rieducativo e riabilitativo della pena è per Francesca Vianello prova del fatto che la prigione è cambiata restando sempre la stessa: un luogo di inutile sofferenza in cui si consumano processi di disculturazione e dove i diritti umani vengono 1 Vianello F. “Il carcere. Sociologia del penitenziario”, 2012 continuamente calpestati. Riflessioni analoghe sono la base delle teorie abolizioniste che guardano al carcere come sintomo dell’incapacità del sistema penale di assicurare una convivenza sociale non violenta. 2.Il concetto di istituzione totale. Per istituzione totale Erving Goffman intende quel “luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che - tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo - si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato”2. Al loro interno tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso modo, nello stesso luogo e sotto la stessa autorità, secondo un ritmo prestabilito che scandisce le attività giornaliere, basato su regole formali esplicite. È presente un corpo di addetti, organizzato secondo un piano razionale per realizzare il fine ultimo dell’istituzione che controlla che tutti facciano ciò che viene loro imposto. La caratteristica peculiare dell’istituzione totale è che in essa si manipolano molti bisogni umani attraverso l’organizzazione burocratica di intere masse di persone. Tale manipolazione burocratica non è senza conseguenze: innanzitutto si determina una forte distanza sociale tra staff e internati che tendono a farsi un’immagine gli uni degli altri secondo stereotipi limitati e ostili. Scrive in proposito Goffman: “Lo staff tende a sentirsi superiore e a pensare di aver sempre ragione; mentre gli internati, almeno in parte, tendono a ritenersi inferiori, deboli, degni di biasimo e colpevoli3”. Una seconda implicazione concerne il lavoro in quanto l’internato accetta determinate condizioni, come un sistema di pagamento non coincidente con l’attività prestata o mansioni molto faticose, per timore di subire una punizione. Spesso poi, anche se nella società esterna l’internato era un buon lavoratore, nell’istituzione non è indotto a fare un buon lavoro ed anzi tende a perdere più tempo possibile perché alla fine del lavoro non c’è un compenso, ma altro lavoro. L’istituzione totale è incompatibile anche con la famiglia, incompatibilità che contribuisce ad estraniare l’internato dalla società: si è notato infatti che per gruppi di persone che mangiano, dormono, lavorano e vivono insieme è difficile mantenere legami familiari o instaurarne di nuovi e di conseguenza risulta difficile essere ben integrati nella società civile. 3.La condizione del singolo detenuto. 2 Goffman E. “Asylums. Essays on the social situation of mental patients and other inmates”,1968 3 Goffman E. op. cit. -privazione della libertà; -di beni e servizi; -dell’autonomia; -di relazioni eterosessuali; -della sicurezza. La perdita della libertà risulta la privazione principale e si articola su due piani: come conseguenza diretta della reclusione, si priva il detenuto della libertà di vivere nella comunità esterna che in tal modo comunica al detenuto il suo rifiuto morale ad accettarlo tra i cittadini liberi. Ne consegue una privazione di qualsiasi libertà all’interno del carcere in cui non esiste la possibilità di compiere autonomamente alcuna azione, nemmeno banale, ma anzi i reclusi devono chiedere il permesso uscire o farsi visitare e soprattutto per mantenere le relazioni familiari, attraverso telefonate e incontri. Conseguenza di tal privazione è la perdita dell’autonomia: i detenuti non hanno alcun potere decisionale su loro stessi e ogni scelta è rimessa agli agenti di controllo. Sykes anticipa le conclusioni di Goffman quando dice che i detenuti si disabituano a decidere autonomamente, regredendo così a uno stato di immaturità infantile che ostacolerà il loro reinserimento nella società libera, molto più caotica e articolata di quella carceraria. Il terzo tipo di privazione che subisce il detenuto è quello dei beni materiali non ritenuti di prima necessità, il cui possesso può però far parte in così larga misura della immagine che un individuo ha di se stesso che esserne privati vuol dire essere aggredito a livello profondo della personalità, tanto che Goffman stesso considera la sottrazione di oggetti personali come un mezzo volto alla riduzione del Sé. Per quanto concerne invece l’astensione forzata da relazioni eterosessuali, essa può condurre a frustrazioni talmente profonde da farne conseguire comportamenti estremamente aggressivi. Le visite coniugali potrebbero costituire una soluzione, ma in Italia si pongono problemi alla loro configurazione a causa della disciplina dettata dagli artt. 18 o.p. e 37 reg. es. secondo cui i colloqui con i familiari devono avvenire sotto il costante controllo visivo del personale5. Per quanto riguarda da ultimo la privazione della sicurezza, la convivenza con un numero elevato di persone che ha un passato criminoso può destare ansia negli stessi detenuti che non riescono a stabilire rapporti di fiducia e sono costantemente in tensione per evitare di commettere passi falsi e subire rappresaglie. La 5 http://www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/visite-coniugali-in-carcere-il-diritto-del-detenuto- allaffettività. sensazione di costante insicurezza coinvolge anche il rapporto con gli agenti del carcere ai quali i detenuti non riconoscono tanto autorità, ma un potere basato sulla forza. Nelle carceri si creano infatti meccanismi di controllo totale sugli individui, accentrati nelle mani di una minoranza armata, simbolo che la forza repressiva dell’organizzazione carceraria è sempre latente, esattamente come avveniva nei campi di concentramento nazisti o nei lager sovietici, con l’unica differenza che la prigione non mira all’annichilimento totale dell’individuo, ma a una sua riabilitazione6. Per sfuggire il più possibile al controllo degli agenti si sviluppano quelle che i sociolinguisti definiscono “argot roles”, cioè il registro linguistico di un gruppo allo scopo di escludere altri dalla conversazione, nel caso specifico è il vocabolario tipico della cultura carceraria per mantenere segrete agli agenti di custodia le conversazioni tra detenuti e che di fatto va a riorganizzare la realtà, ordinando e classificando l’esperienza all’interno del carcere. Tramite le espressioni caricaturali di questo vocabolario riesce a svilupparsi un legame di solidarietà tra detenuti che funge da schermo contro il dolore. 5.La cultura carceraria e l’effetto di prigionizzazione. Vige all’interno della comunità carceraria una sorta di codice del detenuto, fondamentale forma di regolazione dei rapporti interni tra detenuti basata sulla contrapposizione detenuti guardie, le cui infrazioni sono pesantemente sanzionate. La subcultura carceraria consente al detenuto lo sviluppo di uno status nel nuovo sistema e ottenere il rispetto degli altri compagni. Secondo i sociologi Irwin e Cressey esistono almeno tre subculture carcerarie: quella criminale, rispettosa delle gerarchie e della lealtà tra detenuti, quella detentiva, improntata alle strategie di sopravvivenza, e quella legittima che non accetta i valori della subcultura criminale né strategie utilitaristiche7. La cultura dell’internato conduce a conversazioni molto più introspettive rispetto a quanto accada all’esterno, in quanto la posizione di debolezza in cui l’internato si trova è vissuta come un fallimento personale e i detenuti tendono a confrontarsi tra loro. Gli internati condividono poi la sensazione che il tempo nell’istituzione totale sia tempo sprecato, si sentono esiliati dalla vita e cercano gratificazione in attività di rimozione, cioè “attività volontarie, non serie, che siano abbastanza interessanti e divertenti da allontanare da sé chi le fa, facendogli dimenticare, per il momento, la situazione nella quale vive”8 Nell’ambiente detentivo si assiste a un fenomeno sui generis, chiamato da Clemmer 6 Sykes G. op.cit 7 Vianello F. op.cit 8 Goffman E. op.cit “prigionizzazione”, ossia “l’assunzione in grado maggiore o minore degli usi, dei modi di vita, dei costumi e della cultura generale del penitenziario”9, processo che inevitabilmente coinvolge chiunque si trovi a passare del tempo in una prigione. L’effetto di prigionizzazione procede man mano che il detenuto passa il tempo in carcere e si adatta ad orari, spazi e attività. Il detenuto si avvicina alla cultura del carcere attraverso il contatto con gli altri detenuti in momenti di socialità o attraverso l’apprendimento di un preciso gergo. Vi sono più fattori universali e individuali che, combinandosi tra loro, sono in grado di influire sul processo di prigionizzazione. Esempi di fattori universali sono l’adozione del linguaggio locale o l’accettazione di un ruolo inferiore, mentre tra i fattori individuali sono annoverati l’età, il livello culturale e soprattutto il tipo di relazioni familiari che l’individuo aveva prima della detenzione. Alla fine si può avere un alto o un basso grado di integrazione alla cultura carceraria a seconda che vi sia stata una scarsa o un’elevata esposizione ai fattori universali: la prima eventualità si verifica ad esempio perché la condanna è breve, grazie ad una personalità abbastanza stabile, per il mantenimento di buone relazioni familiari o anche per fattori casuali, come l’assegnazione di compagni di cella poco integrati nella cultura carceraria; la seconda si verifica invece per il lungo lasso di tempo di detenzione o per una disponibilità ad integrarsi nella comunità carceraria. In tal caso la prigionizzazione può arrivare a distruggere la personalità dell’individuo in modo da rendere impossibile un suo nuovo adattamento nella società ed anzi può approfondire i tratti criminogeni e antisociali del detenuto che aderisce all’ideologia criminale della comunità carceraria. Clemmer sostiene che la prigionizzazione aumenti la possibilità di recidiva, pur non essendoci correlazione tra prigionizzazione e tasso di criminalità, perché, ad esempio, un soggetto senza un passato eccessivamente criminoso che però si integra bene nella comunità carceraria sarà maggiormente esposto agli effetti criminogeni del carcere. La prigionizzazione avviene in modo soggettivo e irregolare, ma culmina sempre con l’identificazione più o meno completa con l’ambiente, costumi e codice d’onore del carcere. Chi è esposto a un alto livello di prigionizzazione non ha speranza di essere salvato: la rieducazione può avvenire solo in alcuni casi e a dispetto della cultura carceraria, quando si tratta di soggetti che non avrebbero mai dovuto essere stati condannati al carcere o con una cultura tale da renderli autonomi dall’influenza della cultura carceraria. “Quando si parla di riabilitazione- scrive Clemmer- con riferimento ai veri criminali si parla del tipo di trattamento che li tiene in prigione fino a quando essi raggiungono un’età tale che non hanno più vigore fisico e mentale per commettere altri crimini. Parlando freddamente e oggettivamente, questo significato di riabilitazione ha una qualche utilità sociale, ma 9 Clemmer D. “La comunità carceraria”, 1941 Le ricerche sociologiche prese in esame descrivono la situazione carceraria a partire dalle prigioni americane degli anni Quaranta del secolo scorso fino ad arrivare all’odierno contesto italiano. Nonostante la distanza spaziale e temporale, i vari autori concludono tutti che l’istituto carcerario fallisca sistematicamente nel tentativo di svolgere una finalità di riabilitazione del detenuto perché la sua organizzazione è incompatibile con una rieducazione degli internati. I detenuti si trovano in una condizione che arreca una serie di aggressioni alla psiche, idonee a generare un forte stato di ansia e di depressione, mentre il personale di sorveglianza è sottoposto a un clima lavorativo teso e stressante. La stigmatizzazione sociale che consegue alla detenzione non è ad oggi fronteggiata adeguatamente e la persona che esce dal carcere difficilmente sarà riaccettata in società. Non solo fallisce il tentativo di rieducare il detenuto, ma anzi il contatto con la subcultura carceraria può in determinati casi avere effetti criminogeni: da un lato, la persona viene a contatto con realtà molto criminose, dall’altro lo stesso ambiente carcerario può essere un fattore di aumento dell’aggressività di detenuti e agenti di custodia, come dimostra il noto Esperimento carcerario di Stanford, portato avanti da Philip Zimbardo. Il carcere, in quanto istituzione totale, è un ambiente inadatto a rieducare un reo che anzi si disabitua definitivamente alla società esterna. Non può non sottolinearsi positivamente come la legislazione penitenziaria italiana si sia dotata di strumenti che offrono un ampio ventaglio di possibili forme alternative alla detenzione, relegando il carcere ad una soluzione di extrema ratio. C’è da chiedersi d’altro canto se le recenti politiche incriminatrici, che hanno determinato un nuovo aumento della popolazione carceraria oltre il limite imposto, siano consapevoli degli effetti devastanti del carcere e della sua incapacità rieducativa. Bibliografia Francesca Vianello, “Il carcere. Sociologia del penitenziario”, Carocci editore, 2012 Donald Clemmer, “La comunità carceraria” ( 1941) in “Carcere e società liberale” a cura di Santoro E, Giappichelli, Torino, 1997 Gresham Sykes, “Society of captives: a study of a maximum security prison” (1971) in “Carcere e società liberale” a cura di Santoro E., Giappichelli, Torino, 1997 Ervin Goffman ,“Asylums. Essays on the social situation of mental patients and other inmates”, 1968 Sitografia http://www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/visite-coniugali-in-carcere-il-diritto-del-detenuto- allaffettività. http://www.ristretti.it/areestudio/disagio/ricerca/index.htm