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Il Concetto di Musica di Francesco Giannattasio, Riassunto, Sintesi del corso di Musica

Riassunto Non Mio

Tipologia: Sintesi del corso

2014/2015
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Caricato il 27/08/2015

scavgiu
scavgiu 🇮🇹

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Scarica Il Concetto di Musica di Francesco Giannattasio, Riassunto e più Sintesi del corso in PDF di Musica solo su Docsity! IL CONCETTO DI MUSICA – FRANCESCO GIANNATTASIO Parte prima - I suoni del mondo e il mondo dei suoni Cap. 1 L’etnomusicologia L’etnomusicologia nacque 100 anni fa come campo di studi, ma si tratta di una disciplina recente e soggetta a continue trasformazioni del modello teorico e del suo campo d’ indagine. Si possono trarre due diverse interpretazioni: • musicologia etnica (dei diversi popoli), che privilegia la specificità musicale, ovvero le forme, le tecniche, le tecnologie e i prodotti dell’attività musicale, e adotta competenze e strumenti musicologici; • etnologia della musica, che pone l’attenzione tutte le manifestazioni del comportamento musicale, considerandole espressioni di un ampio sistema culturale e adottando un punto di vista antropologico e strumenti di indagini propri dell’etnografia e della demografia. L’Etnomusicologia studia le forme e i comportamenti musicali delle società e culture d’interesse etnologico. Sono considerate di interesse etnologico: • le culture dei popoli definiti “primitivi”, quindi tutte le società a struttura semplice, soprattutto dell’Asia, Africa, Oceania e America meridionale, ma anche dell’America settentrionale e Europa (Indiani, Eschimesi, Lapponi..); • le fasce folkloriche, quindi tutti gli strati agro – pastorali e artigiano – paesani che conservano una struttura economico – sociale e dinamiche culturali tradizionali; • le società e culture complesse del Vicino, Medio ed Estremo oriente. Una caratteristica comune è quella di basare la trasmissione del proprio sapere, e del proprio saper fare, sull’oralità piuttosto che sulla scrittura. Quindi la memoria ha un ruolo fondamentale nei processi di creazione, per cui: • la trasmissione del sapere, è basata su un passaggio “da bocca ad orecchio” o su un’acquisizione di tipo visivo; • i prodotti musicali sono sottomessi alla pratica e non vivono di vita propria; • ogni esecuzione musicale non si configura mai come esatta riproduzione di un modello preesistente, ma come condotta creativa. Possiamo ridefinire l’etnomusicologia come la disciplina che studia le forme e i comportamenti musicali di tradizione orale. 1.1 Etnomusicologia e musicologia: le ragioni di una autonomia di campo Oggetto dell’etnomusicologia sono tutte le musiche al di fuori della tradizione colta europea, ovvero tutte quelle di cui la musicologia occidentale non si occupa. La rivoluzione antropologica, che ha caratterizzato l’ultimo secolo, ha permesso di costatare che non esistono società prive di una forma espressiva musicale, quindi la musica costituisce un comportamento umano universale, come il linguaggio o l’organizzazione sociale. Esistono quindi numerosi tipi di musica e diversi sistemi di organizzazione delle forme e dei comportamenti musicali. Secondo il vocabolario Zanichelli, l’etnomusicologia costituisce quella parte della musicologia che studia le musiche popolari dei vari paesi. Ma, la ricerca etnomusicale è autonoma da quella musicologia, sia per la necessita di mettere a punto proprie metodiche di ricerca e di analisi, ma anche a causa dell’aristocratico distacco con cui i musicologi hanno trattato i ricercatori di musiche “popolari” o “primitive”. L’etnomusicologia considera tutti gli strati musicali, quindi colti, popolari, di tradizione orale e di tradizione scritta, come manifestazioni equivalenti e di pari dignità, esigenza umana di esprimersi creativamente attraverso i suoni. Ciò che diversifica, nei quattro angoli del mondo, sono le condizioni teoriche, economiche e socio – culturali, nelle quali i diversi sistemi musicali si sono realizzati e stratificati. L’etnomusicologia si è PAGE \* MERGEFORMAT 1 interessata anche a generi e forme di musica non folklorici e interni al mondo culturale e al sistema musicale occidentale. Un’altra distinzione è che la musicologia si occupa della propria cultura, e l’etnomusicologia si occupa di altre culture, non soltanto in base alle aree geografiche, ma anche alle modalità dell’approccio e all’esigenza di porsi come cultura osservante. La convenzionale divisione di ruoli, fra etnomusicologia e musicologia, non è che il prodotto delle particolari condizioni storiche in cui le due discipline si sono parallelamente sviluppate. La musicologia può essere definita come lo studio delle forme e dei comportamenti musicali di tradizione orale, sulla base di una specializzazione maturata in virtù di un interesse della storia della musica eurobianca; mentre l’etnomusicologia si è andata configurando sempre più come “studio della musica in quanto aspetto universale del comportamento umano”, in una prospettiva che va oltre la produzione etno – folklorica di tradizione orale, per concentrarsi sull’espressività della musica. La ricerca etnomusicale iniziò nel 1877, quando Thomas Edison inventò il Fonografo, dispositivo realizzato per la riproduzione dei suoni, quindi trasformava i reperti documentari in suoni. Si creò una musicologia comparata, che si occupava di ricercare analogie, differenze, punti di contatto tra le musiche esotiche e primitive e la musica occidentale. Negli anni 50’ l’olandese Jaap Kunst cambiò il nome di musicologia comparata in etnomusicologia. 1.2 Etnomusicologia e antropologia: le ragioni di una convergenza di metodi L’etnomusicologia studia i fenomeni musicali in una prospettiva transculturale, ponendosi l’obiettivo di rispondere alla domanda “cos’è la musica?”, attraverso l’individuazione dei meccanismi e funzioni nel campo delle attività e dei comportamenti umani. Vi è un crescente bisogno di classificare i dati raccolti, formulare ipotesi, per generalizzare il comportamento musicale, che assume validità universale. L’etnomusicologia fa parte delle scienze nomotetiche: nomos (legge), tetiche (ordinare, stabilire). Le scienze nomotetiche si occupano di ordinare le leggi di un determinato evento. L’etnomusicologia è nata da un’intuizione di diversità tra le lingue musicali e si è sviluppata come riflessione sulle ragioni e i caratteri di tale diversità. Ciò che l’accomuna alle discipline antropologiche sono le fasi e le procedure di raccolta, elaborazione e generalizzazione dei dati. Le modalità per lo studio etnomusicologico sono: • i settori d’indagine; • le fasi, le tecniche e i metodi di lavoro; • i prodotti della ricerca. 1.2.1. I settori d’indagine Nella raccolta dei dati sul campo e nelle fasi successive dell’elaborazione, l’etnomusicologo si pone l’obiettivo di esaminare tutti gli aspetti, per identificare i tratti distintivi di una singola cultura musicale. I settori principali della ricerca etnomusicologica sono: • lo studio dei repertori musicali e dei loro tratti distintivi, che costituisce la condizione preliminare ad ogni tipo di approfondimento; • lo studio delle fonti e delle tecniche di produzione del suono (esecuzione vocale, strumenti); • lo studio dei repertori cantati, dei testi verbali, che riguarda il loro contenuto e le loro relazioni formali (rapporto fra linguaggio e musica); • lo studio del complesso dei tratti stilistici, che permettono di identificare un intero sistema musicale o parte di esso; • lo studio delle occasioni del fare musica e delle funzioni che le forme e i comportamenti musicali assolvono nella vita sociale; • lo studio del ruolo sociale delle pratiche di apprendimento e di trasmissione del sapere, delle attività dei musicisti; • lo studio delle idee e dei concetti relativi alla musica e aspetti della sua produzione. 1.2.2. Le fasi, le tecniche e i metodi di lavoro Lo studio etnomusicologico riguarda tre fasi: • ricerca sul campo, fonte indispensabile nello studio di musiche di tradizione orale e che rispetta specifiche modalità di svolgimento, come soggiorni prolungati, adattamento ai costumi e alle regole di vita locali, tecniche di selezione…; • elaborazione dei dati raccolti sul campo, ovvero lo spoglio dei materiali e la loro collocazione in insiemi coerenti alle finalità della ricerca, che implica un’attività di studio in laboratorio, dove i reperti vengono schedati, trascritti e analizzati, ricorrendo a specifiche apparecchiature; PAGE \* MERGEFORMAT 1 Il primo riconoscimento in tal senso va a John Ellis, che concluse che la scala musicale non è unica ne naturale. Ellis fornisce i primi fondamenti teorici e i primi strumenti operativi allo studio transculturale della musica e perciò, il 1884 può essere considerato l’anno di nascita dell’ Etnomusicologia. Altre date importanti sono: 1877, anno in cui Thomas Edison inventa il fonografo a cilindri di cera, sperimentato sul campo dall’antropologo Fewkes per incidervi le musiche degli indiani Zuñi (Nuovo Messico) e Passamaquoddy (Maine); il 1893, anno di pubblicazione di Primitive Music di Wallaschek; 1900, anno dell’Esposizione Universale di Parigi, inoltre, in questi anni vennero creati diversi archivi sonori, in cui si iniziano a raccogliere incisioni fonografiche di varie provenienze. 3.1. La Musicologia Comparata Fra i vari archivi sonori, importante per lo sviluppo dell’etnomusicologia è il Phonogramm – Archiv, istituito nel 1902 all’Università di Berlino, dove prende vita la Scuola di Berlino, primo centro operativo di studi etnomusicali. Nasce all’interno di un istituto di psicologia, dove i ricercatori si interessavano soprattutto allo studio dei processi mentali implicati dalla musica. Le teorie evoluzioniste e diffusioniste caratterizzano fortemente questo nuovo campo di studi, un fondamentale aiuto viene dato dal musicologo Sachs, che elabora la prima sistematica e universale classificazione di strumenti musicali. Il nome di musicologia comparata permane, fino agli anni 50, anche se le teorie e i metodi originari della Scuola di Berlino sono in declino. Con l’avvento del nazismo e l’abbandono della Germania da parte di molti ricercatori, la Scuola berlinese si dirama in tre diverse strade: • una prosecuzione lineare, in Germania ed Austria, ad opera di studiosi che accettarono di convivere con l’ideologia hitleriana, come Schneider, e negli USA, ad opera di sostenitori dei metodi comparativi, come Koliski e Sachs; • una derivazione americana, che si incrocia con le esperienze della ricerca etnomusicale statunitense, dando vita all’etnomusicologia propriamente detta; • una derivazione europea, nella quale il comparativismo delle origini comincia ad essere ridimensionato sulla base delle teorie funzionaliste e strutturaliste. Schaeffner riprende le tesi e la classificazione organologica di Sachs, contrapponendo ad un’origine linguistica della musica, il canto, un’origine cinesica, corpo e gesto, proponendo una tassonomia degli strumenti fondate sull’evoluzione degli apparati e sui materiali. Per lui, gli strumenti sono dei segni che rinviano al sistema di pensiero, alle credenze e alle tecnologie dello specifico contesto culturale. Anche nell’Europa dell’Est si giunge ad una critica sull’impostazione della Scuola di Berlino, legata al nome di Bartòk, raccoglitore e trascrittore di musica popolare, il quale pone l’attenzione sul folklore musicale, che in Europa dell’Est vedeva impegnati i compositori, alla ricerca di un’identità musicale nazionale. È essenziale la distinzione tra musica popolare (contadina) e popolaresca (urbana). Fondamentali sono anche le sue indicazioni sui sistemai di trascrizione e classificazione delle melodie, e sui compiti dell’etnomusicologo. Un altro studioso e ricercatore sul campo dell’Est europeo è Brăiloiu, al quale dobbiamo il concetto di sistema applicativo all’organizzazione musicale, le prime indicazioni per lo studio delle varianti e della variazione nelle esecuzioni musicali di tradizione orale, la classificazione dei canti secondo generi… 3.2. L’etnomusicologia propriamente detta e l’abbandono delle generalizzazioni Il passaggio, negli studi etnomusicali, dalle generalizzazioni alle descrizioni, soprattutto stilistiche, di specifiche aree culturali e musicali, può essere definito come fase dell’etnomusicologia propriamente detta. Il termine è apparso per la prima volta in un opuscolo di Kunst, e poi fu diffuso e adottato nel 1955 con la costituzione della Society for Ethnomusicology, negli USA. Parte di questo cambiamento è dovuto agli sviluppi americani degli studi etnomusicali, dove la disciplina ha il suo incremento e consolidamento. Una delle principali caratteristiche del diffusionismo americano è di privilegiare il metodo di ricerca induttivo, producendo teorie e leggi dai dati raccolti sul campo. L’apporto teorico di Herzog è notevole sia per quel che riguarda gli stili, ma neh per i nessi da lui rilevati tra certi tratti fonetici e configurazioni musicali. Se si assiste ad un continuo intensificarsi della produzione di dischi, documentari cinematografici, studi analitici, per quanto riguarda la concezione del campo di studi permane una notevole disparità di interpretazioni: • per Nettl, l’etnomusicologia è lo studio della musica non – occidentale e della musica folklorica; • per List, si occupa della musica tradizionale orale; PAGE \* MERGEFORMAT 1 • per Carpitella, si intende il campo di suoni al di fuori dell’esperienza musicale euro – culta occidentale, caratterizzata per i suoi dispositivi di creazione, trasmissione e fruizione, oltre che per i suoi contrassegni fisio – acustici premusicali. 3.3. Sistemi e culture musicali In questa fase si affermano due nozioni, che stanno alla base degli sviluppi successivi della disciplina: • la nozione di sistema musicale, riguarda le regole e le relazioni che connotano, in tutto o in parte, un determinato linguaggio musicale, si parlerà di sistema pentatonico, sistema ritmico infantile, sistema musicale cinese…; • la nozione di cultura musicale, riguarda le relazioni, le funzioni e i tratti che permettono di riconoscere un determinato sistema musicale come proprio di una determinata cultura, consente di identificare forme e comportamenti musicali specifici di una società. Il rapporto tra sistema musicale e cultura richiamano la relazione tra espressione individuale e collettiva all’interno di una comunità, quindi il rapporto tra langue, codice interindividuale, e parole, atto individuale di utilizzazione del codice. La langue musicale è un sistema musicale formato da un insieme di sistemi interrelati in cui è possibile distinguere vari livelli: quello minimale dei suoni pertinenti alle diverse organizzazioni dei suoni in unità formali, alle modalità di esecuzione, ai reperti, ai generi… Il concetto di sistema musicale e di cultura musicale propongono il problema dei rapporti tra generale e particolare, quindi tra tratti universali e tratti culturali dell’espressione musicale. Alan Lomax cerca di coniugare lo studio comparativo, condotto con metodi di indagine statistica, e analisi sistematica delle culture musicali, elaborando un metodo cantometrico, per lo studio dei rapporti fra stili musicali e tratti culturali nelle diverse società umane. Per lui esiste una corrispondenza biunivoca fra determinati tratti stilistici del canto e tipo di società. Il sistema cantometrico costituisce un importante tentativo di sintesi fra questioni etnologiche e musicologiche, oltre che un utile strumento di confronto fra gli stili vocali dei vari continenti. 3.4. L’antropologia della musica e l’opposizione etico - emico A partire dagli anni ’60, si sviluppa una nuova concezione e definizione del campo di studi, ovvero l’antropologia della musica. È legata all’opera dell’americano Alan Merriam, The Anthropology of Music, del 1964, secondo il quale l’etnomusicologia è lo studio della musica nella cultura. Tale definizione contiene una critica alle tradizionali concezioni, che si concentravano sul dove, invece che sul come e perché. È fondamentale la conoscenza delle categorie di pensiero e delle valutazioni dei diretti produttori della musica, senza cui non vi è l’analisi stessa. Si può pensare che la componente antropologica abbia preso il sopravvento su quella musicologica, ma quest’ultima ha registrato, nel corso degli ultimi decenni, importanti progressi. L’approccio musicologici formalista si basa sul presupposto che è possibile svelare le regole di un determinato sistema musicale limitando l’analisi ai materiali sonori. Ma i sostenitori della corrente antropologica rilevano come queste analisi siano applicabili solo a repertori di piccola entità. Corrisponde, quindi, l’opposizione tra: • approccio etico, i fenomeni sono analizzati da un punto di vista fisico ed esterno; • approccio emico, il ricercatore si situa all’interno della cultura osservata e tenta di ricostruirne un sistema astratto in cui siano considerati solo i fatti pertinenti a quella cultura. L’etnomusicologia è considerata come uno studio interdisciplinare nel quale possono essere utilmente applicati approcci derivanti da molte discipline. 3.5. Un problema attuale: la trasformazione dell’oggetto di studio L’etnomusicologia ha perso la sua fisionomia originaria, anche se ha mantenuto alcuni caratteri costanti, questo è dovuto da diversi segnali: 1) il primo di questi segnali è costituito da una radicale trasformazione del suo tradizionale oggetto di studi, trasformazione che va ormai con i tempi delle attuali comunicazioni di massa. Dal determinarsi di quello che chiamano “villaggio globale”, stanno emergendo nuove identità etnico – musicali, come la world music e le nuove musiche africane, asiatiche, latino americane…; 2) secondo segnale è costituito da problemi di metodo, posti dalla trasformazione dell’oggetto di studio e dalla necessità di nuovi strumenti teorici per affrontare lo studio. È il caso degli universalia della musica, oggetto di studio della psicologia cognitiva, delle componenti culturali dei diversi sistemi musicali…; PAGE \* MERGEFORMAT 1 3) terzo segnale sono le moderne e sofisticate tecnologie di cui la ricerca può disporre. La qualità degli strumenti di rilevamento e riproduzione sonora è cresciuta, le tecnologie informatiche aprono nuove possibilità, anche per la rapidità con cui tali sistemi computerizzati si trasformano e si evolvono; 4) infine, il mutamento del rapporto tra etnomusicologi e musicologi nel segno di un nuovo intenso confronto di problemi e metodiche e nel riconoscimento di una non soluzione di continuità fra i due campi. Cap. 4 L’etnomusicologia in Italia L’inizio della moderna etnomusicologia italiana a partire dalla costituzione, nel 1948, ad opera di Giorgio Nataletti, del Centro nazionale di studi di musica popolare (CNSMP) della Accademia Nazionale di S. Cecilia. La nascita dell’etnomusicologia in Italia si colloca nel passaggio dalla fase della musicologia comparata a quella delle raccolte intensive che caratterizzarono gli studi del dopoguerra. Carpitella scrisse che il problema urgente era quello di raccogliere materiale il più possibile, registrando sul campo. La RAI assicurò al centro le attrezzature e l’assistenza tecnica per le riprese sonore in loco. La ricerca coincise anche colo lo svilupparsi in Italia della questione meridionale e con lo studio della cultura tradizionale del Sud. Le prime ricerche riguardavano aree e tematiche del folklore musicale meridionale, i repertori degli zingari di Abruzzo e Molise, delle comunità contadine del Lazio, della Campania, della Sardegna e della Sicilia, ma la più importante fu quella 18, in Lucania, dove si instaurò una nuova metodologia di indagine sul campo, collocando la registrazione dei documenti musicali nel quadro di una più ampia prospettiva di ricerca di carattere etnografico, folkloristico e storico – culturale in genere. Il repertorio di musiche popolari registrati comprendeva ninne nanne, canti di lavoro, canti nuziali, passioni, lamenti funebri, tarantelle… Base ideale della raccolta fu lo schema di indagine “dalla culla alla bara”. Questo nuovo modo di fare ricerca, ebbe in Italia come conseguenze una qualità differente dei documenti sonori raccolti e un cambiamento radicale di atteggiamento nei confronti della produzione musicale folklorica. Questa ricerca sfociò nell’importante studio di De Martino sulle pratiche tradizionali di “pianto rituale” in Lucania, che rivelò la sopravvivenza in vari paesi della Basilicata di un rito musicale e verbale specifico della lamentazione funebre. Nel 1954, Carpitella, insieme allo statunitense Alan Lomax, intraprese degli studi delle tradizioni musicali nelle diverse regioni italiane. Importante fu anche la raccolta 24, comprendente il vastissimo corpus di registrazioni, risultante dalla lunga spedizione, e l’antologia in due dischi, forniscono l’identikit del paesaggio sonoro tradizionale dell’Italia pre – tecnologica. Carpitella, inoltre, nel 1959 fece parte di una spedizione interdisciplinare guidata da De Martino in per studiare sul campo il complesso fenomeno del tarantismo pugliese – salentino. Tale ricerca rappresenta il primo tentativo sistematico di descrivere e comprendere una terapia coreutica – musicale, che al di là dello specifico mito del ragno, sembra avere i suoi antecedenti storici nella catartica musicale greca e mostra vari punti di contatto con i riti di possessione diffusi in varie culture del Mediterraneo e Africa. Carpitella evidenziò le strette relazioni fra i vari momenti del rito entro un ordine temporale (il calendario stagionale, l’ora di grazie), di luogo (la cappella o la casa), cromatico (i colori simbolici) e sonoro (i ritmi e le melodie); in particolare, la pizzica – tarantata, caratterizzata da una netta divisione fra l’off beat del violino e il beat della sezione ritmica, rivelò una stretta connessione fra i due momenti, tipici delle tecniche religiose, dell’esasperazione e del controllo della crisi. Inoltre egli usò la cinepresa, realizzando il primo documento filmico su tale fenomeno. Gli approfondimenti musicologici che Carpitella compì sul lamento funebre e sul tarantismo, provano il concentrarsi degli studi all’interno di una problematica sociale e culturale italiana, sviluppata anche a livello internazionale. Egli si interessò anche delle esperienze ungheresi e i metodi di trascrizione di Bartòk. Le attività di ricerca sul campo, di conservazione, studio e pubblicazione in stampa e in dischi dei documenti raccolti, stimolarono una nuova generazione di ricercatori e cultori di folklore musicale. A Leydi si devono l’avvio e il proseguimento di una ricerca organologica sugli strumenti popolari italiani, che avrà la sua prima testimonianza nel Dizionario della musica popolare europea, la creazione, nel 1970, della collana di etnomusicologia italiana l’“Albatros”. Nuovi nuclei di ricerca nascono attorno agli anni ’60 – ’70, in Lombardia, in Veneto, in Umbria… PAGE \* MERGEFORMAT 1 clessidra, a campana, e la membrana, generalmente formata da pelli. La pelle si fissa utilizzando il materiale stesso per tendere le pelli, utilizzando dei piroli di legno e corde; • aerofoni, vibra una colonna d’aria, per cambiare suono si spezza la colonna d’aria oppure aprendo e chiudendo la colonna d’aria. Si tratta di flauti, strumenti a Bocchino, strumenti a Ancia (clarinetti, Launeddas), zampogna, fisarmonica, armonica; • cordofoni, il suono di una corda deriva dalla lunghezza, la massa e la tensione. Sono i cordofoni semplici (Arco, arpe), le cetre (corde parallelamente), le lire (le corde corrono perpendicolarmente alla cassa di risonanza), i liuti (manico lungo, inventato dagli arabi) possono essere liuti arabi, piatti, chitarra, liuti ad arco, le viole. Nelle culture tradizionali gli strumenti musicali sono classificabili in base alle modalità di esecuzione: fra i Bulu (Camerun) e i Baganda (Uganda), tutti gli strumenti sono percossi, mentre nel Malawi sono cantati… Può accadere che modi di esecuzione e materiali di costruzione degli strumenti musicali sono i criteri per classificare i vari tipi di musica. L’organologia degli strumenti musicali è un aspetto importante per lo studio sistematico della musica, in culture di tradizione orale, gli oggetti generatori di suono sono le uniche tracce materiali della produzione musicale. Gli strumenti musicali presentano un triplice interesse per lo studio etnomusicologico: • muti, costituiscono dei segni culturali: • in riposo, permettono la misurazione dei suoni e la valutazione delle gamme e dei timbri; • in funzione, consentono di cogliere i suoni possibili e quelli ai quali l’esecuzione si limita, quindi valutare le tecniche di esecuzione o i rapporti tra formalizzazione del gesto e del suono. La propagazione dei termini non ha sempre un percorso parallelo a quella degli oggetti sonori e porta alla formulazione di diverse ipotesi: • che il significato di alcuni nomi conduce ad un generico significato di strumento di musica; • che il cambiamento di significato di alcuni termini sia avvenuto per un’assimilazione di carattere funzionale a strumenti preesistenti. Nel passaggio da una cultura ad un’altra gli strumenti possono cambiare le loro caratteristiche sonore, a causa di sostanziali trasformazioni delle modalità e delle tecniche usate. Cap. 7 Il Sistema di Regole Tutti i tipi di attività musicale implicano l’esistenza di un sistema di regole riguardanti: • la descrizione del continuum sonoro (intervallo di scale, timbri, altezze); • la gerarchia di valori e funzioni reciproche dei suoni delle varie gamme, che determina “i modi di costruzione melodica in relazione a; • l’organizzazione intensiva (piano/forte, accenti) e temporale (ritmo) dei suoni misurate un rapporto a una unità periodica di riferimento (metro). Le scale sono modelli astratti, costituiti dalla successione ordinate di intervalli (cioè di rapporti di frequenza fra suoni d’altezza diversa), in base ai quali una determinata cultura seleziona quei suoni che utilizzerà nella propria pratica musicale. Connessa al concetto di scala è la nozione di intervallo di ottava che può essere considerata un quasi – universale, in quanto corrisponde alla differenza di registro fra voce maschile e femminile. In molte culture, i suoni non vengono distinti secondo l’altezza (suoni alti/bassi) ma secondo la grandezza (suoni piccoli grandi), in base alla differenza di registro fra la voce delle donne dei bambini e quella degli uomini. L’etnomusicologia è in grado di compiere solo generalizzazioni di tipo statistico. Le scale sembrano costituire, da un punto di vista cognitivo, n universale del comportamento musicale. Costituiscono uno degli aspetti più semplici, in quanto si ritengono il grado zero dell’architettura melodica. Forme, generi e stili sarebbero incomprensibili senza un riferimento alle funzioni attraverso cui la musica interagisce con i tempi e gli spazi esistenziali (stagionali, rituali). Non in tutte le culture il sistema musicale ha una sua formalizzazione, una distinzione avviene tra società a tradizione scritta, in cui si utilizza anche un sistema di grafia musicale, e società a tradizione orale in cui, oltre alla mancanza di una grafia musicale, si rilevano gradi diversi di esplicitazione dell’apparato teorico musicale. 7.1. Le etno-teorie musicali Nelle varie società il sapere musicale si manifesta con gradi diversi di consapevolezza: PAGE \* MERGEFORMAT 1 • può essere frutto di tradizioni secolari, come nelle società complesse dell’Occidente, dell’Asia e del Vicino e Medio Oriente dove la teoria musicale, definita in tratti scritti, si presenta sotto forma di insieme di conoscenze, atte a spiegare l’intero sistema musicale; • può limitarsi a formulazioni razionali e a raccolte di precetti circoscritte a determinate pratiche, appannaggio di pochi sapienti locali che si incaricano di esplicitarle in funzione della propria esperienza musicale, come nel caso dei suonatori di launeddas sardi; • può essere anche totalmente implicito in cui nessuna pratica musicale ha posto la necessità di una sua esplicita razionalizzazione. Il diverso tasso di elaborazione dei concetti musicali dipende anche dal tipo di organizzazione sociale e dello sviluppo tecnologico. Scopo dei ricercatori e quello di individuare e mettere in luce etnoteorie musicali soggiacenti alle pratiche vocali e strumentali delle culture musicali su cui indagano. Un tentativo importante si ritrova nei lavori di alcuni etnomusicologi, uno dei tratti significativi della loro indagine consiste nella raccolta sul campo di dati linguistici al fine di identificare la ratio musicale di una determinata società e poterne descrivere forme e comportamenti musicali. Il loro scopo è quello di individuare e mettere in luce le etnoteorie musicali. Il concetto di etnoscienza rinvia ad una corrente dell’antropologia sviluppatasi in Gran Bretagna e negli USA verso la metà degli anni ’50. L’obiettivo è quello di compiere descrizioni basate sulle categorie e sui principi logico – organizzativi della cultura studiata. Il termine etnoscienza designa i saperi pratici sul mondo posseduti da una comunità. L’idea di etnoscienza nasce da un’opzione di carattere descrittivo. Le diverse formulazioni linguistiche dei fenomeni musicali possono essere considerate manifestazioni di un pensiero musicali, l’etnomusicologo si troverà coinvolto in un’interpretazione dalle maggiori responsabilità. Per porre un esempio, i Somali costituiscono una delle etnie più vaste e culturalmente compatte dell’Africa nera e la Somalia è l’unico Stato mono – etnico di quella parte del continente. L’originaria struttura pastorale da un lato ha favorito il fiorire di un’arte della parola, dall’altro ha limitato lo sviluppo di una musica strumentale. Anche in Somalia in concetto di musica, analogo a quello occidentale, è di adozione recente. Il campo della produzione musicale può essere ricostruito riferendoci a tre pratiche distinte: • gabyid (far poesia), gabay (poesia), designa la principale forma di poesia somala, ma anche molti e diversi generi poetici tradizionali, ognuno dei quali ha una forma cantata; • heesid (cantare canzoni), hees (canzone), con il quale i somali designano i diversi canti connessi al ciclo esistenziale, generi di poesia minore, e la nuova canzone nazionale che rappresenta l’attualizzazione in chiave moderna; • ciyaarid (danzare), ciyaar (danza), riguarda le diverse musiche che accompagnano le danze a carattere ludico – comunitario e rituale. Questa classificazione permette di cogliere il diverso valore che i somali attribuiscono alle pratiche vocali connesse all’espressione poetica, ai canti e alle musiche a carattere funzionale e alle esperienze comunitarie della danza. Di può desumere, comunque, una ripartizione di due sole classi: • yeerin, suonare, usato per tutti gli strumenti musicali nell’accezione di far emettere il suono a, ma acquista il senso di eseguire suonando solo per gli strumenti nei quali l’azione manuale non è connessa alla produzione del suono, cioè gli strumenti a fiato e la campana di legno dei cammelli; • tumid, percuotere, usato per tutti gli altri strumenti, idiofoni, membranofoni e cordofoni. A sollevare il problema dei livelli di coscienza pertinenti all’analisi sono stati i rappresentanti della cosiddetta Scuola di Yale. Per alcuni di loro non è necessario che gli utenti sappiano enunciare le regole del codice di cui si servono, basta che le descrizioni del ricercatore siano da un lato verificabili e dall’altro compatibili con quello che effettivamente sa l’attore nativo. Per altri, invece, l’analisi deve limitarsi agli informatori che sanno di sapere. Cap. 8 Teoria musicale e trasmissione del sapere 8.1. Le launeddas sarde: organologia, repertori, modalità di apprendimento ed esecuzione Col nome di Launeddas è conosciuto lo strumento più antico e rinomato della Sardegna. Dal reperimento di un bronzetto nuragico raffigurante un suonatore se ne può attestare l’esistente fin dal I millennio a.C.. Alcune sue caratteristiche e la particolare tecnica di esecuzione mediante la respirazione circolare, lo inseriscono tra gli aerofoni diffusi nel Sud – Mediterraneo. In questa famiglia, le launeddas sono solo PAGE \* MERGEFORMAT 1 strumento a tre canne, di cui due melodiche. Nel corso dei suoi 2500 anni d’esistenza questo strumento, non ha mutato le sue caratteristiche essenziali di costruzione. Le launeddas sono aerofoni polifoni composti di tre canne cilindriche ad ancia semplice battente: • la canna più lunga, chiamata tumbu è sprovvista di fori ed emette una nota grave che funge da bordone continuo; • ad essa è legata la canna intermedia, chiamata mankosa manna, munita di 4 fori digitali anteriori, cui si aggiunge un foro longitudinale, detto arrefinu, per mezzo del quale si regola l’intonazione del tubo, applicandovi della cera d’api; • la terza è più piccola chiamata mankosedda, ha anche essa 4 fori digitali più l’arrefinu e viene tenuta e suonata con la mano destra; • all’estremità superiore delle tre canne è infisso un cannellino, detto kabittisna, in cui è ricavata un’ancia battente a tegolo. Tutti i fori sono di forma quadrangolare. l’insieme delle 3 canne viene detto kuntsertu o gogu. Esistono diversi tipi di kuntsertu a seconda della scala musicale prodotta dallo strumento, e hanno nomi specifici, quelle più usate sono la mediana, mediana a pipia, fiorassiu, punt’e organu. Il ruolo della musica delle launeddas traspare dai suoi repertori, legati principalmente alle occasioni cerimoniali religiose, per accompagnare la liturgia della messa e le processioni, e quelle ludiche e profane della danza, la quale costituiva un’importante funzione di socializzazione e un momento significativo di riaffermazione dell’identità culturale collettiva. La musica per la danza era eseguita tutte le domeniche sul sagrato della chiesa del paese. A questo scopo, il suonatore di launeddas veniva ingaggiato per un anno, con un compenso in grano o in danaro dalla comunità del paese. Da ciò emerge un importante aspetto della musica delle launeddas, ovvero quello di essere tramandata attraverso l’attività di musicisti professionisti. Nella nostra cultura musicista di professione è colui che esegue o crea musica mantenendosi con i proventi di tale attività. Nelle culture di tradizione orale, la creazione musicale è un fatto collettivo e la produzione del singolo non è in rilievo. Nella tradizione delle launeddas il professionismo è connesso alle difficoltà tecnico-esecutive e alla complessità strutturale dei repertori, che rendono l’uso dello strumento di difficile accesso per i non iniziati. Sul piano tecnico vanno ricordati il fiato continuo, ovvero il particolare sistema di respirazione circolare che consente al suonatore di produrre il suono senza soluzione di continuità, l’autonomia di fraseggio e di ritmo delle due canne melodiche, che caratterizza la polifonia dello strumento, la struttura musicale è elaborata. La complessa pratica musicale è legata a uno statuto professionale particolare, dato che, nella storia dello strumento, l’arte musicale era abbinata al mestiere del calzolaio. Nelle botteghe artigiane del Campidano s’imparava non solo a costruire e riparare scarpe, ma anche a costruire e suonare launeddas. Generalmente la doppia professione si tramandava di padre in figlio, ma spesso poteva anche capitare che un giovane musicalmente dotato fosse affidato dai genitori a un maestro, che per un compenso piuttosto alto e per un tempo non inferiore ai 2 anni, gli avrebbe insegnato a suonare e a fare il calzolaio. Il tirocinio musicale iniziava con gli esercizi per la respirazione circolare: l’allievo si limitava a soffiare in un tubicino di canna immerso in un bicchiere pieno d’acqua, in continuazione e per periodi di tempo sempre più lunghi. Via via il maestro sostituiva il tubo con uno di maggiore diametro. Solo in seguito l’allievo poteva cominciare a soffiare nelle canne dello strumento per apprendervi i repertori più semplici. 8.2. Alcuni elementi teorici della musica delle launeddas Con le trasformazioni economiche e sociali, è difficile svolgere contemporaneamente sia il lavoro del calzolaio sia quello di suonatore di launeddas. I suonatori di launeddas ancora in attività sono ormai un numero esiguo. Alcuni di loro tuttavia, s’adoperano per preservarla e garantirle una qualche continuazione. Fra questi è Dionigi Burranca, calzolaio di Samatzai (CA), ultimo rappresentante di uno dei più importanti stili di launeddas, utilizzato nell’area di Trexenta. Egli è divenuto un punto di riferimento per alcuni ricercatori e amatori dello strumento. A Weis Bentzon, Burranca descrisse un sistema di grafia impiegato fino alla generazione di Beppi Sanna, ovvero intavolature, il cui criterio di notazione era semplice. Era possibile indicare la successione di suoni di una noda. Il mondo delle launeddas è in qualche modo, anche, influenzato dalla musica colta, per quanto riguarda il temperamento della scala e il recupero parziale della polifonia delle tre canne ad una logica tonale, sviluppando una sorta di bilinguismo musicale. Burranca ha appreso i rudimenti della nostra teoria inserendo un organo elettrico tra gli utensili del suo laboratorio musicale, permettendo di esplicare in termini comparativi alcuni aspetti della propria teoria musicale: • i valori di durata, che in sardo si traduce in abertura ‘e grai, che vale 4 passi, invece nella musica dotta si dice 4/4. È lo stesso sistema ritmico, monocromo, dato che si riferisce ad una sola unità temporale, e monometrico, dato che da luogo ad architetture ritmiche basate solo su multipli e sottomultipli dell’unità. Nella musica delle launeddas, l’unità di durata (tokku de grai) si riferisce al PAGE \* MERGEFORMAT 1 società d’interesse etnologico i canti di lavoro acquistano anche una valenza magico-protettiva in relazione alla produzione. Infine il canto di lavoro può servire a ordinare e regolare la produzione. Ciò avveniva, ad esempio, fino agli anni 60, nelle saline delle coste siciliane. A turno, un salinaio dotato di una voce potente, intonava un canto, con il quale contava le ceste di sale portate dai compagni nel luogo di raccolta, marcando così i tempi del lavoro. Oggi, con la meccanizzazione delle tecniche produttive delle saline, il canto “numerativo” dei salinari si è completamente defunzionalizzato. Gli individui di tali società regolano la loro esistenza su un sistema integrato di ritmi: da quelli endogeni (cardiaco, respiratorio), ai ritmi esterni, siano essi naturali, come il ritmo stagionale, o convenzionali come i ritmi sociali. Cap. 11 Musica, rito, terapia e stati alterati di coscienza (non sono arrivata a leggerlo, quindi non so se mancano cose importanti) La musica non è soltanto una via del tutto particolare della comunicazione, un complemento spesso indispensabile di molti momenti e fasi dell’esistenza umana o un modo privilegiato di esprimere aspetti della vita mentale che esulano dalle possibilità del linguaggio parlato. In epoca recente, una specifica branca di ricerca, la MUSICOTERAPIA, si è posta l’obiettivo di unificare gli studi sulle possibili applicazioni diagnostiche e terapeutiche della musica. Come è emerso dal primo CONGRESSO mondiale di musicoterapica (Parigi 1974), l’intervento si orienterebbe soprattutto verso il recupero di alcuni tipi di handicap sensoriale, motorio e mentale. I musicoterapeuti occidentali non sembrano tendere sufficientemente conto del fatto che gli effetti della musica, qualunque essi siano, sono proporzionali al valore ad essa attribuito e che ogni cultura e gruppo sociale accorda pienamente tale valore solo alle strutture sonore che è in grado di conoscere, riconoscere e utilizzare come proprie. Nella sua ricerca la musicoterapica occidentale non può nemmeno trarre profitto da quelle pratiche di cura tramite la musica che pure esistevano nella tradizione folklorica di molti paesi europei. La musica gioca un ruolo importante nella profilassi, diagnosi e terapia di numerose patologie e nelle tecniche, a scopo anche non esplicitamente terapeutico, di alterazione intenzionale e transitoria delle attività psichiche. Un contributo fondamentale in questa direzione è l’approfondito studio sui rapporti fra musica e trance compiuto dall’etnomusicologo Gilbert Rouget. Al centro del suo interesse sono i cosiddetti “culti di possessione” . L’ipotesi di Rouget, è che la musica non sia dotata di alcun potere proprio di indurre la trance, ma che partecipa a dei rituali al suo manifestarsi, come tecnica della comunicazione e strumento di specializzazione. La difficoltà di identificare lo specifico ruolo della musica è particolarmente accentuata, proprio nei riti di possessione, in cui i comportamenti musicali sono parte di un apparato cerimoniale particolarmente denso e complesso. Ma in altre pratiche musicali a sfondo terapeutico e magico-religioso, non è difficile riconoscere fra le varie funzioni affidate alla musica anche quella di supporto a precise tecniche di condizionamento fisiologico, funzionali all’alterazione dello stato di coscienza. Il problema fondamentale è che sebbene l’associazione fra musica e stati alterati di coscienza(SAC) abbia una diffusione universale, non è facilmente riconducibile a un’unica tipologia. Si possono identificare tre combinazioni-tipo: 1) Musica e Terapia . E’ il caso in cui sia prevista una “somministrazione” di musica a scopo terapeutico, senza che questa, debba accompagnarsi necessariamente a particolari stati di alterazione della coscienza ordinaria. Tali terapie musicali, o “meloterapia”, possono utilizzare: - repertori, strumentali, la cui funzione non è specificamente curativa, se non nel senso di concorrere a indurre nel paziente uno stato d’animo propizio al superamento del proprio malessere - specifiche musiche di guarigione, alle quali è attribuito un vero e proprio potere terapeutico 2) Musica e SAC. E’ il caso in cui musica e stati alterati di coscienza soprattutto la trance, si trovino associate in pratiche le cui finalità non sono terapeutiche, anche se possono essere in definitiva ricondotte a esigenze primarie di auto-rassicurazione dell’individuo o del gruppo sociale. Generalmente, tali alterazioni della coscienza hanno motivazioni e spiegazioni sovrannaturali e PAGE \* MERGEFORMAT 1 rientrano in una sfera di comportamenti mistico-religiosi. L’elemento fondamentale per il raggiungimento dell’estasi sembra essere proprio la danza vorticosa, indotta dalla musica ma condotta e controllata dagli stessi danzatori tramite un accorto uso di alterazioni fisiologiche provocate dalla roteazione continua del corpo. 3) Terapia, SAC e musica. E’ il caso in cui musica e stati alterati di coscienza compartecipino in complessi rituali la cui ricompensa religiosa sia la temporanea o definitiva guarigione da malattia. Questa situazione è caratteristica dei cosiddetti culti di possessione, diffusi con forme e denominazioni differenti in tutto il continente africano, nell’Europa mediterranea, in parte dell’Asia e fra le popolazioni di origine africane dell’America. Lo scopo di tali riti non è di cacciare gli spiriti dal corpo posseduti quanto quello di ristabilire con tali entità sovrannaturali un salutare equilibrio, se non addirittura un vero e proprio patto di alleanza. Lo sciamanismo è caratterizzato dalla presenza di una particolare figura di specialisti in voli magici, lo sciamano appunto, che trae da questa sua prerogativa il potere e le conoscenze necessarie per assistere e curare i membri della sua comunità. La complessità di eventi che caratterizza, in generale, i culti sciamanici e di possessione spiega perché essi possano essere oggetto di analisi estremamente diverse. Può accadere così che alcuni studi trascurino gli aspetti storico-religiosi, mentre altri pongano al centro dell’attenzione la funzionalità sociali di tali pratiche. Lo sciamanismo e gli altri tipi di pratiche di culto con musica e trance consentono di interpretare, affrontare e spesso risolvere condizioni individuali di insicurezza, conflitto o malessere, più o meno transitorie socializzandole all’interno di complessi rituali collettivi. Se l’epediente è quello religioso, il tramite è quello della musica e de della danza, ritenute in grado di infrangere le sogli fra mondo terreno e ultraterreno, fra individuo e comunità. Sia nei riti della possessione che in quelli sciamanici o estatico-religioso la musica svolge diverse funzioni: come veicolo di un testo sacro, come sostegno dell’azioni liturgiche; come guida e accompagnamento alla danza e alle procedure della trance. Ma è soprattutto nei riti di ascesa che emerge con più evidenza una funzione della musica in quanto specifica tecnica di alterazione della coscienza ordinaria La musica come tecnica della trance: le pratiche sciamaniche del Nepal Nella ricerca condotta in Nepal nel 1987 si sono esaminate le procedure musicali di quattro sciamani di diversi gruppi etnici, due indoeuropei, un Darai e un Tamang. L’analisi dei vari rituali pubblici di questi sciamani ha rivelato l’esistenza di una precisa tecnica di autoinduzione della trance, che consiste nel provocare, per mezzo di un movimento sussultorio del corpo innescato dal ritmo musicale, uno stato di iperventilazione, funzionale all’alterazione dello stato di coscienza. Musica e trance in un culto di possessione della Somalia Mingis è il nome che lo Zar, il culto di possessione praticato in tutta l’Africa nord-orientale, assume in alcune aree costiere della Somalia. Il culto si sostanza in un ciclo di pratiche rituali dirette da sacerdoti chiamati calaqad attorno ai quali si costituiscono vere e proprie comunità di adepti, con differenti gradi iniziatici. La finalità delle pratiche rituali è essenzialmente terapeutica, rimuovendo il rapporto conflittuale, elimini la malattia; fondamentali, a questo fine, sono gli stati di trance ritualmente indotti nel malato per mezzo della musica e della danza. Un ciclo terapeutico completo ha, per la persona che vi si sottopone, una durata piuttosto lunga e costi elevati, soprattutto per l’acquisto di oggetti da utilizzare nei riti e da donare al calaqad e di animali da sacrificare agli spiriti. Un trattamento comporta le seguenti fasi: 1) preliminare, che si sostanzia nel rapporto calaqad/malato; 2) musicale, nella quale il calaqad e i suoi assistenti iniziano a cantare e poi a suonare; 3) coreutica-musicale, che scaturisce da quella precedente nel momento in cui il malato inizia la danza di possessione, e prosegue fino a che egli non raggiunge la trance; 4) culminante, nel momento critico in cui subentra la trance e avviene l’identificazione con il jinni; 5) coreutica-musicale conclusiva, nella quale il posseduto ritorno dallo stato di trance a quello di normalità e abbandona il centro del cerchio attuale; I rituali si svolgono generalmente all’interno di una tenda rettangolare, di circa quattro metri per cinque, priva di addobbi o ornamenti particolari. La tenda circoscrive l’effettivo spazio cerimoniale, il templum del culto. Gli oggetti del rito PAGE \* MERGEFORMAT 1 Prima che la tenda si riempie di gente vengono disposti i quattro tamburi cerimoniali. Il ruolo dei tamburi è fondamentale non solo per dirigere e accompagnare i canti e la danza, ma anche perché il loro suono ha il potere di evocare gli spiriti. Si tratta di tre grossi tamburi chiamati in somalo Reeme; a essi si aggiunge un tamburo metallico, una tanica di latta che è invece suonata a mani nude. Altro oggetto liturgico indispensabile è un incensiere che viene impiegato per le fumigazioni. L’incensiere viene anche adoperato per consacrare i tamburi, scaldando e tenendo così, con il fumo caldo dell’incenso, le loro pelli. Fondamentali per gli addobbi cerimoniali sono i veli e le stoffe. I diversi corredi possono comprendere stoffe più o meno pregiate. Tamburi, incensi, profumi e vesti colorate costituiscono i Paraphernalia della liturgia del Mingis. La disposizione dei partecipanti La tenda comincia ad assumere il carattere sacro nel momento in cui i fedeli, secondo un ordine determinato dai loro diversi ruoli, si dispongono al suo interno. La possessione si è rivelata un fenomeno prevalentemente femminile. Solo alcune delle donne si lanceranno a turno della danza. Il compito delle donne del cerchio si limita altrimenti al canto, al battito delle mani e all’incitamento della danza con grida stereotipe. Il ruolo degli uomini è quello dei guardiani dell’ingresso che ha infatti anche una utilità concreta: quella di impedire che i posseduti si lancino fuori dalla tenda sfuggendo al controllo del calaqad e del gruppo di culto. La musica e i contrassegni musicali In ogni canto si ritrovano i seguenti elementi: • esecuzione polivocale in forma bipartita, secondo lo schema generale A/B, oppure frasi alternate; • organizzazione melodica inscrivibile in un sistema pentatonico, con ambito ristretto all’ottava; • tempo di esecuzione stabile. Nel Mingis il ritmo non partecipa alla caratterizzazione dei contrassegni. La danza In una seduta di Mingis l’attività coreutica coinvolge, in forme e misura differenti: • coloro che si sottopongono alla terapia; • i fedeli che formano il cerchio rituale; • il calaqad. La danza individuale di possessione ha luogo nel circuito determinato dal cerchio rituale. Il posseduto si lancia nella danza e comincia a percorrere in senso orario il circuito rituale con un lungo passo saltellato, cadenzato sul ritmo dei tamburi e delle mani battute. Più il posseduto si approssima alla trance, più la sua danza si fa convulsa. Il passaggio dallo stadio a passo saltellato alla fase culminante rivela il carattere preminente di tecnica della trance della danza, che , come dice ROUGET, ha la funzione di fornire all’adepto da un lato il mezzo per assumere il proprio cambiamento di personalità, dall’altro il mezzo per viverlo intensamente a livello motorio. Non è facile stabilire, fino a che punto l’attività motoria dei componenti il cerchio rituale possa essere considerata danza. Il modo estremamente elegante e regolare con cui viene eseguito il battimani, ricorda la cinesica di esecuzione che caratterizza le sezioni di strumenti a fiato delle orchestre afro-americane di rhythm and blues. La danza del calaqad infine non è convulsa e anzi appare, rispetto a quella eseguita dai posseduti estremamente misurata ed elegante. Essa infatti precede il momento del contatto con i nuovi fedeli che, al termine della seduta, si rivolgeranno a lui per una rapida e sommaria diagnosi o anche soltanto per ricevere una benedizione. Le funzioni della musica nel rituale del Mingis Nel Mingis, come in molti altri culti di possessione, la musica consente al rito di cadenzarsi su un tempo magico-religioso, diverso da quello profano della quotidianità, immettendo l’azione in una temporalità virtuale, in cui i gesti, gli spazi e comportamenti si coordinano e si misurano reciprocamente all’interno di un canovaccio da memorizzare e replicare. PAGE \* MERGEFORMAT 1