Scarica Il Cristiano nel Mondo e più Appunti in PDF di Teologia II solo su Docsity! Chiara Robbiati Il cristiano nel mondo Introduzione alla teologia morale INTRODUZIONE: Dionigi card. Tettamanzi “Maestro, che cosa devo fare di buono…?” (Mt 19,16) Il dialogo tra il giovane ricco e Gesù può essere suddiviso in tre momenti, imperniati attorno a tre concetti: la vita eterna, i comandamenti di Dio e la sequela di Gesù. La forma dialogica comporta un discorso che scorre tra due interlocutori. La morale cristiana è dialogo interpersonale, relazione vitale di due persone. Il desiderio dell’uomo Il dialogo della scena evangelica comincia con la domanda di “un tale” che resterà anonimo. L’anonimato universalizza la sua identità: quel tale rappresenta ogni uomo che s’interroga sul bene e la felicità. La domanda che inaugura il dialogo verte sul bene da praticare in vista di una vita pienamente compiuta e illimitatamente perdurante. La domanda che pone non riguarda solo il fine della felicità, ma anche i mezzi per raggiungerla. Si tratta di una domanda pratica, che verte cioè sul “che cosa fare” che ha i tratti dell’obbligo e la qualità del bene. La legge di Dio La risposta di Gesù non frena la ricerca del giovane, ma la apre ad un orizzonte infinito. Suona come una contro-domanda, che invita il giovane ad attivarsi personalmente nel cammino di ricerca. Egli svela al giovane la profondità divina del bene, invitandolo a riconoscere la radice dei molteplici beni in Dio. La domanda morale del giovane riguardante il suo agire nel mondo viene rivelata da Gesù nella sua profondità religiosa, nel suo legame con Dio: interrogarsi sul bene da fare è già mettersi sulle tracce di Dio. L’uomo non è abbandonato a se stesso nel perseguimento della vita divina, ma da Dio stesso istruito circa il cammino da compiere. La legge morale di cui l’uomo è naturalmente dotato lo induce a fare il bene non totalmente in astratto, ma già insegnando alcuni modi concreti di vivere, quali appunto dettati dai comandamenti. La sequela di Gesù La risposta di Gesù alla richiesta del giovane verte sulla vendita delle ricchezze a favore dei poveri. Il desiderio di perfezione del giovane viene calibrato sugli altri. La perfezione morale non consiste nell’inappuntabile pratica di precetti impersonali, ma nella dedizione personale agli altri, scegliendo di preferenza i poveri. Epilogo L’imperativo della chiamata: “Seguimi!” non priva di libertà la risposta. Al giovane, Gesù si rivolge anzitutto dicendo: “Se vuoi”. Nella rinuncia del giovane alla sequela di Gesù si potrebbe riconoscere un sintomo dell’attuale condizione giovanile, non senza desideri di autentica felicità eppure spesso irretita nel godimento immediato. FEDE CRISTIANA E AGIRE MORALE: I legami della libertà La morale cristiana consiste nel legame che intercorre tra Cristo e gli uomini, così come dall’innesto nella vite dipendono la vitalità e fruttuosità dei tralci. Morale ed etica Il termine “morale” è la traduzione dall’aggettivo latino moralis, morale. A sua volta l’adattamento dell’aggettivo greco ethika, il quale è giunto direttamente nelle lingue moderne nella forma del sostantivo “etica”. “Etica” e “morale” sono stati usati con diverso significato: “etica” indica la riflessione di taglio filosofico e “morale” quella di matrice religiosa. Si potrebbe definire l’etica/morale come “ciò che caratterizza l’agire umano”. Chiara Robbiati Questa definizione è confermata da un’altra accezione del termine ethos, quella di “residenza, luogo dove si abita”. L’etica/morale può essere intesa come la “dimora” propria dell’uomo, quella dimensione che caratterizza il suo modo di comportarsi in senso propriamente umano. L’agire umano è agire libero. Non solo l’uomo compie delle azioni, ma le compie sapendo e volendo agire. Ragione e volontà sono gli ingredienti dell’agire libero, per il quale l’uomo, a differenza di ogni altro essere vivente, è “padrone dei propri atti”. La “morale” riguarda l’agire libero dell’uomo, valutandolo come buono o cattivo. La presunta libertà L’orizzonte postmoderno Per lungo tempo l’etica è stata concepita in stretta dipendenza dall’Essere divino. Con l’avvento dell’epoca moderna si è prodotta una profonda svolta. La questione che viene alla ribalta è la questione dell’uomo. Questa svolta verso il soggetto umano stimola il sorgere di un nuovo modo di argomentare: dall’interrogazione del mistero di Dio con lo scopo di dedurre le leggi dell’agire umano, si passa all’interrogazione diretta di quest’ultimo, nel tentativo di scoprire le leggi immanenti che lo regolano. Lo sforzo moderno di dare alla morale una fondazione autonoma raggiunge il suo vertice con Kant: la sua etica si qualifica come “autonoma” e svincolata da ogni forma di “eteronomia”. Con l’acquisizione dell’autonomia, la morale si è liberata dall’ancora divina che le impediva di navigare da sola, ma sembra anche aver smarrito la stella polare sulla quale stabilire la rotta. Tra i principali maestri che propiziano e caratterizzano la nascita dell’etica postmoderna, spicca Nietzsche. La metafora più adatta per indicare l’uomo postmoderno sembra essere quella del turista. Il turista gira il mondo sapendo che non prenderà dimora da nessuna parte. Il turista è extraterritoriale, è ovunque e da nessuna parte: libero di andare dove vuole. Un vincolo sussiste, ed è quello della sua disponibilità economica. Il grado della sua libertà è dato dal potere di acquisto. La metafora del turista che non conosce confini se non quelli dettati dal suo portafoglio si adatta alla condotta morale dell’uomo postmoderno, priva di regole che non siano quelle stabilite in proprio. Individualismo della libertà e relativismo della morale vanno a braccetto. Il miraggio della libertà La parola libertà rimanda al non dover far qualcosa. La libertà sembra essere il poter fare ciò che si vuole. Sapere ciò che si vuole è tutt’altro che facile come potrebbe sembrare. Ciò che si vuole non è solo ciò di cui si ha voglia. Ciò che si vuole, diventa ciò per cui siamo disposti a impegnarci. La libertà, non potendo evitare di scegliere, cerca di non farlo definitivamente, di tenersi sempre aperta una via d’uscita per evitare una scelta che sia per sempre. Il fenomeno appare oggi piuttosto diffuso e talvolta mascherato dietro scelte che sembrerebbero solo di valore. Scegliere è rischioso. Decidere non è semplicemente scegliere qualcosa ma è tagliar via, privarsi di tutte le altre cose che non si sono scelte. Scegliere lei/lui è sacrificare tutti gli altri. E ciò che non si sceglie resta in qualche modo sempre presente come ciò che manca. Alla libertà manca la cosa più fondamentale, la scelta iniziale di esistere. La libertà legata La libertà non può decidere se fare o non fare. È costretta a giocare la partita della vita, deve giocarsi. La libertà e il corpo La libertà è ciò che fa di un corpo una persona umana: un corpo senza la libertà potrebbe al massimo aspirare ad essere un animale. Nei confronti del corpo non si può fare ciò che si vuole: compromettere il corpo significa compromettere la propria libertà. Il corpo è fonte dei motivi che inclinano la libertà a compiere determinate azioni. I bisogni inducono l’uomo a nutrirsi ed accoppiarsi. Il dolore e il piacere percepito spingono l’uomo a evitare i pericoli e a ricercare il benessere. Il corpo è anche il modo mediante il quale la libertà si esprime. Chiara Robbiati - il perdono della nuova alleanza in Cristo; - il dono escatologico della vita eterna in Lui. Al primo grado della creazione dell’uomo a immagine di Dio corrisponde la responsabilità dell’uomo sia nei confronti dello stesso Dio, sia nei confronti di ogni realtà creata. La morale cristiana non è una morale autonoma, ma una morale responsoriale e una morale religiosa. Dal secondo grado dell’alleanza con il popolo d’Israele deriva l’obbligo di osservare la Legge. Con la nuova ed eterna alleanza in Gesù Cristo, il dono divino giunge al suo grado supremo e definitivo. Il Figlio Gesù manifesta la potenza iperbolica del dono di Dio che giunge sino al perdono. L’iper-dono della nuova ed eterna alleanza inserisce l’uomo nell’orizzonte della vita eterna. Per mezzo dello Spirito santo la promessa di Gesù di attirare tutti a sé, una volta innalzato sulla Croce e nella gloria della resurrezione, si realizza sino agli estremi confini della terra e in ogni epoca della storia. Il dono escatologico della vita eterna prospetta la morale cristiana come un camminare nello Spirito, lasciandosi guidare alla progressiva incorporazione in Cristo, sino alla misura colma in cui Dio sarà tutto in tutti. L’amore come legge La rivelazione biblica dei dinamismi rilevanti della morale cristiana fornisce l’infrastruttura per lo sviluppo della teologia morale. La legge nuova L’anticipazione di Gesù ai discepoli circa il suo imminente innalzamento sulla croce e nella gloria della resurrezione allude allo Spirito santo quale fonte e risorsa della vita morale. La promessa di attirare tutti a sé annunciata da Gesù si realizza per mezzo dello Spirito santo. L’attrazione esercitata dallo Spirito sulla libertà invita a una rinnovata interpretazione della legge morale. La grazia dello Spirito santo Identificando la grazia dello Spirito santo con la legge nuova Tommaso introduce una concezione inedita di legge che agisce dall’interno. La legge nuova è posta da Dio nell’intimo dell’uomo, secondo la promessa riferita dal profeta Geremia. La legge nuova è una legge “infusa”. L’amore sino alla fine La legge nuova è destinata ad innervare la libertà umana, affinchè dalle radici più profonde dell’identità morale risalga alimentando le disposizioni ad agire, sino a produrre gli atti. La gradualità ascendente della vita cristiana è scandita dalle sette beatitudini poste in apertura al Discorso della montagna e culminanti nell’ottava e ultima beatitudine: “Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”. La legge naturale La legge morale non si esaurisce nella legge nuova, ma deve essere integrata considerando la “legge naturale”, cosiddetta perché propria della natura umana. Legge posta nell’intimo La relazione tra la legge naturale e la legge nuova può essere stabilita rispetto alla loro intima presenza nell’uomo. La somiglianza della legge naturale con la legge nuova è dovuta al fatto che entrambe sono leggi infuse. Ma la legge nuova è infusa nell’uomo, non solo come indicazione di ciò che deve essere fatto, ma anche come aiuto a compierlo. La dissomiglianza della legge naturale rispetto alla legge nuova riguarda il fatto che quest’ultima è la risorsa per compierlo. L’amore del prossimo La legge naturale trova espressione scritta nei comandamenti del Decalogo. I comandamenti del Decalogo convergono nell’unico comandamento dell’amore del prossimo. Chiara Robbiati I precetti del Decalogo indicano il livello minimo della vita amorosa, al di sotto del quale si apre l’abisso della violenza mortale. L’interpretazione amorosa dei precetti negativi del Decalogo, permette di rivalutarli nella loro positiva funzione. Caratteristiche della legge morale Interpersonalità In quanto amore, la legge morale è interpersonale, riguarda cioè la relazione amorosa tra persone. L’osservanza della legge morale diviene una questione di coerenza soggettiva. L’amore per gli altri non costituisce più la sostanza della legge morale, ma l’obbligo che essa impone. L’altro è amato in nome della legge e non per amore. Obbligatorietà Se la legge morale consiste essenzialmente nel legame amoroso con l’altro, sorge la domanda circa la sua obbligatorietà. L’amore sembrerebbe escludere ogni obbligo. La forza imperativa dell’amore è debole. Nient’altro impone di obbedire al comandamento dell’amore se non l’invocazione di chi chiede di essere amato. Universalità e immutabilità L’universalità e l’immutabilità esprimono la validità del comandamento dell’amore, l’ovunque e il sempre dell’esigenza di amare. In negativo, universalità e immutabilità della legge morale dichiarano che non esiste alcun luogo e alcun momento in cui gli uomini possano vivere all’altezza della loro natura interpersonale prescindendo dall’amore. L’universalità e l’immutabilità della legge naturale non sono sinonimo di fissità. Esse includono la possibilità che essa evolva. Gradualità L’amore può essere conosciuto e vissuto a diversi gradi e trovare diversa espressione nello spazio e nel tempo, a seconda che sia più vicino al livello basilare dell’amore del prossimo, indicato dal Decalogo, o al livello superiore dell’amore dei nemici, illustrato nel Discorso della montagna. Ne deriva una concezione della legge morale detta “legge della gradualità” e ulteriormente definita “legge della gradualità amorosa”. La legge morale è, allo stesso tempo, uguale e non uguale per tutti. “La legge morale è uguale per tutti”: non solo perché tutti devono amare il prossimo al grado basilare della legge naturale illustrata dai precetti del Decalogo, ma anche perché l’amore del prossimo deve essere perfezionato sino alla fine, sino cioè a comprendere anche il nemico. “La legge morale non è uguale per tutti”: a ciascuno è comandato di amare al grado che la progressiva integrazione dei doni di Dio e delle esigenze del suo amore definitivo e assoluto gli consentono al momento presente, senza pretendere l’impossibile, ma senza nemmeno rinunciare al qui e ora possibile, fosse anche l’amore dei nemici. I dinamismi della libertà La legge morale consente e comanda di amare come Cristo. Senza libertà, la legge finirebbe per essere un’imposizione violenta o potrebbe al massimo suscitare una reazione istintiva, automatica. L’attrazione indotta dallo Spirito suscita un’azione libera. In quanto amore, la legge morale cristiana coinvolge nella sua totalità. Ne deriva che la risposta dell’uomo sarà esistenziale-pratica. L’attrazione dello Spirito produce come effetto una risposta che si configura come reazione. La libertà sussiste solo nella concretezza delle singole azioni. L’azione è la dimora della libertà. L’analisi della libertà agente deve prendere avvio là dove essa abita. Lo studio della singola azione mostrerà le sue implicazioni ontologiche e dinamiche. Analitica dell’atto La singola azione Chiara Robbiati La negazione di un concetto di azione impedirebbe di identificare e valutare l’agire dell’uomo nel corso della sua vita. La descrizione e la valutazione dell’agire umano per viam sarebbe rimandato postmortem, perché solo allora l’agire potrebbe dirsi compiuto. A quel punto però verrebbe meno la possibilità che egli valuti la sua vita. Impossibilitato a valutare il suo agire, l’uomo resterebbe senza responsabilità. L’agire morale sarebbe in realtà un evento naturale come gli altri, e come tale l’unico metodo adeguato per valutarlo sarebbe quello delle scienze positive. L’azione morale Il linguaggio comune intuisce la differenza tra azione umana ed evento naturale. Tommaso ha distinto tra gli atti che sono propri dell’uomo e gli atti che sono comuni all’uomo e agli altri animali. Negli atti umani è presente la libertà, assente negli atti genericamente dell’uomo. La distinzione tra i due tipi di atti è indicata nominando i primi come “azioni” e i secondi come “passioni”. Le azioni sono costituite dalla reciprocità di volontario e involontario. I tempi dell’azione L’azione morale è un dinamismo che non può essere statisticamente fissato. Si potrebbero richiamare sei tempi dell’azione morale, definibili in base alla diversa configurazione che la libertà in essi assume. Seguendo il corso di un’azione si potrebbero allora scorgere: - il tempo del volere, in cui la libertà desidera acquisire un dato bene; - il tempo del progetto, in cui la libertà tende alla realizzazione di ciò che prima desiderava; - il tempo del discernimento, in cui la libertà confronta le diverse possibilità di realizzare ciò che intende; - il tempo della scelta, in cui la libertà decide di realizzare ciò che intende; - il tempo dell’efficienza, in cui la libertà persegue la scelta compiuta; - il tempo della gioia, in cui la libertà gode del desiderio realizzato. La scelta Quando la libertà sceglie di fare qualcosa, rinuncia ad ogni altra fattibile cosa. La scelta è una decisione che comporta una recisione. Attraverso la scelta, le molteplici possibilità del futuro divengono l’unica necessità del passato. Le tre fonti della moralità Per valutare la qualità morale degli atti si può attingere alle tre cosiddette “fonti della moralità”, corrispondenti all’oggetto, alle circostanze e al fine. Questi tre elementi sono paragonabili a tre sorgenti che alimentano il medesimo ruscello. Presupposto necessario di un atto moralmente buono è la bontà di tutte e tre le sue fonti. Oggetto La prima fonte da considerare è l’oggetto, da intendersi come un comportamento liberamente scelto. Esso è il fine prossimo di una scelta deliberata, che determina l’atto del volere della persona che agisce. L’oggetto morale di un atto non coincide con alcun oggetto fisico. L’oggetto morale di un atto specifica la sua collocazione nell’orizzonte del bene e del male, definisce la specie morale di un’azione, qualificandola come omicidio, furto, adulterio. Fine L’altra fonte della moralità è il fine o intenzione del soggetto agente. Il fine costituisce la fonte che deriva dall’attore. Circostanze Tommaso d’Aquino, chiamando circostanza una cosa che, pur essendo esterna all’essenza di un atto, in qualche modo lo riguarda, spiega come ciò possa avvenire in tre maniere. Le circostanze concorrono ad aggravare oppure a ridurre la bontà o la malizia degli atti umani. Chiara Robbiati L’alternativa posta alla libertà permette di cogliere l’essenza del peccato nella resistenza allo Spirito. L’unico peccato dichiarato imperdonabile è il peccato contro lo Spirito santo. Il peccato come disamore Il peccato può essere definito come “disamore”. Il greco dys-, significa male; il latino dis- indica opposizione, separazione e dispersione. Il disamore è la maligna opposizione all’amore, dal quale ci si separa finendo dispersi. Il disamore peccaminoso è la distrazione dall’amore integrale di Cristo e la deviazione verso forme di pseudo-amore. Le forme principali del disamore potrebbe essere l’amore esclusivo di sé (superbia), che induce il disgusto nei confronti di Dio (accidia) e la competizione (invidia) violenta (ira) nei confronti degli altri, ai quali negare i propri beni (avarizia) per soddisfare voracemente i propri bisogni (gola, lussuria). Commettere peccato significa omettere di amare integralmente. L’omissione amorosa è il grembo dell’azione disamorata. La distinzione dei peccati Differenza tra “peccato mortale” e “peccato veniale” il peccato mortale coincide con l’interruzione della relazione con Dio e il prossimo, al culmine dell’indurimento disamorato. Il peccato non si restringe ad un atto puntuale, ma comporta il protrarsi di una relazione interrotta. La rottura di una relazione non è senza relazione con esso. L’indurimento amoroso comincia già con il peccato veniale, il quale, favorendo l’irrigidimento del soggetto, crea le premesse per la rottura della relazione amorosa con Dio e il prossimo. L’identificazione del peccato mortale con la stabilità del vizio non compromette la possibilità che il peccato mortale si realizzi con un solo atto. Un solo atto può originare la stabile propensione viziosa. Le condizioni del peccato La concezione del peccato come disamore invita a riformulare in riferimento all’amore i tre elementi la cui compresenza comporta il peccato mortale e l’assenza di uno dei quali determina il peccato veniale: si tratta della piena avvertenza, del deliberato consenso e della materia grave. La materia grave è riferita all’amore del prossimo. La concezione del peccato come disamore comporta una visione interpersonale della materia grave del peccato e dunque della sua oggettiva gravità. La conversione Rispetto all’attrazione dello Spirito, la libertà può resistere lasciandosi gradualmente plasmare affinchè ami come Cristo. Questo processo di conversione non avviene in un momento, ma nel corso del tempo si distende allontanandosi dal peccato e progredendo nell’amore di Cristo. La tradizione spirituale distingue tre livelli di conversione: iniziale, progressiva e perfetta. La conversione iniziale La conversione dell’uomo dalla morte del peccato alla vita di carità ha il suo momento iniziale nell’atto di fede mediante il quale il peccatore si apre all’iniziativa della grazia. Il suo momento sacramentale è quello del battesimo. L’inizio della conversione morale si caratterizza come liberazione dal dominio della concupiscenza in modo tale che la libertà non assecondi la sua inclinazione peccando mortalmente. Essa mira all’abbandono di quei comportamenti gravemente contrari alla carità cristiana. La conversione progressiva La conversione suscitata dalla grazia e assecondata dalla libertà apre al successivo progresso. L’attenzione col progredire della conversione diventa impegno a far sì che nessuna azione dell’uomo sia senza amore. La considerazione processuale del peccato invita a riconoscerlo e a combatterlo fin dal suo comparire all’orizzonte come tentazione. Chiara Robbiati A proposito della tentazione, la tradizione cristiana distingue tra diavolo, mondo, concupiscenza. Poiché la tentazione diabolica agisce nel mondo e attraverso la concupiscenza, si accenna solo a queste ultime. La tentazione mondana è conosciuta nella tradizione moralteologica in termini di “occasione di peccato”, con cui si intende una circostanza inerente a persone, cose, rapporti di tempo e di luogo, e che costituisce un’occasione esteriore di tentazione, un pericolo di peccare. Secondo la gravità del pericolo si parla di occasione prossima o remota; e secondo la possibilità di evitarla si parla di occasione necessaria o volontaria di peccato. La tentazione interiore viene nominata dalla tradizione come “concupiscenza”. Essa scorge come deformazione della coscienza. La conversione perfetta La conversione è orientata a Dio. In tal senso essa non è descritta dal termine “conversione”, ma deve essere meglio qualificata come “conversione a Dio”. Il discernimento morale Le situazioni conflittuali Il conflitto in cui la libertà umana si trova a vivere nella storia non riguarda la scelta del peccato o della conversione. Il conflitto riguarda i singoli beni, che sono la modalità storica mediante la quale l’uomo si decide rispetto al Bene divino. Il massimo bene possibile non è tutto il bene idealmente realizzabile; esso comporta un bene che non viene realizzato. Non sempre il bene maggiore risulta chiaramente determinato. È il caso in cui due o più valori: 1. siano omogenei, si trovino cioè sul medesimo piano della gerarchia dei valori; 2. siano entrambi uguali; 3. la scelta dell’uno comporti inevitabilmente l’omissione, l’esclusione, o la violazione degli altri. La libertà umana non realizza solo il bene, ma mentre realizza progressivamente il bene ancora compie il male. Il conflitto tra il bene e il male non può essere risolto al di fuori della coscienza personale. Il principio fondamentale del discernimento morale diviene la coscienza stessa, nella tensione tra il male da cui è stata liberata e il bene escatologico in via di compimento. La formazione della coscienza La teologia morale si premura di istruire la libertà in modo tale che non solo conosca l’alternativa in cui è impegnata, ma anche scelga il bene da fare e rinunci al male evitabile. Anamnesi La crisi della coscienza può essere intesa come l’esito di implosione ed esplosione della coscienza. L’implosione della coscienza. Fino al Medioevo la coscienza era intesa come una sorta di antenna parabolica, la cui funzione è di ricevere e trasmettere all’apparecchio televisore le onde provenienti dal satellite. La coscienza è ricettacolo terreno delle leggi divine. Il suo compito si esaurisce nell’applicare diligentemente le leggi di Dio alle situazioni della vita concreta. L’esplosione della coscienza. L’implosione della coscienza ha oscurato la relazione con Dio. L’uomo contemporaneo si presenta come decostruito in una varietà di aspetti che dicono di lui qualcosa, ma in nessun caso la verità. La coscienza morale esplode in una serie di frammenti, nel senso che la coscienza individuale risulta mutevole a seconda della situazione e del momento in cui si trova. Cure palliative Quali rimedi sono immaginati e praticati per fronteggiare la dispersione della coscienza? Se ne indicano tre: - il primo tenta di trattenere la coscienza vincolandola alla legge; - il secondo scommette sulla sufficiente capacità della coscienza di auto vincolarsi; - il terzo suggerisce alla coscienza di ritardare o viceversa affrettare il tempo delle scelte. Chiara Robbiati Legge, coscienza e tempo sono tre coordinate del discernimento morale. Il rischio è l’assunzione dell’una a scapito delle altre. La formazione imposta. La sola considerazione della “legge oggettiva” riduce la funzione della coscienza a un meccanismo automatico. Essa non deve far altro che dedurre i comportamenti concreti da osservare in ogni singola circostanza. I pericoli che ne derivano sono quelli dell’idealismo e del legalismo. La formazione spontanea. Nessuno può pretendere di stabilire il bene e il male poiché ciascuno ha il diritto di deciderlo da sé. I rischi sono quelli del relativismo e dell’arbitrarietà. La formazione affrettata o rimandata. Il tempo rischia di divenire tiranno per una vera maturazione della coscienza, a seconda che lo si esageri o lo si annulli. Terapia Secondo la fede cristiana, la relazione tra l’uomo e Dio è tessuta dallo Spirito Santo che Gesù ha “soffiato” dalla Croce sull’intera umanità. La coscienza morale prende forma per opera dello Spirito santo, il quale abilita l’uomo al discernimento morale, lo rende abile nel distinguere e scegliere il bene da fare e il male da evitare. La formazione della coscienza morale è disponibilità dell’uomo nei confronti dello Spirito Santo. Molteplici sono i luoghi in cui lo Spirito può essere percepito. Coscienza morale e Sacra Scrittura. Se il Padre è buono, non si tratta più di scegliere tra il servirlo sentendosi uno schiavo o l’andarsene temendone il castigo. La scelta riguarda la modalità per corrispondere di più e meglio all’amore del Padre. Coscienza e sacramenti. Tutti i sacramenti provvedono alla formazione della coscienza. In uno di essi sembra più facile percepire l’azione dello Spirito. L’esperienza di tanti cristiani testimonia la grande efficacia del sacramento della riconciliazione in ordine alla formazione della coscienza. Coscienza e comunità cristiana. Veniamo da una tradizione che reagendo agli assolutismi del tempo, ha rivendicato i diritti della coscienza individuale. La giusta rivendicazione ha messo in ombra le inevitabili relazioni che costituiscono la coscienza stessa e senza le quali la coscienza risulta deformata. Ciò implica un legame inscindibile tra la coscienza, per cui è ingenuo immaginare che sussista una buona coscienza isolata, circondata da cattive coscienze. Tra le relazioni essenziali che la coscienza cristiana vive nella communio morale della Chiesa vi è quella con il Magistero gerarchico del Papa e dei vescovi, al quale compete il carisma dell’insegnamento. NATURA E TECNICA: Bioetica: una nuova scienza? All’origine della bioetica Prime correnti di natura deontologica La bioetica si colloca in un complesso intreccio di questioni socio-culturali e di riflessioni etiche e giuridiche, dopo il conflitto mondiale. Dalla guerra l’umanità sembra uscire più disincantata a riguardo della qualità dei rapporti interpersonali e sociali. Si situa lo sviluppo di una riflessione di tipo deontologico sulla medicina e sulla scienza che trova tre punti di emersione: il processo di Norimberga ed il Codice, la riscoperta dell’etica medica tradizionale e l’elaborazione della categoria di “diritti dell’uomo”. Il processo e il Codice di Norimberga Tra il 21 novembre 1946 e il 9 agosto 1947 si è celebrato il “Processo ai medici”. Gli imputati non sono scienziati pazzi, ma scienziati. Le teorie di eugenetica erano condivise da tutto il mondo accademico prima della guerra; le pratiche di sperimentazione su soggetti non consenzienti o non consapevoli erano unanimemente ritenute utili per la buona riuscita delle ricerche. La sentenza del processo ai medici sente il bisogno di inserire alcune indicazioni deontologiche che regolamentino la sperimentazione medica. Il Codice di Norimberga, che afferma la legittimità di sperimentazioni solo se socialmente utili e rispettose di indicazioni etiche e legali, è il primo di una serie di regolamenti deontologici. La riscoperta dell’etica medica tradizionale Chiara Robbiati La bioetica come etica speciale La collocazione della bioetica all’interno dell’etica chiede di considerare che cosa la specifichi e la identifichi come disciplina autonoma all’interno del sapere morale. La bioetica risulta come la scienza morale specificata dalla considerazione dell’intreccio di natura e tecnica che descrive il vivere dell’uomo nei suoi momenti più significativi. La bioetica si definisce come la scienza morale del rapporto tra natura e tecnica. Un nuovo modo di generare? Il 25 luglio 1978 nasce Louise Brown, generata dall’unione dei gameti dei suoi genitori in un terreno di cultura per opera di due scienziati inglesi. Siamo di fronte alla nascita del primo essere umano generato in provetta. Davanti a questo passaggio epocale della medicina alcuni cultori hanno espresso paure e perplessità. Le tecniche di procreazione medicalmente assistita Sotto questa etichetta si collocano una pluralità di tecniche classificabili secondo criteri diversi. Classificazione secondo la sede della fecondazione Un primo criterio per orientarsi tra le varie tecniche riguarda il “luogo fisico” in cui avviene l’unione dei gameti. Si distingue tra PMA in vivo o intracorporea e PMA in vitro o extracorporea. Tra le tecniche intracorporee si riconoscono l’inseminazione artificiale (IA) e la cosiddetta GIFT. Nel primo caso si procede attraverso il prelievo del seme maschile che viene inserito per via trans vaginale nelle tube durante il periodo di ovulazione. La seconda tecnica consiste nel prelievo di entrambi i gameti e nel loro reinserimento nelle vie genitali femminili in maniera simultanea, ma separata. Al secondo gruppo di tecniche appartiene invece la FIVET (fecondazione in vitro e trasferimento di embrione). Qui la procedura consiste nel prelievo di entrambi i gameti e nel loro incontro all’interno di una provetta. Un’ulteriore tecnica è la ICSI (iniezione intracitoplasmatica di uno spermatozoo). Consente la fecondazione anche quando il liquido seminale contiene una bassa quantità di spermatozoi o con gameti maschili non ancora maturi. Classificazione secondo le figure genitoriali Tutte le tecniche sopra elencate possono svolgersi con gameti ottenuti dalla stessa coppia che ha richiesto la PMA e che svolgerà il ruolo di genitori sociali oppure da donatori esterni alla coppia. Nel primo caso si parla di PMA omologa, mentre nel secondo di PMA eterologa. Il coinvolgimento di figure esterne alla coppia genitoriale può spingersi oltre, in forme di maternità surrogata. Si nota la realizzazione di una frammentazione della figura paterna e materna che può arrivare a comprendere tre madri e due padri. L’esperienza del genere umano Generare è un atto della libertà e della coscienza chiamata ad interpretare nella pratica il senso offerto. Generare è un atto che coinvolge tutta la persona in ogni sua dimensione e la libertà è chiamata a farsi carico del tutto e non solo di una parte. Il livello bio-fisiologico A livello bio-fisico la generazione umana è un processo complesso che va dalla gametogenesi alla gestazione. Essa coinvolge tutto l’organismo dell’uomo e della donna. Vengono sottolineati tre aspetti. Il primo è il legame tra il processo di maturazione dei gameti maschili e femminili e la totalità della struttura corporea. Secondo momento è la gestazione. Un ulteriore momento del processo bio-fisiologico della generazione è il momento della fecondazione. Chiara Robbiati Il livello psicologico Mettere al mondo una nuova creatura significa generare un figlio e allo stesso tempo generazione di un padre e di una madre. Questo processo, detto di genitorializzazione, è complesso coinvolgendo una quantità ampia di fattori identitari nell’uomo e nella donna. La pulsione che spinge verso la filiazione è desiderio di trasmettere i propri geni, di incarnare l’amore di coppia, di portare e nutrire un figlio nel proprio corpo, di allevare un bambino. Il desiderio di diventare madre è intimamente legato all’identità femminile e si configura come bisogno primario; il desiderio di paternità invece custodisce un più forte carattere sociale: l’uomo afferma così la propria virilità e si garantisce dei discendenti. Il legame tra l’agire e il desiderare è vitale. La profondità della dinamica di desiderio emerge in modo eminente nell’agire sessuale. Il figlio non ammette di essere ridotto a oggetto di bisogno, ma si presenta come soddisfazione sorprendente di un desiderio che ridefinisce i soggetti che lo accolgono. Il livello socio-culturale L’atto generativo custodisce una responsabilità sociale. Un figlio è generato al servizio del mondo, della comunità in cui è inserito perché possa garantirvi un futuro e un progresso attraverso la propria singolare individualità. Da più parti si parla di una “privatizzazione del figlio”. In questo contesto culturale emergono tratti paradossali. Un primo paradosso consiste nell’ampliamento del significato del concetto di fecondità e nell’assolutizzazione della filiazione biologica come espressione della stessa fecondità. Si vede la concentrazione sull’avere un “figlio proprio” come necessario alla realizzazione del sé e della coppia. Ulteriore paradosso è il differimento del momento in cui generare in un’età sempre più tarda e in cui il processo di maturazione dell’identità personale dovrebbe essersi assestato ed allo stesso tempo la richiesta di una fecondità in condizioni “non naturali” come necessaria al compimento dell’identità personale. Un terzo paradosso è l’insistenza nella richiesta di tecniche generative, anche invasive, in un contesto dove sono presenti tanti bambini già nati e bisognosi di un ambiente familiare di cui sono privi. Criteri di valutazione etica La valutazione dei fini Il fine che guida l’accesso alle tecniche di PMA è il desiderio di un figlio insieme al superamento di una condizione di sterilità. La procreazione responsabile indica la necessità di uscire dalla spontaneità del sentire, della necessità del bisogno o dalla fatalità del caso. Tale indicazione deve trovare dei criteri di verifica reali iscritti nella pratica per evitare il rischio di una formalità. Nel caso di una richiesta di accesso alla PMA, si possono indicare alcuni criteri di verifica. Ci si deve trovare in una reale situazione di sterilità della coppia, clinicamente accertata e in cui non siano possibili soluzioni terapeutiche differenti. Si evita così la possibilità di forme di selezione del figlio e di una maggior programmazione e ottimizzazione dei tempi. Il sistema sanitario tende a trascurare la ricerca e lo sviluppo delle procedure propriamente terapeutiche. Secondo criterio è la consapevolezza delle modalità di procedure delle varie tecniche, del carattere di invasività che spesso hanno sul corpo della donna e delle percentuali di riuscita. Terzo criterio è la presenza di un vissuto di coppia che di fatto realizzi una reale disposizione di apertura alla vita. La valutazione dei mezzi: il criterio della dignità dell’embrione Alla valutazione dei fini che muovono la richiesta di accesso alla PMA, deve seguire una valutazione dei mezzi. Un primo criterio si lega al rispetto dell’embrione. Una prima opinione difende l’idea di una personalizzazione immediata. Il feto è portatore di diritti dal momento in cui avviene l’incontro tra due gameti. Per alcuni basta il richiamo al dato bio-fisiologico. Altri però affermano l’argomento tradizionale secondo cui, nel dubbio circa la vita, essa va protetta come se fosse vita umana. Infine, una terza Chiara Robbiati argomentazione richiama la tradizione aristotelica, riconoscendo nell’embrione una persona in potenza, quindi già portatrice della dignità personale. Una seconda posizione attribuisce tutela all’embrione a partire dal suo annidamento in utero che avviene attorno al 14° giorno dalla fecondazione. Questo perché si ha la comparsa delle prime tracce riconoscibili del sistema nervoso centrale e all’uscita dal livello di totipotenzialità delle singole cellule. Ulteriore argomentazione a favore di questo confine è apportata da coloro che sottolineano l’impianto in utero, e quindi l’inizio di una relazione costitutiva con la madre, come criterio per definire una persona. L’ultimo gruppo di argomentazione raccoglie tutti coloro che parlano di una tutela differita. C’è chi attende lo sviluppo delle strutture fetali tipiche dell’uomo (attorno alla sesta-ottava settimana), chi richiede lo sviluppo delle strutture in grado di ospitare le qualità razionali superiori tipiche dell’essere umano (attorno alla 24a settimana), fino alla posizione estrema di chi lega la personalizzazione alla comparsa dell’autocoscienza, anche alcune settimane dopo la nascita. La possibilità dell’accoglienza (o del rifiuto) di una nuova creatura corrisponde alla possibilità di ridefinire la propria identità. Un genitore si comprende tale a partire dall’atto coniugale che lo ha generato alla maternità-paternità. Ogni pratica che non rispetti il frutto della fecondazione umana come se non fosse una persona appare, da un punto di vista etico, indegna e gravemente disordinata. La valutazione dei mezzi: il criterio della dignità della procreazione Un ulteriore criterio è il rispetto della dignità della procreazione umana. Si dovrà riconoscere come non rispettoso della dignità della procreazione umana ogni tecnica che realizzi una dissociazione tra i diversi significati dell’agire. Ripresa sintetica Il giudizio etico sulle tecniche di PMA Un grave disordine etico si riscontra in tutte le tecniche che appaiono non rispettose della dignità dell’embrione. Tra queste le procedure di selezione e soppressione embrionale o di sperimentazione su di essi per finalità altre rispetto al benessere dell’individuo stesso. La produzione di embrioni soprannumerari e la loro eventuale crioconservazione. Nessuna situazione e nessuna intenzione, per quanto nobile, rende lecita la strumentalizzazione di un altro essere umano. La dignità della procreazione umana, sembra escludere le diverse tecniche eterologhe e le pratiche di maternità surrogata o ogni procedura che provochi consapevolmente una frammentazione dei ruoli genitoriali. Queste tecniche realizzano una grave dissociazione dell’atto coniugale. La PMA risulta contraddittoria rispetto all’unità matrimoniale. Solo una scelta della coppia che corrisponde effettivamente alla grandezza del desiderio di un figlio e che non lasci spazio all’egoismo di una proclamazione di diritto appare in grado di assumere il ruolo genitoriale attraverso la via della tecnica. Il discernimento della Chiesa La persona umana si presenta come totalità unificata nel suo corpo. Da qui discende l’altezza della dignità dell’uomo nel suo corpo, il quale non può essere racchiuso semplicemente nello sguardo oggettivante della scienza positiva. Il corpo è reale presenza della dignità della persona e come tale deve essere considerato anche nelle pratiche mediche e di ricerca. Il criterio della dignità della persona si declina, nei confronti delle pratiche sperimentali e terapeutiche sulla vita umana nascente, nel rispetto della dignità dell’uomo chiamato alla vita e nel riconoscimento della dignità dell’atto generativo. Due sottolineature. La prima è il riconoscimento che il magistero non intende impegnarsi nella definizione dello statuto ontologico dell’embrione. Si riconosce che questa questione impegna in un’affermazione di indole filosofica estranea alle funzioni di discernimento della Chiesa. Una seconda sottolineatura viene dalla formulazione di un criterio generale per la valutazione dell’intervento tecnico nell’agire umano. Chiara Robbiati sacrificati gli zigoti comunque condannati ad una fine perché non più impiantabili. Questo significa però sottoporre l’embrione ad una logica strumentale, che lo riduce a mezzo in vista di un fine di ricerca pur nobile. Tale esito sarebbe gravemente lesivo della dignità dell’embrione. Legata alla ricerca sulle cellule staminali troviamo anche le pratiche di clonazione terapeutica. Il clone è copia identica del progenitore. Due sono i metodi possibili per la clonazione: lo splitting o il trasferimento nucleico. Nel primo caso la procedura consiste nel provocare e gestire il fenomeno della gemellazione dividendo gruppi di cellule nelle prime fasi dello sviluppo embrionale. Nel secondo caso si procede prendendo un ovulo femminile denucleandolo e inserendovi all’interno il nucleo di una cellula somatica dell’organismo da clonare. Il dibattito etico si è concentrato sull’applicazione di queste tecniche all’uomo. È unanime il rifiuto di clonazione per finalità riproduttive, mentre le posizioni si differenziano a riguardo della cosiddetta “clonazione terapeutica”. Essa prevede l’applicazione delle medesime procedure, bloccando però lo sviluppo embrionale nei primi stadi. Lo scopo di questa pratica è la produzione di cellule staminali totipotenti assolutamente compatibili con l’individuo, essendone una copia genetica. Questo materiale, successivamente coltivato in vitro, può sviluppare tessuti e potenzialmente anche organi utili poi ad una terapia o ad un trapianto. Ciò che non deve essere trascurato in una valutazione etica è il fatto che, nonostante la differenza terminologica, la clonazione terapeutica, coma le riproduttiva, sia per finalità sperimentali che di cura, si avvale delle medesime procedure e comporta la produzione di un embrione umano. Per quanto la ricerca della salute e l’aumento delle conoscenze tecnico-scientifiche siano espressioni importanti della libertà dell’uomo e delle istituzioni sociali, esse non possono essere ottenute al prezzo di un utilizzo strumentale dell’embrione, che custodisce la stessa dignità della persona umana. L’etica animata da una carità intelligente appare quindi il centro di ogni prospettiva aperta alla famiglia umana. Un nuovo modo di morire? Di fronte alla morte si fugge. Questo fenomeno ha radici strette attorno a quell’istinto fondamentale di ogni essere vivente che è la sopravvivenza. L’esperienza del morire oggi La dimensione bio-fisiologica L’inaugurazione degli strumenti di rianimazione e la chirurgia dei trapianti ha modificato il momento del morire e l’immagine del cadavere. La morte è un processo. La diagnosi di morte viene oggi emessa misurando la totale assenza di attività cerebrale per un opportuno arco di tempo. Da un lato si sono schierati coloro che non ritengono sufficiente la certificazione della morte di un solo organo per definire il morire di un uomo e quindi difendono il criterio tradizionale. Dall’altra coloro che, riconoscendo la morte come un processo, ritengono sufficiente la definitiva perdita della coscienza per definire morto l’individuo come persona. In questo secondo caso basta quindi la certificazione della compromissione delle strutture deputate alla coscienza per definire il decesso. La definizione fisiologica di morte rimane la distruzione di un organismo in quanto organismo, cioè in quanto capacità di funzionare come tutto coordinato. La dimensione psichica Non esiste la morte in sé, esiste invece la persona che muore. Lo studio della dottoressa Elisabeth Kubler- Ross permette di comprendere la dinamica psichica che accompagna la coscienza di colui/colei che muore. L’impatto iniziale con la consapevolezza di una morte prossima o di una malattia inguaribile provoca, dopo uno shock iniziale, una situazione di rifiuto. Quando la prima fase di rifiuto non può più durare, viene sostituita da sentimenti di rabbia. Presto ci si rende conto che l’ira non conduce da nessuna parte e si tenta allora di scendere a patti. Si configura una terza fase, quella della negoziazione. Il malato vede il disfarsi della propria immagine corporea. Tutto ciò sfocia in un senso di depressione. Il morente potrà raggiungere uno stadio di accoglienza del proprio destino. Non si tratta di una fase di gioia, ma di comprensione di un passaggio ormai inevitabile, di una passività alla quale ci si abbandona. L’abbandono genera serenità. Chiara Robbiati C’è un tratto però che sembra accomunare tutti questi momenti del morire: è la speranza. Ciò che appare necessario è un contesto relazionale fondato su una comunicazione profonda e rispettosa. Una comunicazione che sappia ascoltare le varie domande del malato, anche quelle più drammatiche, senza averne timore, senza sminuirle, ma anche senza ritenerle l’ultima parola. La dimensione sociale Due principali radici: anzitutto un secolarismo che ha tolto i linguaggi per dire la morte. Il rifiuto di ogni forma di ritualità sembra aver abbattuto le “maschere” che formano quell’insieme di luoghi comuni entro cui gli uomini si scambiano continuamente le loro esperienze di dolore e dove il parlare diviene legittimo. A questo si aggiunge l’edonismo di una società capitalistica. La vita si rifugia nell’artificio laddove la natura conduce alla morte. Il mondo reale è sostituito dall’immagine che non ammette screzi, dagli oggetti che rimangono dopo di noi, dalla grandezza delle opere che sfidano il tempo. La modernizzazione, attraverso l’individualismo e la privatizzazione dei sentimenti, ha avuto la necessità di trovare un nuovo ambito in cui porre la morte. A questo scopo gli si è fatta incontro la medicina. L’arte medica si è presentata sufficientemente sicura per richiudervi il dolore e la morte. Il più grande rischio è essenzialmente la solitudine di degenti in reparti di rianimazione, l’indifferenza delle comunità di fronte alla scomparsa di loro membri, all’assenza delle persone care al momento del trapasso. Il medico e l’équipe a lui legata, in quanto detentori delle conoscenze e possibilità tecnologiche e terapeutiche che si applicano alla condizione del paziente, sappiano anche automaticamente quale sia il bene per il malato moribondo. Questo modello interpretativo dell’arte medica si lega all’attribuzione di prerogative carismatiche al curatore quasi al detentore di poteri divinatori e taumaturgici. In opposizione a questo modello paternalista, è andato emergendo in questi ultimi anni, grazie all’ingresso dei valori liberali e democratici nella medicina, l’affermazione di un principio di autonomia del paziente di fronte alle terapie. Al medico è chiesta solo la competenza tecnica per eseguire, in modo asettico e impersonale, le richieste del morente. Bisogna integrare gli elementi positivi delle due posizioni. Di fronte al morente è auspicabile una medicina capace di farsi carico della morte, non meno di quanto si faccia carico della salute e della guarigione, capace di accompagnare la persona che muore rispettandone i tempi e le legittime scelte. Si tratta di costruire un’alleanza terapeutica. La dimensione teologica L’esperienza del morire pone la questione del senso: perché esiste la morte? Perché si muore? Perché io muoio? La domanda diventa invocazione, lamento, urlo che chiede una risposta trascendente. La morte è vissuta come violenza indesiderata che entra nella nostra vita e ci travolge passivamente. Si percepisce la dinamica attiva di un morire assunto come atto estremo del vivere, come manifestazione dell’uomo come uomo. Solo l’attimo del morire permette una piena presenza dell’uomo a sé stesso. La morte compie la libertà perché nel momento in cui essa si decide verso questo evento non può più porsi e diventa così indisponibile a sé. La morte è realizzazione piena dell’opzione definitiva della libertà. La sintesi dell’agire La morte è momento del vivere, momento supremo in cui il vivente si confronta con la propria umanità limitata e con la propria storia per consegnarsi alla definitività. È necessario preservare questo momento da ogni tipo di invasione indebita. È importante garantire anche spazi fisici che custodiscano il grande valore etico e personale del morire dell’uomo, come decisione finale della sua vita, congedo dai suoi affetti, rilettura sul vissuto. Si deve fare di tutto per facilitare l’assistenza domiciliare e la promozione di hospices specializzati per l’accompagnamento degli ultimi momenti. Interpretazioni in autentiche del morire: eutanasia ed esubero terapeutico Chiarificazione dei termini in gioco: eutanasia Chiara Robbiati “Eutanasia” significava “morte bella” e indicava la ricerca di tutte le condizioni affinchè il soggetto potesse vivere una morte degna del suo stato di uomo e cittadino. Con l’epoca moderna il termine si è piegato ad un atto che procura o accelera la morte al fine di alleviare le sofferenze. Oggi, con eutanasia si intende la scelta che per struttura propria dell’atto o per deliberata intenzione del soggetto agente, procuri la morte in una persona per compassione verso la sua condizione di sofferente o di malato in stato ritenuto disumano. Sembra si debba abbandonare la distinzione tra eutanasia attiva o passiva: la prima sarebbe intesa come l’agire di chi attivamente pone in essere un insieme di strategie che procurino la morte, mentre nel secondo caso si riconosce il movimento di chi omette o sospende un’azione in grado di impedire la morte. L’uccidere al fine di alleviare le sofferenze è sempre eutanasia, mentre il lasciar morire può esserlo, ma non necessariamente. Ulteriore distinzione da superare, è quella tra eutanasia diretta ed indiretta. Solo la prima si configura come un illecito morale, mentre la seconda rientra nella possibile assunzione di conseguenze in vista di una finalità positiva. Solo quando l’intenzione è diretta all’uccisione si può parlare di eutanasia. Nel secondo caso non siamo di fronte ad eutanasia. Infatti, la somministrazione di un farmaco analgesico, nelle dosi e nei modi corretti, intende lenire il dolore, non procurare la morte. Si tratta del principio del duplice effetto. In esso si afferma che una conseguenza negativa può essere assunta in un atto moralmente lecito sotto determinate condizioni: l’azione posta deve essere in sé buona o moralmente neutra; la volontà deve essere diretta all’effetto buono; ci deve essere una ragione proporzionata che giustifichi la conseguenza negativa. Un’ultima chiarificazione terminologica riguarda l’uso dell’espressione suicidio assistito. Si intende qui specificare la situazione in cui l’operatore non agisce in prima persona nel procurare la morte, ma fornisce al malato le conoscenze e gli strumenti affinchè lui possa procedere da solo. Chiarificazione dei termini in gioco: esubero terapeutico Si tratta della dilazione ad oltranza della morte attraverso l’utilizzo delle tecniche mediche e in nome di un vitalismo che difende la vita biologica ad ogni costo. La valutazione etica Si riconosce sia nell’eutanasia che nell’esubero terapeutico espressioni della stessa dinamica di fuga dall’evento del morire. Il compito etico di un’interpretazione del sé nel proprio morire chiede invece di trovare un equilibrio nella ricerca di cure proporzionate. Ogni mezzo sperimentale è lecito con il consenso del paziente, nel caso però non si abbiano altre terapie a disposizione o comunque la sperimentazione non contrasti con una terapia in corso. Uso di questi mezzi deve essere sempre sospendibile su valutazione del paziente o dei familiari. Nell’imminenza e nella certezza della morte è lecito rinunciare a qualunque trattamento ritenuto eccessivo senza però interrompere le cosiddette cure normali dovute ad ogni persona. Gli elementi che non possono essere persi sono le condizioni reali in cui il soggetto si trova, i dati attorno all’atto medico in questione, la consapevolezza delle proprie capacità psico-fisiche, la considerazione di coloro che sono prossimi, la propria visione di vita e i propri valori. La garanzia di autenticità corrisponde alla qualità della coscienza che raccoglie gli elementi e decide. Difficilmente una coscienza che si è abituata a forme in autentiche nel corso della sua vita potrà essere in grado di esprimere un giudizio oggettivo di fronte ad un passo così importante. È allora necessario formare e custodire coscienze capaci di giudizi oggettivi. Ciò è possibile solo in un’autenticità del vivere che ne riconosca ed esprima i caratteri relazionali e trascendenti. La vita diventa paratio ad mortem. Questioni aperte: le “cure normali” e le direttive anticipate di trattamento La sospensione di ogni terapia non ammette la sottrazione al morente delle “cure normali”. Il problema riguarda casi in cui queste cure, come l’idratazione e l’alimentazione, vengono svolte in un contesto di ospedalizzazione e di procedura tecnica. Le procedure di idratazione e alimentazione artificiale non possono essere giudicate negativamente in nome dell’artificialità: si è più volte visto come la tecnica sia parte del normale agire. Chiara Robbiati Perché una coppia possa costituire una realtà solida e duratura, deve essere formata da due individui differenziati e individuati sia nei confronti delle famiglie di origine, sia tra i membri della coppia stessa. Ora, questa realtà è sempre più difficile che si realizzi nella nostra società. La “rinegoziazione” dei ruoli: la fatica della quotidianità Nel contesto della “privatezza” del legame, i coniugi si trovano soli e spesso solitari nel prendere sia le decisioni fondamentali che quelle quotidiane della loro vita persona e di coppia. I mutamenti introdotti nei ruoli socialmente riconosciuti all’essere maschio o femmina, comportano una serie di modifiche nella gestione degli ambiti vitali. Sulle minute esigenze della realtà quotidiana nascono frequenti motivi di conflitto. Ora che i ruoli sono intercambiabili e non ci sono più nette divisioni dei compiti fra uomo e donna, fra moglie e marito, ogni giorno si devono rinegoziare semplici incombenze. Le vicende dell’amore si scontrano con la fatica della quotidianità e su questo spesso cedono, cadono, falliscono. La “fragilità” matrimoniale: la gradualità della storia Le vicende dell’amore di coppia inducono le nuove generazioni a preferire modelli di relazione affettiva meno vincolanti, più elastici, meno “imbrigliati” rispetto a quello matrimoniale. Trasformazioni: a) diminuisce drasticamente la dimensione numerica dei nuclei di convivenza; b) cresce l’età al primo matrimonio; c) aumentano i separati e i divorziati; d) decrescono i nuovi coniugi; e) cala il tasso di fecondità; f) il panorama delle convivenze si frammenta. Il modello tradizionale di famiglia si scompone in più modelli. Il sacramento dell’amore Ciò che della relazione amorosa sembrava “enigmatico”, si svelerà come “misterioso”, cioè portatore dell’identità di Dio, Mistero d’Amore. L’evidenza ecclesiale: il matrimonio celebrato La Chiesa si presenta con una realtà che ha una sua visibilità: il rito. In chiesa, la comunità cristiana propone alle coppie di compiere un rito particolare, nella convinzione che le modalità in cui si celebra veicolano e consentono l’accesso ai significati e alla realtà che sono invocati. Il rapporto tra rito e significato Il dono della grazia sacramentale non si dà a prescindere dalla sua celebrazione in un rito. Se la riflessione teologica vuole sondarne il significato è lì che deve attingere la sua conoscenza; se la prassi credente vuole sapere come la forza dello Spirito Santo costituisca e sostenga la vita dei coniugi dovrà andare lì a chiedere; se la disciplina canonica vorrà essere al servizio dell’incontro fra i doni di Dio e il suo popolo dovrà lasciarsi plasmare dai significati lì celebrati; se la pedagogia cristiana vorrà identificare percorsi proficui per presentare il valore dell’amore coniugale e attirarvi le nuove generazioni sarà chiamata ad ascoltare quella “voce”. Le linee-guida della celebrazione Tra le principali motivazioni che hanno reso necessario l’adattamento si segnalava: - una rinnovata coscienza ecclesiale del matrimonio maturata a partire dall’Esortazione apostolica Familiaris consortio di Giovanni Paolo II, che richiede che nel rito siano maggiormente esplicitati aspetti inerenti al senso cristiano del matrimonio; - una nuova situazione pastorale che rende necessario tener presente il caso di coppie che pur non avendo maturato un chiaro orientamento cristiano e non vivendo una piena appartenenza alla Chiesa, chiedono di celebrare cristianamente il matrimonio; Chiara Robbiati - varietà e ricchezza di testi eucologici; - introduzione di nuove sequenze rituali; - arricchimento del Lezionario. L’annuncio del Lezionario La coscienza ecclesiale ha saputo ritrovare in alcuni passi biblici la ferma decisione del Signore di costituire, fondare, confermare, benedire l’amore tra un uomo e una donna. La rivelazione biblica del “sacramento” Le “origini” del sacramento All’inizio del capitolo 19 del vangelo di Matteo si trova uno dei tentativi farisei di mettere in difficoltà Gesù. La questione è quella del ripudio della donna “per qualsiasi motivo”. “Separare” La Scrittura ci presenta il “fare” di Dio nell’opera creatrice come un “separare”. La parola efficace di Dio crea distinguendo: la luce è definita differenziandosi dalle tenebre; il cielo separa le acque che stanno “sotto” da quelle che stanno “sopra”; il mare si ritira per lasciare spazio alla terra; gli alberi sono diversi l’uno dall’altro; gli astri sono al servizio della distinzione tra giorno e notte e tra le stagioni; gli animali si moltiplicano nella loro varietà. Il “fare” di Dio quando separa non intende negare la comunione o dichiarare la “negatività” di tutto ciò che “non è Dio”, bensì porre le condizioni affinchè ogni cosa abbia la sua “autonomia”, che non potrà che essere una autonomia creaturale, cioè costitutivamente in relazione a Colui che l’ha posta in essere. “Li creò” La dinamica creativa “a coppie” pare venir meno in occasione della creazione dell’uomo: viene prima annunciata la creazione dell’uomo e solo alla fine si introduce la menzione di maschio e femmina. L’uomo viene indicato col termine adam. Il suo significato può essere quello generico di “umanità”, “genere umano”; se usato al singolare indica “appartenente alla specie umana”, “persona umana”; solo a partire da Gen 4 è riconoscibile l’uso come nome proprio di un uomo maschio. Quindi ciò che viene asserito dell’uomo deve essere inteso come riferito a entrambi i sessi: adam, la persona umana, è la coppia di maschio e femmina. Solitudine e coppia L’espressione “Non è bene che l’uomo sia solo”, sembra tra le più laiche ed ecumeniche: oggi la grande nemica che la nostra cultura tenta di fuggire è la solitudine. Gen 2 vuole scuotere il lettore parlando di una realtà che è “non buona”. Si intuisce che non si tratta solo della mancanza di una compagna, di una sposa, bensì della sensazione di smarrimento dell’uomo che non ha di fronte a sé una donna, nel senso di un essere sessualmente differente. È come se il “maschio” sentisse di non poter accogliere la sfida che proviene dall’essere in relazione con la “differente”, poiché lui stesso, se rimanesse solo, non riuscirebbe a dare ragione della propria identità; la stessa mascolinità non troverebbe il suo significato; lo stesso si direbbe per la “femmina”, in una piena reciprocità. Questa solitudine in cui si troverebbe l’umanità, non sarebbe secondo la bontà/bellezza di Dio; tant’è che lo stesso Signore Dio a porre la decisione dell’alterità: “gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”. Dio stesso si fa carico di offrire all’uomo una compagna che nella similitudine dell’essere “carne della sua carne”, gli manifesta la sua concreta somiglianza con Dio. Questa ricerca del “simile che sta di fronte” nasce da un insopprimibile desiderio, definibile con “eros”: grazie ad esso, l’uomo è portato ad abbandonare la presunzione di essere autosufficiente, del tutto completo in sé e autoreferenziale, cioè capace da solo di realizzare la propria vocazione di creatura in relazione al suo Creatore e alle altre creature. Chiara Robbiati L’unità nella diversità La ricerca dell’uomo trova pace: egli guarda la donna e la indica usando la terza persona singolare. È un’altra persona, cioè non è lui, è diversa da lui; però è “simile”, cioè non è un altro animale, essenzialmente diverso dall’uomo. La Bibbia usa due termini diversi: uomo-marito e donna-moglie. L’attrazione sessuale mette l’accento sul fatto che quando si ama una persona, la si ama completamente. La dimensione comunionale dell’“una caro” Le proprietà dell’amore sono tali che l’amata e l’amante non costituiscono più due esseri, ma uno solo; i due non si trovano solo uniti, ma sono uno, cioè uomo-donna, un “adamo” nel senso biblico, perché l’amore cambia la sostanza stessa delle cose. “Una sola carne” ha come sua caratteristica di unire i corpi e di essere aperta al dono del passaggio di questa vita alla prole. La sessualità è contrassegnata da un orientamento verso l’alto; è energia che include l’apertura verso l’Altro, verso il Tu assoluto. È questa spinta alla trascendenza, che appartiene all’eros umano, la ragione per cui esso viene inserito nel circolo dell’agape, cioè della stessa realtà dell’amore di Dio. La relazione interpersonale è la dimensione più profonda del mistero di Dio. La sessualità umana va vissuta nel segno di una totale reciprocità interpersonale ispirata ad un atteggiamento di assoluta gratuità. Fino a quando la relazione amorosa non sarà tradita, le identità in relazione saranno piene, integre, in completa donazione: “erano nudi e non ne provavano vergogna”. Il “mistero” del e nel matrimonio Essere “sottomessi gli uni agli altri” è una declinazione del camminare nell’amore, legge fondamentale dei rapporti interpersonali all’interno della comunità, senza differenza di condizione, di età e di sesso. Quando si è reciprocamente sottomessi, non può esservi un “superiore” e un “inferiore” nel senso di una supremazia. Nel timore di Cristo, cioè nel riconoscimento della sua signoria e nella disposizione alla sequela di Lui, inteso come “capo”. La comunione che Egli porta è un’unione nuova, costituita nella sua carne: il sangue nel quale viene stipulata la “Nuova Alleanza” è il sangue del nuovo e definitivo Agnello, quello stesso Verbo di Dio che si fa vicino in modo inaudito alla vita delle sue creature. L’unione tra Cristo e la Chiesa trova la sua massima espressione nell’evento della Pasqua, in cui lo Sposo si prende cura della propria Sposa col gesto supremo del dare la vita per lei. Amore coniugale: conoscenza e reciprocità, comunanza e diversità, obbedienza e rivelazione, intesa e proiezione verso l’esterno, fecondità e fedeltà. Si gode della comunione trinitaria a partire dalla modalità concreta rivelata da Gesù. Si può parlare di “divinizzazione” delle creature come “filiazione”: la rivelazione da parte di Cristo dell’amore del Padre e della sua comunione con lui chiama l’umanità a farsi “figlia” nello Spirito Santo, come Cristo è Figlio. La Chiesa “si lascia fare” dall’amore del Figlio e, conquistata da lui, dispone tutta se stessa a “rispondere” all’amore convocando tutti gli uomini alla tavola dell’amore. La nostra unione con Cristo non è solo un evento spirituale, ma anche “fisico”, come quella coniugale. Cristo redime i nostri corpi, così come le nostre anime. Stessa cosa nel matrimonio: si salvano le anime, ma trovano redenzione pure i corpi. Il sacramento delle origini Dio è amore e ovunque crea e diffonde amore. Dio si disporrà verso il suo popolo con la stessa intensità di uno sposo appassionato, fedele, disposto al perdono, capace di pagare di persona per il bene dell’amata. Tutti i beni di cui gode l’intera umanità, ed in particolare la comunità cristiana, possono essere interpretati come doni d’amore dello Sposo per la sua Sposa, la quale ne ricava gratificazione sponsale, ovvero gioia, godimento, senso di pienezza, vita e vitalità. La Chiesa Sposa risulta essere solo “beneficiaria” di tali doni, ma attiva nell’atteggiamento “sponsale”, ovvero rispondente con tutta se stessa alla proposta d’amore del Cristo-Sposo. Chiara Robbiati La “totalità” dell’amore coniugale è espressa dalle parole del reciproco consenso degli sposi: “Io accolgo te, come mio sposo”. Nel riceversi e nel donarsi come sposi è già implicita l’aspirazione e l’esigenza della “fedeltà” (“e prometto di esserti fedele”. La promessa di essere fedele viene poi subito precisata con il “sempre”, cosicchè si delinea l’indissolubilità dell’amore matrimoniale. La qualità del matrimonio viene specificata “nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia” e per tutta la durata della vita: “e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”. Nel riceversi e nel donarsi all’altro come sposo è già inscritta anche la fecondità dell’amore. Se è vero che il sacramento del matrimonio è celebrato in un momento puntuale e insostituibile della storia di un uomo e di una donna, è altrettanto vero che la grazia sacramentale si distende nel corso dell’intera loro vita. La grazia non smette di attirarli nella verità tutta intera dell’amore cristiano. La vita familiare è dunque “tempo di grazia”, “spazio di salvezza”, nel quale in coppia ci si dirige verso la meta, cioè la qualità sponsale dell’amore di Cristo verso la Chiesa sua Sposa. I sentieri dell’amore La vita, anche quella matrimoniale, è interpretata come un viaggio. È necessario riscoprire il vero significato della morale cristiana. Essa non deve essere confusa con il moralismo o il legalismo, ma va vista come impegno della propria libertà e della propria coscienza a ricercare il bene e a dargli attuazione. Le norme e le regole sono da interpretare come un dono che ci viene fatto da Dio per aiutarci a cogliere la verità di noi stessi. Questo vale a livello personale: il comportamento morale consiste nel vivere secondo la nostra dignità di persone create a immagine e somiglianza di Dio. Per la vita matrimoniale il punto di partenza è la realtà nuova che si instaura col patto matrimoniale, cioè l’amore coniugale. Sentieri che si aprono Quando e dove comincia la “via dell’amore”? Dal grembo materno, cioè da quando la nuova creatura percepisce che il suo stesso esistere trae origine, conserva il respiro e prende forza da un “gesto” d’amore tra un uomo e una donna, posto all’interno di una storia d’amore. L’educazione dei cuori L’esortazione apostolica Familiaris Consortio identifica tre fasi della preparazione al matrimonio: una preparazione remota, una prossima e una immediata, in un processo graduale e continuo che va dall’infanzia alla vigilanza delle nozze, coinvolgendo i genitori, gli operatori pastorali, i pastori della comunità, gli stessi giovani. La cura dei fidanzati l’uno per l’altra Quando due credenti si aprono all’amore, il compito di prendersi cura reciprocamente l’uno dell’altra diventa un dovere morale della coppia. Rupnik raccoglie alcuni pilastri basilari di un itinerario che gli innamorati possono costruire e verificare: i fidanzati stessi prendano coscienza e decidano di dare vita e di applicarsi in un cammino che tende al sacramento, e si dispongano affinchè tale cammino sia dichiarato, celebrato, riconosciuto anche “oltre” loro due; la coppia abbia un interlocutore spirituale, che la aiuti a rileggere sapienzialmente la sua vicenda; nella stessa linea, le famiglie d’origine e quelle degli amici siano ambiti ascoltati per un discernimento sulla qualità di un amore di coppia che non si chiude, ma anzi è “verificato” dalla sua capacità di distendersi anzitutto sui più “prossimi”; tra gli obiettivi ci sia la franchezza di rivelarsi l’uno all’altra in modo sempre più completo, col sano desiderio di crescere nella conoscenza amorevole di sé e dell’altro/a; ci sia la gioia di “annaffiare” le radici l’uno dell’altra, cioè si lavori insieme per il sostegno di ciò che edifica ciascuno dei due e quindi entrambi; si cresca nel gusto per la preghiera condivisa, in cui si affinano i “gusti spirituali” reciproci; i fidanzati dedichino un’apposita cura alla preparazione di una profonda, significativa, piena vita Chiara Robbiati sessuale, che non si inventa, non si improvvisa, non sia data per scontata; sulla scia della tradizione della “regola di vita”, i fidanzati stendano un sobrio “diario dell’amore”, in cui fare memoria delle opere di Dio in loro, identifichino i bisogni spirituali e relazionali, assumano gli impegni per la loro concretezza; un’attenzione particolare è bene sia dedicata alla formazione all’arte del perdono reciproco, che schiude ad inedite “rinnovazioni” dell’alleanza coniugale. Sentieri quotidiani Giunti alla celebrazione nuziale si dà avvio alla vita coniugale. Affinchè l’amore di Cristo innervi la vicenda amorosa di un uomo e di una donna è necessario che ciascuno dei due sia inserito in Cristo. Solo in questo caso potranno vivere la loro relazione all’insegna del suo comandamento nuovo: “che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri”. La spiritualità coniugale La parola “spiritualità” è intesa come la vita secondo lo Spirito del Signore Risorto, cioè vita nell’amore. Nel sacramento il dono di Dio e il compito della coppia vengono articolati in modo tale che Colui che viene donato è proprio Colui che rende possibile ed esalta la capacità di coloro che lo ricevono. L’etica matrimoniale L’etica matrimoniale si pone al servizio di una risposta completa all’attrazione dello Spirito: le esigenze che rendono autentico l’amore coniugale che desidera essere sacramento non solo altro rispetto alle leggi della morale matrimoniale, che indica le condizioni affinchè esso possa realizzarsi in modo pieno. Totalità, fedeltà, indissolubilità, fecondità sono le caratteristiche che le regole morali intendono salvaguardare e favorire. Donarsi e accogliersi totalmente Essere sacramento dell’amore totale di Cristo implica che ciascuno dei due orienti se stesso all’unione con l’altro/a. Il corpo fa riferimento alla gestualità erotica e alla capacità procreativa; la mente riguarda la dimensione psichica dei pensieri e dei sentimenti; il cuore indica la dimensione spirituale della scelta libera, cioè consapevole e volontaria. A livello del corpo si tratterà di educare le proprie pulsioni erotiche e di conoscere la propria fertilità; a livello della mente si tratterà di imparare a vivere i propri pensieri e sentimenti senza fuggire dalla realtà; a livello del cuore, si tratterà di non lasciarsi tiranneggiare dalle voglie irrobustendo la propria capacità di scegliere con decisione e con costanza. La regola della “castità matrimoniale” mette in luce lo scadere dell’amore sessuale al solo congiungimento dei corpi senza sentimento e attenzione, per la ricerca esclusiva del piacere erotico o della procreazione. La castità è l’arte di parlare l’amore personale mediante il linguaggio dell’eros. Essere unicamente dell’altro/a La comunione amorosa integrale, giungendo fino all’intimità sessuale, assegna alla relazione amorosa il carattere di esclusività. Ci saranno anche “altri” nella vita di due coniugi, ma “come” il proprio coniuge non ci sarà nessun altro. Rimanere con l’altro/a L’io e il tu diventano “una carne sola” nel tempo. La totalità del dono reciproco si raggiunge solo nel tempo. Dare vita ad altro/i L’amore integrale è gravido di fecondità. C’è una fecondità interpersonale mediante la quale i due crescono, camminano, si amano nel tempo: il primo frutto della coppia è la coppia stessa. C’è inoltre una fecondità sociale della coppia, che si esprime nell’accoglienza, nell’ospitalità, nella relazione con altre famiglie. C’è una fecondità spirituale. Avviene quando due persone comunicano in profondità la loro vita, aiutandosi reciprocamente a rinascere come persone nuove. La comunione amorosa integrale,giungendo fino all’intimità sessuale, può infatti generare un’altra vita, dare vita al figlio. Chiara Robbiati La contraccezione è l’esclusione positiva e diretta della facoltà generativa, attraverso alcuni impedimenti posti alla totalità della comunione interpersonale. I “metodi naturali” rispettano il ciclo della fertilità della donna, permettendo la regolazione naturale della fecondità, determinata secondo criteri di responsabilità, senza penalizzare la comunione integrale dei corpi dei coniugi. Sentieri tortuosi Il criterio fondamentale Affinchè l’amore di Cristo circoli come linfa nella vita di una coppia non è sufficiente che essi dichiarino di credere: è necessario che lo frequentino. Una relazione amorosa vive del vivo contatto. Essendo il vissuto ciò che testimonia l’effettivo inserimento in Cristo, per valutarne la consistenza si dovrà guardare più alla qualità del vissuto amoroso che non alla correttezza formale, civile o ecclesiastica. Le situazioni matrimoniali irregolari L’irregolarità matrimoniale è il “peccato” e da questo punto di vista ogni matrimonio sarebbe “irregolare”, poiché non praticherebbe mai pienamente la carità di Cristo, che si pone come regola della morale cristiana. Con “irregolare” non si intende esprimere un giudizio di tipo morale sulle singole persone, ma solo indicare lo stato di vita dei battezzati che vivono coniugalmente senza il sacramento del matrimonio. C’è distinzione tra situazioni “difficili” (divorziati e separati) e situazioni “irregolari” (divorziati risposati, sposati solo civilmente, conviventi). La Chiesa cattolica ritiene di non poter ammettere queste persone alla riconciliazione sacramentale e alla comunione eucaristica. La cura ecclesiale La Chiesa deve ricordare che quanti vivono in una situazione matrimoniale irregolare, pur continuando ad appartenere alla Chiesa, non sono in “piena” comunione con essa. Non lo sono perché la loro condizione di vita è in contraddizione con il Vangelo di Gesù, che propone ed esige dai cristiani un matrimonio celebrato nel Signore, indissolubile e fedele. Vicini a chi ha il cuore ferito Il magistero chiede di essere attenti al discernimento delle diverse situazioni che il fallimento del rapporto matrimoniale giunge a configurare, cercando di identificare il bene e la premura adatte a ciascuno dei soggetti coinvolti. C’è differenza tra quanti sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del tutto ingiustamente, e quanti per loro grave colpa hanno distrutto un matrimonio canonicamente valido. Percorsi ulteriori Secondo la dottrina ortodossa, il matrimonio è indissolubile e contratto a vita in conformità con le parole del Signore. Si tratterebbe di un’indissolubilità condizionata del matrimonio, dal momento che il divorzio è concesso solo in casi specifici. Anche per la Chiesa ortodossa il matrimonio è unico ed è sacramento, ma se fallisce, la Chiesa si pone il problema della salute spirituale degli sposi e delle loro anime affinchè non si perdano. Le Chiese orientali giungono a differenti conclusioni teologiche e pastorali. La Chiesa non scoglie il vincolo del matrimonio, ma prende atto di un male operato contro Dio e contro la Chiesa dai coniugi divorziati e decide l’atteggiamento da usarsi per chi torna pentito. Negare la pienezza del valore sacramentale delle seconde nozze non vuol dire che esse non abbiano alcun valore sacramentale. L’attuale disciplina della Chiesa che richiede a chi vive coniugalmente senza il sacramento del matrimonio di non ricevere i sacramenti, non impedisca loro di essere raggiunti dallo Spirito amorevole di Cristo. PERSONA E SOCIETÀ: Un’etica sociale cristiana Sguardo all’attuale fenomeno sociale Chiara Robbiati - a entrambi senza distinguerli: sovrapponendo i due Regni, fino a confonderli; ipotizzando magari una società e una politica idealmente coincidenti con le attese della fede. La lettura più corretta del duplice rendere, a Dio e a Cesare, prevede la composizione nella distinzione. Il Regno di Dio ha attese ben più profonde, ultime, qualitativamente e infinitamente superiori rispetto al regno di Cesare, che non salva, ma non può e deve realizzare una serie di beni per la società, anzi, quello che tradizionalmente sarà riconosciuto come il “bene comune”. In questa logica si colloca il tema della laicità della politica, intesa non come separazione assoluta, ma come corretta relazione della politica a ciò che la supera, a ciò che la politica stessa non può raggiungere: la verità, il senso ultimo della vita sociale. Il cristiano non potrà mai fare della sua fede una scusante per sottrarsi all’impegno sociale e politico, perché è volontà di Dio che egli si faccia carico anche di rendere a Cesare. Anche il regno di Cesare ha un posto, infatti, nel piano di Dio. Prospettiva ultima è allora che il cristiano veda i due regni non contrapposti, né separati, né affiancati, né giustapposti, ma l’uno relativizzato, finalizzato all’altro. Nel Regno di Dio confluirà anche il regno di Cesare: anzi, proprio lì troverà compimento, purificazione, elevazione, pienezza. Paolo e gli altri scritti del NT I principali atteggiamenti della Chiesa apostolica in riferimento alla società sono: - la lealtà nei riguardi dell’autorità. Per essere autentica, deve essere integrata da due atteggiamenti: - la distanza critica dai poteri terreni; - la contrapposizione radicale alle richieste del potere qualora esso giunga ad assolutizzare sé stesso. Il culmine della rivelazione neotestamentaria circa l’agire sociale è la “carità”, pienezza di ogni giustizia. In Gesù di Nazareth soltanto si compie ogni giustizia ed ogni agape; in Lui e nel suo Spirito la comunità dei discepoli è chiamata a rivivere, a comprendere ed approfondire il suo Mistero e la sua vicenda assolutamente singolare anche nelle dimensioni relazionali. L’agape esprime la realtà stessa di Dio, la sua opera, il suo porsi definitivo e perfetto nei riguardi dell’uomo. L’esigenza di un Fondamento Gesù è il solo Giusto: in Lui si rivela la giustizia autentica, la piena solidarietà con l’umanità. Circa il fenomeno sociale Le relazioni si presentano nella loro verità come vincolo. Riconoscere la verità della società significa crescere nella consapevolezza del valore dell’essere obiettivamente inseriti, insieme, in una determinata società, cultura, storia, e via dicendo, così da saper realmente apprezzare la presenza dell’altro, non potenziale avversario ma nativamente fratello. Circa la prospettiva etico-sociale Le relazioni si presentano come occasione di solidarietà, di condivisione; come opportunità di essere con e per l’altro. Riconoscere la verità della società significa cogliere l’importanza di un agire sociale, in cui cioè si ricerchi anzitutto il bene dell’altro e di tutti, insieme. Circa la verità ultima della società La Scrittura rivela una più profonda verità delle relazioni, interpersonali e sociali; la forma più originaria delle relazioni si manifesta dall’altro, e soprattutto dall’Altro. Siamo fruitori, fin dal nostro nascere, di un immenso patrimonio di valori, di sapere, di condizioni di vita create da altri per noi; nascere in un determinato contesto sociale piuttosto che in un altro pone già differenze straordinarie quanto a possibilità e qualità di vita. Dio e gli altri devono avere il primato assoluto in ogni azione, anche sociale. Riconoscere la verità della società implica, a questo ultimo livello, uno sguardo di autentico stupore nei riguardi della società; quello, probabilmente, a noi meno consueto. Un’economia a servizio dell’uomo Chiara Robbiati Introduzione all’etica delle relazioni economiche Che cos’è “economia”? L’economia concerne le norme di condotta per coloro che coabitano. L’economia si occupa di un aspetto dell’abitare il mondo da parte dell’uomo, quello legato ai suoi bisogni, nel senso di realtà necessarie o quanto meno utili e con ciò promettenti in ordine al suo vivere. L’uomo riconosce una serie di bisogni. L’economia si occupa di quei bisogni dell’uomo per cui possono essere soddisfatti mediante beni scambiabili, dotati quindi di un certo valore di scambio, riconosciuto o quanto meno riconoscibile. In questo senso, si parla di bisogni e di beni economici. I beni economici possiedono attitudini in grado di soddisfare alcuni aspetti dei bisogni umani. Tale attitudine è detta utilità; un bene è tanto più utile quanto più è in grado di soddisfare bisogni molteplici o ricorrenti. Il problema economico sorge in quanto i bisogni e beni economici si presentano contrapposti quanto a disponibilità: - i bisogni si presentano come tendenzialmente illimitati oltre che ricorrenti; illimitati nello spazio, quanto a quantità e qualità, e nel tempo; - i beni si presentano come tendenzialmente scarsi, limitati: sia in senso quantitativo e qualitativo, sia in senso temporale. Tra bisogni e beni, la mediazione è istituita dai valori. Il valore è giudizio di apprezzamento circa la capacità di un determinato bene di soddisfare un determinato bisogno. Le sue due componenti sono: il giudizio circa il valore d’uso di un bene e il suo valore di scambio, ossia quello derivante dalla sua stima intersoggettiva o meglio ancora, sociale, che si dà su di un mercato. I tre momenti fondamentali in cui l’attività economica può essere ripartita, sono connessi: - alla produzione; - alla distribuzione; - al consumo. Ai tre momenti fondamentali si possono aggiungere l’estinzione e il riciclo. Tra i momenti fondamentali dell’attività economica vi è una relazione di circolarità. L’economia si presenta come “fenomeno antropologico”. L’evolvere della questione etica in economia Nel corso della storia sono riconoscibili alcune gradi tappe di sviluppo dell’attività economica e della corrispondente questione etico-sociale: - l’economia nel mondo antico. Le forme consuete dello scambio e il manifestarsi del problema etico- sociale riguardano l’economia del baratto. Lo schema è quello di MERCE-MERCE; - l’economica all’epoca dello sviluppo dei mercati mediante l’intermediazione monetaria. Lo schema può essere rappresentato come MERCE-DENARO-MERCE; - l’economia industriale. Lo schema diventa DENARO-MERCE-DENARO. Cresce l’importanza dell’economia politica e della politica economica. I presupposti del liberalismo economico sono la libera concorrenza, l’individualismo e l’assenteismo statale. In esso, il modello culturalmente vincente è l’utilitarismo. - L’economia post-industriale è un’economia finanziaria, informatizzata, globalizzata; la new economy risulta strettamente legata alle nuove, elevate tecnologie. Lo schema è quello del DENARO-DENARO. L’economia post-industriale risulta intrecciata con la globalizzazione. La globalizzazione è un fenomeno carico di forti ambivalenze, di grandi promesse come pure di gravissimi oneri ai quali non sembra possibile far fronte adeguatamente. Cenni ai fondamenti dell’agire etico in economia Nell’Antico Testamento affiora un giudizio ambivalente sulle ricchezze: possono essere segno positivo, addirittura di benedizione, quindi realtà favorevoli alla vita dell’uomo e alle sue relazioni, se sono acquisite e utilizzate in modo giusto; altrimenti, se sono frutto, segno, strumento di ingiustizia, il giudizio sul loro possesso/utilizzo è negativo. In questione essenzialmente è l’agire dell’uomo che ne fa uso. Chiara Robbiati Nel Nuovo Testamento le ricchezze sono il possesso smisurato e si manifestano come realtà fortemente ambivalenti, addirittura illusorie. Illudono l’uomo accecandolo, cioè impedendogli, in molti casi, di vedere correttamente la realtà. La ricchezza si presenta come un obiettivo vantaggio per l’uomo e per la sua vita: gli conferisce prestigio, onori e notorietà, può mutare a suo favore il corso delle relazioni sociali, lo rende sicuro riguardo al proprio avvenire, mostra di poter dilatare a dismisura le sue possibilità di scelta e di vita, lo mette in grado addirittura di farsi benefattore, di provvedere col suo ad altri, imitando Dio stesso; promette una vita migliore, più piena e più libera. La ricchezza, però, finisce per possedere l’uomo, per renderlo schiavo, asservito ai suoi possessi. Le ricchezze non mantengono, né sono in grado di mantenere le promesse di cui pure in apparenza sono valide portatrici: sono ingannevoli. Attraggono il cuore dell’uomo, accecandolo. Della povertà raccomandata dal vangelo, non si può fare l’ideologia. Il discepolo non è tale nella misura in cui meno possiede. Certo è che le ricchezze non sono realtà indifferenti all’accesso al Regno e alle modalità effettive del discepolato, comunque da sottoporsi al primato assoluto della carità. La predicazione di Gesù non afferma la necessità di “disfarsi ad ogni costo”, o comunque di distruggere i beni materiali in quanto segno negativo. Dei beni, i Dodici facevano evidentemente uso, come più volte attestato nei Vangeli: né, in ogni caso, Gesù ha esortato i suoi ad uscire dal quadro economico-sociale del suo tempo. Ciò che è lasciato, donato o condiviso, o posseduto ad esempio in comune, non è perduto, ma trasformato; non è più occasione di divisione e contrapposizione, ma di comunione. Il criterio evangelico ultimo per la gestione delle ricchezze è di sottoporle a due criteri di giudizio fondamentali: - il giudizio di Dio nella fede; - i bisogni dell’altro, e di tutti gli altri, nella prospettiva della carità. Il regno di Dio è la sola, vera, ricchezza in grado di colmare il cuore, le attese profonde dell’uomo. Ogni altro bene, pur benedetto da Dio, da Lui stesso voluto e donato all’uomo, ha senso per sostenere l’uomo entro la sua vicenda storica, in una logica di fraternità e condivisione. I beni della terra sono offerti all’umanità perché essa ne fruisca concordemente; perché siano occasione e motivo di unità, non di divisione. I beni vanno riconosciuti ultimamente come doni di Dio che devono giungere a sfamare molti; il “talento” trattenuto presso di sé, viceversa, rimane improduttivo, per sé e per gli altri. Etica dell’agire economico La finalità complessiva: produrre utilità o contribuire al bene comune? Il criterio più generale per un giudizio etico in economia consiste nella finalizzazione dell’utile al bene. Scopo dell’azienda non è la massimizzazione del profitto, quanto di fornire beni e servizi, utili ad altri, alle migliori condizioni compatibili con l’esigenza di una gestione ordinata, in grado di remunerare adeguatamente chi lavora in essa ed i fattori che consentono la produzione. Se i beni economici sono finalizzati all’uomo e non sono fini a se stessi, ciò che va migliorato e massimizzato è semmai altro: la qualità del prodotto o del servizio offerto; l’occupazione, ecc… All’opposto, la negazione dell’etica non dà buoni frutti neppure sul piano dell’utilità economica. Luoghi caratteristici della tensione tra eticità ed economia Il lavoro umano e le sue esigenze Il lavoro, per essere pienamente compreso, va inteso come vocazione originaria dell’uomo. Il lavoro è da cogliersi anche come grande opera ed occasione di solidarietà. Essenziali sono i diritti del lavoro, specialmente al giusto salario, quello in grado di soddisfare le necessità della propria persona, della propria famiglia, e a garantire, anche per mezzo dei sistemi di assicurazione sociale, il lavoratore dalle sue altre necessità. La più profonda interpretazione del lavoro concerne la sua dimensione teologica. Chiara Robbiati Quattro sono le figure dello Stato nazionale moderno: - assoluto; - liberale; - totalitario; - democratico. Nell’attuale epoca postmoderna prevale il tentativo di perseguire la giustizia per via politica. Emblematica è la teoria di John Rawls della giustizia come equità. La giustizia è il primo requisito delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero. Un duplice principio consente la realizzazione della giustizia: - un principio di giustizia come eguaglianza, in base al quale tutte le libertà, i diritti, i beni primari devono essere distribuiti in modo uguale entro una società. Beni primari sono: libertà di pensiero e libertà di coscienza, libertà di associazione, libertà politica; libertà di movimento e scelta di un’occupazione su uno sfondo di diverse opportunità; poteri e attribuzione di cariche e posizioni di responsabilità, specialmente entro le principali istituzioni di carattere politico ed economico; reddito e ricchezza sufficienti; le basi sociali del rispetto di sé; - il secondo principio, della giustizia come differenza, gerarchicamente subordinato al primo, tratta delle differenze ammissibili, in campo sociale, politico ed economico; esse possono essere accettabili, soltanto se rispondono al maggior vantaggio anche dei meno favoriti. Etica e politica nell’insegnamento sociale della Chiesa Fede, etica e società L’articolazione dell’agire politico comporta una triplice dimensione, tre differenti livelli ai quali può essere colto. Entro ogni azione o decisione politica si dà in modo riconoscibile l’aspetto dei beni sociali da essa prodotti, ma veicola un significato etico e teologico. Una politica puramente neutrale non esiste. L’azione politica non può dirsi autonoma in senso assoluto, prescindendo da ogni riferimento etico, perché comunque implica al suo interno almeno altri due livelli di significato più profondi. Ciò fonda le ulteriori possibilità di trattare di etica politica e dei rapporti tra fede e politica. Il progetto etico-politico della Dottrina Sociale della Chiesa I tre cardini della prospettiva etica sono i principi, i valori e le virtù. I grandi principi e il loro significato unitario È l’uomo il punto di convergenza dell’intera Dottrina Sociale della Chiesa. A lui fanno riferimento la totalità dei principi. Il principio personalista indica il centro e il senso ultimo della vita sociale, bene comune (e destinazione universale dei beni), sussidiarietà e solidarietà. Si tratta di sei principi che tutelano le grandi dimensioni del rapporto sociale. Lo svolgimento del disegno unitario deve essere elaborato a partire dai singoli principi. Anzitutto il primato della persona umana su ogni modalità della vita politica e sociale. Tale è il principio personalista. A riguardo della società civile e del suo primato nei confronti delle istituzioni vale il principio di sussidiarietà. A governare la politica è preposto il principio di solidarietà. Il principio del bene comune determina il fine al quale deve mirare l’intera azione politica. Da ultimo, la politica va ispirata al principio della partecipazione, affinchè la cittadinanza risulti matura. Democrazia, laicità e dialogo Nell’insegnamento sociale della Chiesa l’opzione preferenziale è per la democrazia. La laicità attiene a qualcosa che appartiene a tutti, indistintamente; qualcosa di comune, di appartenente a un intero popolo, che merita la considerazione di tutti. Chiara Robbiati Il riferimento alla laicità aiuta a comprendere come i valori non siano apprezzabili solo entro l’orizzonte dei credenti. Non si tratta infatti di valori esclusivi dell’interpretazione cristiana ma proponibili a tutti perché compresi esattamente come momenti, modalità del bene di tutti e non soltanto di alcuni. Una democrazia non può limitarsi ad amministrare un insieme di procedure e regole asettiche, in quanto suo compito principale è di garantire le condizioni alle quali un dialogo davvero fecondo, fruttuoso, costruttivo possa avvenire. Le “regole del gioco”, basilari in una democrazia, sono poste affinchè il gioco democratico, attuato sulle basi del dialogo, possa veramente attuarsi. Il dialogo non può limitarsi a pura formalità espressiva. Un diritto per la vera giustizia Legge e giustizia nella sacra Scrittura Nell’Antico Testamento la Legge è espressione dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo. In negativo, il significato della Legge è quello di delimitare il male. Nell’Antico testamento è possibile scoprire l’annuncio di una nuova Legge e di una nuova giustizia, di cui Dio solo è vero garante e custode. Nel Nuovo Testamento la sintesi contenuta nei versetti di Matteo offre una pista di riflessione che non toglie la differenza tra giustizia degli uomini e giustizia di Dio, né vanifica la prima, ma raccomanda che la tensione tra le due sia avvertita e vissuta in direzione della seconda e più alta. L’autentica giustizia, annunciata nella Scrittura come prerogativa esclusiva del Dio di Gesù Cristo (il solo Giusto), non può attestarsi al semplice livello dell’osservanza di procedure (Pilato) o delle tradizioni (i farisei). Essa impone piuttosto di mettersi in gioco, anche radicalmente, nei confronti della verità. Diritto, morale e costume nel corso della storia Le origini Il diritto costituisce la più generale mediazione sociale; tutela beni, valori, diritti che hanno rilevanza pubblica. Il diritto è dato per tutti e per sempre: è universale e perenne. L’epoca romana Nella classicità romana il diritto vanta il primato e una “pretesa” di intrinseca eticità. Fondamento del diritto è considerata la natura dell’uomo, ragione per cui i principi generali del diritto sono applicabili a chiunque, in ogni situazione, tra cittadini romani ma anche stranieri. Il motto è “vivere onestamente, non ledere gli altri, dare a ciascuno il suo”. L’epoca medievale e la sistemazione di S. Tommaso Nel Medioevo si verifica la massima vicinanza tra diritto e giustizia. La giustizia, considerata virtù, contempla tre forme: a. generale o legale; b. distributiva; c. commutativa. La stagione moderna L’intesa tra diritto e giustizia diviene sempre più faticosa. Diritto è ciò che è comandato dalla legittima autorità, quindi dal sovrano: la legge è il comando di chi in quel momento è detentore del potere. Accanto alla legge naturale si afferma la legge positiva. È giusto il comportamento conforme alle leggi dello Stato; delle motivazioni, intenzioni, della qualità dell’agire giusto non ci si occupa. Tra etica individuale e diritto sociale si darà sempre maggiore, reciproca estraneità. Dall’illuminismo ad oggi È la stagione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Le due principali regole di questa concezione della giustizia sono: l’uguaglianza e la differenza. Chiara Robbiati Significato e limiti del diritto Sul versante del legislatore Il compito del legislatore si colloca nella linea della buona interpretazione dell’ethos vigente. Ciò implica una precisa responsabilità del legislatore. La massima oggettività di una legge non si dà soltanto evocando comportamenti conformi ad essa in senso materiale, ma nella sua massima capacità di predisporre al bene comune, cioè di tutti e di ciascuno. Il legislatore è consapevole che la legge non è soltanto indicatrice di comportamenti. Suo compito è anche, inscindibilmente, di promuovere, orientare, coordinare, correggere, incentivare al meglio, nei termini realisticamente possibili, il buon agire di tutti. Ciò non implica che il legislatore faccia proprio un determinato orizzonte etico, né che tenda a sostituirsi alle coscienze. Implica piuttosto un agire responsabile e responsabilizzante, che traspaia dalla legislazione stessa. Sul versante dell’agire personale A livello personale è richiesta la lealtà nel rispetto delle leggi, che impone a ciascuno di tendere al bene comune. Regola suprema resta la carità.