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IL MUSEO NELLA STORIA - Dallo studiolo alla raccolta pubblica - Maria Teresa Fiorio - RIASSUNTO COMPLETO DIVISO PER CAPITOLI, Prove d'esame di Museologia

RIASSUNTO COMPLETO DEL LIBRO CON SUDDIVISIONE DEI CAPITOLI

Tipologia: Prove d'esame

2017/2018

Caricato il 06/06/2018

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Scarica IL MUSEO NELLA STORIA - Dallo studiolo alla raccolta pubblica - Maria Teresa Fiorio - RIASSUNTO COMPLETO DIVISO PER CAPITOLI e più Prove d'esame in PDF di Museologia solo su Docsity! IL MUSEO NELLA STORIA dallo studiolo alla raccolta pubblica Maria Teresa Fiorio INTRODUZIONE Il termine “museografia” compare per la prima volta nel 1727: è il titolo del volume di Neickel, un ricco mercante di Amburgo che con il suo trattato si proponeva di offrire un censimento delle principali raccolte europee di arte e di rarità ( =quegli oggetti naturalistici, insoliti e curiosi, che soprattutto nel nord del continente si affiancavano alle collezioni archeologiche e di opere d’arte ). Il suo intento era quello di dare un'immagine di insieme delle collezioni europee distinguendo le varie tipologie di raccolte e quindi di fornire una guida per una giusta idea ed un utile allestimento dei musei; per questo vengono individuate due grandi classi di naturalia e di artificialia (cioè collezioni naturalistiche o di oggetti prodotti dall'uomo) e poi precisare, a seconda dei contenuti, le definizioni che le raccolte hanno assunto nei vari paesi. Nel testo di Neickel si intravedono alcuni principi che ancora oggi rientrano a pieno titolo nella moderna concezione di museo: il suo RUOLO DIDATTICO, la necessità di un CATALOGO della collezione, l'attenzione verso le BIBLIOTECHE ( intese come parte integrante del museo ), ed infine alcuni principi generali sulla presentazione delle raccolte: PARETI CHIARE, LUCE diffusa in modo UNIFORME e CONTENITORI ADEGUATI alla tipologia di OGGETTI.
 Si era all'inizio dell'età dei lumi, quando cominciava ad affermarsi l'idea che le grandi collezioni dovessero avere finalità di pubblica educazione, ma ancora non si compiuto il decisivo passo verso l'istituzione di musei accessibili a tutti.
 Fino al 1950 circa la disciplina avente come oggetto i musei era definita MUSEOGRAFIA, il termine MUSEOLOGIA era molto raro e non concettualmente chiaro. Si tratta quindi di discipline complementari e per entrambe si può parlare di “scienza del museo” con il tempo assumendo una distinta fisionomia. MUSEOLOGIA → ha a che fare con il Logos cioè con il pensiero e quindi privilegia gli aspetti teorici relativi al museo e alla sua storia. Si pone come riflessione sul museo, sulle sue finalità, sul ruolo che esso ha assunto all’interno della società, sui rapporti con un pubblico sempre più interessato ed esigente. In questo ambito si collocano lo studio delle collezioni e la loro interpretazione, la ricerca scientifica e la funzione conservativa,la didattica e la scelta dei contenuti da comunicare.
 MUSEOGRAFIA → si occupa degli aspetti più pratici, fanno capo le tecniche espositive, le soluzioni illuminotecniche, il sistema di comunicazione, il problemi della sicurezza sia degli oggetti esposti che del pubblico; tutto ciò che riguarda il corretto funzionamento del museo.
 Si tratta di sfere di competenza nettamente diversificate e dunque sono richieste figure professionali con preparazione specifica: la scelta del percorso di visita, la selezione di opere e il loro accostamento, la produzione scientifica ed infine i contenuti da comunicare sono compiti del MUSEOLOGO che si affiderà al MUSEOGRAFO per la realizzazione dei suoi progetti.
 MUSEO → termine che ha subito diverse definizioni a causa dell’idea che si è modificata a seconda del ruolo e delle finalità che il museo ha assunto nel tempo e nella società.
 Deriva dalla parola: “musaeum” che deriva dal greco “mouseion” cioè luogo delle muse.
 Il geografo Strabone utilizzò questo termine in riferimento ad un ambiente all’interno della biblioteca di Alessandria d’Egitto in cui si riuniva una comunità di dotti e di filosofi; si trattava di un’accademia e quindi non c’è alcuna affinità con il museo moderno.
 valore simbolico e taumaturgico. Queste raccolte comprendevano manufatti, reliquie, arredi, vasellame, dipinti, animali imbalsamati, erbe, ecc..
 Nel corso del medioevo la passione per l’arte antica rispondeva a finalità strumentali → vi era l’indiscriminato e distruttivo recupero di materiali antichi successivamente riutilizzati per nuove costruzioni, di cui esisteva un fiorente commercio a Roma. Si incontrano poi quelle che Panofsky chiama “rinascenze” (ritorni all'antico) , prima quella Carolingia, poi quella di Federico II di Svevia (primo sovrano a considerare la classicità come un valore da riscoprire), ma in questo caso le motivazioni sono anche politiche e non solo di gusto estetico. Di grande interesse è il promemoria stilato nel 1335 dal notaio Oliviero Forzetta, uno dei primi documenti relativi ad una collezione italiana. L'appunto ci informa che questi aveva una preziosa biblioteca, ma ci rivela anche la presenza a Venezia di un fiorente commercio di opere d’arte con tanto di nomi di mercanti, intermediari e artisti. Non sappiamo tuttavia se la collezione di Forzetta fosse distribuita fra i vari ambienti della casa o se avesse una spazio dedicato, come una sorta di piccolo museo. Non è questa una questione da tralasciare, poiché è proprio fra '300 e '400 si elaborò un modello culturale nuovo che aveva al centro il mondo classico e si affermò quindi un luogo concepito non solo per gli studi e l'attività intellettuale, ma anche per la raccolta e la conservazione di opere d'arte → era divenuto necessario disporre di un luogo separato dal resto dell'abitazione concepito per la riflessione, dove collocare gli strumenti di studio e i materiali collezionati → da questa necessità avvenne il passaggio che portò alla nascita dello STUDIOLO, che conservava monete, piccole sculture, bronzetti, gemme, ecc... che hanno ruolo evocativo di ponte col passato. Anche gli artisti avevano passione antiquaria ma non per la funzione evocativa, bensì per la valenza estetica; erano più che altro fonti di ispirazione e creatività.
 Rispetto agli studioli dei letterati o degli artisti, quelli delle grandi dinastie nobiliari si ponevano su un differente livello; tratto distintivo degli studioli nobiliari era il fatto di essere decorati, su committenza, da maestri di prima grandezza. Es: lo studiolo di Lionello d’Este a Ferrara → decorazioni che marcavano il buon governo del marchese lo studiolo di Federico da Montefeltro a Urbino → serie di uomini illustri e altre immagini che marcano l'immagine del committente come uomo di studi e valoroso condottiero. Una delle collezioni più cospicue era ovviamente quella dei Medici, iniziata da Cosimo il Vecchio e incrementata dal figlio Pietro il Gottoso, trovò in Lorenzo il Magnifico un appassionato continuatore. La collezione Medici era vastissima: oltre che nello studiolo (contenente oggetti sacri, dipinti, gemme, monete, cammei...), era distribuita anche all’esterno, in due cortili, con le statue antiche che si confrontavano con quelle moderne. Qui, Lorenzo il Magnifico aveva formato una scuola per giovani artisti dove le sculture dovevano servire come materiale didattico → comincia a profilarsi il ruolo didattico delle collezioni che porterà alla creazione dell’Accademia delle Arti e del Disegno, istituita dal granduca Cosimo I.
 Lo spostare la collezione al di fuori dal solo ambiente dello studiolo verrà recuperata nelle grandi ville romane del '500.
 Un'altra importante collezione è quella di Isabella d’Este, per la quale collezionare opere belle, antiche e contemporanee, era un’assoluta esigenza. Inizia la sua collezione nell'ultimo decennio del '400 alla ricerca in tutta Italia di cose antiche e allestì il suo studio. La collezione era ricchissima e Isabella si era occupata personalmente delle iconografie; nel 1522 la collezione venne spostata nella “corte vecchia” del palazzo ducale perché si era reso necessario uno spazio più grande. Un inventario del 1542 ci dice poi come ogni ambente avesse una propria funzione: la camara granda, il giardino segreto, lo studiolo, i camerini, la grotta. Ciò che risulta sorprendente è il proposito di disposizione razionale che guida l’esposizione e che si pone come antecedente del museo moderno. La collezione usciva dalla sua area segreta per conquistare spazi nuovi → nacque lo studiolo di corte che, a differenza di quello umanistico, era mostrato ad una ristretta cerchia di dignitari intenditori (anche per potenziare ricchezza e prestigio). A ROMA il collezionismo era orientato verso l’antichità, lo vediamo tra i papi (PAOLO II: parte della sua raccolta era costituita da cammei, avori, bronzi e pietre incise →passarono poi alle collezioni medicee) i cardinali e l’alta aristocrazia.
 Proprio a Roma, si fece strada la necessità di tutelare il patrimonio archeologico ( a causa dell’aggressione subita a monumenti) → con Martino V si ebbero le prime leggi volte alla salvaguardia dei resti classici e al loro restauro. Queste leggi non furono sempre efficaci e non sempre rispettate ma diedero inizio alla formulazione dell’Editto del cardinale Pacca nel 1820, della più moderna legge di tutela dell’Italia preunitaria. Sempre a Roma, nel 1471, con papa Sisto IV si vide un episodio significativo: la prima donazione al popolo Romano di 4 sculture in bronzo (la lupa, lo spinario, il camillo e la testa di Costantino), sempre situate a san Giovanni in Laterano (simbolo di continuità tra Roma imperiale e papale), affermando l’egemonia del potere papale sul Campidoglio e riconoscendo il popolo come legittimo depositario delle opere → si affermò così il principio di fruizione pubblica delle opere d’arte collocate in funzione monumentale. La restituzione di Sisto IV costituisce l’atto di nascita delle collezioni capitoline, ma solo nell’età illuminista sfocerà nell’apertura dei Musei Capitolini che, tra i primi in Europa, verranno inaugurati nel 1734.
 Il nuovo concetto di partecipazione al godimento estetico e di superamento dei limiti spaziali dello studiolo, per portare la collezione in un ambiente esterno, sarà la via seguita dai grandi collezionisti romani, che trova nel cortile del Belvedere l'esempio più illustre. Nel 1505 Giulio II affidava a Bramante il progetto di collegamento tra i palazzi Vaticani e il cosiddetto Casino del Belvedere, inglobando la villa fatta edificare da Innocenzo VIII. Bramante, oltre al grandioso cortile, progettò uno spazio più intimo in cui posizionare i capolavori delle collezioni vaticane. Il cortile era accessibile solo a pochissimi eletti e, per quanto inarrivabile, rimaneva il modello di ispirazione per chiunque volesse esibire le proprie antichità. documentato dall’inventario redatto da Anton Maria Zanetti nel 1736. La morte di Giovanni nel 1593 gli impedì di vedere l’apertura dello statuario pubblico che fu ufficialmente consegnato alla città il 19 agosto 1596. Strettamente private invece è la collezione di Paolo Giovio, allestita fra il 1536 e il 1543 nella sua Villa di Borgovico sul lago di Como; la costruzione aveva al centro un cortile porticato in cui erano esposti oggetti d’arte, a esso si affiancava un salone decorato che ospitava il nucleo caratterizzante della collezione → è proprio per questo ambiente che il Giovio usa il termine Museo, che per la prima volta viene a indicare il luogo deputato all'esposizione di opere d'arte. La novità della Villa Borgovico sta:
 1) nella diversificazione di ciascun ambiente a seconda del contenuto, 2) Il museo viene consacrato come luogo fisico della conservazione delle raccolte, come spazio dal quale i materiali anche non omogenei ricevono una cornice unificante. Molto diffusi soprattutto nel '600 sono i CABINETS SCIENTIFICI e le RACCOLTE UMANISTICHE. Da ricordare: - Ulisse Aldrovandi nel 1603 destinava al senato dell’università di Bologna la sua raccolta naturalistica cominciando a delineare il concetto di “pubblica utilità” che sarà il principio fondante del museo illuminista. - Questo legame con l’università era alla base anche dell’ASHMOLEAN MUSEUM di OXFORD considerato il primo museo pubblico europeo. - Nel 1609 Federico Borromeo inaugura a Milano la biblioteca Ambrosiana (prima a non essere destinata solo all'elite , faceva parte di un progetto più ampio che comprendeva: l’istituzione della prima accademia milanese e una pinacoteca ( che aveva due compiti: quello di pubblica esposizione e quello di strumento didattico). Il cardinale nel 1618 offriva come dono personale la sua raccolta di dipinti , stampe, disegni, sculture che descriveva nel libro “Museaum” pubblicato nel 1625. 2. I MUSEI NELL’ILLUMINISMO 
 Nel tardo Seicento e settecento, la QUADRERIA come spazio espositivo dei dipinti si impone nella progettazione dei nuovi palazzi nobiliari. Tra gli esempi romani più illustri ci sono la Galleria Doria Pamphilij, la Galleria Colonna, la Galleria Corsini. Il fatto che fossero gallerie private, non le rendeva inaccessibili a persone qualificate.
 In Italia, per proteggere la dispersione delle raccolte nobiliari, era stato introdotto fin dal Seicento il vincolo del fedecommesso, cioè l'obbligo di trasmettere intatto il patrimonio da una generazione all'altra → permise la sopravvivenza di molte raccolte (anche se soppresso nel 1865 dal Codice Civile dell'Italia post-unitaria), ma non ostacolò il vivace commercio di antichità.
 Nel XVIII sec avvengono massicce trasmigrazioni di opere Italiane nelle collezioni di molti principi stranieri → costituiranno spesso il nucleo fondante dei più importanti musei d’Europa.
 L’emorragia preoccupante di statue antiche a favore di acquirenti europei indusse papa Clemente XII a impedirne l’esportazione (Editto Annibale Albani,1733) e acquista parte della collezione (di sculture) che il cardinale Alessandro Albani (fratello di Annibale Albani) si apprestava ad alienare, e la dona alle collezioni capitoline. Si spostò la collezione a Palazzo Nuovo (destinazione museale) creando la prima raccolta pubblica di antichità nel 1734, ordinata in nuclei tematici (sala imperatori, sala filosofi,...). I primi cataloghi della collezione vennero pubblicati fra il 1741 e il 1745.
 Lo studio della statuaria antica veniva riconosciuto come un elemento fondamentale nella formazione di un artista, motivo per cui venne istituita, nel 1734, l’Accademia Capitolina. Benedetto XIV nel 1748 acquistò due delle più importanti collezioni di dipinti (quella del marchese Sacchetti e del principe Pio da Carpi) → con questa acquisizione, la Pinacoteca Capitolina veniva ad affiancare il Museo Archeologico. → Si affermava, in tal modo, il nesso Museo – Accademia che sarà alla base del museo ottocentesco.
 È importante ricordare un’Editto costituito dal cardinale Annibale nel 1726 realizzato contro gli scavi clandestini che contiene spunti di novità: 1) concetto di protezione del patrimonio artistico e archeologico ; 2) principio di pubblica utilità → valore fondamentale per l’età dei lumi perché viene a coincidere con una generale presa di coscienza del valore sociale del patrimonio artistico. Da qui si inizia (in Italia) a considerare le opere d’arte un bene dello Stato e quindi dei cittadini.
 In quegli stessi anni, a VERONA, nasceva un museo di chiara matrice Illuminista. Uno degli aspetti principali del secolo dei lumi, per quanto riguarda la gestione dei musei, fu la tendenza a separare, catalogare e disporre gli oggetti ( a seconda della tipologia ) facenti parte delle collezioni.
 Il Museo Lapidario di Verona seguiva in tutto questo principio. E’ un museo specialistico dedicato all’esposizione di epigrafi provenienti per la maggior parte dal territorio veronese; il museo aveva un illustre precedente nel Lapidarium di Brescia. L’artefice del museo veneto fu il marchese Scipione Maffei. Il museo concepito da Maffei e affidato alla progettazione di Alessandro Pompei, è costituito da un semplice porticato che partendo dal pronao del Teatro Filarmonico di gusto palladiano, circonda il cortile su tre lati; poiché lo scopo è quello di consentire la lettura delle lapidi, il portico è piuttosto basso.
 Nella seconda metà del '700, la trasformazione delle raccolte principesche in musei ricolti alla pubblica utilità si espande in tutta Europa. fosse consigliabile lasciare una intera collezione chiusa ermeticamente e senza manutenzione. L’istanza venne accolta dal Marchese di Marigny, fratello della Pompadour, all’epoca responsabile dei Batiments du Roi. Nel 1749 il Marchese mise a disposizione una serie di sale nel Palais du Luxembourg dove affluì un centinaio di opere fra cui le ventiquattro tele commissionate a Rubens per celebrare la vita di Maria de’ Medici. Nel gennaio 1750 il Museo pubblico era una realtà, ma nel 1779 venne chiuso a causa delle insistenze del fratello del Re, che rivendicava l’uso del palazzo. Il conte d’Angiviller, successore di Marigny, si impegnò dal 1775 nella trasformazione del Louvre in palazzo delle Arti, ma non se ne fece nulla → occorreva attendere la Rivoluzione.
 Anche il REGNO DI NAPOLI partecipa al grande processo di liberalizzazione dell’accesso alle raccolte dinastiche: Carlo di Borbone, figlio di Filippo V di Spagna e dell’ultima erede Farnese, aveva ereditato dalla madre la collezione di famiglia; divenuto re col nome di Carlo III fece trasportare la collezione da Parma e da Roma al Palazzo Reale di Napoli istituendo nel 1738 il Museo Farnesiano. Nel 1759 la raccolta fu poi spostata nella Reggia di Capodimonte, dove il museo aprì ufficialmente al pubblico. La collezione dei dipinti era disposta “a quadreria”, come nelle gallerie Barocche, ma le opere erano divise per scuola e autore. Carlo III ebbe poi anche il merito di tutelare le antichità di Ercolano e Pompei da poco tornate alla luce, emanando i decreti che proibivano l’uscita degli affreschi dal territorio del regno (1755). Ferdinando IV, figlio di Carlo, trasferì i due nuclei del Museo Farnesiano e del Museo Hercolanense del Palazzo dei Regi Studi (1777) dove venne istituito il Real Museo Borbonico; qui confluì nel 1786 il preziosissimo nucleo delle accolte archeologiche Farnesiane, proveniente da Roma. L’apertura di tanti musei pubblici non intaccò, nel corso del '700, il collezionismo privato che, specialmente a ROMA, si mantenne piuttosto vivace. Uno degli episodi più rilevati è la decisione del cardinale Alessandro Albani, noto ed esperto collezionista d’arte, di farsi costruire una villa suburbana sulla via Salaria (Villa Albani), dove collocare la sua collezione di antichità. Non si trattava di una residenza, ma di un edificio costruito ad hoc per ospitare ed esporre le opere, NON MUSEO perché escludeva la presenza del pubblico, concepito con la stessa organizzazione → la collezione era divisa per nuclei tematici (imperatori, dei, poeti, condottieri,...). La costruzione dell’edificio richiese molti anni di lavoro e notevoli risorse economiche: venne progettata da Carlo Marchionni e prevedeva una corpo centrale a due piani porticato, affiancato da due ali ad un solo piano. Sul portico si apriva lo splendido giardino. All’esterno il palazzo rivela il suo gusto tardobarocco, ma il salone centrale ospita il Parnaso di Mengs (1761), che costituisce un manifesto per la nascente arte neoclassica. La scelta di Mengs e la disposizione delle opere - organizzate per nuclei tematici (come Musei Capitolini) – era frutto dei suggerimenti di Winckelmann. Quello che però fa di Villa Albani un assoluto modello di riferimento è il rapporto che intercorre fra gli oggetti esposti e lo spazio, che per la prima volta si piega alle esigenze della collezione, tralasciando gli effetti decorativi a favore di una migliore leggibilità. Nuova è anche la rinuncia dell’esposizione all’aperto delle statue. Nel 1736 Winckelmann venne nominato commissario delle antichità a Roma, ma già in precedenza aveva assistito il pontefice nella costruzione di un museo → nei Palazzi Vaticani già da tempo si stava lavorando all’apertura di musei dedicati ai diversi settori dell’immenso patrimonio pontificio → era un progetto già vagheggiato da Clemente XI Albani (zio del cardinale Alessandro) che si può considerare l'ideatore dei musei pontifici. 1) La prima iniziativa concreta spetta a Benedetto XIV Lambertini, il quale fondò l’Accademia Romana di Antichità e istituì il Museo di Antichità Cristiane (1757). 2) Clemente XIII fondò, con l’aiuto di Winckelmann, il Museo Profano, dedicato ai reperti etruschi e romani; il museo estende il proprio campo di interesse anche alle suppellettili, oggetti d'uso, urne, lapidi e a tutto ciò che poteva essere d’aiuto per la ricostruzione storica. 3) Clemente XIV inizia l’iniziativa più complessa a Roma di questi anni, la fondazione del Museo Pio-Clementino. Il punto d’avvio di questa vicenda si ha con il chirografo del 1770 con cui il pontefice autorizzava la vendita delle antichità della collezione Mattei per collocarle al pubblico decoro → si voleva rendere pubblico il patrimonio, ma necessitava di uno spazio per essere esposto. La sede più appropriata per l’esposizione era il Belvedere, la palazzina di Innocenzo VIII e nell'annesso cortile del Bramante. I lavori iniziarono nel 1770, su progetto di Alessandro Dori: si trattava sostanzialmente di riadattare un edificio preesistente ad un diverso scopo. L’ambiente principale era una grande loggia che venne trasformata in una galleria, alle cui estremità, entro nicchie, erano collocate due statue monumentali ( il Giove Verospi e la Giunone Barberini), favorendo un grandioso effetto scenografico tardo-barocco. L’intervento venne effettuato rispettando però l’ambiente quattrocentesco, lasciando intatta la cappella affrescata da Mantegna. Il secondo intervento venne invece effettuato sul cortile, ad opera di Simonetti (dopo la morte di Dori), il quale collegò la galleria delle statue al cortile facendone un organismo unitario e incluse alcuni fabbricati preesistenti ricavandone ambienti funzionali al nuovo museo → Il museo si poneva quindi all’insegna del “riuso”, non solo nell’adattamento di costruzioni esistenti ma anche nel recupero di materiali : le colonne e i capitelli del 500 vennero rilavorati e rimessi in opera. Morto Clemente, Pio VI Braschi riprese i lavori con nuove ambizioni: il museo deve ribadire il prestigio del papato rinnovando i fasti della Roma rinascimentale. Gli interventi da lui promossi, sempre ad opera di Simonetti, si articolano in tre fasi: • Il prolungamento della Galleria delle statue (1776)
 Fu un intervento di continuità, dettato dalla volontà di aumentare lo spazio delle gallerie, aggiungendo cinque campate senza però determinare fratture; tale intervento comportò tuttavia la demolizione della Cappella di Mantegna. • La sequenza delle Sale Romane (1778 -84)
 Disposte sul lato occidentale del cortile delle statue, cioè la parte opposta all’accesso al museo creato dal suo predecessore, si tratta di ambienti monumentali di chiara ispirazione neoclassica, che adottano planimetrie diverse : “sala degli animali” riprende il tema della galleria; la “sala delle muse” si innesta al centro della sala degli animali, ha una pianta ottagonale apertura il sabato e la domenica, mentre gli altri giorni era accessibile agli artisti. Il Louvre era però nel complesso piuttosto dimesso, ben lontano dalla munificenza dei musei contemporanei italiani. La grande svolta avvenne con le campagne napoleoniche, quando i “furti di dipinti” comportarono l’entrata a Parigi di centinaia di dipinti, sculture e oggetti d’arte. La prima offensiva investì i Paesi Bassi, poi toccò all’Italia: da una lettera spedita da Napoleone risulta che nel 1796 centodieci quadri partirono verso Parigi, senza contare gli oggetti liturgici, le sculture e i manoscritti. Per mascherare le sue razzie e rivestirle di una parvenza di legalità, Napoleone aveva incluso le requisizioni delle opere d'arte nelle clausole dei trattati di pace → la cessione forzata di tanti capolavori sarebbe cosi rientrata negli accordi e , anziché apparire come un sopruso, sarebbe stata accettata come parte degli obblighi dai vinti. Per quanto riguarda gli aspetti morali, il Direttorio giustificava questa prassi sostenendo che gli artisti sono uomini liberi e pertanto i loro prodotti dovevano andare nella Patria della Libertà.
 Il bottino più ricco fu chiaramente raccolto a Roma, dove le truppe francesi entrarono nel Febbraio 1792. innumerevoli furono gli episodi di vandalismo, di più, i commissari francesi una volta stipulato l'elenco da mandare a Parigi, vendettero le opere considerate di minor pregio. In Luglio, a Parigi, le opere provenienti dall’Italia vennero portate in Trionfo, con i pezzi migliori fra cui il Laoconte e i Cavalli di San Marco, disimballate e offerte alla vista del pubblico.
 Il grande assente fu proprio Napoleone, il quale si era appena imbarcato per la Spedizione d’Egitto; al seguito dell’Imperatore c’era Dominique Vivant-Denon, con il compito di disegnare e catalogare il materiale archeologico egizio. Con la campagna d'Egitto Vivant-Denon si legò a Napoleone, che ne fece nel 1802 il direttore generale del Louvre, ribattezzato nel 1803 Musée Napoleon. Il nuovo direttore doveva confrontarsi con un enorme lavoro di riordino delle opere affluite con gli espropri di Napoleone, operazione che fu realizzata adottando il già collaudato criterio della suddivisione per scuole, ma anche di assicurare dei finanziamenti al museo che si ottennero anche attraverso la vendita di stampe di opere esposte e cataloghi delle varie sezioni delle raccolte. Dal punto di vista museografico invece, i due architetti Percier e Fontaine dovevano dare un nuovo volto alla Gran Galleria. Realizzano delle aperture laterali nella volta, la decorano con lucernari e creano delle pause nel ritmo prima monotono attraverso la creazioni di sei grandi sale e tre più piccole. Inoltre, come per il Pio-Clementino, fu creato lo scalone monumentale, che dava solennità all’ingresso. Nel 1806 Napoleone riprese la sua politica espansionistica puntando sul Regno di Prussia, sulla Spagna e sull’Austria, continuando il saccheggio di opere d’arte (in questa fase Denon fu il protagonista di molte requisizioni data la sua esperienza di direttore e conoscitore di opere d’arte). L’ultima missione in Italia compiuta da Denon nel 1811 segnò una svolta importante perché fu l'occasione della scoperta dei Primitivi Italiani → Giotto, Cimabue, Gentile da Fabriano, Beato Angelico furono quindi le nuove prede che vennero presentate al pubblico nel 1812 con un catalogo curato da Denon, nel quale le informazioni su autore, soggetto e provenienza si arricchivano di brevi biografie degli artisti e indicazioni bibliografiche dalle fonti antiche. Il museo di Denon assunse quindi l’aspetto di glorificazione del potere Napoleonico, immagine di supremazia politica e culturale della Francia vista attraverso l’esposizione delle opere più rappresentative delle grandi tradizioni degli stati Europei. Tanto il potere si identificava nel museo che le nozze dell’Imperatore con Maria Luisa d’Austria si tennero nel 1810 proprio nella Gran Galerie, sgombrata per l'occasione. Con la caduta di Napoleone e con il congresso di Vienna, le restituzioni non furono un obbligo, bensì divennero oggetto di negoziati. A favore delle restituzioni si dichiarò schiettamente l’Inghilterra, nella persona del Duca di Wellington, che si schierò anche dalla parte di paesi più indifesi, come i Paesi Bassi e lo Stato Pontificio. Comunque restavano irrecuperabili i quadri sparsi per le province francesi e disseminati nelle Chiese. Per il Papa trattava Canova, che svolse un buon lavoro grazie alle sue competenze e alla buona fama che aveva presso i sovrani d’Europa. Il recupero fu tuttavia parziale. Non tornarono in Italia le opere della collezione Borghese che il principe Camillo, marito di Paolina aveva venduto al Louvre nel 1808. Gli austriaci si occuparono invece delle restituzioni delle opere sottratte al Lombardo-Veneto: particolarmente ostico fu il recupero dei Cavalli di San Marco che erano stati issati sull'Arco di Trionfo e rappresentavano un simbolo del potere francese → il recupero venne infatti svolto di notte.
 Con la riappropriazione delle opere si fece strada in tutti gli stati un NUOVO SENTIMENTO: la coscienza dell’appartenenza a un popolo del patrimonio artistico come fondamento della sua identità culturale. Vittima delle restituzioni fu anche il Musée des monuments français nel convento dei Petites- Augustins ad opera del pittore Lenoir. Il museo era nato con nobili intenti: il fanatismo rivoluzionario aveva comportato la distruzione di tutte le tombe dinastiche e delle facciate delle chiese che contenevano riferimenti monarchici → Lenoir si era occupato del recupero di questi materiali per metterli in salvo, in modo da creare una storia della Francia narrata dalle sculture. Il percorso era cronologico e legato all'idea del progresso delle arti, che l’allestimento sottolineava con variazioni luminose. Inaugurato nel 1795 e provvisto di un catalogo, il Museo segna l’inizio per quell’interesse verso il Medioevo che sarà una costante del Romanticismo e verrà ripreso in altri musei ottocenteschi. Osteggiato da Quatreme de Quincy, il museo fu smantellato nel 1816 e le opere ricollocate nei luoghi d’origine. → Era la vittoria del contesto sullo sdradicamento, la vittoria del principio di unione fra luoghi e opere (tanto cara a Quincy) sulle ragioni del museo. Una delle conseguenze delle spoliazioni napoleoniche fu una più matura conoscenza della responsabilità dello stato nella tutela del patrimonio artistico, visto ormai come bene di tutti.
 Nello stato pontificio risvegliarono il senso di appartenenza verso il patrimonio artistico, al punto che vennero emanati l’Editto Doria ( estende la tutela anche al patrimonio mobile, sia pubblico, sia privato e stabilisce la compilazione di inventari per avere un quadro complessivo della consistenza del patrimonio ) e, ancor più importante, l’Editto Pacca (1820), che rappresenta la base del diritto italiano in merito alla legislazione dei beni culturali. 4. LA STORIA DELL’ARTE COME SCIENZA E I GRANDI MUSEI DELL’OTTOCENTO 
 Il contributo del Louvre e della Francia in generale fu cospicuo in merito alle idee proposte e ai principi generali esposti, ma non fu innovativo per ciò che riguarda l’allestimento, la forma e lo spazio. D’altra parte questo è normale, poiché tutti i musei finora trattati, ad esclusione del Fridericianum di Kassel, avevano sfruttato palazzi già esistenti.
 Fu però la GERMANIA la prima a tradurre le teorie più in voga nella realizzazione di edifici di chiara ispirazione classica, le cui tipologia sarebbero divenute normative per la futura architettura dei musei → Monaco e Berlino sono le due città protagoniste, la progettazione del museo qui andrà oltre il singolo edificio, divenendo occasione per ridisegnare il centro urbano. Il museo conquista così il ruolo di edificio simbolico della città, come la cattedrale, il palazzo del governo, il teatro, la biblioteca, e dichiara la propria funzione culturale e il proprio essere destinato al progresso della collettività.
 A Monaco, si deve all’architetto Leo von Klenze la creazione del museo archeologico Glyptothek (Raccolta di gemme), il cui prospetto inaugura, con la sua architettura classica, la tipologia del Museo-Tempio. La sua fondazione fu fortemente voluta dal principe ereditario Ludwing per una più ampia riqualificazione della città che era divenuta capitale del Regno di Baviera. L'ambizione del principe era quella di creare un' “Atene sull’Isar”, cioè una città con edifici maestosi in cui rivivesse la classicità, per la quale nel 1810 fu chiesto all’architetto Karl von Fisher un maestoso progetto urbanistico.
 Nel 1814, dopo che Ludwing aveva arricchito le sue collezioni archeologiche (i frontoni del tempio di Atena Aphaia che Cockerell aveva scavato nell’isola di Egina), la costruzione del museo divenne un'esigenza prioritaria → venne indetto un concorso, in cui Von Klenze presentò tre progetti, ispirati all’architettura greca, a quella romana e a quella rinascimentale; seguendo la traccia stilistica, ogni museo presentava sul frontone un motto rispettivamente di Platone, Orazio e Tasso. Vinse il progetto di ispirazione greca. I lavori cominciarono nel 1816 e terminarono nel 1830.
 La Glyptothek ha pianta quadrata con un cortile centrale e si sviluppa su un unico piano; sul prospetto si apre un elegante pronao con otto colonne ioniche e un frontone scolpito, ai lati del portico si aprono sei nicchie, tre per lato, sormontate da timpani; le sale si articolano in successione attorno al giardino, quelle angolari sono a pianta centrale, mentre le altre, quadrate, hanno dimensioni diverse in base al numero degli oggetti che devono contenere. Una delle più ampie era la sala dei marmi di Egina. Nel vestibolo erano citati i nomi di Ludwing, di von Klenze e di von Cornelius, il pittore romantico che aveva affrescato le sale di rappresentanza. Le opere erano disposte cronologicamente, si cominciava dai reperti egizi per finire con la sala dedicata agli artisti neoclassici contemporanei.
 Nonostante godesse della piena fiducia del Re, von Klenze dovette fronteggiare le critiche di Wagner, un pittore inviato a Roma da Ludwing per procurargli pezzi pregiati di archeologia; le idee di Wagner si basavano su assoluto rigore,nella convinzione che le opere andavano fruite senza distrazioni che provenissero dallo spazio circostante, le pareti avrebbero dovuto avere colori tenui e neutri (parla di “francescana semplicità”). Tali idee contrastavano completamente con quelle di von Klenze, convinto che le sculture antiche dovessero essere accompagnate da decorazioni evocative delle situazioni in cui le opere erano collocate in origine. La Glyptothek restava un museo elitario, indifferente alle esigenze del pubblico e a quella vocazione educativa che il Louvre aveva invece affermato con forza. Von Klenze volle fortemente l’eliminazione delle didascalie, cosa che limitava di molto la fruizione delle opere. Anche la mancanza di luoghi di sosta non facilitava la visita. Inoltre, la presenza di sale per ricevimenti e banchetti confermava il preesistente legame con il cerimoniale di corte. L’edificio di von Klenze piacque talmente tanto a Ludwing I che commissionò all’architetto un secondo edificio, destinato alle collezioni di pittura. L’Alte Pinakothek, progettata nel 1824 e terminata nel 1836, offrendo un’interpretazione del palazzo rinascimentale italiano. Il tema di fondo è quello della “galleria” realizzata come edificio a doppio ordine sviluppato lungo un asse longitudinale con 4 brevi ali alle due estremità (assume la forma di H allungata). L’aspetto più originale era la divisione in tre fasce del piano superiore: una grande galleria per i dipinti di maggiore formato al centro e, ai lati, una serie di cabinets per le piccole tele e una loggia di ispirazione raffaellesca affrescata da Cornelius con gli episodi della vita degli artisti autori delle opere esposte. I dipinti erano ordinati cronologicamente. Al pianterreno erano invece esposti vasi antichi. C’erano anche gli uffici amministrativi, i depositi e la biblioteca. All’Alte Pinakothek si ispira la Neue Pinakothek di August von Voit, che Ludwing I voleva sorgesse proprio difronte alla Glyptothek. La Neue Pinakothek è il primo museo in Europa votato alla modernità, costruito per ospitare le collezioni di arte contemporanea tedesca. La costruzione, a due ordini, riprendeva lo schema allungato e l’illuminazione zenitale degli edifici di von Klenze, ma la netta divisione esterna in tre ordini – una zoccolatura in pietra, una fascia liscia con finestre e una terza zona con decorazione pittorica che si ricollegava alle opere esposte – rendeva il prospetto meno armonico. Nel 1944 subì danni tali da determinarne la ricostruzione totale. A Berlino, negli stessi anni, sorgeva l’Altes Museum di Friedrich Schinkel. L’ipotesi di costruire a Berlino un museo che accogliesse la collezione regia era stata proposta a Federico Guglielmo II dall’archeologo Aloys Hirt, ma la morte del re nel 1797 non ne aveva reso possibile la realizzazione; con Federico Guglielmo III, Hirt torna ad esprimere le sue idee, nelle quali sosteneva la necessità di rendere pubbliche le collezioni d'arte antica perché potessero essere studiate e contribuire così al progresso della società. La situazione politica e in particolare i dissapori con la Francia rivoluzionaria rendevano però complessa l’attuazione di questa iniziativa. Caduto Napoleone e recuperate le opere depredate dopo il Congresso di Vienna, l’idea di un museo a disposizione dei cittadini riprese vigore, favorita anche da un’acquisizione di un nucleo di dipinti provenienti dalla Collezione Giustiniani e una parte della collezione dell’inglese Solly. Il luogo era stato scelto da Shinkel, il quale ricopriva il ruolo di responsabile degli edifici del regno; come a Monaco era infatti in atto un ripensamento del centro cittadino attraverso la costruzione di edifici monumentali come espressione di valori comuni. Shinkel aveva costruito il Palazzo della Guardia e il nuovo teatro, nell’ambito di un progetto che ridisegnava Ihne.Ha la forma di un sostuoso palazzo neobarocco. Il suo primo direttore fu Wihelm von Bode, illustre esponente della Scuola di Berlino ed allievo di Waaden. Il suo atteggiamento era vicino al maestro nel considerare il museo un luogo eletto per lo studio, a questo era associata l’importanza data all’ambientazione delle opere, le quali dovevano essere inserite in un contesto che citasse quello originario. Per questo motivo, le opere del Medioevo o del rinascimento italiano sono poste in sale che ricordano ora la chiesa Gotica, ora il palazzo rinascimentale toscano, ora la residenza cinquecentesca. - Nato per ospitare i pezzi archeologici acquisiti nelle campagne di scavo tedesche degli anni ’20, il Pergamonmuseum è più recente, edificato nel 1930. Vi sono raccolte opere impressionanti, fra cui il fregio dell’altare di Pergamo, il prospetto del mercato di Mileto, la porta di Ishtar e la via sacra di Babilonia. A Roma la politica papale proseguiva con Pio VII nella direzione favorevole alla fondazione di musei. Pio VII Chiaramonti aveva infatti affidato a Canova l’allestimento di una nuova sezione destinata all’esposizione di circa mille sculture antiche. Come sempre, non fu creato un nuovo edificio, ma si riutilizzò, adattandola ad una nuova funzione, una parte del corridore orientale di Bramante, collegato al Pio-Clementino. Museo Chiaramonti fu inaugurato nel 1807 e mantiene ancora oggi l’ordinamento di Canova, sottolineato da lunette che insistono sul ruolo del papato nella promozione delle Arti e un ciclo di pitture realizzate dagli allievi dell’Accademia di San Luca che celebrano lo scultore.
 Fu poi ancora Canova a consigliare al papa la costruzione di un nuovo museo per accogliere le sculture che erano state restituite dalla Francia dopo la caduta di Napoleone. Il progetto venne commissionato a Raffaele Stern e fu completato nel 1822, dopo la morte del committente del progettista e dell’ispiratore. Il Braccio Nuovo taglia trasversalmente il cortile della Pugna, costeggiando la biblioteca di Sisto V. Si tratta di un gioiello di architettura neoclassica, formato da una galleria con volta a cassettoni interrotta da lucernari, sui fianchi si aprono ventotto nicchie che ospitano le statue di grande formato, alternate a busti posti su rocchi di granito rosso; il fregio superiore è realizzato in stucco e si rifà ai maggiori monumenti di epoca romana. L’eleganza del Braccio Nuovo, sottolineata dall’utilizzo di materiali pregiatissimi, culmina nella sala centrale absidata che ospita il Nilo, scavato nel 1513 vicino a Santa Maria sopra Minerva e il suo pendant, ora al Louvre, il Tevere. Durante il pontificato di Pio VII vide la luce anche la Pinacoteca Vaticana, collocata dapprima nell’appartamento Borgia nel 1816, poi spostata in quello di Gregorio XIII, nel 1821. Il primo nucleo della quadreria era stato raccolto da Pio VI riunendo i quadri dei palazzi pontifici, che però furono confiscati da Napoleone in seguito al Trattato di Tolentino; recuperate in parte nel 1816, vennero unite alle tele razziate negli altri Stati Pontifici che piuttosto che tornare ai luoghi d’origine, rimasero a Roma. La pinacoteca trovò la sua sistemazione definitiva con Pio XI, nel 1832, quando venne collocata nel palazzo di Beltrami al di là del Cortile della Pigna. PARIGI, con il Musée de Cluny, offriva una nuova tipologia di Museo, interamente dedicato all’arte medievale e situato in un edificio gotico del quattrocento; riprendendo per alcuni versi il Musée des monuments Français di Lenoir, il museo accoglieva la collezione di Alexandre du Sommerard e fu aperto nel 1843. Questo edificio inaugura la stagione del “Museo Romantico”, votato alla celebrazione nazionale, sentimento sollecitato durante l’Ottocento. Nel 1819 inaugurava, in SPAGNA, il Museo del Prado, per accogliere le collezioni reali. Come il British Museum, era originariamente dedicato alle scienze naturali, voluto da Carlo III nell'ambito di un grande disegno di revisione urbanistica del centro cittadino che aveva come fulcro l’Accademia delle scienze con l'annesso giardino botanico. Il progetto era stato affidato a Juan de Villanueva, il più illustre architetto esponente del neoclassicismo. La struttura venne seriamente danneggiata durante l’occupazione francese, ma fu poi restaurato, sempre sotto la direzione di Villanueva, dopo la caduta di Napoleone. L’accesso al museo avviene da un elegante portico ionico che si apre sul nucleo centrale, coperto a cupola e fiancheggiato da due gallerie concluse da ambienti quadrati. Il Prado è una struttura esemplare, col suo equilibrio elegante e l’armoniosa varietà delle sale, ellittiche, a pianta centrale, voltate a botte ecc., sarà di ispirazione per la National Gallery di Washington. L’INGHILTERRA prosegue, durante l’Ottocento, il suo impegno nella fondazione di musei realizzati con finanziamenti pubblici, secondo la tradizione iniziata con il British Museum nel 1753. L’acquisto dei marmi del Partenone, da parte di Lord Elgin, decreta l’abbattimento della vecchia sede del British Museum e la sua nuova collocazione. Per progettare l’edificio venne chiamato l’architetto neoclassico Robert Smirke: questi portò a termine, nel 1847, un edificio con un corpo centrale imponente che ricalca la struttura del tempio ionico, leggermente arretrato e affiancato da due ali laterali colonnate. La severità veniva attenuata dalla policromia, che non venne però mantenuta nei restauri. L’ultimo intervento sul British si deve all’architetto Norman Foster, il quale ha agito prevalentemente sugli interni. La Dulwich Picture Gallery, opera di John Soane, è uno dei più bei musei ottocenteschi inglesi, nonché uno dei primi ad essere edificato per ospitare dipinti, in anticipo sulla National Gallery. Realizzato fra il 1811 e il 1813, è costituito da un prospetto semplice in mattoni con paraste che inquadrano le finestre, mostrando una totale assenza del lessico architettonico neoclassico. All’interno troviamo la sequenza delle sale, illuminate da lucernari e arredate sobriamente in modo da rendere manifesto che si tratta di una collezione privata. Allo stesso architetto si deve un altro gioiello, il Sir John Soane’s Museum, prototipo della casa museo in quanto sua abitazione, ma luogo di esposizione vero e proprio poiché pensato in origine per curiosi e studenti. Nel 1824 viene istituita dal Parlamento la National Gallery. Inizialmente una luogo diverso da quello attuale, ospitava una collezione assai ridotta, costituita da un nucleo donato dal banchiere Angerstein al quale si aggiunse in un primo momento solo la collezione George Beaumont. Con ulteriori ampliamenti, si rese necessaria la costruzione dell’edificio che oggi dà l’assetto a Trafalgar Square, a opera di William Wilkins, in forme neoclassiche, realizzato fra il 1832 e il 1838. La pinacoteca si arricchì soprattutto di dipinti del Rinascimento Italiano, grazie al 5. MUSEI D’ARTE APPLICATA E MUSEI PER LA SCIENZA Durante la seconda metà dell’Ottocento, le maggiori capitali europee, a partire da Londra e Parigi, ospitano grandi esposizioni che consentono ad un grande numero di nazioni di esibire i propri prodotti di eccellenza. Questa prassi era il frutto dell'industrializzazione che vedeva in quegli stessi anni la progressiva affermazione di nuovi e sempre più imponenti sistemi produttivi. Il rinnovamento aveva come epicentro l'INGHILTERRA ed è pertanto naturale anche che la prima grande esposizione si sia tenuta proprio a LONDRA → La Great Exhibition of the Works of Industy of all Nations venne inaugurata il primo maggio 1851 in Hyde Park; gli espositori provenivano da ogni parte del mondo industrializzato e avevano percorso distanze incredibili per cogliere un’occasione più unica che rara. Anche gli oltre sei milioni di spettatori accorsi nei soli sei mesi di apertura mostra come anche il pubblico ordinario aveva colto l’importanza dell’evento. Gli oggetti esposti, oltre centomila, erano suddivisi in 4 categorie: materie prime, macchinari e invenzioni meccaniche, manufatti, sculture e arte plastica. Una guida venne messa a disposizione dei visitatori per consentire loro di orientarsi nel vasto spazio espositivo. Oltre al contenuto straordinario, la Great Exhibition vantava un contenitore d’eccezione: il Crystal Palace. Costruito da Joseph Paxton, era un edificio di ferro e vetro con pezzi modulari che ne consentivo il montaggio e smontaggio di ogni sua parte. L’immenso edificio, per la novità della concezione e dei materiali utilizzati, costituisce esso stesso un monumento alla modernità. Il successo ottenuto dall’Esposizione convinse gli organizzatori a creare una collezione permanente, con gli oggetti che hanno preso parte della manifestazione espositiva. La funzione didattica di questo progetto era evidente: educare i visitatori attraverso la conoscenza delle più aggiornate produzioni industriali ma anche dei modelli che le avevano ispirate. Nel 1852, su iniziativa di Henry Cole, fu fondato nella sede del Marlborough House il Museum of manufactures, con un nucleo iniziale formato da una serie di oggetti acquistati all’esposizione, cui nel tempo si affiancarono opere di arte antica → ben presto si avvertì la necessità di una nuova e più ampia sede, che venne individuata in una vasta area nella zona di Brompton. Nel 1855 fu richiesto un progetto a Gottfried Semper, ma il progetto risultò troppo costoso e non venne realizzato. Contando di rinnovare il successo del Crystal Palace, venne realizzato un edificio in ferro e vetro al cui progetto partecipò perfino il principe Alberto; nel giugno 1857 venne inaugurato il South Kensington Museum. Il museo era costituito da tre corpi paralleli voltati a botte (suscitò inizialmente grande ironia, specialmente nella Stampa, che lo ribattezzò Brompton Boilers - le caldaie di Brompton) e si rivelò ben presto innovativo da più punti di vista. Innanzitutto vi era la novità assoluta dei pezzi esposti, tra i quali macchinari e oggetti d'uso, per la prima volta musealizzati al pari di opere d'arte. Le vaste dimensioni del museo e la grande varietà di sezioni espositive, che comportavano lunghi tempi di visita, imponevano poi di offrire ai visitatori una serie di servizi mai prima di allora concepiti per un muse: un vero e proprio ristorante e l’illuminazione a gas che consentiva aperture serali. Nuovo nei contenuti e nella struttura, il South Kensington Museum rappresenta la prima decisa rottura con la tradizione ottocentesca di musei ispirati al mondo classico e costituirà il modello imitatissimo di una diversa tipologia museale. Nel 1899 il South Kensington Museum venne modificato su progetto di Aston Webb e ribattezzato Victoria and Albert Museum, in onore dei regnanti inglesi. La sua vasta e complessa planimetria si articola in una serie hall, corti vetrate, gallerie, ambienti luminosi e flessibili adatti ad ospitare una altrettanto vasta quantità di oggetti, diversificati anche nelle dimensioni. Il presupposto teorico di un museo di questo tipo è da ricercare in quel vasto movimento di idee egualitarie e democratiche, a partire dalla Rivoluzione Francese, si era diffuso in tutta Europa sviluppandosi particolarmente in Inghilterra con Ruskin e Morris, sostenitori della necessità di trovare un punto d’incontro fra Arte, Industri e Società; a ciò era connessa la necessità, sostenuta da Semper e Cole, di spostare l’asse dell’educazione artistica dalle Accademie tradizionali a scuole dedicate all'insegnamento delle arti decorative. Accanto alla fondazione di queste ultime, venne associata la creazione di Musei di arte applicata all’industria: si trattava di un programma educativo preciso che aveva il fine di inserire la componente estetica nei prodotti industriale, così da democratizzare l’Arte e abituare tutte le classi sociali alla fruizione, al possesso e alla creazione del bello. Il modello inglese e la sua attenzione al design e alla produzione industriale, fecero scuola negli STATI UNITI, dove molti dei musei fondati a fine Ottocento ne adottano le finalità formative rivolte allo studio dell’arte e alla sua applicazione agli oggetti di uso comune.
 In Europa, sull’onda di questi fermenti e del successo ottenuto dalle prime sperimentazioni, per tutta la seconda metà dell'800 si assiste al susseguirsi di grandi esposizioni nazionali e universali, alla fondazione di scuole dedicate all'insegnamento delle arti applicate e alla creazione di musei di arte decorativa, ispirati al modello inglese. La zona più ricettiva fu il Nord Europa. VIENNA e BERLINO si dotarono dei loro musei di Arte applicata fra il 1863 e il 1867, negli anni successivi toccò alle altre principali città tedesche. Nel 1855 a PARIGI si era tenuta la seconda Esposizione Universale, anch’essa in una struttura in ferro e vetro. La città disponeva già dal 1794 del Conservatorio delle arti e dei Mestieri, una istituzione nata in clima rivoluzionario per incentivare lo sviluppo sociale ed economico della nazione. Le collezioni del conservatorio comprendono strumenti scientifici, macchinari, attrezzi, disegni, e ogni sorta di oggetti in vario modo legati all'evoluzione della tecnica. I musei nati con un indirizzo dichiaratamente tecnico-scientifico saranno meno preoccupati delle valenze estetiche dei prodotti esposti, e dunque non direttamente interessati a dimostrare le molteplici potenzialità insite nel connubio arte-industria.
 In ITALIA il processo di Industrializzazione si avviò con ritardo, solo negli ultimi decenni dell’800, e interessò specialmente le aree settentrionali. Uno specchio della situazione italiana fu la prima Esposizione Nazionale tenuta a FIRENZE nel 1861. Nata per celebrare la nuova nazione, L’esposizione Italiana Agraria, Industriale e Artistica aveva il carattere enciclopedico e onnicomprensivo delle manifestazioni che si realizzavano in quegli MUSEI DI STORIA NATURALE Nella seconda metà dell’Ottocento, ebbero grande impulso i musei naturalistici, organizzati su basi scientifiche moderne, lontane dal concetto di meraviglia, che aveva invece guidato le esperienze del tardo Cinquecento, inizio Seicento.
 Fra la fine del XVI e l’inizio del XVII le collezioni naturalistiche sconfinarono nelle wunderkammern, vere e proprie stanze delle meraviglie in cui si potevano trovare i reperti più insoliti associati ad ogni sorta di opere, rarità e prodigi creati dall’uomo. Tra le raccolte naturalistiche più antiche troviamo quella di Ulisse Aldrovandi, naturalista bolognese databile poco oltre la metà del 500 e quella del napoletano: Ferrante Imperato,di cui abbiamo un’illustrazione datata 1599. L’immagine di Imperato, insieme a quelle del Veronese Calzolari (1622);quella del medico Milanese Manfredo Settala; del marchese Ferdinando Cospi a Napoli; del gesuita Kircher a Roma e del naturalista Worm di Copenhagen, evidenza la loro disposizione “a incrostazione” sulle pareti, dentro gli armadi e scaffalature e perfino sul soffitto della stanza → questo generava stupore e fascinazione. Questa tipologia collezionistica, diffusa soprattutto nel nord Europa, divenne sempre meno frequente e, passando attraverso la progressiva specializzazione del sapere tipica dell’Epoca dei Lumi, le raccolte confluirono in musei pubblici, ponendo diversi problemi di ordinamento (soprattutto in termini di spazio). L'accrescimento progressivo che caratterizza queste collezioni renderà infatti difficoltoso il loro inserimento entro gli spazi museali per loro natura limitati, mentre la grande difformità delle caratteristiche fisiche dei reperti comporterà impegnative soluzioni di allestimento e l'utilizzo di grandi aree destinate a deposito. Col tempo, la progressiva specializzazione del sapere iniziata in epoca illuminista e la conseguente suddivisione in ambiti scientifici hanno però offerto una soluzione ai problemi museologici e museografici delle raccolte naturalistiche: non più il microcosmo ricomposto in un singolo spazio museale ma diversi nuclei dedicata all’approfondimento dei vari aspetti della natura.
 La divisione organizzata dei diversi ambiti scientifici comporterà la fondazione di musei specializzati nella storia, nelle scienze naturali, nell’astronomia, nella fisica e così via. Tali suddivisioni faciliteranno l'allestimento di gruppi omogenei, ma non risolveranno il problema della grande quantità di materiali, che nei musei naturalistici più grandi possono raggiungere anche cifre inimmaginabili. Fra le realtà più importanti vanno ricordati:
 - a LONDRA il Natural Hystory Museum, (81871-1881) - a PARIGI il Museum di Histoire Naturelle (inizio ‘900); - a VIENNA il Naturhistorisches (1872-1889) → Progettato da Gottfried Semper e Karl Hasenauer, domina la piazza in cui si trova anche il Kunsthistorisches, vero e proprio tempio della Storia dell’Arte. L’edificio si articola attorno ad una corte centrale ed è illuminato dalla luce naturale, sia laterale che zenitale; è uno dei più grandi musei di storia naturale del mondo e comprende una vastissima gamma di sezioni, che vanno dalla paleontologia alla botanica , materiali di natura e dimensioni così diverse da richiedere criteri di allestimento molto differenziati. Una soluzione ampiamente usata nei musei di storia naturale che ospitano pezzi di grandi dimensioni, come gli scheletri degli animali preistorici è la corte vetrata, soluzione per altro assai scenografica. E’ il caso del Museum fur Naturkunde di BERLINO (1883-1888).
 In questi musei come anche in quelli di arte applicata, l’approccio adoperato è interattivo e multimediale → partecipazione emotiva dei visitatori, i quali possono così meglio comprendere la valenza dei materiali esposti. Tale impostazione prettamente didattica, rischia però di penalizzare il contenuto esposto in funzione di una spettacolarizzazione eccessiva, spesso infatti la partecipazione comporta la fruizione più di riproduzioni che non dei materiali effettivi. 6. UN MUSEO PER LA CITTA’ : NASCITA DEI MUSEI CIVIVI IN ITALIA Una tipologia tipica di museo dell’Italia postunitaria è il museo civico. Le ragioni della sua istituzione sono diverse: anzitutto, vi è una pratica assai diffusa per cui collezioni importanti vengono legate alla città dai loro stessi proprietari, con la precisa intenzione di farne un museo. - Ciò accade a VENEZIA, con la collezione Correr nel 1830 - a BOLOGNA, dove un museo civico venne istituito nel 1881, per raccogliere le collezioni naturalistiche Aldovandi e Cospi, quella di Pelagio Pelagi e i reperti archeologici provenienti dagli scavi del territorio - a MILANO, il comune acquisiva nel 1861 le opere dello studio dello scultore Marchesi, nel ’63 la collezione Guasconi e nel ’65 quelle del Bolognini. Erano collezioni inadatte alla pinacoteca di Brera (la prima perchè composta da sculture moderne, le altre perchè accanto ai dipinti figuravano ceramiche, mobili, disegni antichi e moderni). Nel corso del secondo '800 moltissime furono le città italiane che fondarono musei deputati alla conservazione delle memorie cittadine e del territorio. Un altro elemento che ne favorì la nascita fu l'affermarsi di una nuova legislazione, che ridimensionava di parecchio il potere temporale della Chiesa.
 Già nel 1850 la legge Siccardi rompeva l’alleanza fra Stato e Chiesa. Tra i privilegi ecclesiastici da abolire, oltre al foro ecclesiastico (tribunale separato che sottraeva alla giustizia laica gli uomini di chiesa) e al diritto d’asilo (l’impunità garantita a chi trovava rifugio in chiesa), c’era la cosiddetta “manomorta”, che riguardava l’inalienabilità dei possedimenti ecclesiastici e la loro esenzione dalle imposte. Questi provvedimenti furono poi rafforzati dalla Legge Rattazzi del 1855, con cui venivano aboliti gli ordini ecclesiastici privi di utilità sociale. Sulla stessa linea si ponevano le Leggi eversive dell’Italia Unita del 1866, di cui la prima negava il riconoscimento a ordini e congregazioni religiose e ne espropriava i beni, i quali confluirono nel demanio statale. 7. IL DIBATTITO SUL MUSEO NEL NOVECENTO : LA CONFERENZA DI MADRID DEL 1934 Le forme con cui era stato concepito il museo ottocentesco (neo-greco, neo- romanico, neo-rinascimentale, neo-barocco), alle soglie del XIX secolo non rispecchiano più le esigenze di una società profondamente cambiata.
 Già in precedenza si era verificata una deviazione delle tipologie di museo divenute canoniche con South Kensington Museum: aveva adottato delle leggere strutture in ferro e vetro inaugurate dal Crystal Palace dell’esposizione universale Londinese del 1851. Le grandi esposizioni universali avevano aperto la strada ad una prassi per cui i principi che regolano i luoghi del commercio potevano essere applicati agli spazi espositivi, inserendo corti vetrate, materiali nuovi come il cemento armato, ballatoi e gallerie, ampi spazi di accoglienza e un percorso libero, che vuole sottrarre il museo alla solennità degli edifici tradizionali, creando un rapporto col pubblico più confidenziale e diretto. Un esempio è il progetto elaborato da Otto Wagner in occasione del concorso per il Kaiser Franz Joseph-Stadtmuseum (non realizzato), dove tre ordini di gallerie illuminate da lampioni circondano un grande vestibolo centrale, nell’intento di trovare un accordo fra monumentalità e funzionalità, tradizione e modernità, piegando gli stili storici alle necessità pratiche. La spaziosa hall a pianta quadrata è infatti una sorta di rilettura del tema della rotonda. Tuttavia non è solo la forma del museo ad essere messa in discussione, ma anche il suo ruolo nella società deve ora tener conto di un pubblico molto più vasto che desidera essere inserito nei circuiti culturali, ma che ha anche bisogno di essere guidato. In Europa, la concezione di museo come “servizio” stenta a prendere piede, mentre è in AMERICA che si verifica una curiosa contraddizione: i musei d’Oltreoceano infatti, sono evidenti omaggi alla museografia europea, ma si discostano completamente per quanto concerne l’impostazione.
 I musei americani – Cleveland, Baltimora, Filadelfia – sono caratterizzati da una forte vocazione didattica e dal nesso con la produzione industriale. Jhon Cotton Dana, creatore del Newark Museum(1909), si oppone alla visione europea di museo → pensava che questa istituzione dovesse servire al miglioramento del design, utilizzando i prodotti dell’industria e promuovendo una collaborazione con i grandi magazzini, le scuole e i centri di produzione. Il compito del museo era incuriosire, intrattenere il pubblico, porsi in rapporto con la vita della gente comune, contribuendo così alla sua crescita intellettuale. Si elabora quindi una nuova idea di museo come servizio pubblico (pensiero di George Goode). E’ evidente il debito americano nei confronti del South Kensington Museum, che fin dalla sua fondazione nel 1852 aveva avuto come scopo quello di utilizzare l'educazione all'arte per migliorare la qualità dei prodotti industriali e per far questo affianca oggetti antichi e copie di opere celebri, perchè a entrambi era affidata la funzione di modelli → in quest'ottica gli aspetti conservativi passavano in secondo piano, aprendo il campi a una concezione dinamica e propositiva del ruolo del museo. Mettere in pratica le nuove idee era un compito che agli americani veniva facilitato in quanto si trattava di musei di nuova fondazione, svincolati dalle limitazioni del reimpiego di edifici antichi. Nel Cleveland Museum of Art, il prospetto neoclassico con pronao tetrastilo ionico e la maestosa rotonda convivono con una delle più moderne e razionali organizzazioni di un’esposizione pubblica: un piano principale riservato alle collezioni, con al centro la rotonda, fiancheggiata da due gallerie vetrate, una per le esposizioni, l’altra pensata come giardino coperto per la sosta; un basamento dove sono collocati gli uffici amministrativi e i servizi al pubblico, cioè sale da studio, biblioteche, sala conferenze e uno spazio dedicato ai bambini. Nel museo di Cleveland, peraltro, fa la sua prima comparsa negli Stati Uniti la “Period Room” (cioè la “sala d'epoca”, che diverrà tipica nei musei americani), creata per contestualizzare più facilmente opere svincolate dalla loro destinazione originaria. Si tratta dell’accostamento di materiali della stessa epoca in modo da ricostruire l’ambiente per il quale ogni oggetto era stato creato, dal salotto settecentesco alla cappella italiana del Rinascimento.
 Il successo delle Period Room risiede nella loro straordinaria efficacia didattica.
 L’idea del museo come veicolo di comunicazione di massa si intensifica nel periodo fra le due guerre, quando all’interno della Società delle Nazioni viene creata la Commissione Internazionale della Cooperazione Intellettuale (CICI) → creata su proposta francese nel 1922 e presieduta da Bergson, aveva lo scopo di promuovere gli scambi interculturali fra gli stati membri e stabilire relazioni reciproche nel segno dell'appartenenza a una più vasta comunità. Dalla CICI nacquero altre sottosezioni di cui quella per le Lettere e le Arti aveva, fra i suoi membri, Henri Focillon, figura che si rivelerà fondamentale nell’organizzazione sul piano culturale della Società delle Nazioni. L’interesse di Focillon per i musei si era consolidato a Lione, dove nel 1913 era stato nominato direttore del Museo di Belle Arti e dove ricopriva la cattedra di Storia dell’Arte all’Università: l’aver affiancato l’attività didattica a quella del riordino delle collezioni gli consentì di svolgere il suo ruolo all’interno del museo seguendo criteri storico-artistici che seguivano la sua ricerca di studioso in campo artistico. Il museo è visto da Focillon come luogo eletto per gli studiosi, i quali godono della possibilità di operare raffronti sul piano tecnico, formale e materiale. Tuttavia non deve rispondere solo alle esigenze dello storico dell'arte: queste esigenze vanno conciliate con quelle di un pubblico meno qualificato e più numeroso. Per far questo però, il museo ha bisogno di rinnovarsi, cancellare l'immagine del museo ottocentesco per assumere una veste diversa, radicata nell'attualità. Nel 1921 si tenne a PARIGI l’XI Congresso Internazionale di Storia dell’Arte e vi prese parte anche Focillon. Qui lo studioso ebbe modo di esporre le sue tesi museografiche, presentando un testo dal titolo “La concezione moderna del Museo” e tornò sull’argomento ancora nel 1925, questa volta a Ginevra. Nella sua analisi, Focillon afferma che la tradizione ottocentesca aveva contrapposto due tipi di musei: quello dedicato agli artisti, che concepisce la storia dell'arte come Il progetto più originale fu quello presentato da Le Corbousier: la struttura era costituita da tre navate che, partendo dall’alto, si sviluppavano a spirale che si ingrandiva sul fondo, prendendo la forma di una piramide. Da questo progetto, che non vinse il concorso, l’architetto prese spunto per l’idea del Museo a crescita illimitata . Si tratta di una struttura in esplicita polemica con la solennità dei musei ottocenteschi, poco costosa, costruita di materiali semplici, senza facciata e, ovviamente, flessibile. Questo tipo di museo è basato sul modulo quadrato e sulla spirale; le pareti sono costituite da pannelli mobili che possono essere facilmente spostati; l’illuminazione è zenitale, diffusa attraverso un soffitto vetrato. Nella mente di Le Corbusier, il Museo è visto in senso funzionale, come una macchina per esporre. Una posizione così netta suscitò chiaramente forti reazioni, come quella del francese Auguste Perret che rispose alla spoglia macchina di Le Corbusier con il suo Museo dell’Avvenire ( presentato sulle pagine di Museion, 1929 ), capace di conciliare gli aspetti monumentali con le risorse tecniche dell'attualità . Realizzato in cemento armato, è una struttura che accetta il doppio percorso, concentrando i capolavori nella rotonda centrale da cui partono gallerie poste a raggiera concluse in sale circolari e quadrate; davanti alla rotonda si trova poi una grande corte rettangolare porticata su cui si affacciano le sale di congiunzione che conducono alle gallerie di studio. La proposta è dunque ancora radicata a schemi tradizionali, congiunti però ai principi di flessibilità e di percorso libero e all’uso del cemento armato. Nel 1934, sempre su Museion, Paul Philippe Cret prendeva posizioni contro la riduzione del museo alla nudità di un magazzino costruito in economia, esponendo la necessità di armonizzare l’ambiente alle opere esposte.
 L’Office Internationale des Musées si dedicava poi a Restauro dei dipinti e restauro architettonico. Al primo venne dedicata una conferenza a ROMA, nel 1930, per fare il punto sui nuovi criteri di intervento (meno invasivi e più rispettosi della storia dell'opera) e su migliori condizioni di conservazione. A distanza di un anno fu poi organizzata ad ATENE la prima Conferenza Internazionale sulla Conservazione dei Monumenti Storici, che elaborò un decalogo, la Carta di Atene, nel quale i principi formulati a Roma erano trasposti anche al restauro architettonico, per cui si istituisce l’assoluto rifiuto per quella pratica ottocentesca dei rifacimenti in stile. La Carta di Atene e la conferenza romana costituirono il primo passo di quella via che si concluse a VENEZIA, nel 1964, con la Carta internazionale del Restauro. La Conferenza di Madrid del 1934 fu invece il momento riassuntivo dell’acceso dibattito sull’idea di Museo. La scelta di MADRID va collegata al riordino del Prado da poco messo in atto e che rispecchiava molti dei più moderni criteri allestitivi emersi in quegli anni. Ispiratore e il grande protagonista della Conferenza fu Louis Hautecœur, conservatore del Louvre e docente alla scuola superiore di Belle Arti, in cui dal 1927 era ufficialmente inserita come disciplina di studio, la Museografia. Le sue dettagliatissime riflessioni in ambito museografico erano state presentate ad una conferenza all’Ecole du Louvre, l’intervento era stato poi riportato su Mouseion e, dopo essere stato ampliato, aveva costituito l’intervento di apertura della conferenza di Madrid. Nel saggio, Hautecœur ripercorreva la storia e lo sviluppo delle varie forme architettoniche utilizzate per spazi espositivi, per poi procedere con l’elenco dei principali temi di dibattito in merito alle nuove forme e alle nuove esigenze a cui adattarsi nel XX secolo: pianta dei musei, distribuzione delle opere, forma delle sale, possibilità di ampliamento, materiali di costruzione, la decorazione. Il testo non aveva la pretesa di risolvere i quesiti che si poneva, ma di fornire una base per la discussione in modo che fosse il più completa possibile: - il museo è destinato a chi già conosce o a un pubblico più ampio? - Deve limitarsi a valorizzare poche opere scelte accuratamente o documentarne il più possibile? - Se il museo è un organismo che cresce, quale risposta dare al problema della flessibilità? - Esiste una pianta ideale? - Qual'è il rapporto tra ambienti di servizio e sale espositive? - Quanto alla decorazione, il museo va concepito come opera d'arte autonoma rispetto a quelle che racchiude o va considerato una semplice macchina per esporre oggetti? Hautecœur era perfettamente consapevole delle soluzioni che negli anni si erano adottate ai problemi da lui elencati, ma programmaticamente fornisce esempi validi per l’una e per l’altra tesi, facendo così emergere le antinomie funzione- decorazione, selezionare-ambiente, spazio fluido- percorso obbligato → queste possono essere ridotte al binomio rinnovamento-tradizione.
 Dei diciannove relatori della conferenza, solo Clarence Stein era architetto; gli interventi vengono raccolti in due volumi: - il primo dedicato all’architettura esterna e all’allestimento delle sale; - il secondo dedicato ai problemi allestitivi delle diverse tipologie di collezioni. Un tratto che rende i due volumi particolarmente preziosi è il corredo fotografico. Il tema dell’illuminazione viene trattato nell’intervento di Stein ( siamo negli anni in cui la luce elettrica faceva la sua prima apparizione nei musei, andava dunque considerata al pari degli altri elementi facenti parte della composizione architettonica ).
 Altro argomento centrale della conferenza è il nuovo imperativo della progettazione museale, la flessibilità, che interpretava l'interno come spazio aperto e globalmente percepibile ( pertanto il rifiuto delle ricostruzioni d’ambiente ). L’oggetto esposto vedeva restituita la sua qualità di frammento decontestualizzato, questo comportava per i relatori di Madrid il venir meno alla perdita di rilievo di alcuni capolavori che, nelle periodic room, divenivano invece parte di un insieme; la flessibilità in questo senso si poneva in netto contrasto con la rigidità dei precedenti sistemi espositivi.
 8. L’EPOCA D’ORO DELLA MUSEOGRAFIA ITALIANA : I MUSEI NEL SECONDO DOPOGUERRA 1953 → Guglielmo de Angelis d’Ossat, direttore generale delle Antichità e delle Belle Arti, pubblicava un ampio rapporto sul ripristino dei musei italiani, iniziato a partire dalla fine della guerra. L’opera di ricostruzione aveva coinvolto oltre centocinquanta musei e non si era limitata al ripristino della situazioni preesistenti, ma aveva avuto come scopo il loro miglioramento, laddove era possibile. Le collezioni erano rimaste pressoché indenni, grazie all’ottimo lavoro svolto dalle soprintendenze, ma occorreva sostanzialmente agire su due fronti: il restauro delle sedi espositive e il loro rimodernamento. A quasi vent’anni dalla conferenza di Madrid, l’Italia decise di adeguarsi ai principi guida affermati nell’incontro. Naturalmente era chiaro al direttore il ben noto problema del connubio fra edificio storico e precetti moderni, ma nella relazione venivano anche espose soluzioni che in effetti si erano rivelate efficaci: la sistemazione del Museo Nazionale di San Matteo a Pisa, realizzata da Sanpaolesi (connubio ben riuscito fra un antico monastero e la funzionalità moderna); la sistemazione proposta in Palazzo Bianco a Genova ad opera di Franco Albini; le gallerie dell’Accademia a Venezia con il ripristino della Scuola della Carità. Grande spazio era concesso poi ai problemi di illuminotecnica e di controllo dell’umidità, per cui si fornivano soluzioni efficaci.
 I musei milanesi furono quelli maggiormente colpiti dai disastri bellici, ma fu proprio MILANO, assieme alle già citate Venezia e Genova, a fornire le soluzioni migliori e più moderne. Nel quadro dei rifacimenti, quello della Pinacoteca di Brera (riaperta nel 1950) rappresenta un caso esemplare dell’incertezza fra tradizione e modernità. Il rifacimento avvenne sotto la direzione di Ettore Modigliani, che affidò l’incarico a Portaluppi, brillante architetto già autore del riordino della biblioteca fra il 20 e il 24. Si tratta, come si può vedere, di una scelta di continuità già nella scelta dell’architetto, il cui risultato viene però definito aulico e nuovo allo stesso tempo; aulico nell’uso di marmi preziosi che conferivano solenne eleganza, nuovo nella disposizione nitida e ordinata dei dipinti su un solo registro, con pause scandite, sulla parete neutra e nella trasformazione dei sistemi di illuminazione. Non mancavano neppure soluzioni che ammiccavano alla tecnica dell’ambientazione, come le sale ellittiche destinate ai dipinti settecenteschi, la “cappella” per la pala di Raffaello e lo “studiolo” pensato per Piero della Francesca. Anche a Brera, però, non mancò un forte segno di rinnovamento, pur riservato ad un ambiente minore. Per volontà di Pacchioni (soprintendente alle Gallerie dal '39 al '46), memore degli interventi a Torino e a Pesaro, fu affidata ad Albini la progettazione delle salette attigue alle sale napoleoniche. Negli anni della guerra, a Brera, erano state organizzate diverse mostre di arte contemporanea, allestite proprio da Albini, che aveva introdotto negli aulici ambienti della pinacoteca strutture leggere e flessibili, mutuate dal mondo industriale: - per la Mostra dell’oreficeria italiana, i preziosissimi oggetti erano esposti in vetrine sostenute da aste metalliche ancorate al soffitto, con un sorprendente effetto di sospensione e trasparenza; - per la mostra di Scipione si era invece servito di montanti in legno fissati al soffitto con cavetti d’acciaio a cui si agganciavano i supporti per i quadri e le lampade. Con queste esperienze alle spalle, Albini unifica le salette in una galleria continua (corridoio Albini) in cui pannelli dalle tonalità chiare erano sospesi nello spazio e disposti “a pettine”, creando dei vani per le pitture venete di formato minore. L’illuminazione del corridoio Albini era duplice: quella naturale poteva essere schermata da una doppia tenda avvolgibile, una bianca e una nera, a seconda delle esigenze; quella artificiale era invece nascosta grazie ad una soffittatura a due livelli. Fu però a GENOVA che Albini realizzò i suoi più importanti interventi: 
 Al PALAZZO BIANCO Albini svolge il suo proposito di ambientare non più l’opera, ma il pubblico. Lo scopo era quello di mettere in rapporto il visitatore e il museo, attraverso l’uso di strutture semplici, di elementi d’arredo semplici e familiari che dunque non attiravano l’attenzione, la quale poteva essere dedicata alle sole opere in mostra. Così facendo, l’allestimento non entrava in competizione con l’architettura settecentesca del palazzo, che restava interamente leggibile. Le scelte che guidarono tutta l’operazione furono essenzialmente due: la rigorosa selezione delle opere in base alla qualità dei dipinti e l’eliminazione di tutti gli elementi di arredo aggiunti a posteriori, comprese le cornici dei quadri non coeve alla realizzazione dell’opera. Le scelte cromatiche sono anch’esse parte fondante del lavoro di Albiani: - i pavimenti sono in ardesia con piccoli riquadri bianchi, - le pareti sono chiare e i supporti neri e grigi; solo le tripoline in cuoio interrompono l’armonia di grigi. - La luce è naturale, filtrata da tendine a listelli orientabili e artificiale, diffusa da lampade fluorescenti che scendono dal soffitto tramite cavi d’acciaio. Icona del Palazzo Bianco è la sala dedicata al frammento di Giovanni Pisano con L’Elevatio animae di Margherita di Brabante: era presentato su una parete di ardesia e illuminato dalla luce naturale; la difficoltà maggiore stava nella collocazione originaria del frammento che venne sapientemente risolta ponendolo su due mensole asimmetriche innestate su un sostegno in acciaio mobile, che ne consentiva l’innalzamento e la rotazione. L’irregolarità del gruppo scultoreo era stata sfruttata perché lo spettatore potesse scegliere liberamente da quale angolazione guardarla, trasformandolo così in soggetto attivo. Il frammento di Pisano venne spostato due anni più tardi nel Museo Lapideo di Sant’Agostino: questo avvenimento mostra come la presunta flessibilità ricercata dai rifacimenti novecenteschi, fosse in realtà un’opera chiusa; cambiando la sede dell’opera, medesima funzione. In realtà, ancora una volta la flessibilità era solo teorica, se non per piccoli interventi: ne è un valido esempio la Sala degli Scarlioni in cui vennero inserite venti statue, che ne modificarono il ritmo altrimenti perfetto. A conclusione del percorso della scultura era posta la Pietà Rondanini che, posta al termine di una grande scalinata, sorprendeva il visitatore. Più pacati sono i toni del piano superiore, che ospitava il mobilio e la pinacoteca. Nel settore dei mobili si rinunciò completamente al criterio dell’ambientazione, presentandoli staccati dal pavimento su ripiani di diverse altezze. La pinacoteca invece presentava i quadri esposti su pannelli componibili rivestiti in tela di colore neutro. Solo nella Sala della torre d’angolo, per questioni legate anche all’illuminazione, vennero realizzate delle quinte in muratura. Del rifacimento BBPR è rimasta sostanzialmente immutato solo il percorso della scultura, con l’eccezione della Sala degli Scarlioni. Sempre a Milano, anche la Galleria d’arte moderna venne danneggiata e le antiche scuderie che occupavano un’area trapezoidale a fianco del palazzo erano completamente distrutte.
 Nel riordino, Baroni decise di dedicare la struttura solo alle opere ottocentesche, mentre le opere contemporanee vennero posizionate in uno spazio distinto che, nel progetto di Ignazio Gardella, ricalcava il perimetro delle scuderie distrutte . Nasceva così il PAC, Padiglione di Arte Contemporanea, inaugurato nel 1953. Gardella aveva deciso di rispettare i valori storici preesistenti, la villa e il giardino all’inglese progettati da Pollack, ma anche la memoria delle porzioni distrutte, mantenendo le proporzioni del giardino di servizio fra la villa e le scuderie, così come la planimetria irregolare e lo sviluppo in altezza. La struttura era costituita da una serie di stanze esagonali, le cui pareti si interrompono in un punto di raccordo; una vetrata aperta si pone poi in dialogo con l’esterno. Gardella è “classico al di là del tempo”, il suo museo infatti si caratterizza per una straordinaria qualità formale, operando per sottrazione e seguendo i precetti di ordine, misura e modularità. Chiaramente, ponendosi nella tendenza architettonica canonizzata a Madrid, il museo presentava le caratteristiche di funzionalità e flessibilità. Come si diceva all’inizio, la terza città che si distinse negli ani ’50 per gli interventi museografici è VENEZIA. Qui l’architetto Carlo Scarpa aveva avuto modo di curare gli allestimenti di una serie di mostre che servirono per sperimentare metodi e soluzioni applicabili alle collezioni permanenti. Ne sono esempi la sala dedica a P.Klee per la biennale del ’48 e quello della mostra di Giovanni Bellini del ’49. Fra il ’46 e il ’49, infatti, prendono avvio i primi interventi di Scarpa operati sulle Gallerie dell’Accademia, in collaborazione con l’allora direttore Moschini. La linea fu quella delle esperienze contemporanee nel resto d’Italia: si eliminarono le cornici non pertinenti, si operò una scrematura fra le opere da esporre, le pareti vennero spogliate delle tappezzerie e trattate con intonaci lavorati per differenziare le sale, le opere erano presentate su pannelli e disposte con lievi variazioni per non creare effetti monotoni, la loro disposizione teneva conto dell’incidenza della luce naturale, prediletta da Scarpa. Nella Sala dei Primitivi riaprì le grandi finestre chiuse nell’ottocento. Nel 1953 Scarpa cominciò a lavorare al riallestimento delle sezioni storiche del Museo Correr, condotto in parallelo con la realizzazione della mostra su Antonello da Messina e la pittura del '400 in Sicilia, altro momento altissimo della sua carriera. La mostra su Antonello si distinse soprattutto per le invenzioni, l’eleganza inarrivabile delle sale interamente ricoperte in calicot bianco pieghettato e per lo studiato rapporto fra le tele esposte e le fonti luminose. Tutta questa esperienza confluì nell’allestimento Correr, le cui collezioni storiche raccoglievano una vastissima gamma di oggetti tutti diversi, con infinite possibili soluzioni allestitive. Particolarmente felice fu quella adottata per la sezione dei costumi, presentati in semplicissime vetrine di cristallo e ferro, abbinati alle bandiere e ai vessilli applicati su teli di stoffa, così da rievocarne la funzione originaria. Una serie di gradi dipinti di dogi, dignitari e condottieri, metteva in relazione gli abiti rappresentati con quelli esposti, completando la sala. La quadreria fu allestita l’anno successivo al piano superiore: venne fatta la solita scrematura e i dipinti che rimasero fuori dal percorso espositivo vennero inseriti in depositi visitabili. La regolarità della pianta del piano superiore si prestava ad accogliere quadri di piccolo formato, da collezione private quale era quella Correr; le opere erano presentata con pause calibrate sulla parete chiara, solo alcune su cavalletti appositamente costruiti; la luce era quella naturale, filtrata da tende di seta leggera, che conferivano ulteriore armonicità a tutto l’impaginamento. (Argan: l’allestimento è definizione critica in atto”). In questa linea, non sorprende che l’unica opera che rompe la ritmica dell’allestimento sia la Pietà di Antonello da Messina, la più illustre della collezione. Questa era collocata diagonalmente su una quinta di travertino e si imponeva alla vista del visitatore che immediatamente ne coglieva l’importanza. L’architettura come strumento critico, l’invenzione di soluzioni studiate appositamente per ogni singola opera, la sensibilità per la luce naturale, la cura artigianale nella realizzazione dei supporti sono gli elementi fondanti della museografia di Scarpa, adottati anche nell’allestimento di Palazzo Abatellis a Palermo del 1953 e nella Gipsoteca di Possagno del 1956. A VERONA, nelle Sale di Castelvecchio, con la mostra Da Altichiero a Pisanello del 1958, Scarpa compì il primo intervento nella Reggia Veronese, su incarico del direttore Magagnato. L’intero intervento sula Reggia occupò Scarpa fino al ’64: fu particolarmente difficile perché doveva procedere di pari passo col restauro e dovette fare anche i conti con i ritrovamenti del vallo trecentesco e della Porta del Morbio che comportarono la distruzione della caserma napoleonica che li aveva occultati; venne invece conservato il prospetto verso il cortile con la ricostruzione di facciate gotiche veronesi messe in opera nell'allestimento degli anni ’20. Le statue presentate all’interno sono collocate su supporti pensati appositamente e dunque diversi fra loro; nell’allestimento queste non negano il loro carattere di frammento, estrapolato dal contesto, ma rientrano comunque nell’armonia del progetto di Scarpa e si riappropriano del loro valore intrinseco. Assai dibattuta fu la collocazione del pezzo più emblematico del museo, la Statua equestre di Cangrande della Scala; in un primo momento la si voleva all’esterno, come Nel 1977 a PARIGI viene creato il Centre Pompidou, dal nome del presidente francese che ne aveva proposto l’istituzione. Alla base di questa operazione c’è l’assoluta volontà di Parigi di rilanciarsi sulla scena dell’Arte Contemporanea, che vedeva ormai in New York la sua capitale. Il Pompidou, già nella sua definizione di “Centro”, dichiara la propria volontà di distinguersi dalle istituzioni tradizionali ponendosi obiettivi che non si esauriscono nella conservazione, nell'esposizione e negli usuali rapporti col pubblico. Il Centro Pompidou si caratterizza per un approccio interdisciplinare alla cultura contemporanea: al suo interno infatti, le arti visive si accompagnano al cinema, alla fotografia, alla musica, al design; attraverso poi un centro di documentazione che comprende videoteca, biblioteca, cineteca e una sezione dedicata alla musica e all’acustica, promuove la ricerca sulle varie discipline. Il museo, progettato da Renzo Piano e da Richard Rogers, è costituito da un parallelepipedo vetrato, attraversato in facciata dal nastro delle scale mobili e con le tubature a vista, variamente colorate in base alla funzione, sul retro. Siamo negli anni che seguono le rivolte studentesche del sessantotto e, in generale, la formazione della contro-cultura; questa investe anche il Museo, che perde la sua antica aura di sacralità (“contestazione” parola d'ordine). La trasparenza poi, come già nel MoMa e nella Neue di Berlino, contribuisce all’eliminazione totale del confine fra la vita quotidiana e lo spazio sacro del museo. Lo spazio interno alterna vaste zone di accoglienza a spazi dedicati alle mostre temporanee; alla collezione permanente – impostata come prosecuzione del D’Orsay – erano riservati il secondo e il terzo piano, ma l’impianto espositivo troppo dispersivo è stato sostituito negli anni ottanta da un progetto di Gae Aulenti che si articola in modo abbastanza tradizionale. L'enorme successo del Pompidou, che vanta una folla giornaliera di 25.000 persone, ne ha fatto bersaglio di intellettuali che lo considerano una meta del turismo culturale di massa; questo è in parte vero, ma non bisogna ignorare il valore della grande offerta formata da mostre temporanee di prim'ordine e dalle collezioni permanenti, né va ignorata l’influenza positiva esercitata sul quartiere in cui sorge, così come accade per la Tate di Londra o per il Guggenheim di Bilbao. Il Pompidou costituisce l’archetipo di un nuovo corso nella storia di musei: si sviluppa l’esigenza per cui l’architettura non deve, com’era stato nell’Ottocento, uniformarsi ad una tipologia, bensì deve stravolgerla, costituendo un’esperienza a sé. Persino per il Louvre, di fondazione ottocentesca, si sente il bisogno di creare un logo, la Piramide di Ieoh Ming Pei. La spinta a considerare in modo nuovo il museo e quindi a concepirne in maniera diversa la sua progettazione è legato ai cambiamenti avvenuti nell’esperienza artistica: con il surrealismo e la pop- art l’idea di “arte totale” (unione di testo, musica, scenografia, attori) pensata da Wagner in riferimento al tearo lirico, torna in auge attraverso l’installazione a cui talvolta si univa anche l’azione (happening/ performance). A queste nuove esperienze estetiche non poteva non corrispondere una diversa concezione del museo, soprattutto quelli dedicati all’arte contemporanea. Negli ultimi decenni del 1900 il museo è stato uno dei temi centrali della progettazione architettonica perché: • Per le potenzialità che offre sul piano creativo • Per la grande attrattiva che esercita come strumento di comunicazione In modo sempre più forte si è imposto come opera d’arte in sé, quasi a prescindere dalla funzione espositiva che deve svolgere.
 A BERLINO, Judisches Museum di Daniel Liebeskind (1989-98) presenta un'architettura lacerata da continui tagli diagonali che ne tormentano le superfici esterne rivestite di zinco; questa esprime la tragedia dell’olocausto meglio di qualsiasi oggetto esposto al suo interno. Memorial, più che museo, con la sua pianta ispirata alla stella di Davide ma deformata e sconvolta, con i suoi interni oppressivi, feritoie minacciose, comunica al visitatore un senso di angoscia e sofferenza solo attraverso l’efficacia del linguaggio formale. Sulle sponde dell’Oceano Pacifico, il Getty Centre domina la città di LOS ANGELES: frutto di una lunga progettazione portata avanti per oltre 10 anni (1986-97) dall'architetto Richard Meier. È costituito da un insieme di vari edifici dedicati alla ricerca, conservazione e documentazione in ambito artistico. Ne fa parte il Paul Getty Museum, dove la collezione del magnate americano è stata trasferita dalla villa di Malibu, celebre per la sua riproduzione della Villa del Papiri di Ercolano. Il largo impiego di materiali come marmo e travertino suggeriscono l’aspetto di “acropoli”, idea di una cittadella della cultura lontana dalla città, classica e senza tempo. Il museo occupa la parte più panoramica della collina, costituito da 5 edifici autonomi ma collegati da passerelle al livello superiore per dare continuità al percorso. Spettacolare è la rotonda che accoglie il visitatore, con punti informativi, bookshop, guardaroba: grande spazio vetrato offerto alla luce naturale, così come nelle sale dedicate alla pittura sono presenti lucernari. Sorprende trovare nelle sale dedicate alle arti applicate l’allestimento a period room. La fondazione del Guggenheim di BILBAO ha avuto il merito di riqualificare non più un solo quartiere, ma addirittura l’intera città. L’amministrazione cittadina aveva deciso di puntare sul rinnovamento dell'immagine della città costruendo di edifici strategici per opera di celebri architetti: l’aeroporto di Calatrava, la Metropolitana di Foster, la stazione di Stirling testamentari lascia alle istituzioni che ereditano la facoltà di intervenire nella scelta del percorso espositivo. Alcuni donatori invece lasciano nei loro testamenti la condizione di non modificare la conformazione della casa, mantenendo nel tempo la disposizione originaria di opere e arredi. In altri casi ancora, il collezionista non vincola la disposizione di opere e oggetti all'interno della sua dimora, ma impone la costituzione di una fondazione che gestisca il patrimonio donato, in genere indicando persone a lui note come responsabili delle scelte culturali del futuro museo. Es: vicenda di Gian Giacomo Poldi Pezzoli, milanese che alcuni anni prima della sua morte individuava nel pittore Bertini il primo direttore del museo che avrebbe preso vita dalla trasformazione della sua lussuosa abitazione. Aperto al pubblico nel 1881, il Museo Poldi Pezzoli in Italia fu un importante modello di riferimento per i collezionisti che nei decenni successivi donarono le proprie dimore. Nei primi decenni del XX secolo la tipologia della casa-museo vide in Europa e in America ampio sviluppo. Spesso in Europa gli allestimenti originali sono andati distrutti a causa degli eventi bellici ( accaduto al Poldi-Pezzoli ) e la maggior parte delle ricostruzioni hanno annullato le ambientazioni iniziali. In America il modello europeo e ottocentesco della casa-museo ha resistito ben oltre la metà del '900, grazie al desiderio dei collezionisti di legare il proprio nome a un’istituzione museale. 1924 → apre a BOSTON la casa-museo di Isabella Gardner che ancora oggi mantiene l’assetto originario, in quanto aveva subordinato la donazione al vincolo di non spostare alcun oggetto dalla posizione da lei assegnata, a favore dell'aura della dimora abitata. In genere si fanno rientrare sotto la definizione di casa-museo anche le case e gli studi d’artista che, rispetto alla casa-museo ottocentesca di stampo aristocratico o alto borghese, racchiudono una maggior uniformità di oggetti perché frutto del lavoro dell’artista o perché raccolti per servirgli da modello. Nel panorama museale di metà 1800 una parte significativa è costituita anche dalle collezioni artistiche di proprietà ecclesiastica. Sarà solo verso la fine del secolo che inizieranno a costituirsi in Italia i primi MUSEI DIOCESANI.
 Lo scopo principale è quello di riunire e salvaguardare una grande varietà di beni, tra cui reliquie, paramenti sacri, oggetti devozionali, pale d’altare, gruppi scultorei, oreficerie, provenienti da edifici e chiese della diocesi. Il valore estetico dei pezzi musealizzati è spesso subordinato al significato che essi rivestono, quali testimonianze di fede e parte di un progetto di catechizzazione. Nel corso del '900 una serie di atti legislativi e costituzione di organismi preposti al controllo del patrimonio ecclesiastico, testimoniano la consapevolezza da parte della Santa sede dell’importanza di sovrintendere direttamente alla gestione di tali beni. Indicazioni precise sono perciò arrivate perché si organizzassero sul territorio musei in grado di tutelare un patrimonio spesso a rischio, specie se collocato in pievi sperdute e prive di protezione adeguata. Per i musei diocesani diviene così fondamentale il radicamento nella realtà territoriale e il confronto con le altre istituzioni culturali come musei locali e scuole. Specie se di recente formazione, tali musei si presentano come luoghi vitali nella formulazione di proposte culturali e didattiche. Sussistono accanto a questi, musei di più antica formazione legati alla Chiesa: - MUSEI DEL TESORO: allestiti in cripte o sacelli e formati da oggetti di piccole dimensioni - MUSEI DELLA FABBRICA DEL DUOMO: espongono pezzi legati alle vicende edilizie della chiesa, come frammenti scultorei o architettonici - MUSEI MISSIONARI: testimonianze dell’opera di evangelizzazione della Chiesa nel mondo, espongono materiali riferibili alle diverse culture e civiltà incontrate ( assimilabili ai musei etnografici e antropologici ).
 Nel MUSEO ETNOGRAFICO hanno un ruolo centrale gli oggetti, in genere oggetti d'uso e non opere d'arte, che raccontano i costumi e le tradizioni di un popolo. L’interpretazione della cultura che si vuole narrare da parte di museologi e museografi è qui determinante! L'interpretazione del museo etnografico come raccolta di testimonianze materiali di una civiltà esclude le produzioni immateriali, come suoni, danze, rituali, consuetudini, talvolta in grado di raccontare un popolo meglio degli oggetti concreti. Sempre più spesso dunque questi musei si dotano di attrezzature multimediali che riproducono la cultura intangibile a complemento delle opere esposte. ECOMUSEO - Termine coniato in Francia intorno al 1970 da De Varine e Rivière. Esprime l’idea di un museo rivolto alla comprensione e salvaguardia di un’identità culturale, fosse la propria o quella di altri popoli. Approfondisce il legame con la civiltà espressa da un territorio, facendo diventare quest’ultimo e le sue produzioni materiali e immateriali, il bene stesso da tutelare. La finalità prioritaria di questa tipologia di museo è la conservazione e il recupero di tradizioni e attività produttive legate a un determinato territorio.
 In ITALIA l’esperienza degli ecomusei ha il suo epicentro in PIEMONTE.
 MUSEI AZIENDALI - Si tratta di musei nati in seno alle aziende e costituiscono una tipologia di recente formazione. Essi sono la diretta filiazione delle collezioni che le imprese costituiscono con i pezzi storici della propria attività produttiva al fine di conservarne la memoria. I motivi per i quali un'azienda può decidere di trasformare la propria raccolta privata in un museo aperto al pubblico sono generalmente riconducibili a finalità promozionali. Ciò che differenzia invece sostanzialmente questa tipologia museale da quelle tradizionali è l'essere musei in progress, istituzioni per lo più legate a un'azienda ancora produttiva, per la quale la storia pregressa testimoniata dal museo costituisce una sorta di garanzia di affidabilità.