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Il punto di vista - Gianni Turchetta, Sintesi del corso di Letteratura

Riassunto dell'intero libro. Esame di letteratura contemporanea, prof. Salvatore Ferlita, 1 anno in Scienze della Formazione Primaria, "Università Kore di Enna"

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

Caricato il 03/12/2018

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marta-di-francesco 🇮🇹

4.4

(73)

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Anteprima parziale del testo

Scarica Il punto di vista - Gianni Turchetta e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura solo su Docsity! IL PUNTO DI VISTA – GIANNI TURCHETTA 1.Un concetto ambiguo e decisivo. L’occhio che cammina Il punto di vista è uno dei problemi più affascinanti della moderna teoria della narrativa. La riflessione sul punto di vista si è sviluppata all’inizio, soprattutto nell’aerea della critica anglo-americana. Il punto di vista è un concetto necessario per comprendere la dinamica del testo narrativo. Il termine è stato sostituito da altri termini parzialmente assimilabili: prospettiva, visione, sguardo, focus, focalizzazione, angolo percettivo, etc. Ognuno di questi termini implica uno spostamento dell’interpretazione del concetto. Parecchie posizioni teoriche invece, includono il concetto all’interno di categorie di livello diverso. In ogni narrazione, i fatti, i personaggi, lo spazio, gli oggetti, sono visti da una certa posizione. La successione delle parole di un racconto può essere fatta coincidere con il percorso di un “occhio che cammina”. Più esattamente: questo sguardo crea lo spazio della storia. La metafora però, potrebbe indurci erroneamente a pensare che ogni testo abbia un solo punto di vista. Invece l’occhio può anche appartenere a più di un osservatore. Punto di vista percettivo e punto di vista concettuale. Chi legge un racconto è costretto ad aderire al punto di vista attivato dal testo. Inoltre, il racconto è obbligato dalla struttura stessa del linguaggio e della scrittura, a “mettere a fuoco” un elemento alla volta. In questo caso, il punto di vista è un dispositivo che regola il flusso delle informazioni. L’attenzione del lettore è dunque vincolata al punto di vista del testo. Nella lingua comune, l’espressione “punto di vista” sta ad indicare sia un punto di osservazione materiale, sia un’opinione. Alcuni studiosi propongono differenti analisi del significato dell’espressione “punto di vista”. Sono stati, per esempio anche individuati anche un significato grammaticale e un significato stilistico. Per quanto riguarda la prima accezione, essa trova espressione anzitutto (ma non solo) nell’uso dei pronomi e dei tempi verbali. Il significato stilistico viene invece connesso alla presenza di un soggetto che seleziona le varie possibilità in rapporto alla propria posizione nell’atto comunicativo. La maggior parte degli studiosi ritiene comunque che l’opposizione fondamentale sia quella tra il significato visivo quello ideologico del punto di vista. Il punto di vista del testo è sempre parziale. Il lettore, in un certo senso, può “vedere” solo gli oggetti che vengono nominati; anche se può aggiungere con la fantasia tutti i dettagli che vuole. Il punto di vista dà vita a un mondo immaginario e chiaro che quest’immagine costituisce un’interpretazione parziale della totalità del mondo. Ma è altrettanto chiaro che la realtà costituita dal testo tende ad imporsi come un modello di tutta la realtà. Il lettore è chiamato a condividere il punto di vista del testo Guardare o parlare? Il punto di vista del racconto può non coincidere con il punto di vista del narratore. (Il narratore è la figura che all’interno del testo appare responsabile del discorso). Autore, narratore e punto di vista, sono entità diverse che non vanno assolutamente confuse. Il punto di vista e la voce narrante sono in linea di principio distinti perché possono appartenere a figure testuali diverse, il che naturalmente non esclude che appartengono alla medesima figura. Il punto di vista si colloca nella figura che vede, pensa e giudica. Come il narratore anche questa figura può essere collocata dentro o fuori gli eventi. Il punto di vista può essere esterno o interno. Il punto di vista può essere per sua natura oscillante; può addirittura cambiare ad ogni parola. La netta distinzione tra voce e punto di vista ci viene da “Discorso del racconto” del critico e storico Genette. Egli nota come la maggior parte degli studi narratologici soffre di una confusione tra modo e voce, cioè fra le domande “Chi vede?” e “Chi parla?”. Molti discorsi teorici sulla narrativa tendono ad usare il termine “punto di vista” come se coincidesse con il concetto di “punto di vista dominante”. È una sovrapposizione lungamente comprensibile. Non bisogna però dimenticare che il “punto di vista” può cambiare molto rapidamente. Il lettore però non smette di percepire il punto di vista di “qualcun’altro” che domina il personaggio. Questo “qualcun’altro” rimanda la prospettiva complessiva del testo. Il lettore attraverso il testo, si costruisce un’immagine dell’autore. Questa immagine è ciò che la narratologia definisce autore implicito. Il narratore può non coincidere con il punto di vista. Il narratore, può avere idee molto diverse da quelle dell’autore. La linea di principio, non è perciò il narratore che aiuta il lettore a ricondurre ad unità i molteplici punti di vista presenti nel testo. Il lettore non resta in balia delle oscillazioni del punto di vista. Mentre legge, mette costantemente appunto un’ipotesi unitaria che tende a coincidere con il punto di vista dell’autore implicito. La teoria del punto di vista è stata messa a fuoco tra la fine del IX e l’inizio del XX secolo. Adozione del punto di vista interno. L’adozione del punto di vista interno deve far sì che l’esperienza di lettura imiti la dinamica delle esperienze reali. Molti studiosi ritenevano che il punto di vista interno fosse la migliore delle tecniche. In particolare la si dichiarava migliore sia del narratore esterno (onnisciente), sia del narratore in prima persona. Insistevano inoltre anche su un problema di voce. Suggerivano agli scrittori di rappresentare di più. Chiedevano, cioè, di limitarsi il più possibile a mostrare gli eventi. Pensavano che la narrazione dovesse essere il più possibile smile ad un testo teatrale. Non a caso, l’opzione a favore dello “showing” veniva definito “metodo drammatico”, in cui la “drammatizzazione” è prodotta dalla sparizione apparente della voce del narratore. Dal punto di vista alle “situazioni narrative”. Nel volume Capire la narrativa, Brooks e Warren propongono uno schema dei quattro tipi fondamentali di “focus” narrativi: • L’io-protagonista: racconta la storia di cui è protagonista. • L’io-testimone: racconta una storia a cui partecipa; • L’autore oggettivo: racconta dall’esterno una storia a cui non partecipa. • L’autore onnisciente: anche lui racconta una storia dall’esterno ma ha anche la possibilità di entrare nella mente dei personaggi. Genette riprende questo schema sottolineando il fatto che quest’ultimo confonde il punto di vista (interno o esterno) con la questione narratore (interno o esterno alla storia). Molto più articolato è lo schema di Friedman. Egli propone la coppia showing/telling. Per l’autore, addirittura, tutta la letteratura prende vita dall’opposizione showing/telling. La classificazione dei punti di vista, per Friedman, dipende da quattro domande preliminari: sia necessariamente sempre presente in ogni testo narrativo. Booth ritiene utile definire i diversi tipi di narratore del racconto. Egli fa la distinzione fra narratore attendibile, colui che parla o agisce in armonia con le norme dell’opera (cioè con quelle dell’autore implicito), e narratore inattendibile, colui che non lo fa. Possiamo dire che il narratore inattendibile usa tutte parole a “due voci” che mettono in difficoltà il lettore. La questione dell’attendibilità c’impone di riflettere su come il testo narrativo instauri un complesso gioco delle parti fra autore e lettore, imponendo al lettore di usare il proprio sapere e la propria intelligenza per decodificare correttamente l’atteggiamento dell’autore. Per Lotman, invece, il punto di vista del testo è un fatto testuale che evoca anzitutto non solo una visione del mondo individuale, ma anche la visione del mondo di una certa cultura, a cui l’autore inevitabilmente fa riferimento. Riprendendo Lotman, ma anche Booth, Iser propone di affiancare alla categoria di autore implicito quella di “lettore implicito”. Iser mostra come una caratteristica fondamentale del testo letterario sia la sua temporalità. Il testo non è mai disponibile tutto in una volta. Proprio per questo, il testo si presenta a chi legge come “una serie di cambiamenti di punti di vista”, come un “punto di vista mobile” o “vagante”. Il lettore pertanto è chiamato a costruire un’unità e una coerenza che non può mai possedere in modo stabile. Leggere, significa guardare il mondo del racconto con l’occhio che cammina del punto di vista. 2.Dai “vinti” ai “cannibali”: qualche ipotesi sulla narrativa italiana moderna. “Impersonalità” e focalizzazione interna. Secondo Beach il tratto fondamentale della tecnica del romanzo del XX secolo consiste nel fatto che la storia parla da sé. Ma ci sono sconcertanti analogie fra quanto scrive Beach e le dichiarazioni di poetica con cui i nostri veristi andavano sostenendo la necessità della tecnica dell’impersonalità. Per esempio Luigi Capuana, recensendo I Malavoglia li ricollegava alla tradizione narrativa successiva a Honoré de Balzac. Il tratto caratterizzante consiste per Capuana nel fatto che gli scrittori intervengono meno di Balzac nelle azioni o non intervengono affatto. Per aumentare “l’effetto di realtà” dell’opera, sia i narratori veristi, sia James e i suoi seguaci adottano tecniche analoghe. Sembra proprio che, a cavallo tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX, la narrativa moderna abbia scelto di rinnovarsi nascondendo il narratore, allo scopo di spingere il lettore a dimenticare di essere di fronte ad un testo, cioè ad un prodotto artificiale. Fra le tecniche che contribuiscono a dissimulare il narratore, un ruolo di assoluto rilievo spetta al discorso indiretto libero. Il narratore non tace ma si nasconde parzialmente, usando il punto di vista del personaggio. Il discorso indiretto libero implica anzitutto una focalizzazione interna, ma chiama in causa un’imitazione più o meno accentuata del personaggio in cui si citano le parole. Prendendo come esempio I Malavoglia di Giovanni Verga, precisamente il passo che chiude il secondo capitolo, possiamo vedere come sia impossibile interpretare il passo semplicemente come una ripresa in discorso indiretto dei pensieri di Mena Malavoglia. Il lettore percepisce comunque la presenza di almeno un’altra figura, quella del caratteristico “narratore corale” dei Malavoglia, cioè di un narratore fisicamente non identificato (quasi nascosto) che ha i sentimenti e il livello culturale dei personaggi della comunità dei pescatori di Aci Trezza. Dallo “spettatore disinteressato” al punto di vista inattendibile. Se il racconto deve diventare dramma perché il dramma è la forma d’arte in grado di imitare più da vicino la “realtà della vita”, sarà necessario sviluppare al massimo il discorso diretto, il dialogo, in modo che il racconto assomigli il più possibile ad una scena teatrale. Un altro grande scrittore verista, De Roberto, propone una soluzione particolarmente radicale. Le novelle Processi verbali ci fanno ben vedere come sia difficile trasformare davvero in una scena teatrale una narrazione. Anzitutto, perché il narratore è comunque chiamato ad intervenire per fornire informazioni sui personaggi. Ma soprattutto perché la stessa selezione dei dialoghi lascia emergere il punto di vista dell’autore implicito. È però, soprattutto nei Viceré che De Roberto dispiega una strategia di una complessità e modernità straordinarie. De Roberto si attiene ancora alla poetica dell’impersonalità, perseguita mediante l’impiego sistematico della focalizzazione interna. I Viceré viene cioè raccontato da un narratore esterno, il quale non solo evita di fare commenti ma scende continuamente al livello dei numerosissimi personaggi, adottandone la prospettiva. Nel sistema dei personaggi del romanzo, De Roberto costruisce qualcosa simile a una gerarchia di attendibilità, che s’intreccia con la diversa complessità psicologica dei personaggi. Possiamo affermare che dove c’è focalizzazione interna, non abbiamo un narratore inattendibile, ma certo possiamo avere un narratore che si attiene al punto di vista di un personaggio inattendibile. In questo caso, bisognerebbe coniare anche una coppia oppositiva di punto di vista attendibile/punto di vista inattendibile accanto alla classica distinzione di Booth narratore attendibile/narratore inattendibile. In ogni caso, l’autore implicito resta per definizione attendibile. Pirandello e il dialogo interiore. Luigi Pirandello continua a creare curiosi imbarazzi alla critica. Il suo relativismo radicale è in rapporto diretto con la crisi dello scientismo positivista: se la poetica verista si appoggiava a un oggettivismo assoluto, che prendeva corpo nello sforzo di trasformare il testo in un “oggetto”, cioè in un evento (quasi-)reale, Pirandello è invece fautore di un soggettivismo quasi altrettanto assoluto. Conseguentemente, i suoi testi si guardano bene dal cancellare la “mano dell’autore”, ma, tutt’al contrario, esibiscono ad ogni istante la presenza di qualcuno che li costruisce. Anche quando racconta in terza persona, Pirandello mette in campo delle voci narranti che, se non sono proprio narratori personaggi, comunque sono molto ben percepibili, magari anche perché si rivolgono direttamente al lettore. Invece che teatralizzare il racconto, come facevano i veristi, Pirandello narrativizza il dramma rendendolo “cerebrale” e “filosofico”. Non a caso, lo scrittore agrigentino usa spesso la narrazione in prima persona. L’obiezione principale che viene mossa al racconto in prima persona è che si tratta di un procedimento rigido, che obbliga il narratore a raccontare solo i fatti che può verosimilmente avere visto o sentito dire o pensato. Il narratore in prima persona sarebbe bloccato sia nel linguaggio, sia nel movimento della focalizzazione: se parla come non può o, soprattutto, dice cose che non può sapere, produce incoerenze evidenti. Lo stile della narrazione pirandelliana è in sostanza caratterizzato da un continuo slittamento una sull’altra, sia delle focalizzazioni, sia delle voci. Siamo davvero alle prese con un dialogismo molto marcato, che diventa particolarmente scoperto laddove il discorso del narratore si mescola alle voci esterne. Nella su narrativa la rappresentazione dei pensieri è una specie di dialogo interiore. È molto probabile che il modello di questa tecnica sia da ricercarsi nelle opere del grande romanziere russo Dostoevskij. Ma a ben guardare, questo tipo di trattamento della voce e del punto di vista è un altro modo per teatralizzare il discorso narrativo. Il dialogo interiore configura all’interno della coscienza del personaggio una specie di teatrino mentale, che ha l’effetto di incrinare l’identità e l’unità psicologica dell’individuo. Il narratore-personaggio di Pirandello è una voce in cui voci e punti di vista altrui si sovrappongo incessantemente. Che cosa si vede “con gli occhi chiusi.” Fra le molte risorse della manipolazione del punto di vista ce n’è una su cui Booth ha richiamato l’attenzione: “Molte storie esigono la confusione del lettore, e il modo più efficacie per assicurarla è quello di servirsi di un osservatore confuso”. Un romanzo come Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi, pone l’accento fin dal titolo su una limitazione percettiva, e davvero è una delle opere del nostro Novecento che gioca molte carte proprio su una prospettiva, più che ristretta, confusa. D’altro canto, la forza narrativa di Tozzi sta nella sua quasi prodigiosa capacità di cogliere i moti più profondi della psiche, di rappresentare “ciò che si vede dentro, dietro gli occhi chiusi”. Nell’opera di Tozzi il problema del vedere è un’ossessione ricorrente; ma in Con gli occhi chiusi questo “mito centrale” diventa esplicitamente l’asse intorno a cui è organizzata la rappresentazione. Il romanzo racconta la storia di Pietro Rosi, e del suo contrastato amore per Ghìsola. Pietro vorrebbe addirittura sposare Ghìsola: solo che lui non vede che la ragazza ha una vita sessuale a dir poco spregiudicata. Ma bisogna arrivare alle ultime quattro righe del libro perché Pietro si renda conto che Ghìsola è incinta di parecchi mesi. Siamo di fronte ad una specie di epifania dell’ovvio: Pietro vive come una rivelazione “l’apparizione” di ciò che da molto tempo era sotto i suoi occhi. Tutto il libro è costruito per farci vedere dall’interno una condizione di inettitudine morbosa, dove “gli occhi chiusi” sono un modo di negare la realtà tutta. Oppresso da un padre autoritario e violento, Pietro è bloccato in tutto: inibito, goffo, incapace di comunicare. Il lettore non può in alcun modo immedesimarsi con un simile protagonista. Però Tozzi adotta in modo larghissimo la focalizzazione interna, orientandola qualche volta anche sui personaggi minori, in molte occasioni su Ghìsola e su Pietro. Nell’opera Con gli occhi chiusi, teatralizzando i moti più profondi della psiche, la focalizzazione interna obbliga il lettore a un’esperienza inquietante. La critica si è spesso chiesta in che modo Tozzi sia arrivato a scandagliare l’inconscio attraverso una tecnica narrativa che sembrerebbe ancora legata al modello naturalistico. Forse l’adozione del punto di vista interno è la tecnica che meglio spiega come dal verismo sia potuto nascere uno scrittore come Tozzi. Ma egli riesce ad essere nello stesso tempo molto moderno proprio perché ha ripreso alcuni elementi di una tecnica già verista, e d’indiscutibile modernità. Il bambino, il marziano, lo stupido e altri animali. Al termine di questo nostro percorso possiamo avanzare le seguenti tesi. Di principio il