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Il racconto della grafica. Parte III: I temi., Sintesi del corso di Storia del Design

Riassunto Il racconto della grafica - parte tre i temi

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 18/03/2021

francesca_crescimone
francesca_crescimone 🇮🇹

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Scarica Il racconto della grafica. Parte III: I temi. e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Design solo su Docsity! IL RACCONTO DELLA GRAFICA PARTE III: I TEMI Il manifesto cinematografico. Il manifesto cinematografico ha avuto una tale diffusione e risonanza da diventare nel corso del ventesimo secolo, un vero e proprio genere autonomo e da dar vita a autentiche e da dar vita a autentiche scuole nazionali. La maggior presenza del genere si è avuta negli anni in cui più alta è stata l'offerta cinematografica e più influente il cosiddetto star system, con i suoi sogni fantasticamente luccicanti. Il manifesto cinematografico, esaurita l'influenza iniziale delle avanguardie, ha costruito, almeno in occidente sua grammatica e una sua sintassi visiva che potremmo definire nazionalpopolare. Negli ultimi anni la caduta della domanda cinematografica ha fatto sì che l'offerta venisse ridimensionata, l'età d'oro del cinema pare ormai lontana. La grafica per il cinema. Il cinema, lo dice la stessa etimologia, è movimento, azione, scorrere di tempi e sovrapporsi di immagini. Racconta una storia in momenti successivi e complessi, ed è capace, proprio per il suo dilatarsi temporale e particolare, di introspezione e approfondimento. Ma la singola immagine racchiusa in un unico foglio di carta riuscire a raccontare una storia, a dare suggestioni diverse e complicate, a soddisfare a pieno, il lettore che si ferma a osservare la copertina di una rivista, di un libro, o il cartellone pubblicitario di una pellicola di successo? Questo è stato il problema della grafica di promozione cinematografica. Quel cercar di mettere in esso tutto il possibile per racchiudere ogni sfumatura di significato in una sola immagine, al tempo stesso riassuntiva e simbolica. Fuori dal cinema, quei cartelloni con la sinossi visiva del film, con i volti degli attori, in primo piano e brandelli di azione che scorrevano nel background, ci prefigurano la storia. Potevano immaginarsela tutta. Fuori dal cinema, noi spettatori eravamo gli attori della pellicola. I personaggi principali che dovevano essere, per essere invogliati ad entrare e a comprare il biglietto, partecipare, con un atto creativo di immaginazione emozionale, allo svolgersi dell'evento. Il cinema delle origini ci offre molti spaccati significati di questa sorta di interazione tra arte e società, tra vita comune ed elaborazioni estetiche, tra memoria e profezia. I manifesti promozionali, in Caligari, ma anche nel Nosferatu di Murneau, in Metropolis. Il mostro di Düsseldorf, non concedono allo spettatore di non preoccuparsi, non gli affidano un sogno ma lo sprofondano semmai in incubi cupi e tenebrosi, La grafica promozionale di queste pellicole non vuole essere consolatoria: interpreta il disagio di un'epoca che cambia e annuncia un futuro per niente radioso. L'epopea del cinema come fascinazione popolare verrà dopo. Dal Racconto alla simbologia. Il cinema popolare si consumava per lo più attraverso i suoi divi eponimi e seguiva il passo dell'affermazione e del trasformarsi della cultura del tempo. Fa quasi dispiacere che il formarsi di un pubblico più smaliziato, l'avvento delle nuove tecnologie, abbia ridotto i margini di manovra di quel consumo ingenuo e appassionato. Oggi il cinema, si consuma in televisione, le poche sale sono diventate quasi dappertutto "multi sala" e uno dei grandi canali storici della comunicazione e della grafica si è inaridito ai limiti della scomparsa. Con la grafica cosiddetta d'autore, il cartellonismo cinematografico ha sempre tenuto educati rapporti di buon vicinato ma, in realtà non si sono mai capiti fino in fondo. Quei cartellonisti nazional popolari si erano specializzati in un genere di settore, e i loro artefatti erano strutturati in modelli narrativi che tendevano a raccontare, in vasta sintesi, la storia che si sarebbe vista all'interno del cinema. Le immagini lavoravano per sovrapposizione: in primo piano le facce famose dei protagonisti, quelle che eccitavano la fantasia popolare, in secondo piano uno o più momenti della storia che ne suggerivano l'andamento e il sapore. Senza tentare un'analisi esaustiva dell'opera dei protagonisti italiani di quella stagione, si potranno ricordare Luigi Martinati, Alfredo Capitani, Giacomo Oliveri, Carlantonio Longi ecc. I cartellonisti cinematografici storici, in nessun caso possiamo ascriverli in qualsivoglia cultura del progetto. Capacissimi tutti di cogliere le espressioni e i momenti drammatici, raramente si avventuravano sul terreno della suggestione e del simbolo. Questo però per quanto riguarda la scuola italiana del cartellone cinematografico, perché altrove la situazione è molto diversa, i contatti con la grafica d'autore e il cinema si fanno più frequenti ed integrati. Non racconto per sostenere il sogno popolare ma "espressioni dell'angoscia" ci ricorda Max Gallo. In molti paesi dell'Est europeo grafica e cartellonismo si mescolarono in osmosi continua e nella promozione cinematografica si possono contare interventi di assoluto prestigio: da quelli di Roman Cieslewicz, a quelli di Jan Lenica e Waldemar Swierzy. In questi manifesti l'autore non racconta più una storia, come avevano fatto i protagonisti dell'illustrazione cinematografica italiana, anche se per sommi capi, ma offre una suggestione personale, quasi una seconda lettura, della vicenda del film, del suo retroterra culturale e del suo portato simbolico. Il cinema di Saul Bass. Una nota a parte merita Saul Bass, peculiare perché è forse l'unico progettista grafico che si sia dedicato con continuità all'immagine cinematografica, dedicandole una fetta importante della sua attività professionale. Bass non si era limitato a disegnare poster cinematografici famosi per registi eccellenti (da Otto Preminger a Stanley Kubrick, da Alfred Hitchcock a Robert Aldrich, fino a Steven Spielberg e Martin Scorsese) ma, per gli stessi registi, aveva spesso realizzato le sequenze dei titoli di testa mescolando magistralmente la sua esperienza di uomo di cinema con la professionalità di grafico. Ma Saul Bass è rara avis e non è azzardato definire la sua opera fondamentale per la storia della grafica tout court, e non solo americana. I suoi manifesti sono apparentemente semplici, nulla concedono all'illustrazione e si limitano a offrire al potenziale spettatore, un segno, un ritaglio di carta colorata, un'impressione che l'artista evoca dalla sua esperienza e sensibilità. La grafica di Saul Bass è sempre essenziale, disegnata con colori netti. L'immagine che occhieggia dai suoi manifesti non è mai consolatoria, né cerca di strizzare l'occhio al pubblico. Si limita a leggere, in modo sobrio ed efficace, lo spirito del regista e della pellicola, filtrati, questi, dalla sua concezione poderosa della comunicazione e del graphic design. L'uscita degli Oscar Mondadori, il 20 aprile 1965, fu una grande rivoluzione nella diffusione del libro in Italia. Gli Oscar uscivano in edicola, non più solo in libreria; erano romanzi di ottima dignità culturale, difficili a volte, erano a basso costo. Il primo numero, Addio alle armi di Ernest Hemingway, vendette 210 mila copie in una settimana, fin quando fu sostituito in edicola da La ragazza di Bube di Carlo Cassola. I primi 52 titoli vennero diffusi in quasi 8 milioni e mezzo di copie. L'idea iniziale, ebbe a dire Bruno Binosi, che fu l'art director della prima serie, era semplicemente quella di avere a disposizione un contenitore per ristampare alcuni titoli di successo. Poi la collana si disarticolerà in molte sezioni, in centinaia di rivoli dove sarà a volte difficile intravedere il punto di contatto e la logica complessiva. Fino al 1985 gli Oscar Mondadori avevano venduto oltre 120 milioni di copie. La storia degli Oscar Mondadori comprende, ovviamente, molte storie grafiche eccellenti, alcune addirittura magnifiche. Negli anni hanno collaborato in maniera continua con gli Oscar gli art director Bruno Binosi, Federico Luci, Giacomo Callo, Giorgio Seppi, gli illustratori e designer Paolo Guidotti, Mario Tempesti, Ferruccio Bocca. Oltre a grafici e illustratori occasionali, e a Ferenc Pinter, Karel Thole e Carlo Jacono di cui parleremo più diffusamente. John Alcorn - Push Pin in riva all'Arno I sei anni che John Alcorn trascorse lavorando a Firenze possono essere a buon diritto considerati fondamentali per la storia dell'editoria italiana. John arrivò nel 1971 e se ne tornò negli Stati Uniti nel 1977; un periodo di grande e febbrile attività, durante il quale si calcola che ebbe a disegnare, soltanto per Rizzoli, che fu all'epoca il suo principale committente. John Alcorn fu cosa diversa; una meteora che veniva direttamente dall'esperienza newyorkese dei Push Pin Studios e, di quella, aveva tutte le caratteristiche; attenzione alla tipografia, uso disinvolto e coltissimo di elementi della tradizione iconografica, spiccato senso dell'ironia, e soprattutto una grande, straordinaria abilità di disegno, capace di cambiar pelle e stile, da copertina a copertina, ma sempre riconoscibile, individuabile, vincente. Certo poi, nel contatto di John con le realtà dell'editoria del tempo è possibile individuare percorsi precisi, vie maestre e deviazioni di percorso. Il gusto per i riferimenti Art Nouveau, ad esempio, che non lo abbandoneranno mai, sia nella pratica tipografica che in quella di di- segno, i contatti con il Pop Floreale, l'attenzione quasi morbosa al particolare della pagina, la predilezione, tutta postmoderna, per la decorazione e la cornice, che anticiperanno tanta parte della grafica italiana coeva. All'interno di questo gusto per la cornice decorata si potrà ricondurre quella che è senza dubbio la sua più importante esperienza con Rizzoli: la progettazione d'immagine per la BUR, la Biblioteca Universale, che esce allora dal minimalismo elegantemente povero della tipografia in bianco e nero, per esplodere in questi controllati ma scoppiettanti fuochi d'artificio "alcorniani". La cornice non è mai uguale, cambia da copertina a copertina, lo stile di disegno e d'immagine si sposa sempre con il contenuto del libro: una grafica che coordina esigenze opposte, dando ai volumi immagini fortemente riferite ma conservando un background continuo di autoreferenzialità che sarà, per anni, la griffe dell'editore e, se volete, anche del suo progettista grafico. Dalla New York dei Push Pin Studios di Seymour Chwast e Milton Glaser, agli studi fiorentini con Leonardo Mattioli e Roberto Innocenti (di cui, per inciso, Alcorn disegnò il logo), dalla Milano di Mario Spagnol al buen retiro di Cold Spring nel Connecticut, John Alcorn spese la sua breve vita come instancabile punto di contatto tra le ragioni della grafica europea e quelle della grafica americana, tra idee di editoria diverse ma non sempre inconciliabili. Servì a svecchiare l'ambiente italiano e dette nuovo slancio ai Guidotti, ai Pinter, ai grafici illustratori che non si volevano limitare "solo" al progetto o "solo" all'illustrazione. Una grande scuola, quella di John Alcorn, che è stata spesso messa tra parentesi, per gran tempo quasi dimenticata. Una lezione di cui l'editoria italiana dovrebbe ancor oggi essergli grata. Feltrinelli: l'editore e il movimento. La casa editrice Feltrinelli nacque nel 1954 per iniziativa di Giangiacomo Feltrinelli e fin dai primi anni si segnalò per la collaborazione con l'onnipresente Albe Steiner, cui si dovettero le copertine di alcuni dei titoli davvero epocali, che caratterizzarono la prima attività e ne decretarono il successo: Il Gattopardo e il Dottor Zivago. Poi, via via che si aggiungevano titoli prestigiosi al già prestigioso catalogo, l'offerta si differenzierà e cominceranno a collaborare con l'editore altri professionisti, tra i quali Massimo Vignelli e Silvio Coppola. Naturalmente l'identità editoriale si andava sommando, in questi casi, alle singole identità progettuali, ma, come è indispensabile analizzare il prodotto sulla base degli apporti progettuali, così sarà doveroso valutare anche l'apporto che ogni singolo titolo darà alle identità dei progettisti che ne usciranno sempre rafforzate. Nel caso di Feltrinelli, poi, l'immagine dell'editore si lega in maniera indissolubile, almeno nei primi anni, a quella del movimento di cui era espressione e quindi resta difficile, quando non impossibile, separare questa da quello. Dopo il 1981 Bob Noorda e Salvatore Gregorietti metteranno mano a una vasta operazione di cosmesi dell'immagine editoriale: ridisegneranno il marchio, i punti espositivi, le collane editoriali. Punto nodale sarà il disegno del Manuale di Immagine, che fisserà le griglie editoriali e quelle della stationery istituzionale. Il mondo della grafica entra a far parte del mondo dell'editoria in pianta stabile e non più solo in modo, pur genialmente, estemporaneo. Pierluigi Cerri - I cataloghi di Electa. L'immagine grafica dei libri Electa ha il nome e cognome di Pierluigi Cerri che, negli anni '80, rivoluzionò il settore dei cataloghi delle mostre e dei libri d'arte in genere. In quegli anni Electa insegnò a tutti come si dovesse preparare l'edizione di un libro d'arte e quanta cura fosse necessario dedicarvi. Pierluigi Cerri fu l'art director e l'uomo immagine di quell'operazione, ma non vanno certo dimenticati tutti gli altri tecnici, e i redattori, e i grafici, che dedicarono a Electa il loro impegno e la loro passione. I libri Electa vennero all'epoca curati maniacalmente in ogni dettaglio, dalle copertine all'impaginazione degli interni, dalla fotolito delle immagini, alla redazione dei testi. Cerri sposò la sua ipotesi minimalista con una chiarezza espositiva che raramente si era vista fino a quel momento. La "grande qualità" Electa divenne un must irrinunciabile e un modello da imitare. Si era in un momento di grande crescita dei consumi culturali in Italia: la curiosità era tanta e l'interesse febbrile. Cerri di quell'interesse e quella febbre fu un termometro indispensabile. Giovanni Lussu - Libri Quotidiani. I libri dell'Unità avevano una pretesa: rivolgersi a chi non aveva mai letto o amato la lettura, una sorta di iniziativa educativa che faceva capire come si potesse godere leggendo. Di quella stagione breve, intensa, esaltante di proposta culturale, Nicola Fano (in seguito Marco Ledda) fu il primo responsabile editoriale, Giovanni Lussu ne fu il progettista grafico. E le due anime dovettero procedere a un sol passo perché, se da una parte erano chiare le linee editoriali (gli intenti) e le compatibilità economiche e industriali (prezzo e qualità) dell'operazione, altrettanto chiare e sintetiche dovevano essere le caratteristiche grafiche. A tal proposito Giovanni Lussu parlò del complesso di quelle progettazioni come di un sistema dei sistemi con una serie di condizioni di partenza comuni (libro venduto esclusivamente accoppiato al quotidiano e quindi svincolato da ogni ipotesi di marketing autonomo) e con una speciale "centralità della tipografia" che viene considerata l'hardware della comunicazione, da evidenziare in maniera assoluta. Quell'esperienza e quelle copertine ci parlano di tipografia, ovvio, e sistemano con cura (diremmo con pedanteria se Giovanni Lussu non fosse "fabulatore" in grado di rendere piacevole e accattivante anche un argomento apparentemente arido come la tipografia) i caratteri usati e i loro modi d'impiego. Si pensa al Frutiger, al Franklin Gothic. Si enfatizza l'uso dell'Adobe Garamond, contrapponendolo al Simoncini, e poi si racconta del Meta, del Perpetua, del Gill Sans. E si pensa anche a come queste font potessero interagire con fondi colorati in modo netto, raramente con illustrazioni, costruendo a volte, destrutturando assai spesso parole, concetti, titoli, idee. Fu un'esperienza "folgorante" che bruciò, lo abbiamo detto, in un breve arco di tempo. In quegli anni di presenza editoriale, comunque, i "Libri dell'Unità" diffusero oltre 20 milioni di copie. Una cifra che, pensando che si vive in un paese dove mille copie sono una buona tiratura e duemila un piccolo successo editoriale, fa ancora venire i brividi. Guido Scarabottolo - Una scarabattola, come volevasi dimostrare. Le copertine che Guido Scarabottolo ha preparato per più di un decennio per l'Editore Guanda sono singoli elementi narrativi che vivono una vita propria e autonoma, in sintonia con il libro che ricoprono, ma sono anche brandelli del discorso complessivo che l'artista svolge con il disegno: ed è quest'ultimo un discorso autoreferenziale, che riguarda solo l'artista, e ha con i libri "copertinati" contatti precisi, ma che potremmo definire, anche, casuali e ininfluenti. Libri quindi che Scarabottolo considera quasi delle scarabattole ("vetrinette che contengono oggetti più o meno preziosi"). E la definizione, anche se azzardata, avrebbe certo una sua pertinenza, se pensiamo che nelle più tradizionali "scarabattole" (ad esempio quelle del presepio napoletano) gli oggetti vanno a comporre un unicum compositivo complesso, variegato, caotico, ma pur sempre avvertibile e riconoscibile. Analizzando le singole copertine, e quindi i singoli disegni, si potrebbe quindi parlare, come abbiamo fatto altre volte, dell'elegante understatement di Scarabottolo, di quel suo mai prendersi troppo sul serio, si potrebbe raccontare della sua ironia. Si potrebbe parlare ancora una volta del "maestro silenzioso", di quel suo entrare in rapporto quasi panico con gli oggetti, La grafica politica. Il passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica ha causato, oltre a conseguenze politiche che non è qui il caso di esaminare, anche un profondo cambiamento figurale dell'immaginario dei partiti e dei movimenti che, in barba a pretese semplificazioni, si sono moltiplicati come funghi. I partiti tradizionali avevano un simbolo e un'immagine che si era affermata e consolidata nella storia del paese. I nuovi movimenti hanno simbologia e icone scisse da ogni tradizione e, per questo, scarse di progetto e di appeal. In più, con le nuove leggi elettorali si è avuta una moltiplicazione esponenziale dei partitini fai-da-te, movimenti, quasi, dalla logica personale e solipsistica. Uniche immagini che appaiono ancora potabili, nel nuovo sistema politico, quelle di Forza Italia, de L'Ulivo e del PD che, pur a volte carenti di contenuti simbolici certi, hanno (o hanno avuto) perlomeno una qualche identità iconica. I manifesti politici della prima repubblica. Qualche anno fa, quando dai cascami sgualciti della sinistra storica nacque, in Italia, il Partito Democratico, il blog Socialdesignzine lanciò un concorso tra i lettori, per disegnare il simbolo del nuovo partito. Furono presentate un centinaio di proposte, quasi tutte centrate sull'acronimo PD. Il Partito Democratico, come si era andato configurando nella dinamica litigiosa della sinistra di quegli anni, aveva abbandonato un contenuto simbolico proprio, che in tutta evidenza sembrava non aver più nessun appeal, e il mondo della grafica si era rifugiato in angolo, usando gli espedienti retorici e autoreferenziali del mestiere. Non vi erano simboli raggiungibili e quindi nessun simbolo era stato raggiunto. Anche il marchio definitivo, comunque, elaborato qualche mese dopo da Area non andò molto al di là di quell'intuizione, e si attestò sulla declinazione delle stesse iniziali, modulate nell'ovvia gestalt tra bianco rosso e verde e con il richiamo al raggruppamento de L'Ulivo in calce, piccolo e irrilevante, visivamente, come un escremento di mosca. La storia della grafica politica italiana, invece, come ce l'eravamo immaginata e l'avevamo vissuta nei cinquant'anni precedenti, si era basa-a prepotentemente sui simboli, calibrando su di essi la proposta ideale e politica. Il simbolo (o lo stemma elettorale) era qualcosa di strutturale da cui discendeva la strategia e la tattica dell'azione quotidiana. Si può tranquillamente affermare che, nella maggior parte dei casi, non c'era ambiguità di proposta. La sinistra stava a sinistra, il centro al centro, la destra a destra. Tutto sufficientemente chiaro. Tutto comprensibile. Simbolicamente comprensibile. Il passare da quelle immagini al logotipo "pubblicitario" di Forza Italia, solo per fare un esempio, significava abbandonare la logica del confronto delle idee "concrete" nella propaganda, da cui far discendere l'azione politica, per avventurarsi nel terreno minato, o quantomeno scivoloso, dei mulini bianchi e dei pannolini sempre asciutti. Si abbandonavano i luoghi della società reale, con le sue difficoltà e le sue contraddizioni anche aspre, per cullarsi al sogno televisivo di una società dell'immagine che «più la mandi giù e più ti tira su!». Le differenze grafiche delle immagini dei partiti erano anche quelle tra le classi sociali. Differenza dei bisogni o ideali da soddisfare. O anche differenze di collocazione in seno alla società, che la grafica si preoccupava di sottolineare. Michele Spera aveva disegnato il suo Partito Repubblicano con una proposta di visual design rigorosa anche se magari freddina. Il Partito Repubblicano era così, in fondo, che lo ricordavamo; intellettuale, austero, elitario. Non alla portata di tutti. Sicuramente né popolare né populista. La grafica raccontava se stessa e il suo autore, certamente, con un suo stile preciso e una sua storia, ma raccontava anche una certa classe della società, elegante e appartata. Non sappiamo se la grafica del PRI di allora (tra anni '70 e anni '90) ci fa gridare al miracolo. Certo ci racconta molto di chi l'aveva voluta e detta linea politica che ne era alla base. Altri partiti si comportarono in maniera diversa, questo è ovvio, ma alla base delle scelte di ognuno ci fu sempre, perlomeno negli esempi migliori, una consapevolezza assoluta della centralità del progetto grafico nell'opera di propaganda. Il Partito Socialista, che in quel periodo aveva in Bettino Craxi il proprio punto di riferimento, anch'esso tra fine anni '70 e inizio anni '90, cercò, con il coordinamento di immagine di Ettore Vitale, una via che riconoscesse alla cultura del progetto un ruolo decisivo nelle scelte di comunicazione. Certo che l'elettorato del PSI era ben diverso da quello del PRI e gli elementi di simbologia figurale erano più forti e presenti. Vitale cercò quindi un sistema "misto" potrebbe dirsi, alternando elementi grafici ricorrenti di visual design e di sistema, a un gusto della figura di impianto fortemente emotivo. Icone continuamente presenti nella grafica di quei manifesti socialisti sono, ad esempio, i protagonisti in marcia del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo e il garofano rosso che divenne allora il segno distintivo del partito. Si comincia però anche a vedere nei manifesti, più spesso del dovuto, il volto rotondo di Bettino Craxi, che anticipa un vezzo comunicativo che prenderà piede negli anni seguenti, dove la faccia di ogni personaggio politico, anche il più irrilevante, prenderà campo occupando lo spazio comunicativo che fino allora era destinato alle idee. L'immagine si sposterà quindi dal "politico" al "personale" e, soprattutto per il "fai da te" di bassissimo profilo che si è andato espandendo a macchia d'olio, i risultati sono stati di fattura avvilente. Caso più complesso da analizzare quello del Partito Comunista Italiano che, dal suo essere un grande partito popolare ma con larghe simpatie anche tra gli intellettuali e il ceto medio, ben difficilmente poteva, come nel caso del PRI o in parte del PSI, ancorarsi a un modo autoreferenziale di propaganda delle idee. Le molte anime che mossero la politica comunista, da Togliatti a Longo a Berlinguer, si riferivano a una congerie di esperienze, anche epocali, non sempre unidirezionale e si poteva passare da modelli grafici di realismo veterosocialista a interventi di pittura tradizionale. Ma nel PCI militò e operò a lungo anche quell'Albe Steiner di cui abbiamo già parlato e allora la cultura del progetto comincia a farsi largo tra le maglie serrate del partito e a imporre la sua logica. Il PCI si era dotato già nei primi anni '60 di un ufficio grafico interno e il tentativo di questi comunicatori fu quello di far capire che loro non erano "compagni grafici" ma "grafici compagni", e che nell'opera di comunicazione operavano con la passione del militante ma anche, e soprattutto, con la capacità del professionista. Certo la personalità di Steiner è stata fondamentale in tutto il percorso della propaganda comunista perché Albe, che fu sempre, al tempo stesso, uomo della grafica e militante del partito, non arretrò mai di fronte alle sfide della comunicazione né ai diritti all'informazione della sua gente. Albe Steiner, Bruno Magno e tutti coloro che intervennero progettualmente dovettero quindi calibrare continuamente il loro intervento all'interno di un esprit de charité ampio, che non passasse sopra la testa di nessuno. Si può ricordare forse l'ultimo manifesto progettato da Steiner pochi mesi prima della morte, nel 1974, per la campagna referendaria sul divorzio. La comunicazione è semplicissima, quasi banale: un enorme NO in Helvetica bold. Ma il significato è chiaro e la grafica si è posta, qui, completamente al servizio funzionale della necessità del momento. Chi vide quell'affisso non ebbe dubbi né tentennamenti sulla via che il Partito gli indicava. Resterebbe da parlare della Democrazia Cristiana, ultimo, ma certo non secondario, tassello che àncora questa narrazione alla cosiddetta Prima repubblica. Ma il discorso diventa scivoloso e non è quasi possibile, in questo caso, trincerarsi dietro quella cultura del progetto cui siamo abbondantemente ricorsi nel casi precedenti. La DC non si riferì mai al concetto di "immagine coordinata" né legò la propaganda a modi e stilemi precisamente riconoscibili. Grande partito interclassista lo fu anche nelle scelte di comunicazione: satira dura e politica invelenita negli anni '50, quando rispondeva a colpi di vignette alla propaganda della sinistra sui "forchettoni", chiusure culturali, e a volte maleodoranti, da "parrocchia" di provincia, ma anche timide aperture verso un modo nuovo di fare comunicazione e propaganda che non le apparteneva interamente. Nel 1963, Ernest Dichter, che, constatando come, nell'immaginario collettivo, la Democrazia Cristiana fosse vista con l'aspetto di matrona austera, accigliata e, certo, dotata di scarso sex appeal, suggerì di ribaltare il concetto e fece disegnare, per i manifesti, una fanciulla vezzosa che introduceva lo slogan: «La Dc ha vent'anni!». Da Forza Italia a L'ulivo. La storia viaggia a ritmo veloce, quasi a rotta di collo. Il 9 novembre 1990 si comincia ad abbattere il muro di Berlino e prosegue il processo di dissoluzione dell'Unione Sovietica. Il 30 aprile 1993 il leader socialista Bettino Craxi viene preso a pernacchie e bersagliato dal lancio di monetine davanti all'Hotel Raphael di Roma. La Prima repubblica si decompone lasciando i miasmi putridi scoperchiati dalla stagione di Mani Pulite. Il 18 gennaio 1994 Silvio Berlusconi scende in campo con la sua nuova formazione politica, Forza Italia. Quel governo Berlusconi durò comunque poco e all'elezioni del marzo 1996 Forza Italia venne superata da L'Ulivo di Romano Prodi e Walter Veltroni, movimento di centrosinistra che cercava di tenere insieme quello che restava del cattolicesimo democratico e del comunismo italiano. Combattenti e reduci, potrebbe dirsi, dato che l'Ulivo pescava nei due grandi fallimenti della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, quest'ultimo liquidato da Achille Occhetto, la cui gioiosa macchina da guerra era stata sbaragliata da Silvio Berlusconi nelle elezioni del 1994. Il resto è storia troppo recente e non mancherà certo chi la racconterà. I simboli dei partiti, raggruppamenti, movimenti ecc. si moltiplicheranno all'infinito, in barba a ogni speranza di semplificazione della politica.