Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

IL visconte dimezzato, Sintesi del corso di Italiano

Italo Calvino, il visconte dimezzato

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
In offerta
30 Punti
Discount

Offerta a tempo limitato


Caricato il 16/01/2020

ace-portgas-d
ace-portgas-d 🇮🇹

5

(2)

1 documento

Anteprima parziale del testo

Scarica IL visconte dimezzato e più Sintesi del corso in PDF di Italiano solo su Docsity! Italo Calvino / Il visconte dimezzato Italo Calvino / Il visconte dimezzato Italo Calvino IL VISCONTE DIMEZZATO Presentazione dell’autore con uno scritto di Mario Barenghi Presentazione La prima edizione del Visconte dimezzato uscì presso l’editore Einaudi di Torino nel febbraio del 1952, nella collana I gettoni diretta da Elio Vittorini. Più di trent’anni dopo, a uno studente che lo interrogava su questo libro, Calvino rispose con le parole che vengono qui riprodotte (intervista con gli studenti di Pesaro dell’11 maggio 1983, trascritta e pubblicata in «Il gusto dei contemporanei», Quaderno n. 3, Italo Calvino, Pesaro 1987, p. 9). Viene riportata in nota la parte centrale e più significativa di una lettera che Calvino scrisse a Carlo Salinari, in risposta a una recensione che egli aveva scritto su «l’Unità» del 6 agosto 1952. Quando ho cominciato a scrivere Il visconte dimezzato, volevo soprattutto scrivere una storia divertente per divertire me stesso, e possibilmente per divertire gli altri; avevo questa immagine di un uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema dell’uomo tagliato in due, dell’uomo dimezzato fosse un tema significativo, avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l’altra. 1 Per fare questo ho cercato di mettere su una storia che stesse in piedi, che avesse una simmetria, un ritmo nello stesso tempo da racconto di avventura ma anche quasi da balletto. Il modo per differenziare le due metà mi è sembrato che quella di farne una cattiva e l’altra buona fosse quella che creasse il massimo contrasto. Era tutta una costruzione narrativa basata sui contrasti. Quindi la storia si basa su una serie di effetti di sorpresa: che, al posto del visconte intero, ritorni al paese un visconte a metà che è molto crudele, mi è parso che creasse il massimo di effetto di sorpresa; che poi, ad un certo punto, si scoprisse invece un visconte assolutamente buono al posto di quello cattivo creava un altro effetto di sorpresa; che queste due metà fossero egualmente insopportabili, la buona e la cattiva, era un effetto comico e nello stesso tempo anche significativo, perché alle volte i buoni, le persone troppo programmaticamente buone e piene di buone intenzioni sono dei terribili scocciatori. L’importante in una cosa del genere è fare una storia che funzioni proprio come tecnica narrativa, come presa sul lettore. Nello stesso tempo, io sono anche sempre molto attento ai significati: bado a che una storia non finisca per essere interpretata in modo contrario a come la penso io; quindi anche i significati sono molto importanti, però in un racconto come questo l’aspetto di funzionalità narrativa e, diciamolo, di divertimento, è molto importante. Io credo che il divertire sia una funzione sociale, corrisponde alla mia morale; penso sempre al lettore che si deve sorbire tutte queste pagine, bisogna che si diverta, bisogna che abbia anche una gratificazione; questa è la mia morale: uno ha comprato il libro, ha pagato dei soldi, ci investe del suo tempo, si deve divertire. Non sono solo io a pensarla così, ad esempio anche uno scrittore molto attento ai contenuti come Bertolt Brecht diceva che la prima funzione sociale di un’opera teatrale era il divertimento. Io penso che il divertimento sia una cosa seria. 1 «A me importava il problema dell’uomo contemporaneo (dell’intellettuale, per esser più precisi) dimezzato, cioè incompleto, “alienato”. Se ho scelto di dimezzare il mio personaggio secondo la linea di frattura “bene-male”, l’ho fatto perché ciò mi permetteva una maggiore evidenza d’immagini contrapposte, e si legava a una tradizione letteraria già classica (p. es. Stevenson) cosicché potevo giocarci senza preoccupazioni. Mentre i miei ammicchi moralistici, chiamiamoli così, erano indirizzati non tanto al visconte quanto ai personaggi di cornice, che sono le vere esemplificazioni del mio assunto: i lebbrosi (cioè gli artisti decadenti), il dottore e il carpentiere (la scienza e la tecnica staccate dall’umanità), quegli ugonotti, visti un po’ con simpatia e un po’ con ironia (che sono un po’ una mia allegoria autobiografico- familiare, una specie di epopea genealogica immaginaria della mia famiglia) e anche un’immagine di tutta la linea del moralismo idealista della borghesia» (Lettera a C. Salinari del 7 agosto 1952, pubblicata in I. Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di G. Tesio, Einaudi, Torino 1991, p. 67). ho avuto due zii chimici sposati a due zie chimiche [...] io sono la pecora nera, l’unico letterato della famiglia» [Accr 60]. 1926 «Il primo ricordo della mia vita è un socialista bastonato dagli squadristi [...] è un ricordo che deve riferirsi probabilmente all’ultima volta che gli squadristi usarono il manganello, nel 1926, dopo un attentato a Mussolini. [...] Ma far discendere dalla prima immagine infantile tutto quel che si vedrà e sentirà nella vita, è una tentazione letteraria» [Par 60]. I genitori sono contrari al fascismo; la loro critica contro il regime tende tuttavia a sfumare in una condanna generale della politica. «Tra il giudicare negativamente il fascismo e un impegno politico antifascista c’era una distanza che ora è quasi inconcepibile» [Par 60]. 1927 Frequenta l’asilo infantile al St George College. Nasce il fratello Floriano, futuro geologo di fama internazionale e docente all’Università di Genova. 1929-1933 Frequenta le Scuole Valdesi. Diventerà balilla negli ultimi anni delle elementari, quando l’obbligo dell’iscrizione verrà esteso alle scuole private. «La mia esperienza infantile non ha nulla di drammatico, vivevo in un mondo agiato, sereno, avevo un’immagine del mondo variegata e ricca di sfumature contrastanti, ma non la coscienza di conflitti accaniti» [Par 60]. 1934 Superato l’esame d’ammissione, frequenta il ginnasio-liceo G.D. Cassini. I genitori non danno ai figli un’educazione religiosa, e in una scuola statale la richiesta di esonero dalle lezioni di religione e dai servizi di culto risulta decisamente anticonformista. Ciò fa sì che Italo, a volte, si senta in qualche modo diverso dagli altri ragazzi: «Non credo che questo mi abbia nuociuto: ci si abitua ad avere ostinazione nelle proprie abitudini, a trovarsi isolati per motivi giusti, a sopportare il disagio che ne deriva, a trovare la linea giusta per mantenere posizioni che non sono condivise dai più. Ma soprattutto sono cresciuto tollerante verso le opinioni altrui, particolarmente nel campo religioso [...]. E nello stesso tempo sono rimasto completamente privo di quel gusto dell’anticlericalismo così frequente in chi è cresciuto in mezzo ai preti» [Par 60]. 1935-1938 «Il primo vero piacere della lettura d’un vero libro lo provai abbastanza tardi: avevo già dodici o tredici anni, e fu con Kipling, il primo e (soprattutto) il secondo libro della Giungla. Non ricordo se ci arrivai attraverso una biblioteca scolastica o perché lo ebbi in regalo. Da allora in poi avevo qualcosa da cercare nei libri: vedere se si ripeteva quel piacere della lettura provato con Kipling» [manoscritto inedito]. Oltre ad opere letterarie, il giovane Italo legge con interesse le riviste umoristiche («Bertoldo», «Marc’Aurelio», «Settebello») di cui lo attrae lo «spirito d’ironia sistematica» [Rep 84], tanto lontano dalla retorica del regime. Disegna vignette e fumetti; si appassiona al cinema. «Ci sono stati anni in cui andavo al cinema quasi tutti i giorni e magari due volte al giorno, ed erano gli anni tra diciamo il Trentasei e la guerra, l’epoca insomma della mia adolescenza» [As 74]. Per la generazione cui Calvino appartiene, quell’epoca è però destinata a chiudersi anzitempo, e nel più drammatico dei modi. «L’estate in cui cominciavo a prender gusto alla giovinezza, alla società, alle ragazze, ai libri, era il 1938: finì con Chamberlain e Hitler e Mussolini a Monaco. La “belle époque” della Riviera era finita [...]. Con la guerra, San Remo cessò d’essere quel punto d’incontro cosmopolita che era da un secolo (lo cessò per sempre; nel dopoguerra diventò un pezzo di periferia milan-torinese) e ritornarono in primo piano le sue caratteristiche di vecchia cittadina di provincia ligure. Fu, insensibilmente, anche un cambiamento d’orizzonti» [Par 60]. 1939-1940 La sua posizione ideologica rimane incerta, sospesa fra il recupero polemico di una scontrosa identità locale, «dialettale», e un confuso anarchismo. «Fino a quando non scoppiò la Seconda guerra mondiale, il mondo mi appariva un arco di diverse gradazioni di moralità e di costume, non contrapposte ma messe l’una a fianco dell’altra [...]. Un quadro come questo non imponeva affatto delle scelte categoriche come può sembrare ora» [Par 60]. Scrive brevi racconti, poesie, testi teatrali: «tra i 16 e i 20 anni sognavo di diventare uno scrittore di teatro» [Pes 83]. Coltiva il suo talento e la sua passione per il disegno, la caricatura, la vignetta: fra la primavera e l’estate del 1940 il «Bertoldo» di Giovanni Guareschi gliene pubblicherà alcune, firmate Jago, nella rubrica «Il Cestino». 1941-1942 Conseguita la licenza liceale (gli esami di maturità sono sospesi a causa della guerra) si iscrive alla facoltà di Agraria dell’Università di Torino, dove il padre era incaricato di Agricoltura tropicale, e supera quattro esami del primo anno, senza peraltro inserirsi nella dimensione metropolitana e nell’ambiente universitario; anche le inquietudini che maturavano nell’ambiente dei Guf gli rimangono estranee. Nel quadro del suo interesse per il cinema, scrive recensioni di film; nell’estate del 1941 il «Giornale di Genova» gliene pubblicherà un paio (fra cui quella di San Giovanni decollato con Totò protagonista). Nel maggio del 1942 presenta senza successo alla casa editrice Einaudi il manoscritto di Pazzo io o pazzi gli altri, che raccoglie i suoi primi raccontini giovanili, scritti in gran parte nel 1941. Partecipa con La commedia della gente al concorso del Teatro nazionale dei Guf di Firenze: nel novembre del 1942 essa viene inclusa dalla giuria fra quelle segnalate alle compagnie teatrali dei Guf. È nei rapporti personali, e segnatamente nell’amicizia con Eugenio Scalfari (già suo compagno di liceo), che trova stimolo per interessi culturali e politici ancora immaturi, ma vivi. «A poco a poco, attraverso le lettere e le discussioni estive con Eugenio venivo a seguire il risveglio dell’antifascismo clandestino e ad avere un orientamento nei libri da leggere: leggi Huizinga, leggi Montale, leggi Vittorini, leggi Pisacane: le novità letterarie di quegli anni segnavano le tappe d’una nostra disordinata educazione etico-letteraria» [Par 60]. 1943 In gennaio si trasferisce alla facoltà di Agraria e Forestale della Regia Università di Firenze, dove sostiene tre esami. Nei mesi fiorentini frequenta assiduamente la biblioteca del Gabinetto Vieusseux. Le sue opzioni politiche si vanno facendo via via più definite. Il 25 luglio, la notizia dell’incarico a Pietro Badoglio di formare un nuovo governo (e poi della destituzione e dell’arresto di Mussolini) lo raggiunge nel campo militare di Mercatale di Vernio (Firenze); il 9 agosto farà ritorno a Sanremo. Dopo l’8 settembre, 1946 Comincia a «gravitare attorno alla casa editrice Einaudi», vendendo libri a rate [Accr 60]. Pubblica su periodici («l’Unità», «Il Politecnico») numerosi racconti che poi confluiranno in Ultimo viene il corvo. In maggio comincia a tenere sull’«Unità» di Torino la rubrica «Gente nel tempo». Incoraggiato da Cesare Pavese e Giansiro Ferrata si dedica alla stesura di un romanzo, che conclude negli ultimi giorni di dicembre. Sarà il suo primo libro, Il sentiero dei nidi di ragno. «Lo scrivere è però oggi il più squallido e ascetico dei mestieri: vivo in una gelida soffitta torinese, tirando cinghia e attendendo i vaglia paterni che non posso che integrare con qualche migliaio di lire settimanali che mi guadagno a suon di collaborazioni» [lettera a Scalfari, 3 gennaio 1947]. Alla fine di dicembre vince (ex aequo con Marcello Venturi) il premio indetto dall’«Unità» di Genova, con il racconto Campo di mine. 1947 «Una dolce e imbarazzante bigamia» è l’unico lusso che si conceda in una vita «veramente tutta di lavoro e tutta tesa ai miei obiettivi» [lettera a Scalfari, 3 gennaio 1947]. Fra questi c’è anche la laurea, che consegue con una tesi su Joseph Conrad. Partecipa col Sentiero dei nidi di ragno al premio Mondadori per giovani scrittori, ma Giansiro Ferrata glielo boccia. Nel frattempo Pavese lo aveva presentato a Einaudi che lo pubblicherà in ottobre nella collana I coralli: il libro riscuote un buon successo di vendite e vince il premio Riccione. Presso Einaudi Calvino si occupa ora dell’ufficio stampa e di pubblicità. Nell’ambiente della casa editrice torinese, animato dalla continua discussione tra sostenitori di diverse tendenze politiche e ideologiche, stringe legami di amicizia e di fervido confronto intellettuale non solo con letterati (i già citati Pavese e Vittorini, Natalia Ginzburg), ma anche con storici (Delio Cantimori, Franco Venturi) e filosofi, tra i quali Norberto Bobbio e Felice Balbo. Durante l’estate partecipa come delegato al Festival mondiale della gioventù che si svolge a Praga. 1948 Alla fine di aprile lascia l’Einaudi per lavorare all’edizione torinese dell’«Unità», dove si occuperà, fino al settembre del 1949, della redazione della terza pagina. Comincia a collaborare al mensile del Pci «Rinascita» con racconti e note di letteratura. Insieme con Natalia Ginzburg va a trovare Hemingway, in vacanza a Stresa. 1949 La partecipazione, in aprile, al congresso dei Partigiani della pace di Parigi gli costerà per molti anni il divieto di entrare in Francia. In luglio, insoddisfatto del lavoro all’«Unità» di Torino, si reca a Roma per esaminare due proposte d’impiego giornalistico che non si concreteranno. In agosto partecipa al Festival della gioventù di Budapest; scrive una serie di articoli per «l’Unità». Per diversi mesi cura anche la rubrica delle cronache teatrali («Prime al Carignano»). In settembre torna a lavorare da Einaudi, dove fra le altre cose si occupa dell’ufficio stampa e dirige la sezione letteraria della Piccola Biblioteca Scientifico-Letteraria. Come ricorderà Giulio Einaudi, «furono suoi, e di Vittorini, e anche di Pavese, quei risvolti di copertina e quelle schede che crearono [...] uno stile nell’editoria italiana». Esce la raccolta di racconti Ultimo viene il corvo. Rimane invece inedito il romanzo Il Bianco Veliero, sul quale Vittorini aveva espresso un giudizio negativo. 1950 Il 27 agosto Pavese si toglie la vita. Calvino è colto di sorpresa: «Negli anni in cui l’ho conosciuto, non aveva avuto crisi suicide, mentre gli amici più vecchi sapevano. Quindi avevo di lui un’immagine completamente diversa. Lo credevo un duro, un forte, un divoratore di lavoro, con una grande solidità. Per cui l’immagine del Pavese visto attraverso i suicidi, le grida amorose e di disperazione del diario, l’ho scoperta dopo la morte» [D’Er 79]. Dieci anni dopo, con la commemorazione Pavese: essere e fare traccerà un bilancio della sua eredità morale e letteraria. Rimarrà invece allo stato di progetto (documentato fra le carte di Calvino) una raccolta di scritti e interventi su Pavese e la sua opera. Per la casa editrice è un momento di svolta: dopo le dimissioni di Balbo, il gruppo einaudiano si rinnova con l’ingresso, nei primi anni Cinquanta, di Giulio Bollati, Paolo Boringhieri, Daniele Ponchiroli, Renato Solmi, Luciano Foà e Cesare Cases. «Il massimo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. E ne sono contento, perché l’editoria è una cosa importante nell’Italia in cui viviamo e l’aver lavorato in un ambiente editoriale che è stato di modello per il resto dell’editoria italiana, non è cosa da poco» [D’Er 79]. Collabora a «Cultura e realtà», rivista fondata da Felice Balbo con altri esponenti della ex «sinistra cristiana» (Fedele d’Amico, Mario Motta, Franco Rodano, Ubaldo Scassellati). 1951 Conclude la travagliata elaborazione di un romanzo d’impianto realistico- sociale, I giovani del Po, che apparirà solo più tardi in rivista (su «Officina», tra il gennaio ’57 e l’aprile ’58), come documentazione di una linea di ricerca interrotta. In estate, pressoché di getto, scrive Il visconte dimezzato. Fra ottobre e novembre compie un viaggio in Unione Sovietica («dal Caucaso a Leningrado»), che dura una cinquantina di giorni. Il resoconto (Taccuino di viaggio in Urss di Italo Calvino) sarà pubblicato sull’«Unità» nel febbraio- marzo dell’anno successivo in una ventina di puntate, e gli varrà il premio Saint Vincent. Rifuggendo da valutazioni ideologiche generali, coglie della realtà sovietica soprattutto dettagli di vita quotidiana, da cui emerge un’immagine positiva e ottimistica («Qui la società pare una gran pompa aspirante di vocazioni: quel che ognuno ha di meglio, poco o tanto, se c’è deve saltar fuori in qualche modo»), anche se per vari aspetti reticente. Durante la sua assenza (il 25 ottobre) muore il padre. Dieci anni dopo ne ricorderà la figura nel racconto autobiografico La strada di San Giovanni. 1952 Il visconte dimezzato, pubblicato nella collana I gettoni di Vittorini, ottiene un notevole successo e genera reazioni contrastanti nella critica di sinistra. In maggio esce il primo numero del «Notiziario Einaudi», da lui redatto, e di cui diviene direttore responsabile a partire dal n. 7 di questo stesso anno. Estate: insieme con Paolo Monelli, inviato della «Stampa», segue le Olimpiadi di Helsinki scrivendo articoli di colore per «l’Unità». «Monelli era molto miope, ed ero io che gli dicevo: guarda qua, guarda là. Il giorno dopo aprivo “La Stampa” e vedevo che lui aveva scritto tutto quello che gli avevo indicato, mentre io non ero stato capace di farlo. Per questo ho rinunciato a diventare giornalista» [Nasc 84]. Pubblica su «Botteghe Oscure» (una rivista internazionale di letteratura presenta all’organizzazione di partito dell’Einaudi, la cellula Giaime Pintor, un ordine del giorno che denuncia «l’inammissibile falsificazione della realtà» operata dall’«Unità» nel riferire gli avvenimenti di Poznań e di Budapest, e critica con asprezza l’incapacità del partito di rinnovarsi alla luce degli esiti del XX congresso e dell’evoluzione in corso all’Est. Tre giorni dopo, la cellula approva un «appello ai comunisti» nel quale si chiede fra l’altro che «sia sconfessato l’operato della direzione» e che «si dichiari apertamente la nostra piena solidarietà con i movimenti popolari polacco e ungherese e con i comunisti che non hanno abbandonato le masse protese verso un radicale rinnovamento dei metodi e degli uomini». Dedica uno dei suoi ultimi interventi sul «Contemporaneo» a Pier Paolo Pasolini, in polemica con una parte della critica di sinistra. Scrive l’atto unico La panchina, musicato da Sergio Liberovici, che sarà rappresentato in ottobre al Teatro Donizetti di Bergamo. In novembre escono le Fiabe italiane. Il successo dell’opera consolida l’immagine di un Calvino «favolista» (che diversi critici vedono in contrasto con l’intellettuale impegnato degli interventi teorici). 1957 Esce Il barone rampante, mentre sul quaderno XX di «Botteghe Oscure» appare La speculazione edilizia. Pubblica su «Città aperta» (periodico fondato da un gruppo dissidente di intellettuali comunisti romani) il racconto-apologo La gran bonaccia delle Antille, che mette alla berlina l’immobilismo del Pci. Dopo l’abbandono del Pci da parte di Antonio Giolitti, il 1° agosto rassegna le proprie dimissioni con una sofferta lettera al Comitato federale di Torino del quale faceva parte, pubblicata il 7 agosto sull’«Unità». Oltre a illustrare le ragioni del suo dissenso politico e a confermare la sua fiducia nelle prospettive democratiche del socialismo internazionale, ricorda il peso decisivo che la milizia comunista ha avuto nella sua formazione intellettuale e umana. Tuttavia questi avvenimenti lasciano una traccia profonda nel suo atteggiamento: «Quelle vicende mi hanno estraniato dalla politica, nel senso che la politica ha occupato dentro di me uno spazio molto più piccolo di prima. Non l’ho più ritenuta, da allora, un’attività totalizzante e ne ho diffidato. Penso oggi che la politica registri con molto ritardo cose che, per altri canali, la società manifesta, e penso che spesso la politica compia operazioni abusive e mistificanti» [Rep 80]. 1958 Pubblica su «Nuova Corrente» La gallina di reparto, frammento del romanzo inedito La collana della regina, e su «Nuovi Argomenti» La nuvola di smog. Appare il grande volume antologico dei Racconti, a cui verrà assegnato l’anno seguente il premio Bagutta. Collabora al settimanale «Italia domani» e alla rivista di Antonio Giolitti «Passato e Presente», partecipando per qualche tempo al dibattito per una nuova sinistra socialista. Per un paio di anni collabora con il gruppo torinese di «Cantacronache», scrivendo tra il ’58 e il ’59 testi per quattro canzoni di Liberovici (Canzone triste, Dove vola l’avvoltoio, Oltre il ponte e Il padrone del mondo), e una di Fiorenzo Carpi (Sul verde fiume Po). Scriverà anche le parole per una canzone di Laura Betti, La tigre, e quelle di Turin-la-nuit, musicata da Piero Santi. 1959 Esce Il cavaliere inesistente. Con il n. 3 dell’anno VIII cessa le pubblicazioni il «Notiziario Einaudi». Esce il primo numero del «Menabò di letteratura»: «Vittorini lavorava da Mondadori a Milano, io lavoravo da Einaudi a Torino. Siccome durante tutto il periodo dei “Gettoni” ero io che dalla redazione torinese tenevo i contatti con lui, Vittorini volle che il mio nome figurasse accanto al suo come condirettore del “Menabò”. In realtà la rivista era pensata e composta da lui, che decideva l’impostazione d’ogni numero, ne discuteva con gli amici invitati a collaborare, e raccoglieva la maggior parte dei testi» [Men 73]. Declina un’offerta di collaborazione al quotidiano socialista «Avanti!». Alla fine di giugno, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, nel quadro dello spettacolo Fogli d’album, viene rappresentato un breve sketch tratto dal suo racconto Un letto di passaggio. In settembre viene messo in scena alla Fenice di Venezia il racconto mimico Allez-hop, musicato da Luciano Berio. A margine della produzione narrativa e saggistica e dell’attività giornalistica ed editoriale, Calvino coltiva infatti lungo l’intero arco della sua carriera l’antico interesse per il teatro, la musica e lo spettacolo in generale, tuttavia con sporadici risultati compiuti. A novembre, grazie a un finanziamento della Ford Foundation, parte per un viaggio negli Stati Uniti che lo porta nelle principali località del paese. Il viaggio dura sei mesi: quattro ne trascorre a New York. La città lo colpisce profondamente, anche per la varietà degli ambienti con cui entra in contatto. Anni dopo dirà che New York è la città che ha sentito sua più di qualsiasi altra. Ma già nella prima delle corrispondenze per il settimanale «ABC» scriveva: «Io amo New York, e l’amore è cieco. E muto: non so controbattere le ragioni degli odiatori con le mie [...]. In fondo, non si è mai capito bene perché Stendhal amasse tanto Milano. Farò scrivere sulla mia tomba, sotto il mio nome, “newyorkese”?» (11 giugno 1960). 1960 Raccoglie la trilogia araldica nel volume dei Nostri antenati, accompagnandola con un’importante introduzione. Sul «Menabò» n. 2 appare il saggio Il mare dell’oggettività. 1961 La sua notorietà va sempre più consolidandosi. Di fronte al moltiplicarsi delle offerte, appare combattuto fra disponibilità curiosa ed esigenza di concentrazione: «Da un po’ di tempo, le richieste di collaborazioni da tutte le parti – quotidiani, settimanali, cinema, teatro, radio, televisione –, richieste una più allettante dell’altra come compenso e risonanza, sono tante e così pressanti, che io – combattuto fra il timore di disperdermi in cose effimere, l’esempio di altri scrittori più versatili e fecondi che a momenti mi dà il desiderio d’imitarli ma poi invece finisce per ridarmi il piacere di star zitto pur di non assomigliare a loro, il desiderio di raccogliermi per pensare al “libro” e nello stesso tempo il sospetto che solo mettendosi a scrivere qualunque cosa anche “alla giornata” si finisce per scrivere ciò che rimane – insomma, succede che non scrivo né per i giornali, né per le occasioni esterne né per me stesso» [lettera a Emilio Cecchi, 3 novembre]. Tra le proposte rifiutate, quella di collaborare al «Corriere della Sera». Raccoglie le cronache e le impressioni del suo viaggio negli Stati Uniti in un libro, Un ottimista in America, che però decide di non pubblicare quando è già in bozze. Interviene con due articoli («Rinascita», 30 gennaio e «Il Giorno», 3 febbraio) nel dibattito sul nuovo italiano «tecnologico» aperto da Pier Paolo Pasolini. In aprile nasce a Roma la figlia Giovanna. «Fare l’esperienza della paternità per la prima volta dopo i quarant’anni dà un grande senso di pienezza, ed è oltretutto un inaspettato divertimento» [lettera del 24 novembre a Hans Magnus Enzensberger]. Pubblica Le Cosmicomiche. Con lo pseudonimo Tonio Cavilla, cura un’edizione ridotta e commentata del Barone rampante nella collana Letture per la scuola media. Esce il dittico La nuvola di smog e La formica argentina (in precedenza edite nei Racconti). 1966 Il 12 febbraio muore Vittorini. «È difficile associare l’idea della morte – e fino a ieri quella della malattia – alla figura di Vittorini. Le immagini della negatività esistenziale, fondamentali per tanta parte della letteratura contemporanea, non erano le sue: Elio era sempre alla ricerca di nuove immagini di vita. E sapeva suscitarle negli altri» [Conf 66]. Un anno dopo, in un numero monografico del «Menabò» dedicato allo scrittore siciliano, pubblicherà l’ampio saggio Vittorini: progettazione e letteratura. Dopo la scomparsa di Vittorini la posizione di Calvino nei riguardi dell’attualità muta: subentra, come dichiarerà in seguito, una presa di distanza, con un cambiamento di ritmo. «Una vocazione di topo di biblioteca che prima non avevo mai potuto seguire [...] adesso ha preso il sopravvento, con mia piena soddisfazione, devo dire. Non che sia diminuito il mio interesse per quello che succede, ma non sento più la spinta a esserci in mezzo in prima persona. È soprattutto per via del fatto che non sono più giovane, si capisce. Lo stendhalismo, che era stata la filosofia pratica della mia giovinezza, a un certo punto è finito. Forse è solo un processo del metabolismo, una cosa che viene con l’età, ero stato giovane a lungo, forse troppo, tutt’a un tratto ho sentito che doveva cominciare la vecchiaia, sì proprio la vecchiaia, sperando magari d’allungare la vecchiaia cominciandola prima» [Cam 73]. La presa di distanza non è però una scontrosa chiusura all’esterno. In maggio riceve da Jean-Louis Barrault la proposta di scrivere un testo per il suo teatro. All’inizio di giugno partecipa a La Spezia alle riunioni del Gruppo ’63. In settembre invia a un editore inglese un contributo al volume Authors take sides on Vietnam («In un mondo in cui nessuno può essere contento di se stesso o in pace con la propria coscienza, in cui nessuna nazione o istituzione può pretendere d’incarnare un’idea universale e neppure soltanto la propria verità particolare, la presenza della gente del Vietnam è la sola che dia luce»). 1967 Nella seconda metà di giugno si trasferisce con la famiglia a Parigi, in una villetta sita in Square de Châtillon, col proposito di restarvi cinque anni. Vi abiterà invece fino al 1980, compiendo peraltro frequenti viaggi in Italia, dove trascorre anche i mesi estivi. Finisce di tradurre I fiori blu di Raymond Queneau. Alla poliedrica attività del bizzarro scrittore francese rinviano vari aspetti del Calvino maturo: il gusto della comicità estrosa e paradossale (che non sempre s’identifica con il divertissement), l’interesse per la scienza e per il gioco combinatorio, un’idea artigianale della letteratura in cui convivono sperimentalismo e classicità. Da una conferenza sul tema «Cibernetica e fantasmi» ricava il saggio Appunti sulla narrativa come processo combinatorio, che pubblica su «Nuova Corrente». Sulla stessa rivista e su «Rendiconti» escono rispettivamente La cariocinesi e Il sangue, il mare, entrambi poi raccolti nel volume Ti con zero. Verso la fine dell’anno s’impegna con Giovanni Enriques della casa editrice Zanichelli a progettare e redigere, in collaborazione con G.B. Salinari e quattro insegnanti, un’antologia per la scuola media che uscirà nel 1969 col titolo La lettura. 1968 Il nuovo interesse per la semiologia è testimoniato dalla partecipazione ai due seminari di Barthes su Sarrasine di Balzac all’École des Hautes Études della Sorbona, e a una settimana di studi semiotici all’Università di Urbino, caratterizzata dall’intervento di Algirdas Julien Greimas. A Parigi frequenta Queneau, che lo presenterà ad altri membri dell’Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle, emanazione del Collège de Pataphysique di Alfred Jarry), fra i quali Georges Perec, François Le Lionnais, Jacques Roubaud, Paul Fournel. Per il resto, nella capitale francese i suoi contatti sociali e culturali non saranno particolarmente intensi: «Forse io non ho la dote di stabilire dei rapporti personali con i luoghi, resto sempre un po’ a mezz’aria, sto nelle città con un piede solo. La mia scrivania è un po’ come un’isola: potrebbe essere qui come in un altro paese [...] facendo lo scrittore una parte del mio lavoro la posso svolgere in solitudine, non importa dove, in una casa isolata in mezzo alla campagna, o in un’isola, e questa casa di campagna io ce l’ho nel bel mezzo di Parigi. E così, mentre la vita di relazione connessa col mio lavoro si svolge tutta in Italia, qui ci vengo quando posso o devo stare solo» [EP 74]. Come già nei riguardi dei movimenti giovanili di protesta dei primi anni Sessanta, segue la contestazione studentesca con interesse, ma senza condividerne atteggiamenti e ideologia. Il suo «contributo al rimescolio di idee di questi anni» [Cam 73] è legato piuttosto alla riflessione sul tema dell’utopia. Matura così la proposta di una rilettura di Fourier, che si concreta nel ’71 con la pubblicazione di un’originale antologia di scritti: «È dell’indice del volume che sono particolarmente fiero: il mio vero saggio su Fourier è quello» [Four 71]. Rifiuta il premio Viareggio per Ti con zero («Ritenendo definitivamente conclusa epoca premi letterari rinuncio premio perché non mi sento di continuare ad avallare con mio consenso istituzioni ormai svuotate di significato stop. Desiderando evitare ogni clamore giornalistico prego non annunciare mio nome fra vincitori stop. Credete mia amicizia»); accetterà invece due anni dopo il premio Asti, nel ’72 il premio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei, poi quello della Città di Nizza, il Mondello e altri. Per tutto l’anno lavora intensamente ai tre volumi dell’antologia scolastica La lettura; i suoi interlocutori alla Zanichelli sono Delfino Insolera e Gianni Sofri. Pubblica presso il Club degli Editori di Milano La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche. Fra il 1968 e il 1972 – insieme con alcuni amici (Guido Neri, Carlo Ginzburg, Enzo Melandri e soprattutto Gianni Celati) – ragiona a voce e per scritto sulla possibilità di dar vita a una rivista («Alì Babà»). Particolarmente viva in lui è l’esigenza di rivolgersi a «un pubblico nuovo, che non ha ancora pensato al posto che può avere la lettura nei bisogni quotidiani»: di qui il progetto, mai realizzato, di «una rivista a larga tiratura, che si vende nelle edicole, una specie di “Linus”, ma non a fumetti, romanzi a puntate con molte Montezuma e L’uomo di Neanderthal. 1975 Nella seconda metà di maggio compie un viaggio in Iran, incaricato dalla Rai di effettuare i sopralluoghi per la futura eventuale realizzazione del programma “Le città della Persia”. Il 1° di agosto si apre sul «Corriere della Sera», con La corsa delle giraffe, la serie dei racconti del signor Palomar. Ripubblica nella Biblioteca Giovani di Einaudi La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche. 1976 Fra la fine di febbraio e la metà di marzo è negli Stati Uniti: prima ospite del College di Amherst (Mass.); poi una settimana a Baltimora per i Writing Seminars della Johns Hopkins University (dove tiene seminari sulle Cosmicomiche e sui Tarocchi, una conferenza e una lettura pubblica delle Città invisibili); poi una settimana a New York. Passa infine una decina di giorni in Messico con la moglie Chichita. Il viaggio in Messico e quello che farà nel mese di novembre in Giappone gli danno lo spunto per una serie di articoli sul «Corriere della Sera». 1977 L’8 febbraio, a Vienna, il ministero austriaco dell’Istruzione e dell’Arte gli conferisce lo Staatspreis für Europäische Literatur. Esce su «Paragone» Letteratura La poubelle agréée. Dà alle stampe La penna in prima persona (Per i disegni di Saul Steinberg). Lo scritto si inserisce in una serie di brevi lavori, spesso in bilico tra saggio e racconto, ispirati alle arti figurative (in una sorta di libero confronto con opere di Fausto Melotti, Giulio Paolini, Lucio Del Pezzo, Cesare Peverelli, Valerio Adami, Alberto Magnelli, Luigi Serafini, Domenico Gnoli, Giorgio De Chirico, Enrico Baj, Arakawa...). Sull’«Approdo letterario» di dicembre, col titolo Il signor Palomar in Giappone, pubblica la serie integrale dei pezzi ispirati dal viaggio dell’anno precedente. 1978 In una lettera a Guido Neri del 31 gennaio scrive che La poubelle agréée fa parte di «una serie di testi autobiografici con una densità più saggistica che narrativa, testi che in gran parte esistono solo nelle mie intenzioni, e in parte in redazioni ancora insoddisfacenti, e che un giorno forse saranno un volume che forse si chiamerà Passaggi obbligati». In aprile, all’età di 92 anni muore la madre. La Villa Meridiana sarà venduta qualche tempo dopo. 1979 Pubblica il romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore. Con l’articolo Sono stato stalinista anch’io? (16-17 dicembre) inizia una fitta collaborazione al quotidiano «la Repubblica» in cui i racconti si alternano alla riflessione su libri, mostre e altri fatti di cultura. Sono quasi destinati a sparire invece, rispetto a quanto era avvenuto con il «Corriere della Sera», gli articoli di tema sociale e politico (fra le eccezioni l’Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti, 15 marzo 1980). 1980 Raccoglie nel volume Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società la parte più significativa dei suoi interventi saggistici dal 1955 in poi. Nel mese di settembre si trasferisce con la famiglia a Roma, in piazza Campo Marzio, in una casa con terrazza a un passo dal Pantheon. Accetta da Rizzoli l’incarico di curare un’ampia scelta di testi di Tommaso Landolfi. 1981 Riceve la Legion d’onore. Cura l’ampia raccolta di scritti di Queneau Segni, cifre e lettere. Sulla rivista «Il cavallo di Troia» appare Le porte di Bagdad, azione scenica per i bozzetti di Toti Scialoja. Su richiesta di Adam Pollock (che ogni estate organizza a Batignano, presso Grosseto, spettacoli d’opera del Seicento e del Settecento) compone un testo a carattere combinatorio, con funzione di cornice, per l’incompiuto Singspiel di Mozart Zaide. Presiede a Venezia la giuria della XXIX Mostra internazionale del cinema, che premia, oltre ad Anni di piombo di Margarethe von Trotta, Sogni d’oro di Nanni Moretti. 1982 All’inizio dell’anno, tradotta da Sergio Solmi, esce da Einaudi la Piccola cosmogonia portatile di Queneau; il poema è seguito da una Piccola guida alla Piccola cosmogonia cui Calvino ha lavorato fra il 1978 e il 1981, discutendo e risolvendo ardui problemi d’interpretazione e di resa del testo in un fitto dialogo epistolare con Solmi. All’inizio di marzo, al Teatro alla Scala di Milano, viene rappresentata La Vera Storia, opera in due atti scritta da Berio e Calvino. Di quest’anno è anche l’azione musicale Duo, primo nucleo del futuro Un re in ascolto, sempre composta in collaborazione con Berio. Su «FMR» di giugno appare il racconto Sapore sapere. In ottobre Rizzoli pubblica il volume Le più belle pagine di Tommaso Landolfi scelte da Italo Calvino, con una sua nota finale dal titolo L’esattezza e il caso. In dicembre esce da Einaudi la Storia naturale di Plinio con una sua introduzione dal titolo Il cielo, l’uomo, l’elefante. 1983 Viene nominato per un mese «directeur d’études» all’École des Hautes Études. Il 25 gennaio tiene una lezione su «Science et métaphore chez Galilée» al seminario di Greimas. Legge in inglese alla New York University («James Lecture») la conferenza Mondo scritto e mondo non scritto. Nel pieno della grave crisi che ha colpito la casa editrice Einaudi esce in novembre Palomar. 1984 Nel mese di aprile, insieme con la moglie Chichita, compie un viaggio in Argentina, accogliendo l’invito della Feria Internacional del Libro di Buenos Aires. S’incontra anche con Raúl Alfonsín, eletto alcuni mesi prima presidente della repubblica. In agosto diserta la prima di Un re in ascolto; in una lettera a Claudio Varese del mese successivo scrive: «L’opera di Berio a Salisburgo di mio ha il titolo e credo nient’altro». In settembre è a Siviglia, dove è stato invitato insieme con Borges a un convegno sulla letteratura fantastica. In seguito alle perduranti difficoltà finanziarie dell’Einaudi decide di accettare Bibliografia essenziale Monografie e raccolte di saggi G. Pescio Bottino, Italo Calvino, La Nuova Italia, Firenze 1967 (nuova ed. 1972). G. Bonura, Invito alla lettura di Italo Calvino, Mursia, Milano 1972 (nuova ed. 1985). C. Calligaris, Italo Calvino, Mursia, Milano 1973 (nuova ed. a cura di G.P. Bernasconi, 1985). F. Bernardini Napoletano, I segni nuovi di Italo Calvino. Da «Le Cosmicomiche» a «Le città invisibili», Bulzoni, Roma 1977. C. Benussi, Introduzione a Calvino, Laterza, Roma-Bari 1989. G.C. Ferretti, Le capre di Bikini. Calvino giornalista e saggista 1945-1985, Editori Riuniti, Roma 1989. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, Garzanti, Milano 1990. K. Hume, Calvino’s Fictions: Cogito and Cosmos, Clarendon Press, Oxford 1992. R. Bertoni, Int’abrigu int’ubagu. Discorso su alcuni aspetti dell’opera di Italo Calvino, Tirrenia Stampatori, Torino 1993. G. Bertone, Italo Calvino. Il castello della scrittura, Einaudi, Torino 1994. R. Deidier, Le forme del tempo. Saggio su Italo Calvino, Guerini e Associati, Milano 1995. G. Bonsaver, Il mondo scritto. Forme e ideologia nella narrativa di Italo Calvino, Tirrenia Stampatori, Torino 1995. Ph. Daros, Italo Calvino, Hachette, Paris 1995. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Einaudi, Torino 1996. C. De Caprio, La sfida di Aracne. Studi su Italo Calvino, Dante & Descartes, Napoli 1996. E. Zinato (a cura di), Conoscere i romanzi di Calvino, Rusconi, Milano 1997. M.L. McLaughlin, Italo Calvino, Edinburgh University Press, Edinburgh 1998. P. Castellucci, Un modo di stare al mondo. Italo Calvino e l’America, Adriatica, Bari 1999. S. Perrella, Calvino, Laterza, Roma-Bari 1999. D. Scarpa, Italo Calvino, Bruno Mondadori, Milano 1999. J.-P. Manganaro, Italo Calvino, romancier et conteur, Seuil, Paris 2000. A. Asor Rosa, Stile Calvino. Cinque studi, Einaudi, Torino 2001. M. Belpoliti, Settanta, Einaudi, Torino 2001. M. Lavagetto, Dovuto a Calvino, Bollati Boringhieri, Torino 2001. N. Turi, L’identità negata. Il secondo Calvino e l’utopia del tempo fermo, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2003. F. Serra, Calvino, Salerno editrice, Roma 2006. L. Baranelli, Bibliografia di Italo Calvino, Edizioni della Normale, Pisa 2007. M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, il Mulino, Bologna 2007 (raccolta di saggi). M. Bucciantini, Italo Calvino e la scienza. Gli alfabeti del mondo, Donzelli, Roma 2007. A. Nigro, Dalla parte dell’effimero ovvero Calvino e il paratesto, Serra, Pisa- Roma 2007. M. Barenghi, Calvino, il Mulino, Bologna 2009 (profilo complessivo). Articoli e saggi in libri e riviste G. Almansi, Il mondo binario di Italo Calvino, in «Paragone», agosto 1971; poi ripreso in parte, con il titolo Il fattore Gnac, in La ragione comica, Feltrinelli, Milano 1986. G. Falaschi, Italo Calvino, in «Belfagor», XXVII, 5, 30 settembre 1972. G. Vidal, Fabulous Calvino, in «The New York Review of Books», vol. 21, n. 9, 30 May 1974, pp. 13-21; trad. it. I romanzi di Calvino, in G. Vidal, Le parole e i fatti, Bompiani, Milano 1978, pp. 107-27; poi in «Riga», 9, 1995, Italo Calvino. Enciclopedia: arte, scienza e letteratura, a cura di M. Belpoliti, pp. 136-53; poi in G. Vidal, Il canarino e la miniera. Saggi letterari (1956-2000), Fazi, Roma 2003, pp. 252-69. M. Barenghi, Italo Calvino e i sentieri che s’interrompono, in «Quaderni piacentini» (n.s.), 15, 1984, pp. 127-50; poi, con il titolo Reti, percorsi, labirinti. Calvino 1984, in Italo Calvino, le linee e i margini, pp. 35-60. C. Cases, Non era un dilettante, in «L’Indice dei libri del mese», II, 8, settembre-ottobre 1985, p. 24; poi, con il titolo Ricordo di Calvino, in Patrie lettere, nuova ed. Einaudi, Torino 1987, pp. 172-75. G. Vidal, On Italo Calvino, in «The New York Review of Books», vol. 32, n. 18, 21 November 1985, pp. 3-10; trad. it. La morte di Calvino, in Il canarino e la miniera, pp. 270-80. G. Pampaloni, Italo Calvino, in Storia della letteratura italiana diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, nuova ed. diretta da N. Sapegno, Il Novecento, II, Garzanti, Milano 1987, pp. 554-59. P.V. Mengaldo, Aspetti della lingua di Calvino, in G. Folena (a cura di), Tre narratori. Calvino, Primo Levi, Parise, Liviana, Padova 1989, pp. 9-55; poi in La tradizione del Novecento. Terza serie, Einaudi, Torino 1991, pp. 227- 91. A. Berardinelli, Calvino moralista. Ovvero restare sani dopo la fine del mondo, in «Diario», VII, 9, febbraio 1991, pp. 37-58; poi in Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione, Quodlibet, Macerata 2007, pp. 91-109. G. Ferroni, Italo Calvino, in Storia della letteratura italiana, vol. IV (Il Novecento), Einaudi, Torino 1991, pp. 565-89. J. Starobinski, Prefazione, in I. Calvino, Romanzi e racconti, ed. diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, I Meridiani Mondadori, I, Milano 1991. C. Milanini, Introduzione, in I. Calvino, Romanzi e racconti, I e II, 1991 e 1992. M. Barenghi, Introduzione, in I. Calvino, Saggi. 1945-1985, I Meridiani Mondadori, Milano 1995; poi rielaborata, con il titolo Una storia, un diario, un trattato (o quasi), in Italo Calvino, le linee e i margini, pp. 125-57. M. Marazzi, L’America critica e fantapolitica di Italo Calvino, in «Ácoma», II, Numeri speciali di periodici «Nuova Corrente», n. 99, gennaio-giugno 1987: Italo Calvino/1, a cura di M. Boselli. Contributi di B. Falcetto, C. Milanini, K. Hume, M. Carlino, L. Gabellone, F. Muzzioli, M. Barenghi, M. Boselli, E. Testa. «Nuova Corrente», n. 100, luglio-dicembre 1987: Italo Calvino/2, a cura di M. Boselli. Contributi di G. Celati, A. Prete, S. Verdino, E. Gioanola, V. Coletti, G. Patrizi, G. Guglielmi, G. Gramigna, G. Terrone, R. West, G.L. Lucente, G. Almansi. «Riga», 9, 1995, Italo Calvino. Enciclopedia: arte, scienza e letteratura, a cura di M. Belpoliti. Testi di I. Calvino, E. Sanguineti, E. Montale, P.P. Pasolini, J. Updike, G. Vidal, M. Tournier, G. Perec, P. Citati, S. Rushdie, C. Fuentes, D. Del Giudice, Fruttero & Lucentini, L. Malerba, N. Ginzburg, H. Mathews, F. Biamonti, A. Tabucchi, G. Manganelli, G. Celati, P. Antonello, M. Belpoliti, R. Deidier, B. Falcetto, M. Porro, F. Ricci, M. Rizzante, D. Scarpa, F. De Leonardis, G. Paolini. «europe», 815, Mars 1997, Italo Calvino. Contributi di J.-B. Para e R. Bozzetto, N. Ginzburg, S. Rushdie, G. Celati, M.-A. Rubat du Mérac, M. Fusco, J. Jouet, A. Asor Rosa, J. Updike, P. Citati, M. Lavagetto, D. Del Giudice, G. Manganelli, M. Belpoliti, J.-P. Manganaro, P. Braffort, M. Barenghi, C. Milanini. Recensioni e studi su «Il visconte dimezzato» E. Vittorini, risvolto del Visconte dimezzato, I gettoni, febbraio 1952; poi in I risvolti dei «Gettoni», a cura di C. De Michelis, Libri Scheiwiller, Milano 1988, pp. 43-44. A. Banti, Italo Calvino, «Paragone» Letteratura, III, 28, aprile 1952, pp. 75-76; poi in Opinioni, il Saggiatore, Milano 1961, pp. 147-49. E. Cecchi, Il visconte dimezzato (1952), in Di giorno in giorno. Note di letteratura italiana contemporanea (1945-1954), Garzanti, Milano 1954 (poi ivi 1977, pp. 315-17). G. De Robertis, Il punto su Calvino, in «Il nuovo corriere», 12 giugno 1952; poi in Altro Novecento, Le Monnier, Firenze 1962, pp. 571-73. A. Bocelli, Il visconte dimezzato, in «Il Mondo», IV, 26, 28 giugno 1952, p. 6. F. Fortini, Un racconto di Calvino: Il visconte dimezzato, in «Comunità», VI, 14, giugno 1952, p. 75. G. Manacorda (1952), in Vent’anni di pazienza, La Nuova Italia, Firenze 1972. G. Bàrberi Squarotti, in La narrativa italiana del dopoguerra, Cappelli, Bologna 1965. J.R. Woodhouse, Italo Calvino: A Reappraisal and an Appreciation of the Trilogy, University of Hull, Hull 1968. G. Pandini, Polivalenza della fiaba nel «Visconte dimezzato» di Italo Calvino, in «Otto/Novecento», marzo-aprile 1977. F. Di Carlo, Come leggere «I nostri antenati» di Italo Calvino, Mursia, Milano 1978. G. Restivo, Calvino/Beckett (1986), in Le soglie del postmoderno: «Finale di partita», il Mulino, Bologna 1991. M. Barenghi, Note e notizie. Il visconte dimezzato, in I. Calvino, Romanzi e racconti, I Meridiani Mondadori, I, Milano 1991. Il visconte dimezzato Galoppando avanti‚ videro che i caduti dell’ultima battaglia erano stati quasi tutti rimossi e seppelliti. Solo se ne scopriva qualche sparso membro‚ specialmente dita‚ posato sulle stoppie. – Ogni tanto c’è un dito che c’indica la strada, – disse mio zio Medardo. – Che vuol dire? – Dio li perdoni: i vivi mozzano le dita ai morti per portar via gli anelli. – Chi va là? – disse una sentinella dal cappotto ricoperto di muffe e muschi come la corteccia d’un albero esposto a tramontana. – Viva la sacra corona imperiale! – gridò Curzio. – E che il sultano muoia! – replicò la sentinella. – Ma‚ vi prego‚ arrivati al comando dite loro quando si decidono a mandarmi il cambio‚ ché ormai metto radici! I cavalli ora correvano per sfuggire alla nuvola di mosche che circondava il campo‚ ronzando sulle montagne d’escrementi. – Di molti valorosi, – osservò Curzio, – lo sterco d’ieri è ancora in terra‚ e loro son già in cielo, – e si segnò. All’ingresso dell’accampamento‚ fiancheggiarono una fila di baldacchini‚ sotto ai quali donne ricce e spesse‚ con lunghe vesti di broccato e i seni nudi‚ li accolsero con urla e risatacce. – Sono i padiglioni delle cortigiane, – disse Curzio. – Nessun altro esercito ne ha di così belle. Mio zio già cavalcava col viso voltato indietro‚ a guardar loro. – Attento‚ signore, – aggiunse lo scudiero, – sono tanto sozze e impestate che non le vorrebbero neppure i turchi come preda d’un saccheggio. Ormai non son più soltanto cariche di piattole‚ cimici e zecche‚ ma indosso a loro fanno il nido gli scorpioni e i ramarri. Passarono davanti alle batterie da campo. A sera‚ gli artiglieri facevano cuocere il loro rancio d’acqua e rape sul bronzo delle spingarde e dei cannoni‚ arroventato dal gran sparare della giornata. Arrivavano dei carri pieni di terra e gli artiglieri la passavano al setaccio. – Già scarseggia la polvere da sparo, – spiegò Curzio, – ma la terra dove si son svolte le battaglie n’è tanto impregnata che‚ volendo‚ si può recuperare qualche carica. Dopo venivano gli stalli della cavalleria‚ dove‚ tra le mosche‚ i veterinari sempre all’opera rabberciavano la pelle dei quadrupedi con cuciture‚ cinti ed empiastri di catrame bollente‚ tutti nitrendo e scalciando‚ anche i dottori. Gli attendamenti delle fanterie seguitavano poi per un gran tratto. Era il tramonto‚ e davanti a ogni tenda i soldati erano seduti coi piedi scalzi immersi in tinozze d’acqua tiepida. Soliti com’erano a improvvisi allarmi notte e giorno‚ anche nell’ora del pediluvio tenevano l’elmo in testa e la picca stretta in pugno. In tende più alte e drappeggiate a chiosco‚ gli ufficiali s’incipriavano le ascelle e si facevano vento con ventagli di pizzo. – Non lo fanno per effeminatezza, – disse Curzio, – anzi: vogliono mostrare di trovarsi completamente a loro agio nelle asprezze della vita militare. Il visconte di Terralba fu subito introdotto alla presenza dell’imperatore. Nel suo padiglione tutto arazzi e trofei‚ il sovrano studiava sulle carte geografiche i piani di future battaglie. I tavoli erano ingombri di carte srotolate e l’imperatore vi piantava degli spilli‚ traendoli da un cuscinetto puntaspilli che uno dei marescialli gli porgeva. Le carte erano ormai tanto cariche di spilli che non ci si capiva più niente‚ e per leggervi qualcosa dovevano togliere gli spilli e poi rimetterceli. In questo togli e metti‚ per aver libere le mani‚ sia l’imperatore che i marescialli tenevano gli spilli tra le labbra e potevano parlare solo a mugolii. Alla vista del giovane che s’inchinava davanti a lui‚ il sovrano emise un mugolìo interrogativo e si cavò tosto gli spilli dalla bocca. – Un cavaliere appena giunto dall’Italia‚ maestà, – lo presentarono, – il visconte di Terralba‚ d’una delle più nobili famiglie del Genovesato. – Sia nominato subito tenente. Mio zio batté gli speroni scattando sull’attenti‚ mentre l’imperatore faceva un ampio gesto regale e tutte le carte geografiche s’avvolgevano su se stesse e rotolavano giù. Quella notte‚ benché stanco‚ Medardo tardò a dormire. Camminava avanti e indietro vicino alla sua tenda e sentiva i richiami delle sentinelle‚ i cavalli nitrire e il rotto parlar nel sonno di qualche soldato. Guardava in cielo le stelle di Boemia‚ pensava al nuovo grado‚ alla battaglia dell’indomani‚ e alla patria lontana‚ al suo fruscìo di canne nei torrenti. In cuore non aveva né nostalgia‚ né dubbio‚ né apprensione. Ancora per lui le cose erano intere e indiscutibili‚ e tale era lui stesso. Se avesse potuto prevedere la terribile sorte che l’attendeva‚ forse avrebbe trovato anch’essa naturale e compiuta‚ pur in tutto il suo dolore. Tendeva lo sguardo al margine dell’orizzonte notturno‚ dove sapeva essere il campo dei nemici‚ e a braccia conserte si stringeva con le mani le spalle‚ contento d’aver certezza insieme di realtà lontane e diverse‚ e della propria presenza in mezzo a esse. Sentiva il sangue di quella guerra crudele‚ sparso per mille rivi sulla terra‚ giungere fino a lui; e se ne lasciava lambire‚ senza provare accanimento né pietà. prima scelta si faceva lì sul campo. – Questo lo prendo io‚ quello lo prendi tu –. Dove sembrava ci fosse ancora qualcosa da salvare‚ lo mettevano sul carro dei feriti; dove erano solo pezzi e brani andava sul carro dei morti‚ per aver sepoltura benedetta; quello che non era più neanche un cadavere era lasciato in pasto alle cicogne. In quei giorni‚ viste le perdite crescenti‚ s’era data la disposizione che nei feriti era meglio abbondare. Così i resti di Medardo furono considerati un ferito e messi su quel carro. La seconda scelta si faceva all’ospedale. Dopo le battaglie l’ospedale da campo offriva una vista ancor più atroce delle battaglie stesse. In terra c’era la lunga fila delle barelle con dentro quegli sventurati‚ e tutt’intorno imperversavano i dottori‚ strappandosi di mano pinze‚ seghe‚ aghi‚ arti amputati e gomitoli di spago. Morto per morto‚ a ogni cadavere facevan di tutto per farlo tornar vivo. Sega qui‚ cuci là‚ tampona falle‚ rovesciavano le vene come guanti e le rimettevano al suo posto‚ con dentro più spago che sangue‚ ma rattoppate e chiuse. Quando un paziente moriva‚ tutto quello che aveva di buono serviva a racconciare le membra di un altro‚ e così via. La cosa che imbrogliava di più erano gli intestini: una volta srotolati non si sapeva più come rimetterli. Tirato via il lenzuolo‚ il corpo del visconte apparve orrendamente mutilato. Gli mancava un braccio e una gamba‚ non solo‚ ma tutto quel che c’era di torace e d’addome tra quel braccio e quella gamba era stato portato via‚ polverizzato da quella cannonata presa in pieno. Del capo restavano un occhio‚ un orecchio‚ una guancia‚ mezzo naso‚ mezza bocca‚ mezzo mento e mezza fronte: dell’altra metà del capo c’era più solo una pappetta. A farla breve‚ se n’era salvato solo metà‚ la parte destra‚ che peraltro era perfettamente conservata‚ senza neanche una scalfittura‚ escluso quell’enorme squarcio che l’aveva separata dalla parte sinistra andata in bricioli. I medici: tutti contenti. – Uh‚ che bel caso! – Se non moriva nel frattempo‚ potevano provare anche a salvarlo. E gli si misero d’attorno‚ mentre i poveri soldati con una freccia in un braccio morivano di setticemia. Cucirono‚ applicarono‚ impastarono: chi lo sa cosa fecero. Fatto sta che l’indomani mio zio aperse l’unico occhio‚ la mezza bocca‚ dilatò la narice e respirò. La forte fibra dei Terralba aveva resistito. Adesso era vivo e dimezzato. III Quando mio zio fece ritorno a Terralba‚ io avevo sette o otto anni. Fu di sera‚ già a buio; era ottobre; il cielo era coperto. Il giorno avevamo vendemmiato e attraverso i filari vedevamo nel mare grigio avvicinarsi le vele d’una nave che batteva bandiera imperiale. Ogni nave che si vedeva allora‚ si diceva: – Questo è Mastro Medardo che ritorna‚ – non perché fossimo impazienti che tornasse‚ ma tanto per aver qualcosa da aspettare. Quella volta avevamo indovinato: ne fummo certi alla sera‚ quando un giovane chiamato Fiorfiero‚ pigiando l’uva in cima al tino‚ gridò: – Oh‚ laggiù –; era quasi buio e vedemmo in fondovalle una fila di torce accendersi per la mulattiera; e poi‚ quando passò sul ponte‚ distinguemmo una lettiga trasportata a braccia. Non c’era dubbio: era il visconte che tornava dalla guerra. La voce si sparse per le vallate; nella corte del castello s’aggruppò gente: familiari‚ famigli‚ vendemmiatori‚ pastori‚ gente d’arme. Mancava solo il padre di Medardo‚ il vecchio visconte Aiolfo‚ mio nonno‚ che da tempo non scendeva più neanche nella corte. Stanco delle faccende del mondo‚ aveva rinunciato alle prerogative del titolo a favore dell’unico suo figliolo maschio‚ prima ch’egli partisse per la guerra. Ora la sua passione per gli uccelli‚ che allevava dentro il castello in una grande voliera‚ s’era andata facendo più esclusiva: il vecchio s’era portato in quell’uccelliera anche il suo letto‚ e ci s’era rinchiuso‚ e non ne usciva né di giorno né di notte. Gli porgevano i pasti assieme al becchime pei volatili attraverso le inferriate dell’uccelliera‚ e Aiolfo divideva ogni cosa con quelle creature. E passava le ore accarezzando sul dorso i fagiani‚ le tortore‚ in attesa del ritorno dalla guerra di suo figlio. Nella corte del nostro castello io non avevo mai visto tanta gente: era passato il tempo‚ di cui ho solo sentito raccontare‚ delle feste e delle guerre tra vicini. E per la prima volta m’accorsi di come i muri e le torri fossero in rovina‚ e fangosa la corte‚ dove usavamo dare l’erba alle capre e riempire il truogolo ai maiali. Tutti‚ aspettando‚ discutevano di come il visconte Medardo sarebbe ritornato; da tempo era giunta la notizia di gravi ferite che egli aveva ricevute dai turchi‚ ma ancora nessuno sapeva di preciso se fosse mutilato‚ o infermo‚ o soltanto sfregiato dalle cicatrici: e ora l’aver visto la lettiga ci preparava al peggio. Ed ecco la lettiga veniva posata a terra‚ e in mezzo all’ombra nera si vide il brillìo d’una pupilla. La grande vecchia balia Sebastiana fece per avvicinarsi‚ ma da quell’ombra si levò una mano con un aspro gesto di diniego. Poi si vide il corpo nella lettiga agitarsi in uno sforzo angoloso e convulso‚ e davanti ai nostri occhi Medardo di Terralba balzò in piedi‚ puntellandosi a una stampella. Un mantello nero col cappuccio gli scendeva dal capo fino a terra; dalla parte destra era buttato all’indietro‚ scoprendo metà del viso e della persona stretta alla stampella‚ mentre sulla sinistra sembrava che tutto fosse nascosto e avvolto nei lembi e nelle pieghe di quell’ampio drappeggio. Stette a guardarci‚ noi in cerchio attorno a lui‚ senza che nessuno dicesse parola; ma forse con quel suo occhio fisso non ci guardava affatto‚ voleva soltanto allontanarci da sé. Un’alzata di vento venne su dal mare e un ramo rotto in cima a un fico mandò un gemito. Il mantello di mio zio ondeggiò‚ e il vento lo gonfiava‚ lo tendeva come una vela e si sarebbe detto che gli attraversasse il corpo‚ anzi‚ che questo corpo non ci fosse affatto‚ e il mantello fosse vuoto come quello d’un fantasma. Poi‚ guardando meglio‚ vedemmo che aderiva come a un’asta di bandiera‚ e quest’asta era la spalla‚ il braccio‚ il fianco‚ la gamba‚ tutto quello che di lui poggiava sulla gruccia: e il resto non c’era. Le capre osservavano il visconte col loro sguardo fisso e inespressivo‚ girate ognuna in una posizione diversa ma tutte serrate‚ con i dorsi disposti in uno strano disegno d’angoli retti. I maiali‚ più sensibili e pronti‚ strillarono e fuggirono urtandosi tra loro con le pance‚ e allora neppure noi potemmo più nascondere d’esser spaventati. – Figlio mio! – gridò la balia Sebastiana e alzò le braccia. – Meschinetto! Mio zio‚ contrariato d’aver destato in noi tale impressione‚ avanzò la punta della stampella sul terreno e con un movimento a compasso si spinse verso IV Dopo la morte di suo padre‚ Medardo cominciò a uscire dal castello. Fu ancora la balia Sebastiana la prima a accorgersene‚ un mattino‚ trovando le porte spalancate e le stanze deserte. Una squadra di servi fu mandata per la campagna a seguire le tracce del visconte. I servi correvano e passarono sotto un albero di pero che avevan visto‚ a sera‚ carico di frutti tardivi ancora acerbi. – Guarda lassù, – disse uno dei servi: videro le pere che pendevano contro il cielo albeggiante e a vederle furono presi da terrore. Perché non erano intere‚ erano tante metà di pera tagliate per il lungo e appese ancora ciascuna al proprio gambo: d’ogni pera però c’era solo la metà di destra (o di sinistra secondo da dove si guardava‚ ma erano tutte dalla stessa parte) e l’altra metà era sparita‚ tagliata o forse morsa. – Il visconte è passato di qui! – dissero i servi. Certo‚ dopo essere stato chiuso a digiuno tanti giorni‚ quella notte gli era venuta fame‚ e al primo albero era montato su a mangiare pere. Andando‚ i servi su una pietra incontrarono mezza rana che saltava‚ per la virtù delle rane‚ ancora viva. – Siamo sulla traccia giusta! – e proseguirono. Si smarrirono‚ perché non avevano visto tra le foglie mezzo melone‚ e dovettero tornare indietro finché non l’ebbero trovato. Così dai campi passarono nel bosco e videro un fungo tagliato a mezzo‚ un porcino‚ poi un altro‚ un boleto rosso velenoso‚ e via via andando per il bosco continuarono a trovare‚ uno ogni tanto‚ questi funghi che spuntavano da terra con mezzo gambo e aprivano solo mezzo ombrello. Sembravano divisi con un taglio netto‚ e dell’altra metà non si trovava neanche una spora. Erano funghi d’ogni specie‚ vesce‚ ovuli‚ agarici; e i velenosi erano pressappoco altrettanti che i mangiabili. Seguendo questa sparsa traccia i servi arrivarono al prato chiamato «delle monache» dove c’era uno stagno in mezzo all’erba. Era l’aurora e sull’orlo dello stagno la figura esigua di Medardo‚ ravvolta nel mantello nero‚ si specchiava nell’acqua‚ dove galleggiavano funghi bianchi o gialli o colore del terriccio. Erano le metà dei funghi ch’egli aveva portato via‚ ed ora erano sparse su quella superficie trasparente. Sull’acqua i funghi parevano interi e il visconte li guardava: e anche i servi si nascosero sull’altra riva dello stagno e non osarono dir nulla‚ fissando anch’essi i funghi galleggianti‚ finché s’accorsero che erano solo funghi buoni da mangiare. E i velenosi? Se non li aveva buttati nello stagno‚ cosa mai ne aveva fatto? I servi si ridiedero alla corsa per il bosco. Non ebbero da andar lontano perché sul sentiero incontrarono un bambino con un cesto: dentro aveva tutti quei mezzi funghi velenosi. Quel bambino ero io. Nella notte giocavo da solo intorno al Prato delle Monache a farmi spavento sbucando d’improvviso di tra gli alberi‚ quando incontrai mio zio che saltava sul suo piede per il prato al chiaro di luna‚ con un cestino infilato al braccio. – Ciao‚ zio! – gridai: era la prima volta che riuscivo a dirglielo. Lui sembrò molto contento di vedermi. – Vado per funghi, – mi spiegò. – E ne hai presi? – Guarda, – disse mio zio e ci sedemmo in riva a quello stagno. Lui andava scegliendo i funghi e alcuni li buttava in acqua‚ altri li lasciava nel cestino. – Te’, – disse dandomi il cestino con i funghi scelti da lui. – Fatteli fritti. Io avrei voluto chiedergli perché nel suo cesto c’era solo metà d’ogni fungo; ma capii che la domanda sarebbe stata poco riguardosa‚ e corsi via dopo aver detto grazie. Stavo andando a farmeli fritti quando incontrai la squadra dei famigli‚ e seppi che erano tutti velenosi. La balia Sebastiana‚ quando le raccontarono la storia‚ disse: – Di Medardo è ritornata la metà cattiva. Chissà oggi il processo. Quel giorno doveva esserci un processo contro una banda di briganti arrestati il giorno prima dagli sbirri del castello. I briganti erano gente del nostro territorio e quindi era il visconte che doveva giudicarli. Si fece il giudizio e Medardo sedeva nel seggio tutto per storto e si mordeva un’unghia. Vennero i briganti incatenati: il capo della banda era quel giovane chiamato Fiorfiero che era stato il primo ad avvistare la lettiga mentre pigiava l’uva. Venne la parte lesa ed erano una compagnia di cavalieri toscani che‚ diretti in Provenza‚ passavano attraverso i nostri boschi quando Fiorfiero e la sua banda li avevano assaliti e derubati. Fiorfiero si difese dicendo che quei cavalieri erano venuti bracconando nelle nostre terre‚ e lui li aveva fermati e disarmati credendoli appunto bracconieri‚ visto che non ci pensavano gli sbirri. Va detto che in quegli anni gli assalti briganteschi erano un’attività molto diffusa‚ per cui la legge era clemente. Poi i nostri posti erano particolarmente adatti al brigantaggio‚ cosicché pure qualche membro della nostra famiglia‚ specie nei tempi torbidi‚ s’univa alle bande dei briganti. Del bracconaggio non dico‚ era il delitto più lieve che si potesse immaginare. Ma le apprensioni della balia Sebastiana erano fondate. Medardo condannò Fiorfiero e tutta la sua banda a morire impiccati‚ come rei di rapina. Ma siccome i derubati a loro volta erano rei di bracconaggio‚ condannò anch’essi a morire sulla forca. E per punire gli sbirri‚ che erano intervenuti troppo tardi‚ e non avevano saputo prevenire né le malefatte dei bracconieri né quelle dei briganti‚ decretò la morte per impiccagione anche per loro. In tutto erano una ventina di persone. Questa crudele sentenza produsse costernazione e dolore in tutti noi‚ non tanto per i gentiluomini toscani che nessuno aveva visto prima d’allora‚ quanto per i briganti e per gli sbirri che erano generalmente benvoluti. Mastro Pietrochiodo‚ bastaio e carpentiere‚ ebbe l’incarico di costruir la forca: era un lavoratore serio e d’intelletto‚ che si metteva d’impegno a ogni sua opera. Con gran dolore‚ perché due dei condannati erano suoi parenti‚ costruì una forca ramificata come un albero‚ le cui funi salivano tutte insieme manovrate da un solo argano; era una macchina così grande e ingegnosa che ci si poteva impiccare in una sola volta anche più persone di quelle condannate‚ tanto che il visconte ne approfittò per appender dieci gatti alternati ogni due rei. I cadaveri stecchiti e le carogne di gatto penzolarono tre giorni e dapprima a nessuno reggeva il cuore di guardarli. Ma presto ci si accorse della vista imponente che davano‚ e anche il nostro giudizio si smembrava in disparati sentimenti‚ così che dispiacque persino decidersi a staccarli e a disfare la gran macchina. gambe levate per le rocce ma sentivamo i paesani inferociti avvicinarsi dietro di noi. In un punto chiamato Salto della Ghigna un ponticello di tronchi attraversava un abisso profondissimo. Invece di passare il ponticello‚ io e il dottore ci nascondemmo in un gradino di roccia proprio sul ciglio dell’abisso‚ appena in tempo perché già avevamo alle calcagna i paesani. Non ci videro‚ e gridando: – Dov’è che è che sono quei bastardi? – corsero difilato per il ponte. Uno schianto‚ e urlando furono inghiottiti a precipizio nel torrente che correva laggiù in fondo. A me e a Trelawney lo spavento per la nostra sorte si trasformò in sollievo per il pericolo scampato e poi di nuovo in spavento per l’orrenda fine che i nostri inseguitori avevan fatto. Osammo appena sporgerci e guardare giù nel buio dove i paesani erano scomparsi. Alzando gli occhi vedemmo i resti del ponticello: i tronchi erano ancora ben saldi‚ solo che a metà erano spezzati‚ come se li avessero segati; né in altro modo potevamo spiegarci come quel grosso legno avesse ceduto con una rottura così netta. – C’è la mano di chi so io, – disse il dottor Trelawney‚ e anch’io avevo già capito. Infatti‚ s’udì un rapido zoccolìo e sul ciglio del burrone comparvero un cavallo e un cavaliere mezz’avvolto in un mantello nero. Era il visconte Medardo‚ che col suo gelido sorriso triangolare contemplava la tragica riuscita del tranello‚ imprevista forse anche a lui stesso: certo aveva voluto uccidere noi due; invece andò che ci salvò la vita. Tremanti‚ lo vedemmo correr via su quel suo magro cavallo che saltava per le rocce come fosse figlio d’una capra. In quel tempo mio zio girava sempre a cavallo: s’era fatto costruire dal bastaio Pietrochiodo una sella speciale a una cui staffa egli poteva assicurarsi con cinghie‚ mentre all’altra era fissato un contrappeso. A fianco della sella era agganciata una spada e una stampella. E così il visconte cavalcava con in testa un cappello piumato a larghe tese‚ che per metà scompariva sotto un’ala del mantello sempre svolazzante. Dove si sentiva il rumor di zoccoli del suo cavallo tutti scappavano peggio che al passaggio di Galateo il lebbroso‚ e portavano via i bambini e gli animali‚ e temevano per le piante‚ perché la cattiveria del visconte non risparmiava nessuno e poteva scatenarsi da un momento all’altro nelle azioni più impreviste e incomprensibili. Non era stato mai malato e non aveva quindi mai avuto bisogno delle cure del dottor Trelawney; ma in un caso simile non so come il dottore se la sarebbe cavata‚ lui che faceva di tutto per evitare mio zio e per non sentirne neppur parlare. A dirgli del visconte e delle sue crudeltà‚ il dottor Trelawney scuoteva il capo e arricciava le labbra mormorando: – Oh‚ oh‚ oh!... Zzt‚ zzt‚ zzt! – come quando gli si faceva un discorso sconveniente. E‚ per cambiar discorso‚ attaccava a raccontare dei viaggi del capitano Cook. Una volta provai a chiedergli come‚ secondo lui‚ mio zio potesse vivere così mutilato‚ ma l’inglese non seppe dirmi altro che quel: – Oh‚ oh‚ oh!... Zzt‚ zzt‚ zzt! – Pareva che dal punto di vista della medicina‚ il caso di mio zio non suscitasse nessun interesse nel dottore; ma io cominciavo a pensare ch’egli fosse diventato medico solo per imposizione familiare o convenienza‚ e di tale scienza non gli importasse affatto. Forse la sua carriera di medico di bordo era dovuta soltanto alla sua abilità nel gioco del tresette‚ per cui i più famosi navigatori‚ primo fra tutti il capitano Cook‚ se lo contendevano come compagno di partita. Una notte il dottor Trelawney pescava con la rete fuochi fatui nel nostro vecchio cimitero‚ quando si vide davanti Medardo di Terralba che faceva pascolare il suo cavallo sulle tombe. Il dottore era molto confuso e intimorito‚ ma il visconte gli si fece vicino e chiese con la difettosissima pronuncia della sua bocca dimezzata: – Lei cerca farfalle notturne‚ dottore? – Oh‚ milord, – rispose il dottore con un fil di voce, – oh‚ oh‚ non proprio farfalle‚ milord... Fuochi fatui‚ sa? fuochi fatui... – Già‚ i fuochi fatui. Spesso anch’io me ne son chiesta l’origine. – Da tempo‚ modestamente‚ ciò è oggetto dei miei studi‚ milord... – fece Trelawney‚ un po’ rinfrancato da quel tono benevolo. Medardo contorse in un sorriso la sua mezza faccia angolosa‚ dalla pelle tesa come un teschio. – Come studioso ella merita ogni aiuto, – gli disse. – Peccato che questo cimitero‚ abbandonato com’è‚ non sia un buon campo per i fuochi fatui. Ma le prometto che domani stesso provvederò d’aiutarla per quanto m’è possibile. L’indomani era il giorno stabilito per l’amministrazione della giustizia‚ e il visconte condannò a morte una decina di contadini‚ perché‚ secondo i suoi computi‚ non avevano corrisposto tutta la parte di raccolto che dovevano al castello. I morti furono seppelliti nella terra delle fosse comuni e il cimitero buttò fuori ogni notte una gran dovizia di fuochi. Il dottor Trelawney era tutto spaventato di quest’aiuto‚ sebbene lo trovasse molto utile ai suoi studi. In queste tragiche congiunture‚ Mastro Pietrochiodo aveva di molto perfezionato la sua arte nel costruire forche. Ormai erano dei veri capolavori di falegnameria e di meccanica‚ e non solo le forche‚ ma anche i cavalletti‚ gli argani e gli altri strumenti di tortura con cui il visconte Medardo strappava le confessioni agli accusati. Io ero spesso nella bottega di Pietrochiodo‚ perché era molto bello vederlo lavorare con tanta abilità e passione. Ma un cruccio pungeva sempre il cuore del bastaio. Ciò che lui costruiva erano patiboli per gli innocenti. «Come faccio, – pensava, – a farmi dar da costruire qualcosa d’altrettanto ben congegnato‚ ma che abbia un diverso scopo? E quali posson essere i nuovi meccanismi che io costruirei più volentieri?» Ma non venendo a capo di questi interrogativi‚ cercava di scacciarli dalla mente‚ accanendosi a fare gli impianti più belli e ingegnosi che poteva. – Devi dimenticarti lo scopo al quale serviranno, – diceva anche a me. – Guardali solo come meccanismi. Vedi quanto sono belli? Io guardavo quelle architetture di travi‚ quel saliscendere di corde‚ quei collegamenti d’argani e carrucole‚ e mi sforzavo di non vederci sopra i corpi straziati‚ ma più mi sforzavo più ero obbligato a pensarci‚ e dicevo a Pietrochiodo: – Come faccio? – E come faccio io‚ ragazzo, – replicava lui, – come faccio io‚ allora? Ma malgrado strazi e paure‚ quei tempi avevano la loro parte di gioia. L’ora più bella veniva quando il sole era alto e il mare d’oro‚ e le galline fatto l’uovo cantavano‚ e per i viottoli si sentiva il suono del corno del lebbroso. Il lebbroso passava ogni mattina a far la questua per i suoi compagni di sventura. Si chiamava Galateo‚ e portava appeso al collo un corno da caccia‚ il cui suono avvertiva da distante della sua venuta. Le donne udivano il corno e posavano sull’angolo del muretto uova‚ o zucchini‚ o pomodori‚ e alle volte un piccolo coniglio scuoiato; e poi scappavano a nascondersi portando via i bambini‚ perché nessuno deve rimanere nelle strade quando passa il lebbroso: la lebbra s’attacca da distante e perfino vederlo era pericolo. Preceduto dagli squilli del corno‚ Galateo veniva pian piano per i viottoli deserti‚ con l’alto bastone in mano‚ e la lunga veste tutta stracciata che toccava terra. Aveva lunghi capelli gialli stopposi e una tonda faccia bianca‚ già un po’ sbertucciata castello. Il fuoco s’alzò dall’ala dove abitavano i servi e divampò tra urla altissime di chi era rimasto prigioniero‚ mentre il visconte fu visto cavalcare via per la campagna. Era un attentato ch’egli aveva teso alla vita della sua balia e vicemadre Sebastiana. Con l’ostinazione autoritaria che le donne pretendono di mantenere su coloro che han visto bambini‚ Sebastiana non mancava mai di rimproverare al visconte ogni nuovo suo misfatto‚ anche quando tutti s’erano convinti che la sua natura era votata a un’irreparabile‚ insana crudeltà. Sebastiana fu tratta malconcia fuori dalle mura carbonizzate e dovette tenere il letto molti giorni‚ per guarire dalle ustioni. Una sera‚ la porta della stanza in cui lei giaceva s’aperse e il visconte le apparve accanto al letto. – Che cosa sono quelle macchie sulla vostra faccia‚ balia? – disse Medardo‚ indicando le scottature. – Un’orma dei tuoi peccati‚ figlio, – disse la vecchia‚ serena. – La vostra pelle è screziata e stravolta; che male avete‚ balia? – Un male che è nulla‚ figlio mio‚ rispetto a quello che t’aspetta in inferno‚ se non ti ravvedi. – Dovreste guarire presto: non vorrei si sapesse in giro‚ di questo male che avete... – Non ho da prender marito‚ per curarmi del mio corpo. Mi basta la buona coscienza. Potessi tu dire altrettanto. – Eppure il vostro sposo v’aspetta‚ per portarvi via con sé‚ non lo sapete? – Non deridere la vecchiaia‚ figlio‚ tu che hai avuto la giovinezza offesa. – Non scherzo. Ascoltate‚ balia: c’è il vostro fidanzato che suona sotto la vostra finestra... Sebastiana tese l’orecchio e sentì fuor dal castello il suono del corno del lebbroso. L’indomani Medardo mandò a chiamare il dottor Trelawney. – Macchie sospette sono comparse non si sa come sul viso d’una nostra vecchia servente, – disse al dottore. – Tutti abbiamo paura che sia lebbra. Dottore‚ ci affidiamo ai lumi della sua sapienza. Trelawney s’inchinò balbettando: – Mio dovere‚ milord... sempre ai suoi ordini‚ milord... Si girò‚ uscì‚ sgattaiolò via dal castello‚ prese con sé un barilotto di vino «cancarone» e scomparve nei boschi. Non lo si vide più per una settimana. Quando tornò‚ la balia Sebastiana era stata mandata al paese dei lebbrosi. Aveva lasciato il castello una sera al tramonto‚ nerovestita e velata‚ con infilato al braccio un fagotto delle sue robe. Sapeva che la sua sorte era segnata: doveva prendere la via di Pratofungo. Lasciò la stanza dove l’avevano tenuta fin allora‚ e non c’era nessuno nei corridoi né nelle scale. Scese‚ attraversò la corte‚ uscì nella campagna: tutto era deserto‚ ognuno al suo passaggio si ritirava e si nascondeva. Sentì un corno da caccia modulare un richiamo sommesso su due sole note: avanti sul sentiero c’era Galateo che alzava al cielo la bocca del suo strumento. La balia s’avviò a passi lenti; il sentiero andava verso il sole al tramonto; Galateo la precedeva d’un lungo tratto‚ ogni tanto si fermava come contemplando i calabroni ronzanti tra le foglie‚ alzava il corno e levava un mesto accordo; la balia guardava gli orti e le rive che stava abbandonando‚ sentiva dietro le siepi la presenza della gente che s’allontanava da lei‚ e riprendeva a andare. Sola‚ seguendo da distante Galateo‚ giunse a Pratofungo‚ e i cancelli del paese si chiusero dietro di lei‚ mentre le arpe e i violini cominciarono a suonare. Il dottor Trelawney m’aveva molto deluso. Non aver mosso un dito perché la vecchia Sebastiana non fosse condannata al lebbrosario, – pur sapendo che le sue macchie non erano di lebbra, – era un segno di viltà e io provai per la prima volta un moto d’avversione per il dottore. S’aggiunga che quand’era scappato nei boschi non m’aveva preso con sé‚ pur sapendo quanto gli sarei stato utile come cacciatore di scoiattoli e cercatore di lamponi. Ora andare con lui per fuochi fatui non mi piaceva più come prima‚ e spesso giravo da solo‚ in cerca di nuove compagnie. Le persone che più m’attraevano adesso erano gli ugonotti che abitavano Col Gerbido. Era gente scappata d’in Francia dove il re faceva tagliare a pezzi tutti quelli che seguivano la loro religione. Nella traversata delle montagne avevano perduto i loro libri e i loro oggetti sacri‚ e ora non avevano più né Bibbia da leggere‚ né messa da dire‚ né inni da cantare‚ né preghiere da recitare. Diffidenti come tutti quelli che sono passati attraverso persecuzioni e che vivono in mezzo a gente di diversa fede‚ essi non avevano voluto più ricevere alcun libro religioso‚ né ascoltare consigli sul modo di celebrare i loro culti. Se qualcuno veniva a cercarli dicendosi loro fratello ugonotto‚ essi temevano che fosse un emissario del papa travestito‚ e si chiudevano nel silenzio. Così s’erano messi a coltivare le dure terre di Col Gerbido‚ e si sfiancavano a lavorare maschi e femmine da prima dell’alba a dopo il tramonto‚ nella speranza che la grazia li illuminasse. Poco esperti di quel che fosse peccato‚ per non sbagliarsi moltiplicavano le proibizioni e si erano ridotti a guardarsi l’un l’altro con occhi severi spiando se qualche minimo gesto tradisse un’intenzione colpevole. Ricordando confusamente le dispute della loro chiesa‚ s’astenevano dal nominare Dio e ogni altra espressione religiosa‚ per paura di parlarne in modo sacrilego. Così non seguivano nessuna regola di culto‚ e probabilmente non osavano nemmeno formular pensieri su questioni di fede‚ pur conservando una gravità assorta come se sempre ci pensassero. Invece‚ le regole della loro faticosa agricoltura avevano col tempo acquistato un valore pari a quello dei comandamenti‚ e così le abitudini di parsimonia cui erano costretti‚ e le virtù casalinghe delle donne. Erano una gran famiglia piena di nipoti e nuore‚ tutti lunghi e nodosi‚ e lavoravano la terra sempre vestiti a festa‚ neri e abbottonati‚ col cappello a larghe tese spioventi gli uomini e con la cuffia bianca le donne. Gli uomini portavano lunghe barbe‚ e giravano sempre con lo schioppo a tracolla‚ ma si diceva che nessuno di loro avesse mai sparato‚ fuorché ai passeri‚ perché lo proibivano i comandamenti. Dai ripiani calcinosi dove a fatica cresceva qualche misera vite e dello stento frumento‚ s’alzava la voce del vecchio Ezechiele‚ che urlava senza posa coi pugni levati al cielo‚ tremando nella bianca barba caprina‚ roteando gli occhi sotto il cappello a imbuto: – Peste e carestia! Peste e carestia! – sgridando i familiari chini al lavoro: – Dài con quella zappa‚ Giona! Strappa l’erba‚ Susanna! Tobia‚ spargi il letame! – e dava mille ordini e rimproveri con l’astio di chi si rivolge a un branco d’inetti e di sciuponi‚ e ogni volta dopo aver gridato le mille cose che dovevano fare perché la campagna non andasse in malora‚ si metteva a farle lui stesso‚ scacciando gli altri d’intorno‚ e sempre gridando: – Peste e carestia! Sua moglie non gridava mai‚ invece‚ e sembrava‚ a differenza degli altri‚ sicura d’una sua religione segreta‚ fissata fin nei minimi particolari‚ ma di cui non faceva parola ad alcuno. Le bastava guardar fisso‚ coi suoi occhi tutti pupilla‚ e dire‚ a labbra tese: – Ma vi pare il caso‚ sorella Rachele? Ma vi pare il caso‚ fratello Aronne? – perché i rari sorrisi scomparissero dalle bocche dei familiari e le espressioni tornassero gravi e intente. Arrivai una sera a Col Gerbido mentre gli ugonotti stavano pregando. Non nefandi che mai essere umano avesse commesso‚ ma non ne conosceva che una piccola parte. La madre assentiva muta‚ e tutti gli altri figli e generi e nuore e nipoti ascoltavano col mento sul petto e il viso nascosto tra le mani. Esaù morsicava una mela come se quella predica non lo riguardasse. Io‚ tra quei tuoni e la voce d’Ezechiele‚ tremavo come un giunco. La sgridata fu interrotta dal ritorno degli uomini di guardia‚ con sacchi per cappuccio‚ tutti zuppi di pioggia. Gli ugonotti facevano la guardia a turno per tutta la nottata‚ armati di schioppi‚ roncole e forche fienaie‚ per prevenire le incursioni proditorie del visconte‚ ormai loro nemico dichiarato. – Padre! Ezechiele! – dissero quegli ugonotti. – È una notte da lupi. Certo lo Zoppo non verrà. Possiamo ritirarci in casa‚ padre? – Non ci sono segni del Monco‚ intorno? – chiese Ezechiele. – No‚ padre‚ se si eccettua il puzzo di bruciato che lasciano i fulmini. Non è notte per l’Orbo‚ questa. – Restate in casa e cambiatevi i panni‚ allora. Che la tempesta porti pace allo Sfiancato e a noi. Lo Zoppo‚ il Monco‚ l’Orbo‚ lo Sfiancato erano alcuni degli appellativi con cui gli ugonotti indicavano mio zio; né li sentii mai chiamarlo col suo vero nome. Essi ostentavano in questi discorsi una specie di confidenza col visconte‚ come se la sapessero lunga su di lui‚ quasi lui fosse un antico nemico. Si lanciavano tra loro brevi frasi accompagnate da ammicchi e risatine: – Eh‚ eh‚ il Monco... Proprio così‚ il Mezzo Sordo... – come se tutte le tenebrose follie di Medardo fossero per loro chiare e prevedibili. Stavano così parlando‚ quando nella bufera s’udì un pugno battuto alla porta. – Chi bussa con questo tempo? – disse Ezechiele. – Presto‚ gli sia aperto. Aprirono e sulla soglia c’era il visconte ritto sull’unica gamba‚ avvolto nel nero mantello stillante‚ col cappello piumato fradicio di pioggia. – Ho legato il mio cavallo nella vostra stalla, – disse. – Date ospitalità anche a me‚ vi prego. La notte è brutta per il viandante. Tutti guardarono Ezechiele. Io m’ero nascosto sotto il tavolo‚ perché mio zio non scoprisse che frequentavo quella casa nemica. – Sedetevi al fuoco, – disse Ezechiele. – L’ospite in questa casa è sempre il benvenuto. Vicino alla soglia c’era un mucchio di lenzuoli di quelli da stender sotto gli alberi per raccogliere le olive; Medardo ci si sdraiò e s’addormentò. Nel buio‚ gli ugonotti si raccolsero attorno ad Ezechiele. – Padre‚ l’abbiamo in nostra mano‚ ora‚ lo Zoppo! – bisbigliarono. – Dobbiamo lasciarcelo scappare? Dobbiamo permettere che commetta altri delitti contro gli innocenti? Ezechiele‚ non è giunta l’ora che paghi il fio‚ lo Snaticato? Il vecchio alzò i pugni contro il soffitto: – Peste e carestia! – gridò‚ se si può dir che gridi chi parla senza emetter quasi suono ma con tutta la sua forza. – In casa nostra nessun ospite ha mai ricevuto torto. Andrò a montar la guardia io stesso per proteggere il suo sonno. E con lo schioppo a tracolla si piantò accanto al visconte coricato. L’occhio di Medardo s’aperse. – Che fate lì‚ Mastro Ezechiele? – Proteggo il vostro sonno‚ ospite. Molti vi odiano. – Lo so, – disse il visconte, – non dormo al castello perché temo che i servi m’uccidano nel sonno. – Neppure in casa mia v’amiamo‚ Mastro Medardo. Però stanotte sarete rispettato. Il visconte stette un poco in silenzio‚ poi disse: – Ezechiele‚ voglio convertirmi alla vostra religione. Il vecchio non disse nulla. – Sono circondato da gente infida, – continuò Medardo. – Vorrei disfarmi di tutti loro‚ e chiamare gli ugonotti al castello. Voi‚ Mastro Ezechiele‚ sarete il mio ministro. Dichiarerò Terralba territorio ugonotto e inizierò la guerra contro i prìncipi cattolici. Voi e i vostri familiari sarete i capi. Siete d’accordo‚ Ezechiele? Potete convertirmi? Il vecchio stava ritto immobile col gran petto traversato dalla banda del fucile. – Troppe cose ho dimenticato della nostra religione, – disse, – perché possa osare di convertir qualcuno. Io resterò nelle mie terre secondo la mia coscienza. Voi nelle vostre con la vostra. Il visconte s’alzò sul gomito: – Sapete‚ Ezechiele‚ che non ho ancora reso conto all’Inquisizione della presenza d’eretici nel mio territorio? E che le vostre teste mandate in regalo al nostro vescovo mi farebbero tornare subito nelle grazie della curia? – Le nostre teste sono ancora attaccate ai nostri colli‚ signore, – disse il vecchio, – ma c’è qualcosa che è ancor più difficile strapparci. Medardo balzò in piedi e aperse l’uscio. – Dormirò più volentieri sotto quella rovere laggiù‚ che in casa di nemici –. E saltò via sotto la pioggia. Il vecchio chiamò gli altri: – Figli‚ era scritto che per primo venisse lo Zoppo‚ a visitarci. Ora se n’è andato; il sentiero della nostra casa è sgombro; non disperate‚ figli: forse un giorno passerà un miglior viandante. Tutti i barbuti ugonotti e le donne incuffiettate chinarono il capo. – E se anche non verrà nessuno, – aggiunse la moglie d’Ezechiele, – noi resteremo al nostro posto. In quel momento una folgore squarciò il cielo‚ e il tuono fece tremare le tegole e le pietre delle mura. Tobia gridò: – Il fulmine è caduto sulla rovere! Ora brucia! Corsero fuori con le lanterne‚ e videro il grande albero carbonizzato per metà‚ dalla vetta alle radici‚ e l’altra metà era intatta. Lontano sotto la pioggia sentirono gli zoccoli d’un cavallo e a un lampo videro la figura ammantellata del sottile cavaliere. – Tu ci hai salvati‚ padre, – dissero gli ugonotti. – Grazie‚ Ezechiele. Il cielo si schiariva a levante e c’era l’alba. Esaù mi chiamò in disparte: – Di’ se sono scemi, – mi disse piano, – guarda io intanto cos’ho fatto, – e mostrò una manciata d’oggetti luccicanti, – tutte le borchie d’oro della sella‚ gli ho preso‚ mentre il cavallo era legato nella stalla. Di’ se sono stati scemi‚ loro‚ a non pensarci. Questo modo di fare di Esaù non mi garbava‚ e quello dei suoi parenti mi metteva soggezione. E allora preferivo starmene per conto mio e andare alla marina a raccogliere patelle e a cacciar granchi. Mentre su una punta di scoglio cercavo di stanare un granchiolino‚ vidi nell’acqua calma sotto di me specchiarsi una lama sopra il mio capo‚ e dallo spavento caddi in mare. – Tienti qua, – disse mio zio‚ perché era lui che s’era avvicinato alle mie spalle. E voleva m’afferrassi alla sua spada‚ dalla parte della lama. – No‚ faccio da me, – risposi‚ e m’arrampicai su uno sperone che un braccio d’acqua separava dal resto della scogliera. – Vai per granchi? – disse Medardo, – io per polpi, – e mi fece vedere la sua preda. Erano grossi polpi bruni e bianchi. Erano tagliati in due con un colpo di spada‚ ma continuavano a muovere i tentacoli. – Così si potesse dimezzare ogni cosa intera, – disse mio zio coricato bocconi sullo scoglio‚ carezzando quelle convulse metà di polpo, – così ognuno potesse uscire dalla sua ottusa e ignorante interezza. Ero intero e tutte fosse stata tagliata via con una forbiciata. «Ahimè di me, – si disse, – sono proprio io quella che lui vuole!» e raccolse in un mazzo le pastinache dimezzate‚ per infilarle nella cornice dello specchio del comò. Poi non ci pensò più‚ si legò la treccia intorno al capo‚ si tolse la vestina e fece il bagno nel laghetto assieme alle sue anatre. Alla sera‚ venendo a casa per i prati c’era pieno di tarassachi detti anche «soffioni». E Pamela vide che avevano perduto i piumini da una parte sola‚ come se qualcuno si fosse steso a terra a soffiarci sopra da una parte‚ o con mezza bocca soltanto. Pamela colse qualcuna di quelle mezze spere bianche‚ ci soffiò su e il loro morbido spiumìo volò lontano. «Ahimemè di me, – si disse, – mi vuole proprio. Come andrà a finire?» Il casolare di Pamela era così piccolo che una volta fatte entrare le capre al primo piano e le anatre al pianterreno non ci si stava più. Tutt’intorno era circondato d’api‚ perché tenevano pure gli alveari. E sottoterra c’era pieno di formicai‚ che bastava posare una mano in qualsiasi posto per tirarla su nera e formicolante. Stando così le cose la mamma di Pamela dormiva nel pagliaio‚ il babbo dormiva in una botte vuota‚ e Pamela in un’amaca sospesa tra un fico e un olivo. Sulla soglia Pamela s’arrestò. C’era una farfalla morta. Un’ala e metà del corpo erano stati schiacciati da una pietra. Pamela mandò uno strillo e chiamò il babbo e la mamma. – Chi c’è stato‚ qui? – disse Pamela. – È passato il nostro visconte poco fa, – dissero babbo e mamma, – ha detto che stava rincorrendo una farfalla che l’aveva punto. – Quando mai le farfalle hanno punto qualcuno? – disse Pamela. – Mah‚ anche noi ce lo chiediamo. – La verità è, – disse Pamela, – che il visconte s’è innamorato di me e dobbiamo esser preparati al peggio. – Uh‚ uh‚ non ti montar la testa‚ non esagerare, – risposero i vecchi‚ come sempre i vecchi usano rispondere‚ quando non sono i giovani a risponder loro così. L’indomani quando giunse alla pietra dove usava sedere pascolando le capre‚ Pamela lanciò un urlo. Orrendi resti bruttavano la pietra: erano metà d’un pipistrello e metà d’una medusa‚ l’una stillante nero sangue e l’altra viscida materia‚ l’una con l’ala spiegata e l’altra con le molli frange gelatinose. La pastorella capì ch’era un messaggio. Voleva dire: appuntamento stasera in riva al mare. Pamela si fece coraggio e andò. Sulla riva del mare si sedette sui ciottoli e ascoltava il fruscìo dell’onda bianca. E poi uno scalpitìo sui ciottoli e Medardo galoppava per la riva. Si fermò‚ si sfibbiò‚ scese di sella. – Io‚ Pamela‚ ho deciso d’essere innamorato di te, – egli le disse. – Ed è per questo, – saltò su lei, – che straziate tutte le creature della natura? – Pamela, – sospirò il visconte, – nessun altro linguaggio abbiamo per parlarci se non questo. Ogni incontro di due esseri al mondo è uno sbranarsi. Vieni con me‚ io ho la conoscenza di questo male e sarai più sicura che con chiunque altro; perché io faccio del male come tutti lo fanno; ma‚ a differenza degli altri‚ io ho la mano sicura. – E strazierete anche me come le margherite o le meduse? – Io non lo so quel che farò con te. Certo l’averti mi renderà possibili cose che neppure immagino. Ti porterò nel castello e ti terrò lì e nessun altro ti vedrà e avremo giorni e mesi per capire quel che dovremo fare e inventar sempre nuovi modi per stare insieme. Pamela era sdraiata sulla ghiaia e Medardo le s’era inginocchiato vicino. Parlando gesticolava sfiorandola tutt’intorno con la mano‚ ma senza toccarla. – Ebbene: io devo sapere prima cosa mi farete. E potete ben darmene un assaggio ora e io deciderò se venire o no al castello. Il visconte lentamente avvicinò alla guancia di Pamela la sua mano sottile e adunca. La mano tremava e non si capiva se fosse tesa verso una carezza o verso un graffio. Ma non era ancora arrivato a toccarla‚ quando ritrasse la mano d’un tratto e si rizzò. – È al castello che ti voglio, – disse issandosi a cavallo, – vado a preparare la torre dove abiterai. Ti lascio ancora un giorno per pensarci e poi dovrai esserti decisa. E in così dire spronò via per quelle spiagge. L’indomani Pamela salì come al solito sul gelso per cogliere le more e sentì gemere e starnazzare tra le fronde. Per poco non cascò dallo spavento. A un ramo alto era legato un gallo per le ali‚ e grossi bruchi azzurri e pelosi lo stavan divorando: un nido di processionarie‚ cattivi insetti che vivono sui pini‚ gli era stato posato proprio sulla cresta. Era certo un altro degli orribili messaggi del visconte. E Pamela l’interpretò: «Domani all’alba ci vedremo al bosco». Con la scusa di riempire un sacco di pigne Pamela salì al bosco‚ e Medardo sbucò da dietro un tronco appoggiato alla sua gruccia. – Allora, – chiese a Pamela, – ti sei decisa a venire al castello? Pamela era sdraiata sugli aghi di pino. – Decisa a non andarci, – disse voltandosi appena. – Se mi volete‚ venitemi a trovare qui nel bosco. – Verrai al castello. La torre dove dovrai abitare è preparata e ne sarai l’unica padrona. – Voi volete tenermi lì prigioniera e poi magari farmi bruciare dall’incendio o rodere dai topi. No‚ no. V’ho detto: sarò vostra se lo volete ma qui sugli aghi di pino. Il visconte s’era accosciato accanto alla testa di lei. Aveva un ago di pino in mano; l’avvicinò al suo collo e glielo passò intorno. Pamela si sentì venir la pelle d’oca ma stette ferma. Vedeva il viso del visconte chino su di lei‚ quel profilo che restava profilo anche visto di fronte‚ e quelle mezze chiostre di denti scoperte in un sorriso a forbice. Medardo strinse l’ago di pino nel pugno e lo spezzò. Si rialzò. – È chiusa nel castello che voglio averti‚ è chiusa nel castello! Pamela capì che poteva azzardarsi‚ e muoveva nell’aria i piedi scalzi dicendo: – Qui nel bosco‚ non dico di no; al chiuso‚ neanche morta. – Saprò ben portartici io! – disse Medardo posando la mano sulla spalla del cavallo che s’era avvicinato come passasse lì per caso. Salì sulla staffa e spronò via per i sentieri della foresta. Quella notte Pamela dormì nella sua amaca appesa tra l’olivo e il fico‚ e al mattino‚ orrore! si trovò una piccola carogna sanguinante in grembo. Era un mezzo scoiattolo‚ tagliato come al solito per il lungo‚ ma con la fulva coda intatta. – Ahimè povera me, – disse ai genitori, – questo visconte non mi lascia vivere. Il babbo e la mamma si passarono di mano in mano la carogna dello scoiattolo. – Però, – disse il babbo, – la coda l’ha lasciata intera. Forse è un buon segno... – Forse sta cominciando a diventare buono... – disse la mamma. VII Attorno a Pratofungo crescevano cespugli di menta piperita e siepi di rosmarino‚ e non si capiva se fosse natura selvatica o aiole d’un orto degli aromi. Io m’aggiravo col petto carico d’un respiro dolciastro e cercavo la via per raggiungere la vecchia balia Sebastiana. Da quando Sebastiana era sparita per il sentiero che portava al villaggio dei lebbrosi‚ io mi ricordavo più spesso d’esser orfano. Mi disperavo di non saper più nulla di lei; ne chiedevo a Galateo‚ gridando arrampicato in cima a un albero quando lui passava; ma Galateo era nemico dei bambini che alle volte gli gettavano addosso lucertole vive dalla cima degli alberi‚ e dava risposte canzonatorie e incomprensibili‚ con la sua voce melata e squillante. E ora in me alla curiosità d’entrare in Pratofungo s’aggiungeva quella di ritrovare la gran balia‚ e giravo senza requie tra i cespugli odorosi. Ed ecco che da una macchia di timo s’alzò una figura vestita di chiaro‚ con un cappello di paglia‚ e camminò verso il paese. Era un vecchio lebbroso‚ e io volevo chiedergli della balia‚ e avvicinandomi quel tanto che bastava a farmi udire‚ ma senza gridare‚ dissi: – Ehi‚ là‚ signor lebbroso! Ma in quel momento‚ forse svegliata dalle mie parole‚ proprio vicino a me un’altra figura si levò a sedere e si stirò. Aveva il viso tutto scaglioso come una scorza secca‚ e una lanosa rada barba bianca. Prese in tasca uno zufolo e lanciò un trillo verso di me‚ come mi canzonasse. M’accorsi allora che il pomeriggio di sole era pieno di lebbrosi sdraiati‚ nascosti nei cespugli‚ e adesso si levavano pian piano nei loro chiari sai‚ e camminavano controluce verso Pratofungo‚ reggendo in mano strumenti musicali o da giardiniere‚ e con essi facevano rumore. Io m’ero ritratto per allontanarmi da quell’uomo barbuto‚ ma quasi finii addosso a una lebbrosa senza naso che si stava pettinando tra le fronde d’un lauro‚ e per quanto saltassi per la macchia capitavo sempre contro altri lebbrosi e m’accorgevo che i passi che potevo muovere erano solo in direzione di Pratofungo‚ i cui tetti di paglia adorni di festoni d’aquilone erano ormai vicini‚ al piede di quella china. I lebbrosi rivolgevano a me l’attenzione solo di quando in quando‚ con strizzate d’occhio e accordi d’organetto‚ però mi sembrava che al centro di quella loro marcia ci fossi proprio io e mi stessero accompagnando a Pratofungo come un animale catturato. Nel villaggio le mura delle case erano dipinte di lilla e a una finestra una donna mezzo discinta‚ con macchie lilla sul viso e sul petto‚ suonatrice di lira‚ gridò: – Son tornati i giardinieri! – e suonò la lira. Altre donne s’affacciarono alle finestre e alle altane agitando sonagliere e cantando: – Bentornati‚ giardinier! Io badavo a tenermi nel mezzo di quella viuzza e a non toccar nessuno; ma mi trovai come in un crocicchio‚ con lebbrosi tutt’attorno‚ seduti uomini e donne sulle soglie delle loro case‚ coi sai laceri e sbiaditi dai quali trasparivano bubboni e vergogne‚ e tra i capelli fiori di biancospino e anemone. I lebbrosi tenevano un concertino che avrei detto in mio onore. Alcuni inclinavano i violini verso di me con esagerati indugi dell’archetto‚ altri appena li guardavo facevano il verso della rana‚ altri mi mostravano strani burattini che salivano e scendevano su un filo. Di tanti e così discordi gesti e suoni era appunto fatto il concertino‚ ma c’era una specie di ritornello che essi ripetevano ogni tanto: – Il pulcino senza macchia‚ va per more e si macchiò. – Io cerco la mia balia, – dissi forte, – convennero tutti dov’è? Scoppiarono a ridere‚ con quella loro aria saputa e maligna. – Sebastiana! – gridai. – Sebastiana! dove sei? – Ecco‚ bambino, – disse un lebbroso, – buono‚ bambino, – e indicò una porta. La porta s’aperse e ne uscì una donna olivastra‚ forse saracena‚ seminuda e tatuata‚ con addosso code d’aquilone‚ che cominciò una danza licenziosa. Non capii bene cosa successe poi: uomini e donne si buttarono gli uni addosso agli altri e iniziarono quella che poi appresi doveva essere un’orgia. Mi feci piccino piccino quando tutt’a un tratto la gran vecchia Sebastiana si fece largo in quella cerchia. – Brutti sporcaccioni! – disse. – Almeno un po’ di riguardo per un’anima innocente. Mi prese per mano e mi tirò via mentre loro cantavano: – Il pulcino senza macchia‚ va per more e si macchiò! Sebastiana era vestita in panni viola chiaro di foggia quasi monacale e già qualche macchia deturpava le sue guance senza rughe. Io ero felice di aver ritrovato la balia‚ ma disperato perché mi aveva preso per mano e attaccato certamente la lebbra. E glielo dissi. – Non aver paura, – rispose Sebastiana, – mio padre era un pirata e mio nonno un eremita. Io so le virtù di tutte le erbe‚ contro le malattie sia nostrane che moresche. Loro si stuzzicano con l’origano e la malva; io invece zitta zitta con la borragine e il crescione mi faccio certi decotti che la lebbra non la piglierò mai finché campo. – Ma quelle macchie che hai in faccia‚ balia? – chiesi io‚ molto sollevato ma non ancora del tutto persuaso. – Pece greca. Per far loro credere che ho la lebbra anch’io. Vieni qui da me che ti faccio bere una delle mie tisane calda calda‚ perché a girare in questi posti la prudenza non è mai troppa. M’aveva portato a casa sua‚ una capannuccia un po’ discosta‚ pulita‚ con la roba stesa; e discorremmo. – E Medardo? E Medardo? – m’interrogava lei‚ e ogni volta che parlavo mi toglieva la parola di bocca. – Ah che briccone! Ah che malandrino! Innamorato! Ah povera ragazza! E qui‚ e qui‚ voi non v’immaginate! Sapessi la roba che sprecano! Tutta roba che ci togliamo noi di bocca per darla a Galateo‚ e qui sai cosa ne fanno? Già quel Galateo è un poco di buono‚ sai? Un cattivo soggetto‚ e non è il solo! Le cose che fanno la notte! E al giorno‚ poi! E queste donne‚ delle svergognate così non ne ho mai viste! Almeno sapessero aggiustare la roba‚ ma neanche quello! Disordinate e straccione! Oh‚ io gliel’ho detto in faccia... E loro‚ sai cosa m’han risposto‚ loro? Molto contento di questa visita alla balia l’indomani andai a pescare anguille. Misi la lenza in un laghetto del torrente e aspettando m’addormentai. Non so quanto durò il mio sonno; un rumore mi svegliò. Apersi gli occhi e vidi una mano alzata sulla mia testa‚ e su quella mano un peloso ragno rosso. Mi girai ed era mio zio nel suo nero mantello. intorno: era sparito con la sua mano gonfia e avvelenata. Veniva sera e giravo tra gli olivi. Ed ecco che lo vedo‚ avvolto nel mantello nero‚ in piedi su una riva appoggiato a un tronco. Mi dava le spalle e guardava verso il mare. Io sentii la paura riprendermi e‚ a fatica‚ con un fil di voce‚ riuscii a dire: – Zio‚ qui è l’erba per il morso... Il mezzo viso si voltò subito‚ contratto in una smorfia feroce. – Che erba‚ che morso? – gridò. – Ma l’erba per guarire... – dissi. Ecco che quell’espressione dolce di prima gli era scomparsa‚ era stato un momento passeggero; ora forse lentamente gli ritornava‚ in un sorriso teso‚ ma si vedeva bene ch’era una finzione. – Sì... bravo... mettila nel cavo di quel tronco... la prenderò più tardi... – disse. Io obbedii e cacciai la mano nel cavo. Era un nido di vespe. Mi volarono tutte contro. Presi a correre‚ inseguito dallo sciame‚ e mi buttai nel torrente. Nuotai sott’acqua e riuscii a disperdere le vespe. Levando il capo‚ udii la buia risata del visconte che s’allontanava. Una volta ancora era riuscito a ingannarci. Ma molte cose non capivo‚ e andai dal dottor Trelawney per parlargliene. L’inglese era nella sua casetta da becchino‚ al lume d’una lucernetta‚ chino su un libro d’anatomia umana‚ caso raro. – Dottore, – gli chiesi, – s’è mai dato che un uomo morso da un ragno rosso uscisse incolume? – Ragno rosso‚ tu dici? – saltò su il dottore. – Chi ha ancora morso il ragno rosso? – Il mio visconte zio, – dissi, – e già gli avevo portata l’erba della balia quando da buono che sembrava divenuto è tornato cattivo e ha rifiutato il mio soccorso. – Or ora ho curato il visconte dal morso d’un ragno rosso alla mano, – disse Trelawney. – E mi dica‚ dottore: le è parso buono o cattivo? Allora il dottore mi raccontò com’era andata. Dopo che io avevo lasciato il visconte sdraiato sull’erba con la mano enfiata‚ era passato di lì il dottor Trelawney. S’accorge del visconte‚ e preso come sempre da paura‚ cerca di nascondersi tra gli alberi. Ma Medardo ha sentito i passi e s’alza e grida: – Ehi‚ chi è là? – L’inglese pensa: «Se scopre che son io che mi nascondo‚ chissà che cosa m’almanacca contro!» e scappa per non esser riconosciuto. Ma inciampa e cade nel laghetto del torrente. Pur avendo passato la vita sulle navi‚ il dottor Trelawney non sa nuotare‚ e starnazza in mezzo al laghetto‚ e grida aiuto. Allora il visconte dice: – Aspetta me, – e va sulla riva‚ scende nell’acqua tenendosi appeso‚ con la sua mano dolorante‚ a una radice d’albero che sporge‚ s’allunga finché il suo piede può essere afferrato dal dottore. Lungo e sottile com’è‚ gli fa da corda perché lui possa raggiungere la riva. Ecco che sono in salvo e il dottore balbetta: – Oh‚ oh‚ milord... grazie‚ vero‚ milord... come posso... – e gli starnuta in faccia‚ perché s’è preso un raffreddore. – Salute a lei! – dice Medardo, – ma si copra‚ la prego, – e gli mette il suo mantello sulle spalle. Il dottore si schermisce‚ confuso più che mai. E il visconte gli fa: – Tenga‚ è suo. Allora Trelawney s’accorse della mano gonfia di Medardo. – Quale bestia l’ha punto? – Un ragno rosso. – Lasci che la curi‚ milord. E lo porta alla sua casetta da becchino‚ dove acconcia la mano con farmachi e con bende. Intanto il visconte discorre con lui pieno d’umanità e di cortesia. Si lasciano con la promessa di rivedersi presto e rafforzare l’amicizia. – Dottore! – dissi io‚ dopo aver ascoltato il suo racconto. – Il visconte che lei ha curato, è tornato poco dopo in preda alla sua crudele follia e m’ha snidato contro un nugolo di vespe. – Non quello che ho curato io, – disse il dottore e strizzò l’occhio. – Che vuol dire‚ dottore? – Saprai in seguito. Ora non farne parola ad alcuno. E lasciami ai miei studi‚ ché si preparano tempi contrastati. E il dottor Trelawney non si curò più di me: risprofondò in quell’inconsueta sua lettura del trattato d’anatomia umana. Doveva avere un suo progetto in testa‚ e per tutti i giorni che seguirono rimase reticente e assorto. Ma da più parti cominciavano a giungere notizie d’una doppia natura di Medardo. Bambini smarriti nel bosco venivano con gran loro paura raggiunti dal mezz’uomo con la gruccia che li riportava per mano a casa e regalava loro fichifiori e frittelle; povere vedove venivano da lui aiutate a trasportar fascine; cani morsi dalla vipera venivano curati‚ doni misteriosi venivano ritrovati dai poveri sui davanzali e sulle soglie‚ alberi da frutta sradicati dal vento venivano raddrizzati e rincalzati nelle loro zolle prima che i proprietari avessero messo il naso fuor dell’uscio. Nello stesso tempo però le apparizioni del visconte mezz’avvolto nel mantello nero segnavano tetri avvenimenti: bimbi rapiti venivano poi trovati prigionieri in grotte ostruite da sassi; frane di tronchi e rocce rovinavano sopra le vecchiette; zucche appena mature venivano fatte a pezzi per solo spirito malvagio. La balestra del visconte da tempo colpiva solo più le rondini; e in modo non da ucciderle ma solo da ferirle e da storpiarle. Però ora si cominciavano a vedere nel cielo rondini con le zampine fasciate e legate a stecchi di sostegno‚ o con le ali incollate o incerottate; c’era tutto uno stormo di rondini così bardate che volavano con prudenza tutte assieme‚ come convalescenti d’un ospedale uccellesco‚ e inverosimilmente si diceva che lo stesso Medardo ne fosse il dottore. Una volta il temporale colse Pamela in un distante luogo incolto‚ con la sua capra e la sua anatra. Sapeva che lì vicino era una grotta‚ seppur piccola‚ una cavità appena accennata nella roccia‚ e vi si diresse. Vide che ne usciva uno stivale frusto e rabberciato‚ e dentro c’era rannicchiato il mezzo corpo avvolto nel mantello nero. Fece per fuggire ma già il visconte l’aveva scorta e uscendo sotto la pioggia scrosciante le disse: – Riparati qui‚ ragazza‚ vieni. – No che non mi ci riparo, – disse Pamela, – perché ci si sta appena in uno‚ e voi volete farmici stare spiaccicata. – Non aver paura, – disse il visconte. – Io resterò fuori e tu potrai stare a tuo agio al riparo‚ insieme alla tua capra e alla tua anatra. – Capra e anatra posson prendersi anche l’acqua. – Vedrai che ripariamo anche loro. Pamela‚ che aveva sentito raccontare degli strani accessi di bontà del visconte‚ si disse: «Vediamo un po’» e si raggomitolò nella grotta‚ serrandosi contro le due bestie. Il visconte‚ ritto lì davanti‚ teneva il mantello come una – Peccato. Io credevo che ci fossero altri modi. – Addio‚ cara. Ti porterò della torta di mele –. E s’allontanò sul sentiero a spinte di stampella. – Che ne dici‚ capra? Che ne dici‚ anitrina? – fece Pamela‚ sola con le sue bestie. – Tutti tipi così devono capitarmi? VIII Da quando fu noto a tutti che era tornata l’altra metà del visconte‚ buona quanto la prima era cattiva‚ la vita a Terralba fu molto diversa. Al mattino accompagnavo il dottor Trelawney nel suo giro di visite ai malati; perché il dottore a poco a poco aveva ripreso a praticar la medicina e s’era accorto di quanti mali soffrisse la nostra gente‚ cui le lunghe carestie dei tempi andati avevano minato la fibra‚ mali di cui non s’era mai prima dato cura. Andavamo per le vie di campagna e vedevamo i segni che mio zio ci aveva preceduti. Mio zio il buono‚ intendo‚ il quale ogni mattina faceva anch’egli il giro non solo dei malati‚ ma pure dei poveri‚ dei vecchi‚ di chiunque avesse bisogno di soccorso. Nell’orto di Bacciccia‚ il melograno aveva i frutti maturi fasciati ognuno con una pezzuola annodata intorno. Capimmo che Bacciccia aveva male ai denti. Mio zio aveva fasciato i melograni perché non si squarciassero e sgranassero ora che il male impediva al proprietario d’uscire a coglierli; ma anche come segnale per il dottor Trelawney‚ che passasse a visitare il malato e portasse le tenaglie. Il priore Cecco aveva un girasole sul terrazzo‚ stento che non fioriva mai. Quel mattino trovammo tre galline legate lì‚ sulla ringhiera‚ che mangiavano becchime a tutt’andare e scaricavano sterco bianco nel vaso del girasole. Capimmo che il priore doveva aver la cagarella. Mio zio aveva legato le galline per concimare il girasole‚ ma anche per avvertire il dottor Trelawney di quel caso urgente. Sulla scala della vecchia Giromina vedemmo una fila di lumache che saliva su verso la porta: lumaconi di quelli da mangiare cotti. Era un regalo che mio zio aveva portato dal bosco a Giromina‚ ma anche un segnale che il mal di cuore della povera vecchia era peggiorato e che il dottore facesse piano entrando‚ per non spaventarla. Tutti questi segni di comunicazione erano usati dal buon Medardo per non allarmare i malati con una richiesta troppo brusca delle cure del dottore‚ ma anche perché Trelawney avesse subito un’idea di cosa si trattava‚ già prima d’entrare‚ e così vincesse la sua ritrosia a metter piede nelle case altrui e ad avvicinare malati che non sapeva cos’avessero. A un tratto per la valle correva l’allarme: – Il Gramo! Arriva il Gramo! Era la metà grama di mio zio che era stata vista cavalcare nei paraggi. Allora ognuno correva a nascondersi‚ e primo di tutti il dottor Trelawney‚ con me dietro. Passavamo davanti alla casa di Giromina e sulla scala c’era una striscia di lumache spiaccicate‚ tutta bava e schegge di gusci. – È già passato di qui! Gambe! Sul terrazzo del priore Cecco le galline erano legate al graticcio dov’erano messi a seccare i pomodori‚ e stavano bruttando tutto quel ben di Dio. – Gambe! Nell’orto di Bacciccia i melograni erano tutti sfracellati in terra e dai rami pendevano le staffe delle pezzuole vuote. – Gambe! Così tra carità e terrore trascorrevano le nostre vite. Il Buono (com’era chiamata la metà sinistra di mio zio‚ in contrapposizione al Gramo‚ ch’era l’altra) era tenuto ormai in conto di santo. Gli storpi‚ i poverelli‚ le donne tradite‚ tutti quelli che avevano una pena correvano da lui. Avrebbe potuto approfittarne e diventare lui visconte. Invece continuava a fare il vagabondo‚ a girare mezz’avvolto nel suo lacero mantello nero‚ appoggiato alla stampella‚ con la calza bianca e azzurra piena di rammendi‚ a far del bene tanto a chi glielo chiedeva come a chi lo cacciava in malo modo. E non c’era pecora che si spezzasse gamba in burrone‚ non bevitore che traesse coltello in taverna‚ non sposa adultera che corresse nottetempo ad amante‚ che non se lo vedessero apparire lì come piovuto dal cielo‚ nero e secco e col dolce sorriso‚ a soccorrere‚ a dar buoni consigli‚ a prevenire violenze e peccati. Pamela stava sempre nel bosco. S’era fatta un’altalena tra due pini‚ poi una Gli ugonotti si sparsero tra i filari per raggiungere gli attrezzi abbandonati nei solchi‚ ma in quel momento Esaù‚ che vedendo suo padre disattento s’era arrampicato sul fico a mangiare i frutti primaticci‚ gridò: – Laggiù! Chi arriva su quel mulo? Un mulo infatti veniva su per la salita con un mezz’uomo legato sopra il basto. Era il Buono‚ che aveva comprato quella vecchia bestia scorticata mentre stavano per annegarla nel torrente‚ perché era tanto malandata che non serviva neanche più per il macello. «Tanto‚ io peso la metà d’un uomo, – si disse, – e il vecchio mulo potrà ancora sopportarmi. E avendo anch’io la mia cavalcatura‚ potrò andar più lontano a far del bene.» Così‚ come primo viaggio‚ se ne veniva a trovare gli ugonotti. Gli ugonotti lo accolsero schierati e impalati‚ cantando un salmo. Poi il vecchio gli andò vicino e lo salutò come fratello. Il Buono‚ sceso dal mulo‚ rispose cerimoniosamente a quei saluti‚ baciò la mano alla moglie di Ezechiele che stette dura e arcigna‚ s’informò della salute di tutti‚ allungò la mano per carezzare l’ispida testa d’Esaù che si tirò indietro‚ s’interessò ai fastidi di ciascuno‚ si fece raccontare la storia delle loro persecuzioni‚ commuovendosi e recriminando. Naturalmente‚ ne parlarono senz’insistere sulla controversia religiosa‚ come d’una sequela di disgrazie imputabili alla generale cattiveria umana. Medardo sorvolò sul fatto che le persecuzioni venivano da parte della chiesa cui lui apparteneva‚ e gli ugonotti da parte loro non s’imbarcarono in affermazioni di fede‚ anche per timore di dire cose teologicamente errate. Così finirono in vaghi discorsi caritatevoli‚ disapprovando ogni violenza e ogni eccesso. Tutti d’accordo‚ ma l’insieme fu un po’ freddo. Poi il Buono visitò la campagna‚ li compianse per gli scarsi raccolti‚ e fu contento perché se non altro avevano avuto una buon’annata di segala. – A quanto la vendete? – chiese loro. – Tre scudi la libbra, – disse Ezechiele. – Tre scudi la libbra? Ma i poveri di Terralba muoiono di fame‚ amici‚ e non possono neanche comprare un pugno di segala. Forse voi non sapete che la grandine ha distrutto i raccolti della segala‚ a valle‚ e voi siete i soli che potete sollevare tante famiglie dalla fame? – Lo sappiamo, – disse Ezechiele, – è proprio per questo che possiamo vender bene... – Ma pensate alla carità che sarebbe per quei poveretti‚ se voi abbassaste il prezzo della segala... Pensate al bene che potete fare... Il vecchio Ezechiele si fermò davanti al Buono a braccia conserte e tutti gli ugonotti lo imitarono. – Fare la carità‚ fratello, – disse, – non vuol dire rimetterci sui prezzi. Il Buono andava per i campi e vedeva vecchi ugonotti scheletriti zappare sotto il sole. – Avete una brutta cera, – disse a un vecchio con la barba tanto lunga che ci zappava sopra, – forse non vi sentite bene? – Bene come può sentirsi uno che zappa per dieci ore a settant’anni con una minestra di rape nella pancia. – È mio cugino Adamo, – disse Ezechiele, – un lavoratore eccezionale. – Ma voi dovete riposarvi e nutrirvi‚ vecchio come siete! – stava dicendo il Buono‚ ma Ezechiele lo trascinò via bruscamente. – Tutti qui ci guadagniamo il pane molto duramente‚ fratello, – disse in tono da non ammetter replica. Prima‚ appena smontato dal mulo‚ il Buono aveva voluto legare lui stesso la sua bestia‚ e aveva chiesto un sacco di biada per rinfrancarlo della salita. Ezechiele e sua moglie s’erano guardati‚ perché secondo loro per un mulo così poteva bastare una manciata di cicoria selvatica; ma erano nel momento più caloroso dell’accoglienza all’ospite‚ e avevano fatto portare la biada. Adesso‚ però‚ ripensandoci‚ il vecchio Ezechiele non poteva proprio ammettere che quella carcassa di mulo mangiasse la poca biada che avevano‚ e senza farsi sentir dall’ospite‚ chiamò Esaù e gli disse: – Esaù‚ vai pian piano dal mulo‚ levagli la biada e dàgli qualcos’altro. – Un decotto per l’asma? – Torsoli di granturco‚ involucri di ceci‚ quel che vuoi. Esaù andò‚ tolse il sacco al mulo e si prese un calcio che lo fece camminare zoppo per un pezzo. Per rifarsi nascose la biada rimasta per venderla per conto suo, e disse che il mulo l’aveva già finita tutta. Era il tramonto. Il Buono era con gli ugonotti in mezzo ai campi e non sapevano più cosa dirsi. – Noi abbiamo ancora un’ora buona di lavoro davanti a noi‚ ospite, – disse la moglie d’Ezechiele. – Allora io tolgo l’incomodo. – Buona fortuna‚ ospite. E il buon Medardo ritornò sul suo mulo. – Un povero mutilato di guerra, – disse la donna quando se ne fu andato. – Quanti ve ne sono in questa regione! Poveretti! – Poveretti‚ davvero, – convennero tutti i familiari. – Peste e carestia! – urlava il vecchio Ezechiele girando per i campi‚ a pugna levate davanti ai lavori malfatti e ai danni della siccità. – Peste e carestia!