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IMMAGINI DEI NOSTRI MAESTRI, Sintesi del corso di Storia dell'Educazione

RIASSUNTO COMPLETO E DETTAGLIATO DEL TESTO

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica IMMAGINI DEI NOSTRI MAESTRI e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Educazione solo su Docsity! IMMAGINI DEI NOSTRI MAESTRI CAPITOLO PRIMO LA SCUOLA DI IERI “VISTA” OGGI. LE TRASPORTAZIONI FILMICHE DEL LIBRO CUORE NELL’ITALIA REPUBBLICANA (1948-2001) 1. Memoria collettiva e film scolastici come fonte storica La memoria collettiva è quell’insieme di ricordi condivisi, trasmessi e ricostruiti da un gruppo sociale circa gli avvenimenti del passato, quindi dal passato fino al presente, su cui si fonda l’identità del gruppo stesso. M. C. Lavabre ha evidenziato come la memoria collettiva sia detta tale non tanto perché sia la memoria di un gruppo, bensì perché la collettività o la società è lo stato nel quale l’individuo esiste. La memoria collettiva ha una base culturale: la conoscenza condivisa di un insieme di simboli, che esistono sino a che gli individui vi si riconoscono e li trasmettono. Secondo Pierre Nora, la memoria collettiva è il ricorso di una esperienza vissuta e/o mitizzata da una identità collettiva vivente della quale la storia passata è parte integrante. Vi sono dunque una serie di luoghi reali o simbolici che incarnano questa memoria. La memoria collettiva ha una dimensione sociale ma pure politica. La memoria collettiva deriva dall’immaginazione collettiva, i cui materiali simbolici provengono dalla cultura popolare, ma sono oggi anche prodotti dall’industria culturale e dai media. Le memorie scolastiche, se considerate nell’ottica di memorie collettive, sono pure plasmate attraverso le generazioni ed essendo un prodotto culturale, subiscono un processo di alterazione e selezione. In altre parole, le memorie collettive di scuola ci restituiscono un riferimento al passato (la scuola ricordata) ma anche al presente (la scuola com’è adesso). La memoria collettiva può essere studiata solo come processo, nella misura in cui essa è una ricostruzione sociale del passato derivane dalla fusione di una scuola passata direttamente vissuta dal singolo e di un passato scolastico culturalmente costruito. Tanto più un film sulla scuola continua a essere visto, quanto più quella rappresentazione di scuola viene a essere condivisa come memoria collettiva del gruppo che vi si immedesima. Diversi autori hanno centrato l'attenzione sulle pellicole cinematografiche come fonte storiografica, hanno sottolineato inoltre l'impatto emotivo provocato dai film, particolarmente quando proiettato in sale cinematografiche, e quindi la loro capacità ad influenzare lo spettatore. Hanno compreso l'importanza dei media visivi per il nostro tempo e hanno evidenziato come i film storici riflettono le preoccupazioni del tempo in cui sono stati girati. L’importanza del cinema per la storia dell’educazione è stata analizzata negli USA negli ultimi anni del XX secolo. In Italia, chi scrive ha messo in luce come non solo i film storici, ma altre categorie di pellicole siano rilevanti per gli storici dell’educazione: film sulla scuola, sull’infanzia e per l’adolescenza. I film sulla scuola ci possono descrivere situazioni reali o immaginarie, entrambe comunque interessanti. Un caso particolare di film interessante per lo storico dell’educazione riguarda la trasposizione sulla pellicola di un classico della letteratura dell'infanzia, la sceneggiatura difficilmente può rispettare appieno il testo originale, per via del poco tempo a disposizione rispetto al tempo di lettura o per via delle differenti esigenze artistiche di un medium diverso. È importante inoltre considerare che cosa rispetto al libro viene conservato e che cosa viene tagliato. Esamineremo il caso di due film e due serial televisivi sul libro Cuore, che a lungo ha incarnato una scuola modello per gli italiani, e di come questo sia stato riproposto sul grande e sul piccolo schermo, con quali cambiamenti e con quale successo, nei 50 anni seguenti la seconda guerra mondiale. 2. Il libro Cuore dal 1886 a oggi Cuore è uno dei libri italiani per bambini più popolari nel nostro paese e nel mondo. Come è noto, Cuore è un diario immaginario, scritto da Enrico, scolaro di terza classe di una scuola elementare di Torino, nell’anno scolastico 1881/82. Nel libro sono presenti 3 generi letterari: 1. Diaristico, che è quello prevalente; 2. Epistolare (le lettere scritte dal padre, dalla madre e dalla sorella di Enrico sul suo diario, lettere che hanno un tono fortemente prescrittivo (che si impone come legge da osservare); 3. Racconti (9 racconti letti mensilmente dal maestro Perboni alla classe). Il successo di Cuore fu immediato e duraturo. Cuore plasmò l’educazione di generazioni di italiani, sino agli anni 50 del XX secolo. Lo scopo di De Amicis era quello di insegnare ai bambini i valori morali e civili laici, l’amore e il rispetto per la famiglia, la solidarietà tra classi sociali, l’obbedienza all’autorità e il valore del lavoro, del dovere e del sacrificio. Usando linguaggio capace di impressionare profondamente, miscelò abilmente situazioni immaginarie e descrizioni storicamente accadute. Questi valori restarono dominanti per decenni. Quando cominciarono a essere contestati e rifiutati, anche il libro fu posto sotto accusa e dovette affrontare critiche pedagogiche e letterarie, che iniziarono con Umberto Eco. In seguito, a partire dal serial della RAI del 1984, il dibattito sul libro assunse un tono meno ideologico, favorito dalla crisi delle ideologie politiche e delle pedagogie libertarie, sino a che il volume è stato rivalutato e riscattato. 3. Dal libro allo schermo: i film e le serie televisive su Cuore nell’Italia repubblicana Cuore ha ispirato molti film nel 1915 nel 1916 furono girati 9 film sui 9 racconti mensili (erano anni di guerra e sentimento patriottico era veicolato e rinforzato dai media). Il racconto mensile dagli appennini alle Ande riscosse un grande successo, forse perché il tema dell'emigrazione era fortemente sentito. Questo saggio analizza le 4 pellicole su Cuore, prodotte nell’Italia repubblicana a distanza di circa 20 anni l’una dall’altra: - 2 film, il primo, una pellicola di successo di Coletti, uscito nel 1948 all’indomani della seconda guerra mondiale e il secondo, del 1973, di Scavolini, rimasto un prodotto di nicchia; - due serial TV: nel 1984 lo sceneggiato RAI di Comencini e nel 2001 quello di Zaccaro per Canale 5, di impatto inferiore. Le pellicole che risultano più aderenti a Cuore per numero di episodi riportati sono le versioni di Coletti e Comencini. 3.1 Cuore di Coletti, 1948 Duilio Coletti Fu un regista di discreto successo e girò più di 25 film, ma quello che ebbe maggior successo e a cui lui stesso era più affezionato fu Cuore. Il ruolo protagonista del maestro Perboni era interpretato da Vittorio de Sica che fu premiato per questa sua interpretazione con il nastro d'argento nel 1948. Cuore di Coletti fu il primo prigione, essendo un delinquente nato, nello sceneggiato finisce in un riformatorio dove Perboni va a visitarlo mostrandogli compassione, come già aveva fatto in classe. Finalmente sottomesso, Franti ha perso tutta la sua crudeltà e arroganza e ci appare come un ragazzo solo e misero. Arrivato in trincea, si propone volontario per una missione molto pericolosa guidata da Enrico, per poter avere un anno di carcere scontato. Ucciso dagli austriaci, Franti si redime nel sacrificio, morendo per la patria, invece di diventare un delinquente senza speranza come De Amicis aveva suggerito. Sconvolto dalle assurdità della guerra, mentre era in licenza Enrico litiga con il padre, che era nazionalista ed interventista, poi si reca in visita al suo vecchio maestro Perboni, che vive in un misero appartamento, per dirgli che gli ormai vede il mondo in modo diverso rispetto a quanto gli era stato insegnato. Perboni allora rivela di essere un socialista neutralista e replica che egli aveva sempre considerato tutti i suoi allievi uguali, lasciando fuori dalla porta della classe le differenze sociali e l'odio del mondo adulto. Perboni socialista aveva cioè creato nella sua classe un microcosmo dove la democrazia poteva essere insegnata, come pure il patriottismo. In questo modo, la scuola De Amicis perdeva la sua retorica, distanziandosi da un mondo nel quale il patriottismo era sfociato nel nazionalismo e nella guerra. Comencini cioè distingue tra un patriottismo sano, nel quale convivono solidarietà, onore, sacrificio e democrazia e un patriottismo malato, che conduce il nazionalismo e poi al fascismo. Lo sceneggiato è storicamente accurato, ma al contempo testimonia il cambiamento pedagogico avvenuto nel corso del decennio. I caratteri dei personaggi sono più fluidi, meno rigidamente definiti in uno schema buono/cattivo rispetto al testo di De Amicis. Il primo della classe appare assai meno simpatico che nel libro e Franti rivela la sua natura di bambino solo, che cerca amore in modo sbagliato e che muore per la patria. Si tratta allora di memoria doppiamente costruita, perché su quelle immaginarie del libro si innestano quelle fittizie del regista. Nello sceneggiato di Comencini i toni retorici del libro sono evitati, ma il linguaggio è aderente a quello del volume. Merito di Comencini è di aver saputo conservare quella poesia, commuovendo lo spettatore. Questo è ciò che rende efficace il suo film: una trasposizione filmica di un classico letterario non deve e non piò rispettare completamente l'opera originale (aver mantenuto, nel film, lo spirito del libro). 3.4 Cuore di Zaccaro, 2001 Nel 2001 la rete Canale 5 trasmise in prima serata un nuovo sceneggiato in 6 episodi di 90 minuti l’uno, diretto da Zaccaro. Anche quest’opera fu un successo, tanto da vincere nel 2002 il Telegatto come migliore serie televisiva. Nelle tre altre pellicole il tema della guerra era dominante, invece nel serial di Zaccaro risulta assente. L’azione anche qui è spostata un po' avanti, ma è collegata nel 1890 per mostrare contrasti sociali e scioperi. Il registra si focalizza sul tema dell’inclusione di ragazzi del Meridione, suggerendo un paragone con la situazione scolastica contemporanea, con classi dove forte è la presenza di immigrati. La versione del 2001 contiene errori storici, quali la presenza in una classe di Torino del 1890 di scolari provenienti da tutta Italia, che parlavano molti dialetti diversi, con la paradossale esclusione del torinese. Ma lo sceneggiato di Zaccaro devia dal libro assai di più. Non solo mancano molte parti del testo, ma i protagonisti e la trama sono pesantemente alterati. Il centro della vicenda non è la classe ma la vita privata del maestro Perboni: sposato ad una donna che impazzisce e muore, egli per il dolore cade preda della droga, per innamorarsi infine della mestrina con la penna rossa che lo amava da tempo. Viene licenziato dalla scuola e dà vita ad una squadra di calcio per insegnare ai ragazzi ad agire in gruppo con spirito di corpo. Anche scolari e genitori hanno storie totalmente inventate che non si trovano nel libro. Franti inizialmente odioso diventa addirittura un eroe salvando la vita della nonna come fa in Cuore Ferruccio. La distorsione della trama produce l’effetto di rendere la storia e i suoi protagonisti assai meno credibili di quelli originali. Il lieto fine che si spande su tutti è pure altrettanto poco credibile. Tutti gli scolari sono promossi. Tutti i problemi spariscono. Perboni e la mestrina si sposano e vengono benedetti dalla nascita di un figlio. Il risultato è una storia sdolcinata, il che spiega il limitato successo dello sceneggiato. 4. Quali valori, quale scuola e quale insegnante? L’analisi comparativa delle 4 pellicole consente di vedere come in 50 anni siano cambiati o meno alcuni modi di sentire della società. La retorica del patriottismo e del militarismo, che era presente nel libro, sullo schermo viene a cadere: c’è un patriottismo “sano” nel 1948, un forte antimilitarismo nel 1972 e nel 1984, ma il tema è abbandonato nel 2001 in favore di una società multiregionale. I valori del sacrificio, della solidarietà e del dovere sono invece presenti in tutte e quattro le pellicole, in aderenza libro. La figura del maestro Perboni è sempre centrale ed egli è presentato con le medesime qualità: buono, paziente, dedito ai suoi allievi, povero, socialista o comunque vicino alle idee socialiste. Il libro dava molto spazio alla pedagogia morale e vedeva nella classe un luogo di relazioni. Poco interesse aveva De Amicis per la didattica. Poiché il suo scopo era quello di trasmettere valori, il cuore e i sentimenti dei ragazzi erano il nucleo centrale del libro, Cuore di Coletti e Cuore di Comencini seguono queste impostazione, mentre Zaccaro si concentra sulla vita (inventata) del maestro. Non importa cosa e come insegna, ma come egli si relaziona con i suoi alunni. Cuore è un libro al maschile, perché descrive una classe maschile di terza elementare. Le figure femminili, soprattutto a scuola, sono marginali. Tuttavia tutti e 3 i registi hanno dato spazio alla figura della maestra, per creare una trama più avvincente intorno al protagonista Perboni e in accordo al fatto storico che in Italia sin dal 1877 la maggioranza degli insegnanti era di sesso femminile. Così la maestrina dalla penna rossa che nel libro aveva un ruolo marginale ha una parte significativa nel film di Coletti e nello sceneggiato dii Zaccaro, divenendo la fidanzata o la moglie di Perboni. 5. Conclusioni: qual’è oggi la memoria di Cuore e della scuola italiana vista attraverso le lenti dello sceneggiato di Comencini? L'opera di Comencini è la più aderente libro, 32 episodi riportati, ed è quella che ebbe maggior successo di pubblico. Che cosa ricorda di cuore Comencini? che cosa mantiene della trama? quale memoria di una scuola già ricordata è costruita e condivisa? è la memoria collettiva di una scuola italiana come luogo nel quale i bambini imparano i valori civili del rispetto, della fratellanza, dei buoni sentimenti, dell'etica del dovere e del sacrificio. Non è la scuola come luogo di istruzione, di apprendimento di materie. Materie e metodi didattici possono cambiare: ciò che è essenziale è l’etica, è la pedagogia morale. Dovere del maestro era insegnare una serie di contenuti elementari, certo, ma soprattutto era di veicolare valori sentiti come fondamentali per la costruzione dell’identità nazionale. In conclusione, possiamo affermare che vi è una memoria collettiva di un libro letto nell’infanzia, che a lungo è stato parte dell’identità culturale degli Italiani e che ha formato una memoria di scuola immaginaria, che era però fortemente legata ai suoi valori effettivi. Le 4 pellicole esaminate nascevano ciascuna da particolari bisogni culturali e politici. Così, la scuola immaginaria del libro incarna la scuola sia delle nostre memorie che dei nostri desideri: il libro è stato riletto, rappresentato, alterato in accorso con il sentire del presente. Oggi il libro non è più così noto come lo era sino agli anni 60. Ma tra le persone che nella loro infanzia lo hanno letto, esso resta impresso e la scomparsa di quei valori morali che permeano il libro viene percepita come pericolosa, come appare da alcune voci in rete. Intellettuali, educatori e giornalisti esprimono nuovo apprezzamento per Cuore: in un mondo dove i valori morali si attenuano e in un paese nel quale gli insegnanti hanno perso il loro status sociale, il quadro dipinto da Cuore esercita ancora una forte attrazione. loro ambito di competenza, offrendo così alla scuola di Barbiana l'occasione di assumere la struttura di un vero e proprio circolo culturale, dove giungevano non solo avvocati, medici, giornalisti e fotografi, ma anche falegnami, carpentieri e meccanici, chiamati a condividere il loro bagaglio di conoscenze con i giovani. Un’altra importante iniziativa di cui danno conto i documentari sono i viaggi all’estero per lo studio di una lingua straniera; essi mostrano come questa scelta venisse intrapresa da don Milani non soltanto per consentire ai suoi ragazzi di apprendere le lingue, ma anche perché familiarizzassero con culture diverse dalla propria. Quanto agli spazi della scuola di don Milani, da quasi tutti i documentari emerge un ambiente sprovvisto di cattedre e di banchi; vi erano, invece, grandi tavoli, situati anche all’aperto, mentre sulle pareti dei locali interni erano affissi vari sussidi didattici, come cartine geografiche, fotografie inerenti soprattutto a popolazioni in via di sviluppo e cartelloni che indicavano la composizione degli schieramenti politici in parlamento, il sistema solare o le fasi lunari. A proposito dei tempi della scuola di Barbiana, i documentari insistono sul fatto che essa non avesse orari e impegnasse i ragazzi 12 ore al giorno per 365 giorni l’anno. I documentari visionati non tralasciano di descrivere la figura di maestro: egli è descritto sì come un insegnante moderno, anticonvenzionale e creativo, ma anche come un educatore autorevole, talvolta anche autoritario, ed esigente. 4. I film Bisogna ricordare che l’attenzione dei documentari è rimasta costante nel tempo mentre l’interesse del cinema nei confronti del sacerdote è circoscritta agli anni 70 e solo alla fine degli anni 90, è stata realizzata una produzione cinematografica su di lui, prodotta però per la televisione. Con il film Un prete scomodo di Tosini e Don Milani di Angeli, si deve sottolineare che, specialmente nel film di Tosini, gravano contenuti di un dibattito che rimarcava l’anticonformismo ecclesiale e politico di don Milani. Il film per la televisione Don Milani. Il priore di Barbania, diretto dai fratelli Frazzi testimonia una più recente riscoperta di don Milani, in un contesto diverso e meno intriso di fermenti ideologici. Va rilevato che gli spettatori che assistettero al film dei fratelli Frazzi furono più numerosi di quelli che poterono vedere i lavori degli anni 70. Il film dei fratelli Frazzi, punta a suscitare il coinvolgimento degli spettatori e presenta accenti maggiormente romanzati, utili a sostenere la motivazione di chi non conosce a fondo il sacerdote. La pellicola del 1997, si concentra sull’esperienza di Barbiana e cioè sulla fase più celebre ed emblematica del suo ministero. L’analisi condotta sulla scuola di don Milani non rivela una profonda divergenza tra i 3 film. I film confermano come l’idea di istruzione che animava il sacerdote prendesse le mosse dalla volontà di colmare le differenze tre le classi meno agiate e quelle con maggiori possibilità economiche e formative; per questo, la scuola era intesa come la principale occasione per fornire ai poveri gli strumenti per il loro riscatto. Delle 3 produzioni, quella di Angeli ricostruisce in modo più ampio e realistico le strategie didattiche del sacerdote; essa fornisce una vasta panoramica delle iniziative formative promosse a Barbiana. Diversa è la scelta di Tosini che evidenzia solo le metodologie più note utilizzate da don Milani, come la didattica esperienziale, le conferenze e i dibattiti. Infine, la pellicola dei fratelli Frazzi mostra i diversi metodi del sacerdote che sono presentati con minor attenzione ai dettagli. Anche per quanto riguarda gli spazi dell’educazione, l’ambientazione dei film è coerente con quanto descritto dai documentari. Molta attenzione, infine, è dedicata dai film alla figura di insegnante espressa da don Milani. Tosini e i fratelli Frazzi sottolineano il carattere paterno e accogliente del maestro, che non conosce rassegnazione ed è disposto a tutto per i suoi studenti. Il prete è descritto come un maestro che ama i suoi ragazzi a tal punto da dedicare tutto il suo apostolato per la loro elevazione sociale. Angeli, invece, evidenzia con più insistenza l’intransigenza e la severità di don Milani. L’immagine di educatore che il suo film vuole presentare è più complessa, completa e riflessiva. 5. Considerazioni conclusive I documentari e i film visionati restituiscono certamente un significativo spaccato della scuola di don Milani e consentono così di conservarne la memoria. Come si è visto, i documentari analizzano in modo più dettagliato gli elementi più organizzativi della scuola di don Milani, mentre le pellicole cinematografiche si soffermano maggiormente sul carisma del sacerdote. Un altro elemento che merita di essere sottolineato è che sia i film sia i documentari si servono molto spesso di citazioni tratte dai testi del sacerdote per offrire un’immagine realistica e il più possibile veritiera dell’attività del maestro. L’immagine di scuola delineata dai film e dai documentari è caratterizzata da una marcata eccezionalità. Essa è lontana dal vissuto della maggioranza degli italiani. Tuttavia ha consentito alla proposta scolastica di don Milani di entrare nel nostro immaginario collettivo come un prototipo di scuola ideale. Le sue rappresentazioni cinematografiche e televisive ne hanno conservato una memoria che si può definire pedagogica, perché alimentata dal suo esempio, che proprio in quanto “forma più alta di linguaggio pedagogico”, ha stimolato sempre nuove riflessioni intorno ai più profondi significati educativi del “fare scuola”. Attraverso i film e i documentari, la scuola di don Milani ha smosso le coscienze di chi ha avvertito e continua ad avvertire la necessità di un rinnovamento del sistema scolastico. In effetti molti dei documentari esaminati sono stati pubblicati all’interno del portale della RAI riservato a tematiche informative. Grazie a questo servizio, essa ha inteso offrire soprattutto agli insegnanti non solo contenuti spendibili didatticamente, ma anche occasioni per ripensare la propria professionalità, che in don Milani può trovare certamente una forte spinta ideale e motivazionale. CAPITOLO TERZO COSTRUIRE LA MEMORIA: LA SCUOLA ITALIANA DEGLI ANNI SETTANTA NELLO SCENEGGIATO TELEVISIVO DIARIO DI UN MAESTRO 1.Introduzione Nel 1973 la RAI mandò in onda il telefilm Diario di un maestro, prodotto da De Seta tratto dal racconto Un anno a Pietralata di Bernardini. Lo sceneggiato presentava un’innovativa esperienza scolastica, interessata al percorso educativo dello studente. Nel contempo, documentava un particolare momento storico della scuola italiana, sollecitata da più voci a rinnovare la propria funzione e il proprio stile didattico. La ricerca si è posta l’obiettivo di analizzare Diario di un maestro, indagandone l’apporto nella rappresentazione e costruzione della mentalità collettiva degli anni 70, intendendo “la sensibilità diffusa, le categorie assiologiche, le concezioni pedagogiche sottese a certi modi di vita”. La fonte filmica è stata interrogata attraverso il confronto con il libro di Bernardini, entrambi esaminati con un focus sui fattori educativi in essi presentati. 2. Il contesto Si intitola Un anno a Pietralata: più volte però, si sospetta che Un agnello tra i lupi sarebbe stato un titolo più adeguato, tale è il continuo contrasto tra il candore del maestro e la violenta malizia dell’ambiente in cui si muove, senza mai arrendersi. Il candido maestro è Bernardini, autore del volume Un anno a Pietralata, pubblicato nel 1968. La “gentaglia” è invece formata dagli studenti della scuola elementare situata nella borgata romana in cui l’insegnante di origine sarda aveva lavorato a inizio decennio. In un ambiente povero, gli sforzi del docente erano stati protesi a riempire l’aula semivuota di ragazzi che alla scuola preferivano la strada, o perché disinteressati allo studio, o perché impegnati in attività lavorative. Molti di questi bambini, infatti, contribuivano alla sussistenza familiare. L’anno era il 1960: Bernardini, appena trasferitosi a Roma, fu chiamato a gestire una classe turbolenta, a cercare un dialogo con colleghi che lo guardavano con diffidenza, ad affrontare “un’intensa avventura umana e intellettuale”. Il suo approccio ottimista e attivista lo condusse a favorire un metodo educativo fondato sul protagonismo dei ragazzi, in contrasto alla classica didattica tradizionale, ritenuta distante dalle esigenze degli scolari. Dalla testimonianza di questo maestro, De Seta trasse ispirazione per lo sceneggiato televisivo Diario di un maestro. Il momento storico in cui il film si presenta al grande pubblico è rilevante per la scuola e la società italiana. Il panorama scolastico degli anni 60 fu contraddistinto da una serie di eventi significativi, che ebbero come apice il terremoto provocato dalla protesta studentesca del 68. Ma già a inizio decennio la scuola aveva vissuto una fase storica con l’istituzione della scuola media unica, alla quale si aggiunse la volontà di far compiere alla scuola italiana una svolta in senso democratico. Incisivo anche il percorso di riflessione sugli studenti disabili, fino ad allora emarginati in classi differenziali e scuole speciali, che condusse nel decennio successivo alla loro inclusione nelle scuole comuni, così come la nascita del tempo pieno nella scuola elementare. A ciò si deve aggiungere l’istituzione della scuola materna statale nel 1968. All’interno di tale dinamico contesto, si fecero più forti le pressioni di coloro che chiedevano una scuola rinnovata secondo le istanze democratiche. Tra questi, CAPITOLO QUARTO UNA SCUOLA DIVERSA E’ POSSIBILE. GLI ESEMPI DI VITTORIO DE SETA IN QUANDO LA SCUOLA CAMBIA (1979) Dopo il grande successo che aveva riscosso nel 1970 con il Diario di un maestro, Vittorio De Seta tornò al tema della scuola pochi anni dopo, con una seconda serie di 4 puntate realizzate dalla RAI. Questa volta scelse di impiegare la forma propria del documentario tradizionale. Prese così vita La scuola cambia, trasmesso dalla RAI nella primavera del 1979. C’era dunque l’esigenza di portare in scena la realtà della scuola. Per meglio comprendere l’attualità del discorso di De Seta in quel dato momento storico e la sua peculiarità è utile ricordare quanto la scuola italiana attraversava in quegli anni. 1. Il contesto sociale e scolastico Non solo in Italia, gli anni 70 furono gli anni della contestazione sociale e la scuola fu al centro di un movimento di critica e riforma che partiva dall’insoddisfazione verso un’istituzione che si riteneva incapace di favorire l’equa crescita sociale di tutti gli strati del Paese. È sullo sfondo di questo clima che si deve comprendere una serie di provvedimenti riformatori di cui il principale fu quello dell’estensione dell’obbligo scolastico a otto anni attraverso l’istituzione di una scuola media unica, cioè uguale per tutti, triennale, senza esame d’ammissione, che permetteva l’accesso a qualunque indirizzo secondario superiore. La scelta politica di estendere l’accesso all’istruzione, andò oltre e si concretizzò anche in altre disposizioni, quali i primi provvedimenti per l’integrazione scolastica dei disabili (1971). La scuola, vista come istituzione dedicata a una trasmissione culturale a servizio non di tutta la società, doveva aprirsi alla società civile. Da una scuola chiusa in sé stessa, si arrivava a concepire una scuola come un’istituzione alla cui vita dovevano partecipare non solo il corpo docente, ma anche gli alunni, i genitori e le forze produttive rappresentate dai sindacati e dalle organizzazioni del commercio, dell’industria e dell’artigianato: ciò si ottenne con i Decreti delegati del 1973/74 che avviarono gli Organi Collegiali di governo della scuola. Attivare la scuola media unica o aprire le classi ai bambini disabili implicava lo studio di nuove didattiche, cosa che venne intrapresa non solo dalla pedagogia accademica ma anche dai vari mondi delle riviste professionali e dell’associazionismo magistrale. Il rinnovamento della scuola, passava attraverso molti canali: quello normativo e associazionistico, ma anche quello dei dibattiti sindacali e delle riviste. Un ruolo importate fu ricoperto dalla RAI, entro i processi di riforma che interessarono il servizio pubblico radiotelevisivo anche, ma non solo, a partire dall’istruzione, nel 1975, di un Dipartimento Scuola Educazione, avente il compito di produrre specifici programmi di divulgazione scientifico-culturale. 2. Le quattro puntate di Quando la scuola cambia In questo contesto, si colloca la serie Quando la scuola cambia di Vittorio De Seta, che puntava l’obiettivo sui maestri veri, per dimostrare che si può fare una scuola diversa. Quando la scuola cambia presenta caratteri più tradizionalmente vicini a quelli del documentario a tema sociale. Un documentario che presenta due tesi esplicite e forti: 1) che la scuola deve rinnovarsi per venire incontro ai nuovi problemi e sensibilità sociali e culturali; 2) che tale rinnovamento è possibile e può avvenire dall’interno, partendo dalla trasformazione dell’attività didattica che gli insegnanti stessi sono in grado di operare. Il primo episodio vede come protagonista la classe di Mario Lodi nella scuola elementare di Vho. Lodi, si presenta sullo schermo insieme ai suoi bambini, nelle scene di vita di classe, oppure da solo, nelle vesti di chi commenta e spiega le scelte pedagogiche compiute e la sua idea di scuola. Il tema che fa da filo conduttore alla puntata è quello della centralità dell’alunno nei processi di apprendimento; non a caso il titolo scelto da De Seta fu Partire dal bambino. Il secondo episodio, Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua, è dedicato a Carmine De Padova, insegnante, che fa scuola ai ragazzi della locale comunità di italiani di lingua albanese e cerca di tenere in vita le loro tradizioni anche attraverso attività extrascolastiche. La cinepresa passa così dall’aula alle abitazioni e alle strade del paese, mostrando non solo come si possa insegnare l’italiano partendo da una diversa lingua madre, ma anche mostrando la riscoperta dei canti, delle danze e delle storie che attestano una civiltà contadina portatrice di valori. Il tema della puntata è quello dell’alfabetizzazione, in senso “espanso”, come possesso di uno strumento culturale a tutti gli effetti e in cui l’alfabeto è connesso all’intero mondo vitale di un popolo. La terza puntata, Lavorare insieme non stanca, torna al Nord, a Milano. Qui, dove giungono molti immigrati dal Meridione, opera la maestra Caterina Foschi che, insieme ai colleghi, dà vita a una scuola speciale a tempo pieno aperta a tutti. Il metodo cooperativistico è ciò che De Seta mette al centro della sua rappresentazione televisiva, in chiave metodologico-didattica, mostrando come i bambini abbiano a disposizione un maggior numero di situazioni di apprendimento in cui mettersi in gioco come persone e come cittadini in relazione. Infine, la quarta puntata, I “diversi”, spiega l’esperienza del Centro medico-psico-pedagogico per i bambini disabili di Cutrofiano, Lecce, uno dei primi ad avere decentrato il proprio servizio. Come noto, in Italia, prima delle Leggi 118 del 1971 e 517 del 1977, i bambini “handicappati” non frequentavano le classi normali ma scuole o centri speciali. Il Centro di Cutrofiano, invece, aveva cominciato a operare l’inserimento dei bambini nelle scuole, supportandone famiglie e insegnanti. Questa tematica era talmente rilevante che la RAI scelse di trasmettere questo episodio separatamente degli altri. 3.Fare scuola attraverso il fare Il tratto della scuola che De Seta volle mettere in primo piano è quello della predominanza dell’attività diretta, manuale, laboratoriale del giovane scolaro all’interno del processo di apprendimento. La didattica attiva non è semplicisticamente presentata secondo la contrapposizione tra un vecchio e un nuovo modo di far scuola, bensì, col riferimento alla psicologia, si fa comprendere come l’attività del bambino sia funzionale ad un apprendimento significativo. Molte sono le scene in cui si vedono i bambini all’opera e, ad esempio, la classe è impegnata in un esercizio di calcolo legato alle entrate e uscite della cassa comune o l’immancabile giornalino, con la scrittura creativa, il disegno, la discussione in aula ecc. La scuola di De Seta, non è solo una scuola del fare, bensì è una scuola del fare insieme. Cooperazione e lavoro di gruppo sono presentate congiuntamente nella vita sociale e in quella di classe, in una dimensione molto umana e priva delle retoriche di partito che pure erano assai forti in quei caldi anni 70. Il terzo episodio di quando la scuola cambia, per esempio, insiste molto sulle cooperative scolastiche. In questo, Mario Lodi consente a De Seta di andare più a fondo; Lodi, infatti, spiega come abbia portato in classe i 2 contadini che, nel paese, si erano associati dando vita una sorta di cooperativa agricola, e di come questa propria scelta non fosse legata solo alla volontà di far conoscere ai bambini le formazioni economiche presenti sul territorio ma a quella di presentare le difficoltà, i vantaggi e le barriere prime tra tutte quelle della collaborazione tra gli uomini. Cooperazione e lavoro di gruppo così sono presentate in modo congiunto nella vita sociale e in quella di classe. 4. Aprirsi al territorio Il riferimento alla cooperativa dei contadini, trasformata in tema di studio attraverso il racconto diretto dei protagonisti, ci mostra un secondo tratto della scuola che De Seta vuole portare all’attenzione del suo pubblico è quella dell’apertura alla realtà sociale e della costante permeabilità tra vita scolastica e territorio, che già Dewey e tutto l’Attivismo avevano sostenuto, e che però, nell’Italia degli anni 70, assumeva connotati nuovi. De Seta ci mostra due facce di tale questione, di cui la prima è quella, appena detta, dell’apertura della scuola all’ingresso di temi e persone esterne. Il secondo aspetto che De Seta mette in scena è quello della scuola come “comunità educante”. Nel quarto episodio, parlando dell’integrazione dei disabili, non solo De Seta presenta una scuola accogliente, ma mostra come questa apertura a bambini che erano esclusi, è resa possibile proprio dal fatto che, nell’affrontare i problemi, fossero coinvolti anche i genitori e le varie realtà dell’intervento specialistico. Tutto ciò dava alla scuola l’obiettivo della crescita culturale e civile della comunità locale e apriva la strada alla gestione partecipativa della vita scolastica, non più affidata ai soli professionisti della scuola, ma anche a genitori, studenti e forze sociali e politiche. 5. Ascoltare i bambini per costruire una scuola di “tutti” C'è un particole, minuscolo ma pedagogicamente sconvolgente, nella scena che apre la terza puntata di quando la scuola cambia, quella di ambientazione milanese: la maestra Foschi è nel cerchio con i bambini della sua prima elementare, fuori piove, e la maestra li fa parlare di questo fenomeno atmosferico, di come secondo loro si origina e degli effetti che produce; i bambini espongono le loro teorie ingenue e lei prende appunti su un notes. Di solito, è il contrario, cioè sono gli alunni a prendere appunti durante le lezioni, ma questo atteggiamento naturale della maestra costituisce un indizio sintomatico di un modo di far scuola che al regista preme rappresentare; partendo proprio dal far prendere ai bambini la parola. Mario Lodi conferma che l’esigenza di ascoltare il bambino non dipende solo dalla scelta della scuola di adottare un atteggiamento meno assolutistico, ma sia invece una necessità propriamente didattica. Sul piano didattico, ascoltare i bambini, ha soprattutto la conseguenza di costringere l’insegnante a impostare tutta la sua azione in termini di ricerca invece che di trasmissione di nozioni preconfezionate. La didattica che parte dal ascoltare il bambino si manifesta anche nelle scelte di riscoprire la lingua e la cultura popolare che De Seta descrive nella puntata di quando la scuola cambia dedicata alla comunità albanese del Salento, così come nel fatto che i suoi maestri, proprio rifiutando la rigidità di programmi libri sarebbero confluiti nel volume Buona Maestra TV del 2003, volti a indagare il ruolo educativo della RAI dagli albori fino agli impegni di divulgazione culturale e scientifica degli anni 90. Non è mai troppo tardi, si poneva come “primo e ineguagliato esperimento” promosso dal progetto di educazione a distanza Telescuola di supplire alla carenza di strutture scolastiche e alla mancanza di validi modelli di educazione degli adulti in un’Italia in gran parte attraversata dall’analfabetismo. Farné ebbe allora la possibilità di documentare la conversazione con Manzi. Manzi andò ben al di là del raccontare di Non è mai troppo tardi. Considerando che il video dell’intervista unisce del materiale di tipo documentario a ciò che possiamo ritrovare nei volumi curati da Farné, esso costituisce un testo originale e che merita un’analisi dedicata. Lo ripercorriamo, soffermandoci sui passaggi che riteniamo di particolare interesse. La prima esperienza in TV. Manzi racconta di come iniziò l’esperienza di Non è mai troppo tardi, con il provino RAI a cui partecipò insieme a molti altri insegnanti. Durante l’intervista, Manzi non solo mostra la sua capacità di porre un secondo sguardo su un problema che per tutti era nuovo, ma di agire sempre secondo coscienza, senza assecondare il potere, l’istituzione o qualunque cosa non ritenesse degna di venire difesa. Secondo Manzi, il pensiero è un tratto tipicamente umano e la parola è ciò che permette agli uomini di comunicare e di costruire il loro mondo, e il possesso della parola deve essere di tutti, a patto che sia usata nel segno dell’uguaglianza e del dialogo. Insegnare in un carcere. In un gioco di flashback, l’intervista ritorna all’immediato dopoguerra e alla prima esperienza da maestro di Manzi, nel carcere minorile Aristide Gabelli di Roma. Qui Manzi racconta dell’iniziazione riservatagli dal gruppo: Manzi ha solo 22 anni e facilmente viene confuso come uno dei detenuti del carcere, ma il rilevare la propria identità lo porterà a dover “fare a botte” con il leader del gruppo per acquistare il diritto di insegnare. Nella semplicità e nell’ironia del racconto, vi è un compendio di cui potrebbe far tesoro un educatore di strada: l’arte del mimetismo che spesso i bravi educatori mettono in pratica per penetrare in un contesto difficile, l’utilizzo del linguaggio dei ragazzi per farsi riconoscere, l’iniziazione per essere qualcuno nel gruppo, la leadership educativa per raggiungere un obiettivo, sempre sul filo di relazioni da curare con tutti e ciascuno. L’esperienza universitaria. Qualche breve cenno viene fatto anche dell’esperienza universitaria, fu breve e secondo il maestro: “non si sperimentava nulla”. La formazione scientifica. Il passaggio successivo dell’intervista è accompagnato dalle immagini del Dipartimento Scuola Educazione, sorto con la Riforma della RAI del 1975 per la divulgazione scientifica e la formazione degli insegnanti. Qui si assiste a una lezione di Manzi a un gruppo di bambini. L’argomento è il corpo umano e l’impostazione è di tipo induttivo: Manzi chiede ai bambini di disegnare ciò che avviene all’interno del nostro corpo. La forma è ludica e i bambini sono portati a esprimere le loro conoscenze. Laureato in Biologia e in Pedagogia, lettore di Piaget e appassionato dello scoutismo, per Manzi erano fondamentali lo studio e l’aggiornamento costanti: essi erano le condizioni di qualità di insegnanti “ben preparati alla elaborazione didattica dei processi di insegnamento/apprendimento nel campo delle scienze con l’infanzia”. Il Consiglio nazionale della pubblica istruzione e la vicenda dei timbri. Si apre un capitolo ormai celebre del Manzi maestro di scuola: il suo rifiuto verso le imposizioni di Ministeri e altri poteri scolastici. Manzi era stato cooptato nei lavori del Consiglio nazionale della pubblica istruzione, in cui su 74 membri soltanto 4 erano insegnanti non distaccati dal lavoro scolastico quotidiano. Manzi finì più volte sotto Consiglio di discipline perché si rifiuta di dare i voti e venne denunciato alla Procura della Repubblica all’epoca dell’introduzione delle schede di valutazione rinunciando anche al proprio stipendio. Questi sono i passaggi in cui probabilmente si evidenzia con maggiore forza il coraggio dell’educatore Manzi, non disposto a cedere di un solo passo nella difesa strenua dei criteri pedagogici in cui credeva. In Sudamerica per aiutare gli oppressi. Nel video dell’intervista Manzi dedica poco spazio a questo lungo capitolo della sua vita. Partito per “studiare un certo tipo di formiche” si accorse che “c’erano altre situazioni che valevano molto di più”: i contadini che non sapevano leggere e scrivere. Ciò che ci è fin qui arrivato grazie ai ricordi di chi l’ha conosciuto, alle pagine di diario e alla trasposizione narrativa della “trilogia sudamericana” svela, una dimensione di grande fascino di Manzi. La lettura de Il tempo non basta mai, lascia in realtà il lettore e lo studioso pedagogico “affamato di saperne di più” di un uomo che dedicò la sua vita all’educazione e all’eguaglianza dei diritti di ciascuno, e lo fece con grande coraggio. 3. Una fiction per conoscere La fiction Non è mai troppo tardi, trasmessa nel 2014, si articola in due puntate: la prima è centrata sulla vicenda legata al carcere minorile Aristide Gabelli di Roma; la seconda rappresenta proprio l’esperienza di Non è mai troppo tardi. 3.1. Il primo episodio La scena iniziale del primo episodio è un flashforward (interruzione di una sequenza cronologica per anticipare eventi che appartengono al seguito della storia) che rimanda a una sequenza che ritroveremo nel secondo: Manzi sta per iniziare la registrazione della prima puntata di Non è mai troppo tardi. Inizia la storia. In una Roma appena uscita dalla guerra, povera, affamata, Manzi cerca un lavoro da insegnante. Viene destinato a una cattedra “che non la vuole nessuno”. Cosi sarà al carcere Aristide Gabelli che Manzi accetterà la sfida di “non insegnare” inizialmente l’unico strumento didattico a sua disposizione sarà la voce, poiché quaderno, libri e matite in carcere sono vietati per regolamento. Manzi, che in quei delinquenti vede dei ragazzi, chiede di poter rimanere solo senza le guardie e inizia a osservare e conoscere. Manzi si mostra sicuro del suo compito, ma dopo la vittoria della “scazzottata”, il percorso di accettazione sarà ancora lungo. Presto però diventerà per tutti il “Maè”, uno di lor, e un riferimento per tutti loro. Manzi dovrà coltivare con fatica anche la fiducia del Direttore del carcere, alla fine conquistata. C’è un momento toccante nella fiction, che appare ancor più centrale pensando ai cardini della didattica di Manzi: il maestro porta i ragazzi nel cortile della scuola, li fa sedere per guardare il cielo e le nuvole con l’intento di cogliere le forme, fantasticare e giocare. Inizierà a piovere. L’acqua sul viso. Il “gusto della pioggia sul viso”, da un punto di vista pedagogico, è non solo un’eventualità, ma il diritto a “un’esperienza vissuta” che fa vivere, che farà imparare a vivere, oppure ad apprezzare qualsiasi lezione sulla pioggia. Con i tempi dovuti, tutti impareranno a scrivere e scopriranno da soli il valore del possesso della parola. La più grande conquista di Manzi sarà convincere il Direttore a pubblicare, La tradotta, il giornale del carcere, strumento di espressione, di emancipazione, del dare voce ai ragazzi. Scelta che, da un punto di vista pedagogico- didattico, ci rimanda a Freinet. Un’altra conquista di Manzi sarà la gita fuori porta insieme a tutti i ragazzi che, contro lo scetticismo generale, decideranno di non scappare. A causa dell’università, Manzi dovrà lasciare il carcere. Manzi allora dovrà salutare i ragazzi ed è qui che inizia il compito più difficile del ruolo dell’educatore: quello del distacco, della morte, della consegna, nel linguaggio pedagogico. Anche in questo Manzi sarà maestro, nell’attendere che i suoi ragazzi capiscano che si tratta anche per loro di un’opportunità, perché da lì in poi toccherà anche a loro essere uomini, e maestri di altri. Nell’ultima sequenza, i ragazzi iniziano a marciare. Non marciano per paura delle guardie o del poter, marciano per lui, per sé stessi, per essere liberi. 3.2 Il secondo episodio A casa Manzi arriva il primo televisore. Lo strumento provoca meraviglia, solo il maestro si dice scettico, dimostrando poco interesse. Manzi nel 1954 inizia a lavorare nella scuola Fratelli Bandiera. La scena allora ci porta nell’istituto dove Manzi insegnò per tanti anni. Viene rappresentata una classe gioiosa, ben lontana dagli apparentemente incontrovertibili stereotipi a cui siamo abituati. Il primo giorno di scuola i bambini si dispongono a isole di tre, la cattedra è posta in un angolo e Manzi mette da parte il registro di classe trovato sulla cattedra. Viene anche rappresentata la terrazza della classe, simbolo di terreno di esperienze, ricerche e apprendimenti. Queste prime sequenze ci permettono di riflettere su un tema attuale: quello della scuola inclusiva. Manzi accoglierà nella sua classe molti bambini problematici. La scuola di Manzi non è quella dei voti e delle diagnosi, ma della crescita, dell’aiutarsi e dell’apprendimento. E ai voti e ai libri di testo vengono contrapposti una solida cultura psicopedagogica e un’accurata programmazione. C’è infine un ultimo passaggio che riteniamo di grande interesse e che fa della scuola Fratelli Bandiera una sorta di Barbiana romana: Paolo, un bambino che fa fatica a presentarsi a scuola, continuamente escluso perché ignorante, grazie alla saggezza didattica del maestro avrà modo di insegnare agli altri, perché anche lui è “colto”, di una cultura contadina. È in questo contesto che Manzi riceverà l’invito a presenziare al provino della RAI. 4. Il coraggio di un educatore, più grande di quanto si sappia La lettura, con lo sguardo del pedagogista, dei due prodotti, tra loro distanti nel linguaggio e nelle intenzioni, ci restituisce prima di tutto il profilo di un uomo e di un educatore di grande coraggio. Manzi era sicuramente un educatore appassionato, mosso dalla più limpida intenzionalità pedagogica, professionista vero, capace prima di chiunque di cogliere i segnali critici nella realtà. E Manzi aveva compreso molto bene prima di tutto l’importanza del mezzo televisivo, che lo affascinava e lo turbava al tempo stesso, su cui era capace di porre uno sguardo razionale: la TV era, ed è, uno strumento potente, che può intrattenerci dinanzi a qualsiasi futilità, a cui dobbiamo educarci e che dobbiamo imparare a utilizzare bene. Secondo Farné, Manzi è una delle figure significative della cultura pedagogica italiana della seconda metà del 900, insieme a Don Milani, Rodari e Lodi. Infine, dinanzi a una crisi evidente del mestiere di educare la scuola, si dovrebbero fare i conti con una figura come quella di Manzi ogni volta che si parla di “crisi d’identità” e di professionalità dell’insegnante, di che cosa si debba intendere per comunicazione educativa, qualità della didattica, eticità della scuola.