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Inside the white cube, Appunti di Storia Contemporanea

Brian O'Doherty ha scritto un saggio intitolato "Inside the White Cube: The Ideology of the Gallery Space", pubblicato nel 1976. Questo saggio è considerato un testo fondamentale nel contesto delle teorie sulla pratica artistica e museale. Nel libro, O'Doherty esplora il concetto di "White Cube" come spazio espositivo neutrale e analizza come questo ambiente influenzi la percezione dell'arte contemporanea.

Tipologia: Appunti

2023/2024

Caricato il 09/01/2024

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Scarica Inside the white cube e più Appunti in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! Nota dell'editore Nell'introduzione del volume scritta nel 1986, Thomas McEvilley, critico d'arte americano, prediceva che entro quattro anni Inside the White Cube di Brian O'Doherty sarebbe diventato un classico, una previsione che si è poi avverata. A quasi cinquant'anni dalla sua prima pubblicazione, le riflessioni di O'Doherty continuano a essere un testo cruciale nella letteratura d'arte internazionale. Questa prima edizione italiana di Inside the White Cube presenta i quattro saggi principali scritti tra il 1976 e il 1981, integrati da un quinto contributo intitolato "Studio and Cube" ("Studio e galleria"). Nonostante sia stato redatto parallelamente agli altri quattro testi, questo scritto non è mai stato incluso nelle edizioni inglesi precedenti del libro e rimase inedito fino al 2007. O'Doherty esprime gratitudine a John Coplans e Charles Cowles di Artforum, a Ingrid Sischy, direttrice responsabile, e a Jan Butterfield della Lapis Press per il loro contributo. Ringrazia anche Barbara Novak per la revisione del testo, Nancy Foote e Susan Lively per il lavoro sulle immagini e la formattazione, rispettivamente. Jack Stauffacher viene ringraziato per la grafica accurata, mentre i musei e le gallerie che hanno autorizzato la pubblicazione delle fotografie ricevono un riconoscimento. Un ringraziamento speciale va a Thomas McEvilley per la sua efficace introduzione e ad Ann McCoy per aver proposto il volume alla Lapis. Mary Delmonico del Whitney Museum riceve un ringraziamento per aver suggerito la ripubblicazione del libro, e James Clark della University of California Press è riconosciuto per la sua gentile supervisione nell'edizione ampliata. Infine, Maurice Tauchman riceve riconoscimenti per aver invitato O'Doherty a tenere la sua prima conferenza sull'argomento nel gennaio 1975 al Los Angeles County Museum of Art. Introduzione -Thomas McEvilley New York, 1986 L'analisi degli oggetti in relazione al loro contesto è stata una caratteristica distintiva e geniale del Novecento, che ha portato a considerare il contesto non solo come un elemento formativo, ma addirittura come un oggetto autonomo. Nel volume di Brian O'Doherty, "Inside the White Cube," pubblicato nel 1976 sulla rivista Artforum, l'autore esamina attentamente questa nuova attenzione al contesto nell'arte del Novecento. O'Doherty affronta il tema dello spazio espositivo, affermando che la galleria d'avanguardia è costruita secondo leggi rigorose, simili a quelle che governano la costruzione di chiese medievali. Queste leggi stabiliscono che il mondo esterno deve restare fuori, le finestre sono sigillate, i muri sono dipinti di bianco, e il soffitto diventa fonte di luce. L'autore suggerisce che questa configurazione mira a far sì che l'arte viva la sua vita al di là del tempo, apparentemente al riparo dalle influenze esterne. Tuttavia, questa condizione ha strani effetti sulla vita presente, che si svolge nel tempo. O'Doherty collega questa concezione dello spazio espositivo all'antica pratica delle camere funerarie dell'antico Egitto e alle grotte rupestri del Magdaleniano e dell'Aurignaziano in Francia e Spagna. In entrambi i casi, si tratta di spazi deliberatamente chiusi al mondo esterno, contenenti dipinti e sculture considerati magicamente connessi all'eternità. Il concetto di "white cube" diventa, quindi, una sorta di limbo eterno, richiedendo quasi che gli individui siano "già morti" per accedervi. O'Doherty suggerisce che questa modalità espositiva mira a consolidare un certo potere, proteggendo una sensibilità specifica da cambiamenti e temporalità. Nel secondo capitolo, l'autore esplora l'egoismo implicito nell'istituzionalizzazione del "white cube," dove l'osservatore diventa uno spettatore distante, relegato al ruolo di osservatore disincarnato. Questo nuovo modo di vivere lo spazio espositivo impone una vita ridotta e repressa, simile a quanto avviene nei santuari religiosi. O'Doherty evidenzia anche l'evoluzione del "white cube" a partire dalla tradizione del dipinto da cavalletto e la sua relazione con la tradizione anti-formale rappresentata da opere come quelle di Duchamp. L'autore sostiene che, nonostante alcuni tentativi di comunicazione tra le due tradizioni, il "white cube" rimane un'entità isolata che perpetua una forma di magia per via simpatetica. In conclusione, O'Doherty difende la vita reale e il cambiamento contro il mito dell'eternità e della trascendenza della forma pura rappresentata dal "white cube." I suoi saggi, quindi, non solo esplorano questo fenomeno, ma fungono anche da difesa del tempo, del cambiamento e della vitalità contro la sterile immutabilità proposta dal contesto espositivo contemporaneo. Osservazioni sullo spazio espositivo Il testo affronta il tema della trasformazione nella percezione artistica, in particolare nel contesto della pittura moderna. Esplora il cambiamento di scala e prospettiva nelle rappresentazioni della Terra nelle opere di fantascienza, collegandolo all'evoluzione della storia dell'arte moderna. L'autore confronta l'arte tradizionale con quella popolare, evidenziando l'uso di elementi grotteschi e il collage come espressione artistica. Si menziona l'importanza del vuoto e della tela vuota nel modernismo. Si passa poi a discutere il concetto di spazio nell'arte moderna, considerando l'interazione tra l'osservatore, lo spettatore e l'opera stessa. Viene introdotto lo Spettatore come figura centrale, esplorando il suo ruolo nel contesto dell'arte moderna e la sua evoluzione nel corso del tempo. Il testo termina discutendo l'Occhio come figura intellettuale, distintamente diverso dallo Spettatore, e riflette sulla relazione tra l'arte e il concetto di spazio nell'ambiente espositivo. Si menziona anche il Merzbau di Hannover come esempio di uno spazio influenzato dal collage e dall'arte moderna. Lo scrittore Schwitters descrive il suo lavoro, il Merzbau, come una città in crescita che incorpora vari materiali e oggetti nella sua struttura. Quando Schwitters trova qualcosa adatta alla sua "Cattedrale della miseria erotica", lo raccoglie, lo porta a casa, lo attacca e lo dipinge, mantenendo l'armonia complessiva. Tuttavia, quando Schwitters riconosce che un oggetto è diventato obsoleto, lo copre in tutto o in parte con altri materiali. Il Merzbau è descritto come un'opera austera e sinistra, con forme che si attorcigliano, si piegano e si dissolvono sotto superfici geometriche rigorose. Il Merzbau nasce da uno studio di spazio, materiali, artista e processo, estendendosi nel tempo per circa tredici anni. È un'opera mutevole e polifonica che contiene reliquiari di ricordi di amici e racconta viaggi in città. Incorpora scenari urbani, tradizioni culturali e offre modelli di comportamento. La struttura del Merzbau, sebbene coperta da strati successivi, rimane irrazionale e sfugge alla chiara comprensione. L'autore rileva che il Merzbau è caratterizzato da concetti involutivi e rovesciati, con dialettiche tra Dadaismo e Costruttivismo, organico e archeologico, città esterna e spazio interno. La trasformazione è un tema centrale, collegato al romanticismo idealistico. L'opera di Schwitters anticipa l'uso dello spazio come medium artistico e della galleria come camera di trasformazione. La narrazione si sposta poi verso la carriera di Schwitters, che crea spazi privati definiti dall'aura dell'artista. Viene menzionato uno spazio abitabile creato da Schwitters in un campo di prigionia britannico sull'isola di Wight. Questo spazio personale si trasforma nel tempo in un rituale, suggerendo una connessione tra spazio privato e performance. Si discute anche del ruolo delle parole e delle lettere nel Merzbau di Schwitters e nel contesto del collage. Le parole, secondo Braque, conferiscono un senso di certezza, e nel contesto del collage, sono accompagnate da una colonna sonora. L'autore esplora il concetto di environment, notando che la sua affermazione è stata stranamente tardiva. Viene esaminata la relazione tra ambiente e collage, con esempi di environment di artisti come Allan Kaprow. Si riflette sull'uso delle convenzioni teatrali e sulla differenza tra performance in una galleria e su un palcoscenico. Il testo affronta infine l'interazione tra l'Occhio e lo Spettatore nell'esperienza artistica moderna. Si sottolinea il ruolo dell'Occhio nella ridefinizione del piano pittorico e dello Spettatore nell'affrontare l'invasione dello spazio reale causata dal collage. L'analisi si conclude con una riflessione sull'instabilità e sulla complessità di questo sistema che coinvolge l'Occhio e lo Spettatore nella percezione artistica. Il contesto come contenuto descrive l'impiego di gesti provocatori e concettuali nell'arte, focalizzandosi su due opere di Marcel Duchamp: i "Sacchi di carbone" e "Mile of String". L'autore esplora il significato di questi gesti nell'ambito della storia dell'arte moderna e sottolinea come Duchamp abbia utilizzato tali azioni per destabilizzare le convenzioni artistiche. Nei "Sacchi di carbone", Duchamp ha riempito una galleria con 1200 sacchi, apparentemente pieni di carbone, sospesi al soffitto. Questo gesto aveva l'intento di creare un'atmosfera insolita e destabilizzante, sfidando le aspettative del pubblico e mettendo in discussione il concetto di spazio espositivo. Il secondo gesto descritto è "Mile of String", in cui Duchamp ha teso un miglio di spago per attraversare la galleria in modo apparentemente caotico. Quest'opera ha lo scopo di intrappolare lo spettatore nello spazio espositivo, mettendolo sotto assedio e costringendolo a confrontarsi con l'arte in modo inusuale. L'autore riflette sulla natura di questi gesti, sottolineando che possono essere considerati progetti artistici "giovani", ma al contempo riconosce la sfida di preservare l'effimero e l'irriverenza di tali azioni nel contesto storico dell'arte. Il testo offre una visione critica e interpretativa delle opere di Duchamp, evidenziando il loro impatto e la loro ambiguità nel contesto artistico.Trattare l'ostilità nel contesto dell'arte moderna e la relazione tra artisti e pubblico. Viene menzionato come l'ostilità sia un elemento chiave del modernismo e come gli artisti possano essere classificati in base all'intelligenza, allo stile e alla profondità con cui mostrano questa ostilità. Si evidenzia che, nonostante in passato l'ostilità sia stata volgare o compiacente, attualmente si tratta di un conflitto ideologico sui valori dell'arte e dello stile di vita ad essa associato. Si menziona anche che l'ostilità serve a mettere il pubblico in condizione di trascendere l'insulto e prendersi la rivincita, con la selezione come arma della vendetta. Si parla di un rapporto ambivalente tra artista e pubblico, con proiezioni positive e negative che oscillano tra farsa e tragedia. Nel contesto più serio, si afferma che il rapporto tra artista e pubblico può essere interpretato come una prova dell'ordine sociale attraverso propositi radicali assorbiti successivamente dal sistema istituzionale. Lo stile viene indicato come lo strumento principale di questo assorbimento. Si suggerisce che chi ignora il ruolo critico dell'arte d'avanguardia nel mondo contemporaneo non comprende il suo ruolo nel mettere alla prova e sfidare l'ordine sociale. Si menziona anche il ruolo dell'ironia e della farsa nel mitigare l'ostilità classica tra artista e pubblico. Il passaggio finale sembra affrontare il ruolo delle gallerie d'arte, descrivendo come possano emettere energie negative e trasformare l'estetica in una forma di elitarismo sociale. Si menziona l'idea di un pubblico esclusivo, oggetti d'arte quasi indecifrabili e l'associazione con lo snobismo sociale, finanziario e intellettuale. L'estratto discute la natura della galleria d'avanguardia, presentando la sua essenza come un luogo in cui le convenzioni dello studio e del salotto si incontrano su un terreno neutro. Si sottolinea come l'artista ostile sia un elemento cruciale per il commercio artistico, alimentando l'immagine romantica dell'artista irresponsabile per agevolare l'acquisto delle opere. Si suggerisce che l'arte del tardomodernismo sia intrinsecamente influenzata dai presupposti borghesi, e si evidenzia il cambiamento degli atteggiamenti negli anni settanta, con un focus più sugli atteggiamenti verso il sistema artistico ereditato rispetto alle opere stesse. L'autore indica che l'arte degli anni settanta si concentra sulle alternative e sul mettere in discussione il sistema artistico, spostando l'attenzione dai prodotti artistici ai progetti e ai gesti. Si sottolinea la diversità e l'eterogeneità dei generi artistici degli anni settanta, con un'attenzione particolare alla democratizzazione del medium e alla ricerca di verifiche progressive. Con l'avvento del Postmodernismo, lo spazio espositivo perde la sua neutralità, e la galleria diventa una membrana attraverso cui si mescolano valori estetici e commerciali. L'analisi si conclude con una riflessione sulla parete bianca come emblema dell'estraniamento dell'artista dalla società e come costrutto che rappresenta i valori della società stessa. Si esplorano le sfaccettature del white cube, da un lato simbolo di preservazione e incubatore di idee radicali, dall'altro come costrutto economico basato galleria, simboleggiando un "mondo senza dimensioni". Questo atto ebbe profonde ripercussioni, rivelando un metodo nella follia di Klein e svelando come il modernismo sapesse ricreare i suoi momenti più significativi dalle fotografie. Successivamente, altri gesti seguirono, come quello di Arman nel 1960, riempiendo la galleria di rifiuti. Questo gesto segnò un cambiamento, separando lo spazio espositivo dal suo contenuto e aprendo la strada a una serie di gesti che sfidarono i limiti della galleria. I nuovi realisti furono i precursori di tali gesti alla fine degli anni '50 e negli anni '60, affrontando una situazione critica nella scena artistica parigina, coincidendo con il declino di Parigi e l'ascesa di New York. Gesti come quelli di Spoerri, che vendeva prodotti alimentari come opere d'arte, o l'opera di Warhol con i cuscini argentati alla Leo Castelli Gallery, dimostrarono una consapevolezza più sottile della politica della galleria. Mentre la storia di questi gesti si sviluppava, emergeva un'interessante intersezione tra politica, estetica e mercato, con la galleria come luogo di lotta di potere attraverso varie espressioni artistiche e strategie. Andy Warhol, con la sua astuta relazione con la ricchezza, il potere e l'eleganza, trae ispirazione dalle fantasie dell'innocenza americana, diversa dalla capacità europea di individuare il nemico. L'innocenza americana, alimentata dalle delusioni delle recenti avanguardie di successo, si scontra con il materialismo europeo attaccato da gesti provocatori come l'assassinio di una Mercedes bianca da parte di Arman. Negli Stati Uniti, gli atti anarchici sono inefficaci poiché sfidano l'ottimismo ufficiale generato dalla speranza, e la loro bassa forma e mancanza di stile li relega all'oblio. L'avanguardia americana, nonostante alcuni eccessi, non attacca il concetto di galleria, se non per promuovere, temporaneamente, il trasferimento all'aperto (Land Art). In America, il materialismo è un bisogno spirituale che non si rinuncia facilmente, poiché l'uomo che si è fatto da sé e l'oggetto fatto dall'uomo sono considerati affini. La Pop Art, con la sua combinazione confusa di indulgenza e critica, riflette i piaceri materiali della borghesia e il piccolo bisogno spirituale. Nel contesto americano, la critica del successo materiale può sembrare derivare da una forma raffinata d'invidia per l'artista, incarnata nell'opera, che diventa il veicolo della sua alienazione. La galleria, spazio espositivo asettico, diventa il luogo in cui l'arte diventa un sintomo di disturbo nel corpo sociale. Artisti come Daniel Buren cercano di contestare il sistema della galleria attraverso gesti radicali, come il sigillo della galleria Apollinaire a Milano con strisce verticali. Buren vuole stimolare i sistemi del mondo attraverso il suo segno distintivo, le strisce, che neutralizzano il contenuto e diventano un emblema di consapevolezza. Questi gesti cercano di rispondere a domande cruciali sull'assimilazione sociale dell'arte, ma la galleria rimane un luogo che inghiotte e neutralizza il significato, un terreno dove arte, stile e cultura si intrecciano in una danza complessa. Nel dicembre del 1969, l'evoluzione concettuale della galleria raggiunse l'apice con un gesto di Robert Barry. Attraverso Art Project Bulletin m17, Barry annunciò che durante una mostra la galleria rimarrà chiusa. Quest'idea si concretizzò presso la Eugenia Butler Gallery di Los Angeles nel marzo successivo, quando la galleria fu chiusa per tre settimane con un cartello all'esterno che comunicava la situazione. Barry, noto per utilizzare mezzi minimali per stimolare la mente oltre il visibile, propose uno spazio invisibile, abbandonato sia dall'occhio che dallo spettatore, penetrabile solo dalla mente. Questo spazio, all'interno del quale tutto diventava un ostacolo alla percezione, sfidava lo spettatore a contemplare la cornice, il piedistallo e il collage, rendendo la sua idea dell'arte un elemento chiave. Negli anni sessanta, la tendenza al raddoppiamento dei sensi, supportata da figure come Henry David Thoreau e Marcel Duchamp, divenne un segno distintivo del periodo. Questo fenomeno, chiamato "vedere la vista", permetteva alla vista di contemplare se stessa, nutrendosi del vuoto e riflettendo l'occhio e la mente per attivare i propri processi. Nonostante questo potesse generare interessanti forme di narcisismo percettivo e semicecità, gli anni sessanta si concentrarono principalmente sull'abbattimento delle barriere tra colui che percepisce e ciò che viene percepito. Attraverso gesti estremi, come l'arte sperimentale di Lucy R. Lippard a Chicago e il progetto di Christo di impacchettare il Museum of Contemporary Art di Chicago, si cercò la trascendenza attraverso l'eccesso e l'isolamento mediante la dialettica e la proiezione mentale. Questi gesti, sebbene aspirassero alla trascendenza, trovano il loro opposto in opere realizzate in modo più accomodante. In questo periodo, la gestione di Jan van der Marck al Museum of Contemporary Art di Chicago, che coinvolse Christo in un'operazione di impacchettamento, rappresentò una collaborazione audace tra artista e direttore di museo. Questa iniziativa fu considerata leggendaria e si distinse come un periodo senza eguali tra i curatori degli anni sessanta, poiché van der Marck si fece cocreatore dell'opera, offrendo il museo come oggetto d'analisi in modo conforme alla pratica modernista. Christo e la sua opera di impacchettamento rappresentano una sorta di parodia delle trasformazioni sacre dell'arte, sebbene il processo sia imperfetto, portando a una perdita e mistificazione dell'oggetto. La morfologia distintiva della struttura scompare, sostituita da una sagoma generica che alimenta l'illusione di comprensione. Esaminiamo il caso specifico dell'Impacchettamento dell'uca di Chicago, analizzando il processo e il prodotto. L'opera di Christo va oltre i temi estetici, inserendosi nel contesto sociale e impegnandosi in una mediazione politica. Questo coinvolge non solo il mondo dell'arte ma anche il pubblico, spesso distante dall'arte. L'opera è sia d'avanguardia, coinvolgendo il pubblico, che postmoderna, in quanto può adattarsi a diverse interpretazioni. La sua ironia, sebbene ferma, sottolinea la perdita di denaro come l'unico aspetto facilmente comprensibile al pubblico. Le opere pubbliche di Christo, simili per dimensioni agli interventi di Robert Moses, si distinguono per la loro tendenza al possesso, manifestandosi con delicatezza e insistenza. Questa combinazione di estetica avanzata, sottigliezza politica e strategie aziendali confonde il pubblico, sfidando la tradizione americana di collocare opere d'arte gigantesche in contesti sociali. L'imballaggio del Museum of Contemporary Art di Chicago simboleggia la serietà di Christo e di Jan van der Marck nel riconoscere il malessere di un'arte soffocata dalle istituzioni. Questo gesto non impacchetta solo il museo, ma simbolicamente anche il personale e le funzioni ad esso associate. Il processo coinvolge la politica, la planificazione e la sfida alle convenzioni. La singolarità dei progetti di Christo risiede nell'armonia tra la forma di presentazione e il contenuto successivo, anche se inizialmente può sembrare divertente. L'opera cerca di ottenere una comprensione più profonda del tema dell'isolamento e della struttura attraverso cui si fruisce l'arte. La sua dimensione politica emerge nel modo in cui viene attuato il processo, parodiando la struttura aziendale e coinvolgendo il pubblico nel dibattito. In definitiva, i progetti di Christo non sono semplici giochi di estetica; sono enormi parabole sovversive, belle e didattiche, che misurano la distanza tra le aspirazioni dell'arte e quanto la società autorizza. Essi sfidano la retorica di gran parte dell'arte del Novecento, imponendo la questione dell'utopia e mettendo in luce le implicazioni delle istituzioni sull'arte. Studio e galleria. Il rapporto tra il luogo in cui l'arte si crea e lo spazio in cui viene esposta Nel 1964, Lucas Samaras trasferì il suo studio da New Jersey a New York, esponendo la sua camera da letto-studio presso la Green Gallery come un'opera d'arte. Questa esposizione sovrapponendo lo spazio creativo con quello espositivo, sfidò la separazione tradizionale tra studio e galleria. La sua opera incarnava uno stile di vita frugale e disordinato, sfidando le convenzioni dell'estetica dell'arte dell'epoca. Samaras trasformò la sua camera-studio in un'opera d'arte consapevole, offrendo la sua vita privata al pubblico come un gesto da dandy. Questo gesto ricreava uno spazio d'epoca all'interno della galleria,