Scarica Inside The White Cube: l'ideologia dello spazio espositivo e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! INSIDE THE WHITE CUBE: L’ideologia dello spazio espositivo È un volume che traduce e raccoglie i saggi pubblicati dall’artista irlandese sulla rivista Artforum a partire dal 1976. Sono cinque saggi titolati diversamente che parlano dell’evoluzione e della centralità dello spazio espositivo, dal White cube modernista alla critica arrivata sino ad oggi di questo stesso prodotto dell’arte. Quando nasce il White cube così come ce lo abbiamo in mente oggi? Nasce dalla crisi di quel modello espositivo che Paul Valery odiava già nel 1923. Riportando la visita di un museo, probabilmente il Louvre, descrive il suo “sacro orrore” davanti al “disordine organizzato” e alla “vicinanza di visioni morte”. Mentre “l’orecchio non potrebbe sopportare di ascoltare dieci orchestre allo stesso tempo”, l’occhio al contrario “si trova obbligato ad accogliere un ritratto e una marina, una cucina e un trionfo, personaggi nelle condizioni e dalle dimensioni più disparate”. La sua sensibilità è pienamente modernista: bisogna spaziare tra loro le opere, restituirgli quell’unicità e quell’isolamento non garantito dall’accumulazione e dall’ambizione enciclopedica di Salon e musei. Nei Salon Ottocenteschi l’esposizione rispecchiava perfettamente ciò che l’arte modernista incarnava: la finitezza del mondo del quadro all’interno della sua cornice; un oggetto distaccato dal mondo e racchiuso nei suoi bordi, nella sua cornice. L’800 si preoccupava del soggetto e non di quello che gli stava intorno. Una rivoluzione in termini di pittura fu fatta da Monet, che con i suoi dipinti sembra portare lo sguardo dello spettatore altrove. Il soggetto impressionista è colto da uno sguardo non troppo attento, da uno sguardo distratto. Man mano che il contenuto si appiattisce e perde la sua profondità, è allora che il soggetto trabocca ai margini e con Picasso lo svuotamento è totale. L’autore dice che anche il Cubismo però è stato un movimento conservatore, ha posticipato la vitalità della pittura da cavalletto posticipandone il crollo. Il collage cubista ha spinto al di fuori i punti di fuga che si riversano nella stanza con l’osservatore. Decisivo il ruolo del collage che “saltò fuori dal dipinto per sistemarsi sul pavimento come un barbone”. In altri termini, il collage s’identifica con quella fase in cui “i molteplici punti di fuga del dipinto cubista si riversano nella stanza con l’osservatore”, in cui il piano pittorico bidimensionale esplode invadendo lo spazio reale. Lo spettatore arriva con l’arte moderna, quando sparisce la prospettiva, e sembra sia stato generato dal quadro. Nell’Impressionismo il dipinto sembrava dare istruzioni allo spettatore, sembrava indicarli la posizione da tenere, quella lontana dal quadro, infatti più egli si avvicina e più il soggetto sparisce. È con l’impressionismo (pieno modernismo) che è iniziato il tormento dello spettatore applicato poi a tutta l’arte più innovativa. Ma cos’è esattamente il white cube? Un set di elementi ricorrenti dello spazio espositivo, anzi di leggi rigorose “come quelle che presiedevano all’edificazione di una chiesa medievale” o la stanza del tesoro in una piramide. In sintesi: una stanza regolare con le finestre sigillate, i muri dipinti di bianco, il pavimento tirato a lucido, ogni oggetto d’arredamento espunto, fatta eccezione per il bancone d’ingresso, sempre più mimetizzato. L’illuminazione dall’alto è regolata in modo da creare un ambiente omogeneo e senza ombre che trasfigura le pareti bianche con un leggero tremolio. Un hortus conclusus igienico, isolato e immutabile, segregato rispetto alla realtà esterna e anelante all’eternità della forma pura. Le opere esposte, non protette ma tacitamente intoccabili, non interferiscono tra di loro. L’espressionismo astratto e il colorfield degli anni 50 sono state le pratiche che più sono state inglobate dal White cube. Anziché diventare invisibile, lo spazio espositivo acquista una presenza singolare e spettrale, come aveva capito Yves Klein quando nel 1958 inaugura Le Vide nella Galerie Iris Clert. Una galleria svuotata non è mai vuota. “Con il Vuoto. Pieni poteri”, come annotò Albert Camus nel guest book. Klein non rivendicava semplicemente lo svuotamento dello spazio espositivo come gesto artistico ma lo dichiarava saturo di “sensibilità pittorica”, immateriale quanto assimilabile – senza alcuna mediazione e come per contatto se non per contagio – dai visitatori. La galleria passa “da contenitore di oggetti a oggetto in sé”. Chi si accorge di questo e contesta per primo consapevolmente lo spazio espositivo? Duchamp negli anni tra il 38 e il 40 e lo realizza alla mostra internazionale del Surrealismo, con i 1200 sacchi di carbone (1938) e Mile of String (1942) in cui si prende il soffitto nel primo caso e rendeva impenetrabile lo spazio espositivo a causa di km di filo che attraversano lo spazio. Era la prima volta che un artista abbracciava un’intera galleria in un solo gesto, per di più mentre pullulava di opere. Da questo momento avviene una sorta di fenomeno di dispersione d’energia dall’arte all’ambiente circostante. Con il tempo la mitizzazione della galleria è aumentata. In questi gesti di Duchamp c’era la perspicace intuizione di un progetto. A chi era indirizzato lo spago? A chi doveva dar fastidio? Agli altri artisti che venivano trattati da Duchamp come carta da parati e, lo spettatore si sarebbe ricordato soltanto del faticoso percorso per avvicinarsi alle opere e scrutarle da vicino. L’ostilità nei confronti del pubblico è uno degli elementi chiave del modernismo. Il white cube immacolato e bianco è il trionfo del modernismo: uno sviluppo allo stesso commerciale, estetico e tecnologico. La parete