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Introduzione allo studio della storia medievale - P. Delogu, Sintesi del corso di Storia Medievale

Riassunto sintetico, chiaro e dettagliato del libro "Introduzione allo studio della storia medievale" di Paolo Delogu. Spiega il libro in modo semplice e vengono riportati tutti gli elementi più importanti (e anche qualcosa di più).

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 02/02/2022

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Scarica Introduzione allo studio della storia medievale - P. Delogu e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! Introduzione allo studio della storia medievale – P. Delogu 1.Storia dell’idea di medioevo – (1.1) Gli umanisti italiani e l’età di mezzo Si dice che l’idea del Medioevo, sia stata espressa dall’Umanesimo Italiano, come antitesi dell’ideale della rinascita. I letterati italiani del 400 sentirono di star vivendo un’epoca di radicale trasformazione della cultura, caratterizzata dal recupero dello spirito dell’antichità classica e della letteratura. Anche gli artisti e i progettisti d’arte ritennero di aver recuperato i valori estetici e morali insiti nell’arte antica. Letterati e artisti delinearono un itinerario della civiltà che si distendeva in tre fasi: l’antichità classica, che aveva espresso i valori al più alto grado di compiutezza; un’età di imbarbarimento e decadenza, seguita alla caduta dell’Impero Romano; e quindi la loro età, in cui erano rinati gli ideali già espressi dalla civiltà classica. L’epoca intermedia cronologicamente corrisponde a quella che è per noi il Medioevo e i caratteri con cui venne connotata, rozzezza e oscurità, sono quelli che sono stati attribuiti al Medioevo. Gli umanisti italiani sapevano però che sotto il profilo politico, istituzionale e religioso la loro epoca non rappresentava una rinascita dell’antichità, ma piuttosto l’esito di una evoluzione che aveva preso l’avvio dalla decadenza dell’Impero Romano e successivamente non aveva conosciuto cesure. Scrittori di storia, come Leonardo Bruni (1370- 1444) o Flavio Biondo (1392-1463), consideravano il corso della storia diviso tra un’età antica fino alla caduta dell’Impero Romano e una successiva età recente che giungeva fino ai loro tempi, durante la quale si erano formate le istituzioni, caratteristiche del mondo in cui vivevano: le città, i governi municipali, la Chiesa romana. Questi storici apprezzavano le novità della loro epoca senza peraltro rimuovere né condannare il corso degli eventi che aveva portato ad esse. Niccolò Machiavelli (1469-1527), per spiegare le condizioni dell’Italia del suo tempo, fece riferimento alla costituzione dei Principati regionali e del potere politico del Papato nei secoli precedenti e delineò la storia d’Italia come uno svolgimento continuo, dalle invasioni barbariche in poi. La prima designazione specifica dell’Età di Mezzo, si trova nel 1469, in uno scritto del vescovo umanista Giovanni Andrea Bussi (1414-1475) che riferendosi a un famoso umanista, Niccolò Cusano, lodò la sua conoscenza delle storie latine sia antiche che della “Media Tempestas”, cioè parrebbe intendere dell’Età di Mezzo. E’ possibile che con quell’espressione “Media Tempestas” egli volesse semplicemente indicare un’epoca più recente rispetto all’antichità classica, ma non un’epoca intermedia ben definita e conclusa. Anche altre espressioni come “Media Antiquitas”, “Media Aetas” e un po’ più tardi “Medium Aevum”, che ricorrono nel XV e XVI secolo, ebbero sia il senso di intermedio che quello di tardivo, più recente rispetto all’età classica. Insomma, non si può affermare che negli umanisti italiani, all’idea di un’età di decadenza, corrispondesse chiaramente quella più generale di un periodo storico ben distinto, tanto dal presente come dall’antichità e rifiutato nella sua globalità. (1.2) L’età barbarica nella cultura europea del cinquecento Il problema del rapporto tra antichità classica, l’età ad essa succeduta e lo stato del presente venne avvertito anche dagli Umanisti francesi e tedeschi del 500. Essi condividevano con gli italiani la consapevolezza di star vivendo in un’epoca di grande progresso intellettuale che si esprimeva soprattutto nella comprensione critica degli autori antichi e delle stesse sacre scritture, ma erano anche pienamente inseriti nelle realtà politiche, istituzionali e religiose dei loro paesi ed erano interessati all’identificazione e alla valorizzazione delle tradizioni storiche nazionali. In Francia, eruditi come Charles Dumoulin (1500-1566), Etienne Pasquier (1529-1615), Claude Fauchet (1530-1602), erano espressione dei ceti che partecipavano al governo del regno (nobiltà e giuristi) e si adoperarono a investigarne e illustrarne le tradizioni insieme con quelle della monarchia. Il richiamo all’antichità classica non aveva per loro quel valore di riferimento culturale nobilitante che aveva assunto per gli umanisti italiani. Talvolta considerarono il disprezzo per i barbari come espressione del nazionalismo italiano. Nell’età barbarica infatti, essi individuavano l’origine delle loro istituzioni politiche nazionali, soprattutto della monarchia e proiettavano su quell’epoca i loro sentimenti patriottici. Rivolsero perciò la cresciuta abilità filologica anche allo studio del diritto, della legislazione e perfino della letteratura dell’epoca feudale in Francia. Anche in Germania fin dal 400 storici, antiquari e teologi della storia, come Hartmann Schedel (1440-1514) e Johan Verge (1425-1510), considerarono con rispetto sia le invasioni barbariche che l’impero medievale come momenti di affermazione della nazione tedesca nella storia europea. La riforma religiosa di Martin Lutero consolidò la coscienza nazionale. La rivalutazione del passato tedesco faceva parte del programma educativo dei riformatori che anche nella storia cercavano sostegno alle loro istanze. Johan Sleidan (1506-1556), Filippo Melantone (1497-1560), collaboratore diretto di Lutero, suo genero Kaspar Peucer (1525-1602), composero storie universali nelle quali rivendicarono la funzione dell’Impero tedesco nel mondo cristiano e accusarono la Chiesa romana di averne provocato la rovina, riducendo il popolo tedesco in un deprecabile stato di frazionamento e marginalità politica. Anche la storia della Chiesa occupò un posto di rilievo nella cultura protestante. Filippo Melantone e altri collaboratori di Lutero finalizzarono le loro esposizioni storiche a dimostrare che la Chiesa romana era venuta meno alla missione affidata da Cristo ai suoi discepoli e attraverso una mondanizzazione sempre più accentuata, connessa all’affermazione del primato papale, aveva provocato una profonda decadenza della religione fino alla riforma di Lutero. Queste idee furono sviluppate nella Historia Ecclesiastica, progettata e realizzata dall’umanista Istriano Mathias Vlacic (1520-1575). L’opera doveva illustrare la progressiva degenerazione della Chiesa dalle origini apostoliche fino al XIII secolo, quando il papato sarebbe divenuto incarnazione dell’anticristo. L’esposizione era suddivisa per secoli o centurie e per questo l’opera viene chiamata anche Centurie di Magdeburgo (dal nome della città in cui fu progettata). Pubblicata tra il 1559 e il 1574, ebbe grande diffusione nel mondo protestante e contribuì a divulgare l’interpretazione negativa di un periodo della storia della Chiesa che nelle grandi linee corrispondeva a quello individuato dagli umanisti. Per i protestanti comunque, non le invasioni barbariche ma la mondanizzazione della chiesa (iniziata al tempo di Costantino), era la causa della decadenza. La storiografia polemica protestante aggiunse dunque una connotazione negativa ai secoli di mezzo. Tuttavia, anche essa riconosceva che in quei secoli avevano preso corpo aspetti essenziali della tradizione nazionale tedesca, come l’affermazione dei Germani e l’Impero. Insomma, il grande rinnovamento culturale prodottosi in Europa tra 400 e il 500, fece avvertire che tra l’antichità classica e il presente, si estendeva un’epoca in cui si erano prodotti fenomeni negativi e tuttavia gli storici non giunsero a considerare irrilevante tutto quello che era accaduto in quell’epoca. Essi ebbero chiaramente la percezione che molte situazioni proprie del loro mondo avevano in essa origine. (1.3) L’età di mezzo nella cultura del seicento Una più netta percezione dell’Età di Mezzo, come periodo storico definito e concluso, maturò lentamente tra la fine del 500 i primi decenni del 700. Le monarchie assolute affermatesi in Europa, favorirono l’erudizione utilizzata come esaltazione dell’antichità della Chiesa, delle monarchie e delle nazioni. La pubblicazione a stampa di cronache e di altra documentazione, tratte dagli archivi e dalle biblioteche, dove erano oramai abbandonate, costituì una delle più caratteristiche espressioni dell’erudizione europea in questo periodo. Fu sostenuta da una matura sensibilità filologica che si spirava a criteri di metodo analoghi a quelli messi appunto nelle scienze matematiche e fisiche. In Francia già Pierre Pithou (1539-1596), giurista e magistrato regio, aveva pubblicato due raccolte di antiche cronache relative alla storia di Francia tra VIII e il XIII secolo; André Duchesne (1584-1640) storico e geografo del re, nel 1616 pubblicò le cronache del ducato di Normandia; progettò inoltre e iniziò una grande raccolta di antichi scrittori di storia francese. In Germania, Heinrich Canisius (1550-1610) professore di diritto, pubblicò tra il 1601 e 1604, sei volumi di Antiquae Lectiones contenenti testi religiosi, letterari, cronistici di epoca medievale. In Inghilterra, testi medievali relativi alla storia inglese, furono pubblicati da William Camden (1551-1623) e da sr. Henry Savile (1549-1622). Il recupero e la pubblicazione della documentazione non si prefiggeva ancora lo studio del Medioevo come epoca storica ben identificata e distinta, essa mirava alla conoscenza delle imprese dei sovrani e dei popoli. Pure lo studio di quei testi mise in evidenza aspetti dell’età medievale che suscitarono l’interesse degli eruditi. Nel 1627 l’olandese Johan Gerard Voss (1577-1649) pubblicò una dissertazione sugli scrittori di storia in latino che era divisa in tre sezioni: la prima dedicata agli scrittori antichi fino al II secolo d.C., la seconda agli scrittori del periodo che andava dal III secolo al Petrarca, la terza agli storici più recenti. L’età di mezzo era identificata come un periodo autonomo della storia letteraria sia pure minore. Lo stesso Voss nel 1645, compilò un trattato sulle peculiarità di quello che chiamava “latino barbarico”, che era poi il latino del medioevo di cui riconosceva l’originalità. L’esigenza di un vocabolario specializzato per il latino dell’età più tarda, ripetutamente espressa in quegli anni, venne soddisfatta con la compilazione del Glossarium ad Scriptores Mediae et Infimae Latinitatis di Charles du Fresne du Cange (1610-1688), pubblicato in prima edizione a Parigi nel 1678 in 3 volumi. Du Cange era un cultore di studi di storia, geografia, archeologia, legislazione, numismatica relativi al passato della Francia e riversò nella redazione del glossario, le sue vaste conoscenze documentarie realizzando un vero repertorio enciclopedico di termini relativi a concetti, istituzioni, usanze, oggetti della tarda antichità e dell’età di mezzo, desunti dalla documentazione giuridica, cronistica, archivistica che la cresciuta ricerca sulle fonti, metteva a disposizione degli studiosi. Il concetto di “infima latinità” riferito alla lingua scritta nel Medioevo, evidenziava la sua collocazione tardiva rispetto al latino classico e non aveva significato spregiativo. Gran parte dell’erudizione del 600 fu dedicata alla storia ecclesiastica. Già alla fine del 500, la cultura cattolica ufficiale aveva risposto alla polemica dei protestanti con un’opera storica di grande respiro, gli Annales ecclesiastici del cardinale Cesare Baronio (1538- 1607), una ricostruzione della storia della Chiesa esposta anno per anno dalla nascita di Cristo al 1198, sulla base di una ricca documentazione che il Baronio trovava nella biblioteca Vaticana di cui era Prefetto. In essa, la Chiesa cattolica veniva difesa dalle accuse dei Protestanti, tra l’altro rivendicando la legittimità del primato Papale. In relazione alle polemiche protestanti nacquero anche gli Acta Sanctorum. Nel 1643 ad Anversa in Belgio, un piccolo gruppo di Gesuiti, animati da Jean Bolland (1596-1665), concepì il progetto di raccogliere e pubblicare le testimonianze scritte sulle vite dei santi venerati dalla Chiesa Cattolica. L’intento era quello di dare un fondamento documentario al culto dei Santi che era uno dei bersagli della polemica protestante. Il lavoro era enorme per la quantità di testi, in gran parte di età medievale, che tramandavano le vite, le passioni, i miracoli dei Santi. Un altro centro di erudizione sacra fu la congregazione dei monaci Benedettini di St. Germain des Pres, a Parigi, chiamati Maurini in memoria di San Mauro, uno dei primi compagni di San Benedetto. La regola di questa congregazione attribuiva grande importanza allo studio della storia ecclesiastica e soprattutto monastica, nella formazione intellettuale e spirituale dei monaci. Ciò favorì la pratica della ricerca storico-erudita. I Maurini perfezionarono il metodo critico filologico e non si limitarono all’analisi dei testi spirituali e letterari. Jean Mabillon (un Maurino) compì una sistematica identificazione delle caratteristiche formali e materiali dei documenti medievali, mettendo a punto un organico sistema di riferimento per l’accertamento della loro genuinità. Quest’opera intitolata “De Re Diplomatica” pubblicata nel 1681, è alla base della moderna scienza dei documenti medievali che conserva il nome di “diplomatica”. L’attività erudita dei Maurini proseguì anche nel secolo successivo estendendosi alla storia della liturgia e alla patristica greca. Sebbene per i dotti ecclesiastici non esistessero cesure nella storia della Chiesa che essi vedevano come uno svolgimento ininterrotto dalla predicazione di Cristo fino ai loro tempi, le ricerche che svolsero concorsero a mettere in luce molte caratteristiche manifestazioni della religiosità e della vita ecclesiastica medievali. Esse contribuirono a precisare l’immagine di un’epoca che pur essendo ancora considerata barbarica, cominciava ad apparire apprezzabile per le peculiari espressioni della fede. Essenziale, perché quest’epoca venisse considerata conclusa, fu la sua narrazione si estese dal II secolo (quando a suo avviso la civiltà dell’impero aveva toccato il vertice), fino alla conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi nel 1453. L’epoca medievale era compresa nel suo racconto non come periodo autonomo, ma come parte di un più vasto processo costituito dalla millenaria decadenza dell’Impero Romano. Anche la prospettiva europea rilevata ad esempio nell’opera di Keller perdeva consistenza dato che la maggior parte delle vicende narrate si svolge in oriente e così pure perse centralità il rapporto del Medioevo con l’età moderna perché manca in quest’opera la dimostrazione di un progresso, essendovi al contrario narrata la lenta estinzione di un Impero. Tuttavia, l’opera di Gibbon conteneva anche suggestioni nuove, era originale l’indagine sulla decadenza di una civiltà che implicitamente metteva in discussione la fiducia illuministica del progresso storico, anche se egli trovava buona ragione per ritenere che la civiltà europea del suo tempo fosse garantita dal ripetersi di un simile disastro. In secondo luogo, nella vicenda della decadenza dell’Impero Romano, prendevano risalto fenomeni quali l’affermazione di nuovi popoli con originali concezioni di vita o i sommovimenti rivoluzionari delle strutture politico sociali consolidate che Gibbon descriveva con una marcata sensibilità per le civiltà diverse, per i sistemi di valori primitivi e con un grande talento di narratore. L’epoca medievale finiva così per presentarsi come un’epoca che configurava valori diversi dalla civiltà moderna ma aveva una grandezza e un significato esemplare che non potevano risolversi nella condanna della barbarie. Negli stessi anni in Inghilterra si manifestavano altri sintomi di un atteggiamento inconsueto nei confronti di alcune espressioni della civiltà medievale. Nel 1762 il vescovo anglicano Richard Hurd (1720-1808), pubblicava un volume di Letters on Chivalry and Romance in cui riallacciandosi ai Memoires di La Curde, celebrava i valori sentimentali e morali della cavalleria medievale di cui aveva un’idea letteraria e idealizzata. Un atteggiamento di nostalgia per l’età medievale come mondo passato che suscitava emozioni estetiche e sentimentali, si esprime anche nella raccolta di Thomas Percy (1729-1811) edita nel 1765. Nello stesso tempo si diffondeva anche il gusto per le antichità medievali, come i ruderi di abbazie e castelli di cui era ricco il paesaggio inglese, che costituivano le testimonianze monumentali di un passato nazionale ricco di suggestione. Si avviò allora quel revival del gotico che costituisce un aspetto del gusto europeo della fine del 700 e dell’800. (1.5) Il mito dell’età medievale nella cultura tedesca Ma fu soprattutto in Germania che alla fine del 700, la concezione illuministica del Medioevo venne messa apertamente in discussione e sostituita da una diversa interpretazione del periodo. Nel corso del 700, si era prodotta una rinascita della cultura tedesca sollecitata anche dall’Illuminismo, che in Germania ebbe però caratteri particolari. Rilevante fu l’interesse per l’identificazione delle peculiarità culturali e morali del popolo tedesco sulle quali si voleva costruire una coscienza nazionale. Un’espressione storiografica di questa tendenza si trova nell’opera di Justus Moser (1720-1794) che rievoca una storia del popolo tedesco, dalle più antiche testimonianze rintracciabili nelle opere di Cesare e tacito fino a tutta l’età medievale. Egli sostenne che ogni popolo aveva un’individualità storica originale caratterizzata da un patrimonio spirituale espresso nella lingua, nei costumi, nel diritto. La peculiarità del popolo tedesco consisteva nella capacità di conciliare e fondere, individualismo e solidarietà collettiva, nell’organizzazione della società, dell’attività economica e dello Stato. Essa si manifestava già nelle istituzioni dei Germani primitivi e giungeva al culmine dell’età di Carlomagno. Successivamente la diffusione del grande possesso fondiario, la decadenza del ceto dei liberi e del connesso esercito popolare, l’affermazione delle dipendenze feudali, dell’economia monetaria e di nuove istituzioni statali, avevano provocato la disgregazione dell’originaria società germanica e la perdita dell’onore tedesco. Il Medioevo si presenta dunque come epoca storica di riferimento per la coscienza nazionale tedesca. L’idea dello “spirito nazionale” ebbe gran diffusione in Germania negli ultimi anni del 700 grazie anche alla consacrazione mistico-filosofica data da Johann Gottfried Herder (1744-1803). Ciò valse a differenziare la tradizione culturale tedesca, dall’Illuminismo francese e offrì il fondamento ideale dell’opposizione politica contro l’occupazione della Germania da parte di Napoleone. Si rafforzò la simpatia per le antichità germaniche e medievali. Adam Muller (1779-1829) indicò nell’ordinamento feudale una forma di organizzazione della società e della vita politica basata sui principi spirituali della fedeltà, della protezione, del libero servizio, da cui trovano fondamento etico la questione sociale e la stessa attività economica, in contrapposizione ai rapporti sociali meccanici utilitaristici istituiti dall’individualismo borghese. La religione cristiana nel Medioevo aveva conferito rilevanza spirituale alla coesione della società e all’autorità dei capi del popolo. L’indagine sulle peculiarità del popolo tedesco non aveva ancora implicazioni nazionalistiche e a questo si accompagnava una rivendicazione dell’inserimento della Germania nella civiltà europea. Ma anche per definire quest’ultima si fece riferimento a valori diversi da quelli illuministi, cercandone l’esplicazione soprattutto nel Medioevo. Il poeta Novalis (1772-1801) in un breve scritto intitolato la Cristianità ovvero l’Europa (1799), esaltò l’epoca che aveva preceduto la riforma protestante, in cui tutta l’Europa era stata un’unica comunità spirituale tenuta insieme dalla fede cristiana e la vita della società era stata animata da sentimenti semplici e profondi e da una sincera solidarietà basata su valori trascendenti. Il poeta e drammaturgo Friedrich Schiller (1759-1805) nelle lezioni di storia che tenne a Jena nel 1790, presentò il Medioevo come epoca in cui la libertà era stata il fondamento della società e della civiltà in contrasto con il dispotismo e lo schiavismo dell’Impero Romano. Friedrich Schlegel (1772-1829) nelle lezioni che tenne a colonia nel 1805, teorizzò una periodizzazione della storia universale in sette epoche, al centro delle quali stava il medioevo caratterizzato come epoca di ordine e di serenità spirituale, iniziata con l’incarnazione del figlio di Dio e percorsa dalla diffusione della religione e dell’amore per l’umanità. Nelle lezioni tenute a Vienna nel 1810 egli formulò nuovi motivi di apprezzamento del Medioevo come epoca poetica nella cui letteratura si manifestavano sentimenti di vitalità, grandezza, bellezza. Inoltre, superò il pregiudizio della polemica classicista e illuministica contro la cultura medievale, rivendicando a quest’ultima il merito di aver raccolto l’eredità della cultura classica e di averla trasmessa, elaborata e arricchita con il cristianesimo. L’età medievale era concepita ora positivamente, addirittura come epoca di valori esemplari. La storiografia agli inizi dell’800 si mantenne in Germania nella linea della tradizione narrativa che aveva il suo modello soprattutto in Gibbon, ma risentì del nuovo orientamento culturale trattando di preferenza temi patriottici e nazionali. Lo svizzero Johannes von Muller (1752-1809) narrò nella Storia della confederazione Elvetica, il glorioso passato del suo popolo che nel Medioevo aveva conquistato la libertà politica, un tema che ispirò anche il famoso dramma di Schiller, Guglielmo Tell (1804). La libertà Elvetica espressa nella costituzione popolare e cantonale divenne un riferimento fondamentale della cultura politica romantica e liberale. Heinrich Luden (1778-1847) nella Storia dei popoli e degli stati del Medioevo e soprattutto nella Storia del popolo tedesco vagheggiò un’epoca originaria in cui i popoli germanici sospinti da una straordinaria vitalità demografica, primeggiarono sugli altri per virtù e amore della libertà. Presto venne individuato anche l’interesse di altri periodi della storia Medievale tedesca oltre a quello delle origini. Friedrich von Raumer (1781-1873) ravvisò nell’epoca degli imperatori Svevi un glorioso momento di affermazione del popolo tedesco in Europa, come portatore di una civiltà originale e universale caratterizzata dalla fusione delle tradizioni germanica, romana e cristiana. L’intuizione del carattere complesso della civiltà medievale, anima anche le grandi indagini sulla storia del diritto compiute nella prima metà del secolo che costituiscono le prime espressioni di una pratica nuova della ricerca storica. Karl Friedrich Eichhom (1781-1854), professore di diritto delle Università di Gottinga e di Berlino, diede sviluppo a quest’intuizione ricostruendo nella Storia dello Stato e del diritto tedesco, i caratteri originali del diritto tedesco mostrando che si erano mantenuti coerenti e costanti lungo tutto il loro sviluppo storico. Il collega Friedrich Karl von Savigny (1779-1861) nella Storia del diritto Romano nel Medioevo sostenne che la tradizione del diritto romano, appunto perché radicata nella vita e nel costume dei popoli, non fu cancellata dalle invasioni germaniche ma sopravvisse nelle consuetudini popolari, entrando in rapporto con le tradizioni dei popoli invasori e producendo la nuova civiltà giuridica dell’Europa. Nei primi tre decenni dell’800, la cultura tedesca fece quindi dell’età medievale un fondamentale banco di prova della riflessione sull’identità germanica e sul suo ruolo nella civiltà europea. Venne fondato nel 1818 una Società per la documentazione dell’antica Storia Tedesca, promossa dal barone Karl von Stein, col fine di pubblicare le fonti della storia Medievale tedesca. Il progetto scientifico e editoriale fu messo a punto nel 1824 dal giovane studioso posto alla direzione dell’impresa: Georg Heinrich Pertz (1795-1876). Si sarebbe dovuta realizzare una grande collana di fonti storiche intitolata Monumenta Germaniae Historica, articolata in cinque sezioni dedicate ciascuna a un diverso tipo di documenti: Scriptores, Leges, Diplomata, Epistolae e Antiquitates. La società coinvolse presto altri studiosi nell’intento di dare un solido fondamento documentario alla ricostruzione del medioevo tedesco. I Monumenta si caratterizzarono per la maggiore sistematicità nella ricerca dei testi e per il progredito metodo critico fondato sulla ricerca esaustiva e sul confronto sistematico dei codici in cui testi medievali erano trascritti. Gli editori compirono sistematicamente esplorazioni nelle biblioteche e negli archivi dei diversi paesi europei per rinvenire l’intera tradizione manoscritta dei testi che preparavano per la stampa. Il programma di edizione intendeva illustrare la presenza germanica dovunque essa avesse avuto rilevanza storica. Negli stessi decenni furono approfondite anche la teoria e la pratica dell’utilizzazione critica dei documenti, fissando quelle che divennero le regole del metodo storico, caratteristiche di gran parte dell’800. Fondamentale importanza ebbero la ricerca e l’insegnamento di Leopold Ranke (1795-1886) grazie al quale la storia cessò di essere in Germania materia per riflessione di letterati, pensatori e filosofi e divenne un lavoro praticato da specialisti. Egli definì i criteri di metodo per l’utilizzazione delle testimonianze antiche che dovevano essere genuine, cronologicamente vicine agli eventi e avevano comunque valore e portata diversi anche in rapporto alla loro natura, alle conoscenze e alle intenzioni dei loro autori. Istituì dunque una gerarchia di valore tra le fonti. Ranke indicava come meta dello storico la ricostruzione oggettiva dell’accaduto: ciò poteva avvenire quando lo storico disponeva nel giusto ordine fonti ben identificate e ben interpretate. Sebbene egli si occupasse soprattutto dell’età della riforma e della controriforma, a lui si deve la consacrazione di un’idea già espressa da alcuni pensatori precedenti che ebbe largo seguito nella cultura storica: quella secondo cui l’universalismo cristiano del Medioevo aveva preparato e forgiato l’unità della civiltà Europa moderna. Non sorprende dunque che nel suo seminario all’università di Berlino si formassero alcuni tra i più illustri studiosi di storia Medievale dalla seconda metà dell’800: Georg Waitz (1813-1886), che successe a Pertz come direttore dei Monumenta nel 1876; Friedrich Wilhelm Giesebrecht (1814-1889); Heinrich von Sybel (1817-1895). Quest’ultimo sostenne che la politica universalistica dell’impero aveva impedito la costituzione di un forte Stato nazionale tedesco. Questo pensiero creò una vera e propria polemica con lo storico delle istituzioni Julius Ficker (1826-1902) che invece individuava, proprio nel carattere sovranazionale dell’impero medievale, la sua più rilevante caratteristica e lo strumento attraverso cui i popoli germanici avevano esercitato influenza nella storia europea. La polemica si collegava con i dibattiti in corso dopo la metà dell’800 sull’unificazione politica della Germania e sul ruolo che lo Stato tedesco avrebbe dovuto svolgere in Europa. (1.6) Romanticismo e medioevo in Francia Anche nelle altre tradizioni europee la cultura romantica considerò il Medioevo con interesse sebbene con accenti diversi dalla Germania. In Francia nel periodo della restaurazione si diffuse l’idea di un Medioevo come età di fede religiosa rassicurante e pacificatrice. Un ruolo assai importante nel creare e divulgare questa ideologia culturale ebbe Francois René de Chateaubriand (1768-1848). Altro motivo di interesse fu l’aspetto pittoresco del passato medievale. Tuttavia, la percezione storica del Medioevo non avvenne solo all’insegna dell’evasione. Nei casi più significativi essa fu animata da problematiche politiche e sociali suscitate dall’osservazione del mondo contemporaneo. Simonde de Sismondi (1773-1842), un pensatore e filosofo sociale ginevrino legato alla cultura francese, studiò le manifestazioni della libertà politica dei popoli europei del Medioevo, come espressione della loro energia morale. Egli ravvisò l’esempio più significativo della connessione tra moralità, libertà e sviluppo socioeconomico, nella vicenda dei comuni italiani cui dedicò uno scritto, per mostrare come l’ordinamento politico si fosse accompagnato alla grande espansione economica, sociale e politica dell’Italia medievale, mentre l’affermazione delle tirannidi alla fine del Medioevo avevano depresso le energie morali della nazione e causato la sua decadenza. Augustin Thierry (1795- 1856) si rivolse al Medioevo per suggestione dei romanzi storici di Walter Scott, da cui trasse il senso del carattere drammatico dell’epoca. Fra i temi egli predilesse i conflitti di gruppi nazionali opposti che intese come scontri di razze, messe a contatto da una conquista. Nella sua prima opera narrò in modo epico la lotta tra i Normanni e i Sassoni, con aperta simpatia per questi ultimi. Nel suo lavoro più famoso descrisse lo stato politico, culturale e morale della Gallia sotto il dominio dei Franchi. Thierry, che condivise le idee del socialismo incipiente, vedeva nella sovrapposizione delle razze e nelle stratificazioni politiche medievali, la prima configurazione dei problemi sociali della storia europea. Egli identificò nei Franchi gli antenati della nobiltà e nei Gallo Romani i precursori del terzo Stato. Nella sua opera il Medioevo si caratterizza dunque come un’epoca di eventi esemplari e drammatici, un’epoca anche di origini ma non certo di valori positivi. In termini analoghi lo avvertì anche Francois Guizot (1787- 1874), storico e uomo politico francese che svolse una lunga ricerca sulla formazione della civiltà europea. Anche per lui la configurazione della civiltà risultava anche dalle disposizioni della società, dall’attività economica, dagli orientamenti della morale, dalle istituzioni politiche e giuridiche ma a differenza degli illuministi considerava la civiltà non come concetto astratto ma come realtà storicamente e geograficamente individuata: come la civiltà dell’Europa e in particolare della Francia che egli vedeva come sintesi di quella europea. Il Medioevo era un’epoca di formazione ma non di piena esplicazione della civiltà europea. Egli sottolineò l’originalità delle idee e dei sentimenti, la forza delle energie sociali nel Medioevo, ma condannò le forme rozze e irregolari in cui esse si erano espresse e i rapporti sociali dell’epoca. Nel 1830 Guizot fu ministro degli interni nel governo orleanista. In tal veste si adoperò anche ad organizzare la ricerca storica in Francia: propose al re Luigi Filippo l’istituzione di un ispettore generale dei monumenti storici della Francia, avviando il censimento e la tutela di un patrimonio che in gran parte risaliva all’età medievale. Promosse inoltre la costituzione della Societé dell’Histoire de France col compito di pubblicare documenti storici inediti. Negli stessi anni il governo appoggiò la costituzione di numerose società antiquarie ed erudite anche esse dedite alla ricerca negli archivi e alla pubblicazione delle fonti storiche. Nel 1847, il suo successore al ministero degli interni, il conte di Salvandy riorganizzò e diede nuovo impulso all’Ecole des Chartes, fondata nel 1821 con il compito di formare specialisti paleografi per l’esplorazione del vasto patrimonio documentario nazionale, fino ad allora poco attiva anche per problemi organizzativi e finanziari. Ma neanche l’attività di queste istituzioni valse a fare del medioevo un riferimento privilegiato della conoscenza storica francese. Significativa a riguardo è l’evoluzione di Jules Michelet (1798-1874). Egli riteneva che lo storico dovesse mirare alla resurrezione integrale del passato e che potesse conseguirlo attraverso l’evocazione organica delle manifestazioni politiche, economiche, artistiche, religiose di un’epoca e la presentazione delle grandi personalità nelle quali si era espresso lo spirito dell’epoca. Egli considerò il Medioevo come un’epoca semplice e pittoresca secondo la diffusa opinione romantica. In seguito, indicò in esso l’epoca della formazione e dell’affermazione della nazione francese, la cui espressione più alta vide la figura di Giovanna d’Arco. Ma agli inizi degli anni 40, Michelet ebbe una forte crisi personale e politica in seguito alla quale assunse atteggiamenti polemici nei confronti della tradizione cristiana e della Chiesa cattolica, maturando invece una fede messianica nel popolo, inteso come forza rigeneratrice dell’umanità. Esaltò quindi la lotta contro la Chiesa e la monarchia di diritto divino. Quando riprese la storia di Francia (che aveva interrotto), il Medioevo gli apparve sotto una luce mutata. Non smentì le sue precedenti interpretazioni, ma dichiarò che esse si riferivano più agli ideali che non alla concreta realtà dell’epoca. Il Rinascimento gli si presentava ora come il grande periodo in cui aveva avuto origine lo spirito moderno ed egli ne tracciò una entusiastica ricostruzione. Più tardi giunse a dichiarare che bisognava risolutamente volgere le spalle al Medioevo, epoca morbosa ancora capace di corrompere gli spiriti. Le sue polemiche erano rivolte contro i contemporanei movimenti della cultura cattolica francese che si opponevano al laicismo della monarchia orleanista, rivalutavano la vita religiosa ecclesiastica e chiedevano che la storiografia dedicasse maggiore attenzione al ruolo della Chiesa e della fede cristiana nella storia europea. Un precursore di questi atteggiamenti fu Frederic Ozaman (1813-1853), docente universitario ma anche apostolo sociale fondatore dell’opera di San Vincenzo de Paoli (1833), che condusse un’appassionata riflessione su momenti decisivi della cultura medievale, colte soprattutto nelle figure di Dante, San Francesco e Tommaso d’Aquino, evidenziando il ruolo svolto in quell’epoca dal cristianesimo e della Chiesa nella formazione di una civiltà originale permeata di valori spirituali che egli considerò come il momento più alto della storia europea. Il conte Charles de Montalembert (1810-1870), giornalista e parlamentare rivendicò la diversità della Chiesa medievale rispetto a quella dell’Ancien Régime e additò nel Medioevo un’epoca ricca di umanità, passioni e grandezza fondata sulla fede cristiana. Egli compilò una Storia del Monachesimo Medievale in cui difese i meriti spirituali e culturali dell’istituzione monastica. Nello stesso contesto si pone l’attività editoriale dell’abate Jean Paul Migne (1800-1875), editore di periodici cattolici cui collaborò anche il conte di Montalembert, ma soprattutto il realizzatore di una grandiosa collezione di opere degli autori ecclesiastici latini e greci che andava dai padri della Chiesa fino ad Innocenzo III, nella serie Latina e fino al 1439 nella serie greca. Lo scopo era rendere accessibile grazie al prezzo contenuto il patrimonio della cultura cristiana antica e medievale. Egli non era un filologo ne uno storico e si limitò a ristampare le vecchie edizioni sei e settecentesche senza preoccuparsi di stabilire criticamente i testi, come facevano invece gli editori dei Monumenta. Nonostante ciò la Patrologia costituì un prezioso strumento per la divulgazione della produzione dottrinale, letteraria, storiografica del Medioevo ed è ancora utilizzata almeno come primo accesso ad opere altrimenti poco reperibili. In Inghilterra, agli inizi dell’800, l’attività storiografica continuò ad essere svolta da filosofi e poligrafi nella predizione di Robertson e Gibbon. Per quanto riguarda lo studio del Medioevo, grande risonanza ebbe lo scritto di Henry Hallam (1777-1859), pubblicato nel 1118 e tradotto in numerose lingue europee. Hallam aveva in comune con Gibbon l’ampiezza degli orizzonti di indagine, l’interesse per i sistemi di governo delle varie nazioni, la disposizione a valutare le istituzioni del passato in rapporto alla condizione dei tempi piuttosto che a criteri astratti e razionalità; condivideva inoltre la capacità di narrare la storia in modo serrato e coinvolgente. Ma a differenza di Gibbon, egli considerava il Medioevo come un’epoca storica ben definita di cui indicava e spiegava l’inizio e il termine. Soprattutto rivolgeva la propria attenzione al complesso di popoli e di Stati che costituivano l’Europa, anziché al vasto ed eterogeneo mondo uscito dalla disgregazione dell’Impero Romano. Poteva così far consistere, l’importanza dell’età medievale, proprio nel fatto che in essa si erano formate le nazioni, gli stati e la comune cultura della società europea. Organizzò la trattazione dedicando un capitolo alla storia di ciascuno dei principali Stati europei (Francia, Inghilterra, Spagna, Italia), di cui ricostruì la formazione e l’evoluzione dalle invasioni barbariche sino alla fine del XV secolo. Capitoli di carattere generale dedicò inoltre alla Chiesa romana, al sistema feudale, alla storia del commercio, dei costumi e della letteratura. Nel capitolo dedicato all’Inghilterra medievale il tema fondamentale era lo svolgimento storico del caratteristico e originale sistema costituzionale, basato sull’equilibrio dei poteri tra monarchia e parlamento. Hallam sosteneva che ai suoi tempi tale sistema era in Europa il più favorevole alla libertà e alla felicità dei cittadini. Per Hallam la peculiarità della costituzione inglese, si fondava sul principio che ogni individuo dovesse essere giudicato da un tribunale costituito dai suoi pari; un principio di sovranità diffusa e di garanzia dei diritti individuali che egli vedeva già operante nelle istituzioni degli Angli e dei Sassoni, agli inizi del Medioevo e che gli pareva ispirato da un grande amore per la libertà e la giustizia. La conquista normanna dell’Inghilterra aveva messo a rischio la libertà popolare poiché i nuovi Re avevano tendenze autoritarie. Ma indirettamente essi avevano sollecitato l’avvicinamento dei sudditi normanni e di quelli sassoni che, operando insieme, erano riusciti ad imporre ai Re un patto costituzionale, una carta della libertà rimasta nei secoli a fondamento dei diritti politici del popolo inglese e delle sue istituzioni di governo. Nella prima metà dell’800, il tema delle origini nazionali, fu molto sentito anche in Inghilterra se ne trova un eco in letteratura nei romanzi storici di Walter Scott, dove viene rappresentato con toni drammatici ed emozionanti. La riflessione storica sulle origini della nazione rimase perlopiù congiunta all’indagine sulla formazione del suo sistema costituzionale. Ciò anche in conseguenza del vivace dibattito politico che dagli anni 30 del XIX secolo, riguardò il ruolo del parlamento in rapporto ai poteri della corona e della sua funzione di presidio della libertà civile e di promotore di riforme legislative per una società in rapida trasformazione. La storiografia contribuì a questo dibattito. Francis Palgrave (1788-1861) si dedicò allo studio delle istituzioni e della legislazione dell’epoca Sassone ed estese l’indagine anche all’epoca Normanna. Egli confermò l’idea che quei primi periodi della storia inglese avevano avuto un ruolo fondamentale nella formazione della tradizione politica e delle istituzioni nazionali. Indagando sulle antiche istituzioni di governo, egli diede rilievo all’influenza della tradizione statale romana che si sarebbe conservata in Inghilterra anche dopo l’invasione degli Angli e dei Sassoni, ed avrebbe interagito con le loro istituzioni portando alla formazione di una monarchia autorevole, i cui poteri erano temperati dalla sopravvivenza delle istituzioni popolari di origine germanica. La tradizione Romana aveva favorito anche la continuità delle istituzioni, nel passaggio dal dominio Sassone a quello Normanno. Palgrave sostenne che i Normanni fecero proprio il sistema costituzionale Sassone, grazie alla sua affinità con pratiche di governo francesi. Egli ebbe un ruolo importante anche nel sollecitare la ricerca e la pubblicazione della documentazione medievale inedita. Nel 1800 era stata istituita dal governo inglese una record Commission che aveva il compito di curare la conservazione del patrimonio archivistico nazionale e renderne possibile la consultazione. Solo dagli anni 30 però questa funzione viene assolta con una certa efficacia grazie anche alle iniziative di Palgrave. Egli fu inoltre responsabile dell’organizzazione degli archivi pubblici in cui riunì fondi documentari fino all’ora dispersi fra vari luoghi di conservazione. Il richiamo alla documentazione come fondamento indispensabile della conoscenza storica è presente anche nell’opera di John Mitchell Kemble (1807-1857). Anche Kemble si dedicò allo studio dell’epoca Sassone come periodo formativo della nazione inglese. Venne facilitato dall’aver studiato filologia in Germania e per questo aveva una notevole conoscenza all’antica lingua Sassone: si deve a lui l’edizione critica del “Beowulf”, l’antico poema eroico inglese. Egli preparò anche una raccolta di documenti editi e inediti dell’epoca Sassone. A differenza di Palgrave, Kemble riteneva che i Sassoni avessero conservato le originarie tradizioni germaniche e che questa fosse la matrice anche delle istituzioni sociali e politiche dei loro regni. Lo studio della storia costituzionale inglese nel Medioevo assunse più saldo fondamento critico e metodologico con l’opera del professore di storia moderna di Oxford William Stubbs (1805-1901). Egli fu un grande editore di fonti storiche medievali per lo più pubblicate nella cosiddetta “ Rolls Series”, un importante collezione di fonti che prese avvio nel 1858. Pubblicò anche i documenti prodotti dai concili medievali della Chiesa inglese e irlandese. Contemporaneamente si dedicò allo studio della storia costituzionale inglese. Risultato di queste ricerche, fu una storia dell’Inghilterra dall’età Normanna all’epoca dei Tudor, in cui poco spazio era riservato alla storia diplomatica e militare, mentre l’interesse prevalente era rivolto all’organizzazione istituzionale del paese: le forme di governo, l’amministrazione della giustizia, la fiscalità. Anche egli riteneva che la libertà costituzionale dell’età moderna si fosse formata nel medioevo, ma rinunziando alle semplicistiche concezioni che ricercavano la genesi delle istituzioni inglese, nelle tradizioni romane e germaniche, egli sostenne che l’integrazione tra le antiche istituzioni sassoni e le istituzioni Regie di origine Normanna, si sarebbe realizzata solo nel corso del XII secolo sotto la dinastia dei Plantageneti. Le vicende del XIII secolo avrebbero dato forma istituzionale compiuta al principio della rappresentanza politica, fondamento dell’istituzione parlamentare. Il modello di parlamento definito alla fine di quel secolo sarebbe rimasto a fondamento di tutta la successiva evoluzione costituzionale inglese. La storiografia di Stubbs risente del clima culturale e politico dell’epoca Vittoriana con la sua esaltazione di valori etici consolidati e immutabili, in cui si identificava la tradizione nazionale. Altri studiosi ad Oxford, affrontano argomenti di storia medievale, dando luogo a quella che è chiamata la “scuola di Oxford”, con orientamenti ideali analoghi a quelli di Stubbs. Le origini Sassoni, il conflitto tra Sassoni e Normanni, la formazione e la storia del parlamento nei suoi rapporti con l’autorità monarchica, conservarono un ruolo fondamentale nell’indagine sulle peculiarità della tradizione costituzionale della nazione inglese. Un rinnovamento metodologico e tematico degli studi si ebbe con l’opera di Frederic William Maitland (1850-1908), giurista e avvocato che si rivolse allo studio storico di un altro aspetto della tradizione giuridica inglese: la formazione della Common law, il complesso di norme giuridiche nato dalla pratica e stratificato nel tempo che costituiva ancora la base della giurisdizione nei tribunali britannici. Avvocati e politici tendevano a considerare la Common law come un patrimonio tradizionale e vincolante, la cui formazione veniva fatta risalire ad epoche remotissime. Egli volle invece ricostruire in modo obiettivo la genesi e l’evoluzione della prassi giuridica inglese. Sostenne che i cambiamenti di regolarità nella storia costituzionale, potevano essere ammessi senza imbarazzo, poiché dovevano essere distinti dalla discussione pratica sulle finalità dell’istituzione e sulla loro riforma. Il diritto era infatti espressione della società e mutava con i bisogni e con i rapporti sociali. Questo richiamo all’obiettività e alla neutralità della ricostruzione storica risente del clima del positivismo e della sua caratteristica tendenza ad avvicinare la storia delle nascenti scienze sociali. La tradizione legale inglese doveva essere studiata oggettivamente, non per proiettare il passato sul presente o viceversa, ma per distinguere situazioni e realizzazioni all’interno di un processo evolutivo che costituiva il senso reale della storia. L’acquisizione di una documentazione sempre più ampia e puntuale era condizione essenziale per realizzare questo obiettivo storiografico. Nel 1887 Maitland fondò la Selden Society, col compito di promuovere la conoscenza delle fonti giuridiche inglesi e collaborò lui stesso all’impresa preparando l’edizione di vari complessi documentari. Egli presentò la formazione del diritto inglese come un fenomeno complesso che partiva dalle premesse sassoni ma si sviluppava attraverso successive influenze di altra origine, portate dai Normanni, dalla Chiesa, dalle scuole di diritto continentali. Solo alla fine del 200, questo complesso di esperienze contrastanti aveva raggiunto una prima sistemazione organica. L’idea di un nucleo originario di istituzioni e pratiche giuridiche sopravvissuto immutato nei secoli era dunque rifiutato. La formazione del diritto era messa in relazione con le forme della società e dell’economia, oltre che con gli schemi della formalizzazione giuridica. La costruzione della struttura giurisdizionale inglese era attribuita in gran parte all’iniziativa della monarchia, recuperando idee espresse da Palgrave e criticando la sopravvalutazione del ruolo del parlamento. (1.9) La storiografia del positivismo Nella seconda metà dell’800, si accentuò in tutta Europa l’interesse per l’acquisizione e la critica delle fonti nonché per la ricostruzione puntuale degli avvenimenti e delle istituzioni. In Germania, la storiografia universitaria accentuò orientamento erudito puntando a sempre più minuziose ricostruzioni critiche delle vicende soprattutto nel campo della storia politico diplomatica. Un prodotto tipico di questa storiografia, furono gli “Annali della storia tedesca”, grande esposizione annalistica dell’attività degli imperatori medievali tedeschi fondate su tutta la documentazione nota e dominata dall’idea della completezza e dell’esattezza. Accanto a questa storiografia, rivolta principalmente all’accertamento oggettivo dei fatti, presero consistenza e rilievo anche altri indirizzi di ricerca. La storia del diritto soprattutto nel suo settore, relativo alle istituzioni e all’ordinamento costituzionale dei popoli, ebbe particolare rilievo e anche in questo campo la Germania fu all’avanguardia. Dall’insegnamento di Savigny aveva preso avvio la cosiddetta “scuola storica del diritto” che sviluppò l’idea della natura storica del diritto e della sua naturale rispondenza alle vocazioni, ai bisogni, al genio dei popoli. Questa concezione stimolò l’indagine sulle istituzioni giuridiche peculiari del mondo tedesco, che attraverso il medioevo, si facevano risalire all’epoca delle migrazioni e prima ancora ai germani descritti da Cesare e da Tacito. Verso la metà dell’800, col diffondersi dei moti liberali che rivendicavano nuovi ordinamenti costituzionali negli Stati tedeschi, questi studi assunsero un significato politico, in quanto attraverso di essi si cercò di definire la peculiare vocazione politica del popolo tedesco, rintracciandola nella cosiddetta “libertà germanica”: un misto di individualismo e solidarismo che avrebbe dovuto trovare espressione anche nella costituzione della Germania moderna. All’interno della “scuola storica del diritto” si distinse il gruppo dei cosiddetti “Germanisti” i cui esponenti più illustri furono Jacob Grimm (1785-1863) e Georg Waitz, allievo di Ranke. Ricostruirono la storia dell’ordinamento istituzionale tedesco dagli antichi germani alle formazioni politiche medievali sulla base di una larga e sistematica conoscenza delle fonti. Nella “S toria costituzionale tedesca” di Waitz, viene presentata un’organica ricostruzione dell’ordinamento istituzionale dei popoli germanici dalle prime attestazioni fino al XII secolo. Le ricerche erudite furono accompagnate da vivaci discussioni sulla natura dello Stato medievale tedesco a proposito del quale si dibatte se esso fosse fondato su poteri generati dalle comunità di insegnamento o sul diritto autonomo del sovrano; se l’apparato delle istituzioni derivasse da funzioni di protezione e autorità, esercitate all’interno della società germanica, oppure dalla sovranità giuridica dello Stato. L’esito di quelle discussioni fu l’affermazione della natura pienamente statale dell’ordinamento istituzionale germanico del Medioevo. Verso la metà del secolo, si svilupparono in Germania anche gli studi sulla storia dell’attività economica, che trassero origine dalle discussioni sull’economia politica nazionale, per la quale si volevano identificare principi diversi e opposti a quelli del liberismo inglese. Un testo assai influente fu il “Sistema nazionale dell’economia politica” di Friedrich list (1789-1846), secondo cui la nazione era un organismo collettivo che sviluppava un’organizzazione economica peculiare. Dalla sua opera ha preso avvio la cosiddetta “scuola storica dell’economia nazionale” di cui furono esponenti Bruno Hildebrand (1812-1878), Gustav von Schoenberg (1839-1908) e soprattutto Theodor von Inama Sternegg (1843-1908), autore di una poderosa “Storia economica tedesca” il primo trattato che rechi nel titolo l’espressione “storia economica”. Essa è una grandiosa raccolta di informazioni sulla vita economica del Medioevo tedesco tratta dalla documentazione giuridica, normativa, amministrativa con particolare riferimento alla politica economica delle autorità istituzionali, ai rapporti tra condizione giuridica e attività economica delle persone, all’organizzazione istituzionale delle attività produttive. In essa vennero individuati i grandi sistemi economici che si erano susseguiti nell’età medievale: il sistema fondiario dell’alto Medioevo e quello commerciale del tardo Medioevo. Lo studio dell’economia medievale, si inquadra nella ricerca teorica sui tipi fondamentali gli stadi evolutivi dell’attività economica. Hildebrand Teorizzò tre stadi della vita economica corrispondenti ai fondamentali modi di distribuzione dei beni che si dovrebbero rintracciare nell’evoluzione economica di tutte le nazioni: economia naturale, economia monetaria ed economia creditizia. Maggior successo ebbero le teorizzazioni che ponevano l’accento sul rapporto tra strutture sociali e organizzazione della produzione e del consumo dei beni come quelle di Karl Bucher (1847-1930) che distinse economia domestica, economia di villaggio, economia cittadina ed economia di popolo. L’età medievale venne caratterizzata attraverso il prevalere di alcuni di questi tipi di economia e studiata per individuare le modalità del passaggio dall’uno all’altro. È evidente l'affinità di queste riflessioni con la teorizzazione di Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895), anch’esse fondate su una tipizzazione delle forme fondamentali dell’attività economica, definita in funzione del rapporto tra classi sociali, nei diversi modi di produzione dei beni economici. Marx identificò quattro modi di produzione: asiatico, schiavistico, feudale e capitalistico-borghese. Il modo di produzione feudale e i prodromi di quello borghese trovano la loro attuazione storica del Medioevo europeo che anche nella teorizzazione marxista aveva dunque la possibilità di essere identificato in termini di sistemi economici coerenti e di lunga durata, sebbene Marx non ritenesse che in tutti i popoli l’evoluzione socioeconomica avesse percorso contemporaneamente le stesse tappe e ammettesse la possibile coesistenza di modi di produzione diversi in una stessa epoca. Gran parte della sua riflessione fu dedicata alla definizione delle dinamiche che provocano la transizione da un modo di produzione ad un altro e in questo risiede l’aspetto politico e pratico della dottrina marxista che intendeva promuovere il superamento rivoluzionario del modo di produzione capitalistico in vista di una società socialista. Marx concepì una sorta di necessità interna che governa la trasformazione e il superamento dei modi di produzione basati sul conflitto di classe ma contemporaneamente rivendicò la spontaneità e la volontarietà dei movimenti di lotta che realizzano tale superamento salvando il ruolo dell’iniziativa umana, canalizzata nell’azione delle classi. Le teorie marxiane ebbero inizialmente scarso seguito tra gli storici e furono osteggiate dai governi per le loro implicazioni politiche. Solo nell’ultimo decennio del secolo esse entrarono nel dibattito storiografico in Germania, dove ci fu un gruppo di “socialisti cattedratici” che si dedicarono allo studio dell’origine della borghesia e del sistema produttivo capitalistico nell’economia mercantile e manifatturiera delle città medievali. Insomma, nell’età del positivismo attraverso lo studio delle società contemporanee si cercò di individuare le leggi di funzionamento e trasformazione della società umana; si affermò una concezione deterministica dell’agire umano che si ritenne fosse vincolato da fattori costanti quali la razza, l’ambiente naturale, le relazioni sociali. un altro orientamento storiografico caratteristico del periodo fu la cosiddetta “storia della cultura”, che intendeva ricostruire l’unità organica delle diverse manifestazioni della vita di un popolo. Essa si espresse al meglio nell’opera di Jacob Burckhardt (1818-1897), in riferimento ad un’epoca e ad un popolo: quelli del Rinascimento in Italia. La cultura era costituita dal complesso delle manifestazioni della politica, dell’arte, della concezione del mondo, della religione, del costume sociale e si presentava come totalità spirituale, significativa per i valori che esprimeva. L’esperienza di Burckhardt consentì di pensare anche ad altre epoche storiche, come totalità culturali significative di per sé fuori da ogni gerarchia o sequenza evolutiva. Egli stesso, in altri studi, indicò alcune connotazioni culturali dell’età medievale: l’educazione cristiana, l’organizzazione gerarchico-ecclesiastica, la collaborazione di Impero e Chiesa. Storia dell’economia, storia della società e storia della cultura si combinano nell’opera di Karl Lamprecht (1856-1915), professore nelle Università di Marburgo e Lipsia. Egli fu attratto dal rapporto tra la società e il suo territorio anche in relazione alle tesi del geografo Friedrich Ratzel, sull’influenza esercitata dall’ambiente sull’organizzazione e l’evoluzione della società umana. Studiò l’attività economica medievale ricorrendo anche all’analisi statistica. Studiò anche la produzione artistica e diede rilievo ad atteggiamenti caratteristici della mentalità medievale. Questi diversi filoni di ricerca, si ritrovano combinati nella sua prima grande opera “V ita economica tedesca nel medioevo” che descriveva l’organizzazione sociale, economica, istituzionale di una popolazione tedesca del medioevo in un territorio determinato: la valle della Mosa. Successivamente approfondì la definizione della cultura intendendola come l’insieme di società, economia, istituzioni statali ma anche di moralità, diritto, arte, religione proprio di un’epoca storica. Ogni epoca aveva una particolare fisionomia culturale che si manifestava nelle espressioni sociali collettive, mentre il valore delle espressioni individuali era assai meno significativo. Lamprecht cercò anche di identificare le leggi oggettive che governano l’evoluzione delle culture, in piena consonanza con gli orientamenti del positivismo sociologico. In un primo tempo, influenzato dal pensiero di Marx, le cercò soprattutto nei rapporti economici. Queste concezioni vennero messe in pratica nella sua Storia tedesca una ricostruzione globale della storia tedesca nel medioevo e nell’età moderna, presentata come una sequenza di Stati culturali successivi. In seguito, approfondì e precisò il fondamento teorico della sua concezione degli Stati culturali, prendendo le distanze dalla teoria marxista e accogliendo invece le teorie della psicologia collettiva che venivano elaborate in quegli anni da Wilhelm Wundt, il fondatore della psicologia sperimentale e della psicologia dei popoli. Lamprecht Sostenne allora che gli stadi culturali erano determinati da atteggiamenti psicologici collettivi che si succedono in ordine costante. Egli perciò divise la storia tedesca in: epoca animistica (pre-medievale), epoca simbolica (fino al X secolo), epoca tipologica (dal 10º al XIII secolo), epoca convenzionale (dal 13º al XV secolo), epoca individualista (dal 15º al XVIII secolo), epoca soggettivistica (XIX secolo). lo stesso Repubblica, il Medioevo come l’epoca in cui si era sviluppata l’aspirazione ad organizzare l’intera società in un’unica entità politica e spirituale, volta alla realizzazione degli ideali cristiani sotto la guida di due grandi istituzioni universali: l’Impero e il Papato. Quest’ideale venne meno nel XV secolo sostituito dalla nuova realtà politica dell’Europa degli Stati nazionali. Va ricordato ancora, un orientamento degli studi di storia costituzionale sviluppatosi anch’esso tra le due guerre che intese contrastare l’impostazione formalistica della storia delle istituzioni germaniche e medievali che si era affermata alla fine dell’800. Il principale esponente è l’austriaco Otto Brunner (1898-1982) che sostenne l’inadeguatezza di ogni interpretazione delle istituzioni medievali attraverso le categorie del pensiero giuridico moderno. Egli sottolineò l’originalità delle concezioni giuridiche medievali e ritenne necessario definire la natura e le funzioni delle istituzioni, in rapporto allo sviluppo complesso e spontaneo delle forze sociali in lotta per il potere. Nella prima metà del 900, alcuni esponenti della storiografia francese svilupparono le suggestioni della “Revue de Synthese Historique”, dando loro concreta attuazione. Si tratta di Lucien Febvre (1878-1956) e di Marc Bloch (1886-1944), che nel 1929 fondarono una rivista intitolata “Annales d’histoire Economique et Sociale”, per promuovere nuovi orientamenti di ricerca storica. Essi propugnavano lo studio della società, della sua organizzazione, in rapporto ai sistemi economici ed altri atteggiamenti mentali, come campo di una storiografia concreta e impegnata. Sollecitavano anche il ricorso alle testimonianze che potevano fornire la geografia, l’archeologia, le tradizioni popolari, l’iconografia per superare i limiti delle fonti scritte. Il primo dedicò la maggior parte alla sua attività di studioso al 500, ma Bloch fu medievista. Egli studiò il carattere sacrale attribuito ai sovrani nel Medioevo come espressione di un atteggiamento psicologico collettivo che poteva essere compreso e spiegato con riferimenti tratti dall’etnologia, dal folklore oltre che con le circostanze e la convenienza politica del tempo. Interpretò le forme caratteristiche del paesaggio rurale francese attraverso la ricostruzione dell’insediamento del regime proprietario, delle consuetudini giuridiche del mondo rurale fra l’XI e il XVIII secolo, facendo convergere diverse discipline nell’analisi di una realtà storica concreta e presente. L’opera più nota e complessa di Bloch è la Società Feudale, in cui egli puntò alla presentazione globale della società francese dal IX al XIII secolo, vista soprattutto nei legami di solidarietà e dipendenza tra gli uomini, nelle forme dell’organizzazione sociale, nelle raffigurazioni mentali che tenevano insieme e modellavano la società. L’attenzione della ricerca storica si è così rivolta all’osservazione dei sistemi sociali economici e culturali, spesso identificati in definiti ambiti geografici, oltre che cronologici, per comprenderne la costituzione interna (la struttura), facendo riferimento all’esperienza e ai modelli interpretativi forniti dalle scienze sociali ed economiche. Grande influenza in questo orientamento di studi ha avuto il francese Fernand Braudel (1902-1985), studioso dei rapporti tra quadri ambientali e vita storica delle società, delle strutture socioculturali, delle relazioni tra le economie regionali nei sistemi mondiali indagati nelle situazioni del passato. Un importante riferimento per la storiografia sociale è stata la rivista “Past and Present” fondata nel 1952 da un gruppo di storici inglesi che hanno applicato le teorie marxiste sottoposte a verifica e puntualizzazioni e interpretate ricorrendo anche alle risorse dell’analisi sociologica, della demografia, dell’antropologia economica. Un’altra rivista in cui la storiografia sociale ha trovato una sede, un punto di coordinamento e promozione è stata “Annales” che dopo l’epoca di Bloch e Febvre, sotto la direzione di Braudel, ha proposto alla ricerca storica di proiettare nello studio del passato le problematiche della sociologia, della psicologia, dell’antropologia, dell’analisi delle mentalità collettive elaborate dalle scienze chiamate ormai umane, piuttosto che sociali. Recentemente nuovi ordinamenti teorici, diffusi soprattutto negli Stati Uniti, hanno avuto ripercussioni anche nella ricerca storica e tra l’altro in quella sul Medioevo: si tratta del cosiddetto decostruttivismo che nega la possibilità di una ricostruzione oggettiva del passato, in base alla considerazione che le fonti sono in realtà discorsi costruiti secondo codici linguistici e comunicativi del tutto svincolati alla realtà dei fatti. La funzione dello storico si arresta dunque alla lettura del testo, di cui può mettere in luce la costruzione intima e il rapporto con il contesto culturale in cui ha avuto origine, senza però proporsi di risalire da esso alla realtà degli accadimenti. 2.Il problema della periodizzazione – (2.1) Unità e varietà dell’epoca medievale La consuetudine di articolare in periodi distinti il flusso continuo degli accadimenti umani e di considerare i periodi come quadri di riferimento della conoscenza storica, non ha carattere completamente arbitrario e non riposa soltanto su necessità di origine pratico. La periodizzazione presuppone la formulazione di un vero e proprio giudizio storico e cioè l’identificazione di alcune caratteristiche essenziali nell’organizzazione e nella vita della società del passato che possono essere riscontrate in modo durevole e per periodi di tempo abbastanza lunghi, con un rilievo tale da diventare fattore di individuazione rispetto ad altri periodi in cui le stesse caratteristiche sono assenti o meno significative. Periodizzare comporta, mettere in luce i caratteri generali e i ritmi di trasformazione delle esperienze storiche compiute dalle società del passato, individuando le permanenze strutturali al di sotto del perenne mutamento quotidiano. Non esiste una ricetta precostituita per compiere operazioni di periodizzazione storica. Lo storico che intende cimentarsi in questo modo di caratterizzare il passato, deve scegliere i criteri in base ai quali identificare gli aspetti significativi di un tratto del tempo storico e le ragioni del loro manifestarsi e perdurare. L’operazione di periodizzazione non è un fine primario o necessario della riflessione storica. Anzi su di essa si sono messe in luce molte riserve, mettendo in rilievo l’arbitrarietà che è certamente inerente alla suddivisione concettuale di un processo, quale la vita degli uomini e delle società, nel passato come nel presente che nella realtà non conosce salti; ma anche osservando che il giudizio di periodizzamento rischia di essere impossibile ed erroneo sotto il profilo logico, perché i ritmi e i tempi con cui evolvono le diverse attività e funzioni della società non coincidono necessariamente; istituzioni politiche e sistemi economici possono seguire ritmi diversi e suggerire tante periodizzazioni settoriali che potrebbe essere impossibile armonizzare in una periodizzazione generale del corso della storia. E’ del resto divenuto consuetudine distinguere nell’organizzazione e nel funzionamento delle società umane, componenti che si collocano a diversi livelli, ciascuno dei quali evolve con ritmi temporali differenti. Vi sono aspetti della fenomenologia sociale condizionati dall’ambiente naturale biologico che fino all’avvento delle tecnologie moderne sono mutati con estrema lentezza così come possono permanere a lungo certi condizionamenti culturali e tradizionali. Queste componenti di fondo si distendono su una durata lunga che può essere più che secolare e cambiano attraverso grandi ma rare crisi. Vi sono poi aspetti della vita sociale che si sviluppano in lassi di tempo che vanno da qualche decennio fino alla durata media della vita di un uomo. Ne fanno parte ad esempio i cicli della produttività economica o forme di organizzazione politica e statale che hanno cause di evoluzione proprie determinate dal comportamento collettivo degli individui. Infine, sulla superficie di queste realtà si collocano gli eventi, le azioni degli uomini che costituiscono il tessuto continuamente mutevole delle situazioni e dei rapporti che animano la vita quotidiana. L’identificazione della diversa durata dei fattori che interagiscono nella configurazione storica della società è un altro ostacolo alla periodizzazione, ma nello stesso tempo conferma che il divenire storico non è uniforme ma conosce cicli e crisi in rapporto ai quali può essere distinto in fasi, caratterizzate ciascuna da situazioni di fondo durevoli e coerenti. Le riserve teoriche non tolgono perciò valore allo sforzo di indicare fasi omogenee e significative del divenire storico, non solo a fini descrittivi e classificatori ma anche per comprendere meglio i rapporti che legano tra loro le diverse manifestazioni dell’attività storica delle società; le connessioni tra gli aspetti di lunga, media e breve durata nella configurazione della civiltà umana; le ragioni infine e i tempi di mutamento dei caratteri fondamentali della società. Tutte le riserve pongono condizioni più severe a questa riflessione, ne limitano gli arbitrii chiedendo che essa faccia riferimento a concezioni generali relative alla natura e al funzionamento della società umana, sollecitano giudizi articolati e complessi. Perciò svolgono una funzione positiva sulle operazioni di cui tenderebbero a negare la validità. Questo concetto è un prodotto della riflessione storica iniziata a partire dal 400. Non si tratta di inventare una periodizzazione nuova ma piuttosto di vedere se quella risultante dalle prese di posizione della cultura europea, può ancora essere utile per interpretare il corso della storia. Non è più possibile indicare una data precisa per l’inizio e per la fine del Medioevo, né privilegiare una categoria di fenomeni come più significativa di altre, né suggerire la scansione dei tempi. L’emergere dell’epoca e la sua conclusione andranno ravvisate in una fascia cronologica ampia estesa su più secoli, nella quale si intensificano e si addensano i sintomi di trasformazioni sostanziali in più campi nella fenomenologia storica. L’inizio del Medioevo si può collocare dal IV al VII secolo in cui si verificarono successivamente l’istituzionalizzazione del cristianesimo, le invasioni barbariche, la fine del sistema economico imperiale. Questo periodo non presenta ancora i caratteri propri del Medioevo, esso rientra per gran parte nell’antichità, sia pure in quell’ultimo lembo di essa che oggi viene definito “tarda antichità”, termine che ormai ha preso il sopravvento su quello di “basso impero”, in cui era implicito un giudizio negativo. L’anno 476 che tradizionalmente è stato assunto come data simbolo della fine del mondo antico, non ha in questa prospettiva grande significato. La deposizione dell’ultimo imperatore romano d’Occidente, non ebbe particolare risonanza tra i contemporanei che semmai avvertirono una cesura storica ideale negli anni intorno alla metà del V secolo, quando si consumò la separazione morale e politica della parte orientale dell’impero da quella occidentale e divenne concreta la prospettiva dell’inarrestabile dilagare dei barbari con il sacco di Roma, compiuto dai vandali nel 455. Per delineare il mutare dell’epoca si dovranno prendere in considerazione i prolungati squilibri socioeconomici determinati nella società europea da una crisi demografica, avviata già nei primi decenni del 300 e durata fino al 400 inoltrato e da una lunga serie di crisi economiche, anche essa durata più di un secolo e mezzo che depresse gravemente le condizioni di vita in tutte le regioni europee. A questi aspetti si devono aggiungere, la perdita di prestigio delle istituzioni su cui si erano fondate l’organizzazione politica e la coesione sociale (il papato, l’impero, la nobiltà cavalleresca) e la diffusa aspirazione a nuovi valori religiosi, etici e a nuovi criteri di verità. Anche su questo versante la fine di un’epoca e gli albori della successiva, l’età moderna, si sovrappongono e possono venire distinti prevalentemente in funzione del punto di vista da cui vengono osservati i fenomeni. Il sistema sociale e quello culturale mutarono ma non furono sovvertiti. Molti aspetti sia in campo economico che politico, evolvono con continuità tra Medioevo e prima età moderna: le istituzioni statali si svilupparono senza rilevanti discontinuità tra la fine del 200 e gli inizi del 500; il sistema economico fondato sull’equilibrio tra attività agraria e capitalismo commerciale, alimentato da una produzione manifatturiera concentrata in aree geografiche ristrette, mantiene i suoi caratteri fondamentalmente immutati, nonostante le ripetute crisi settoriali e talvolta li razionalizza e ristruttura. Un periodo storico si individua, non tanto come lasso di tempo tra due cesure epocali, quanto come durata entro la quale permangono evidenti strutture economiche, orizzonti mentali, sistemi culturali e politici. Gli stessi riferimenti in base ai quali si è distinto il Medioevo dall’Antichità e dall’età Moderna, manifestano con la loro diversità che quest’epoca non è unitaria. Il Medioevo venne definito come periodo storico unitario in relazione alla presunta barbarizzazione della cultura letteraria, dei costumi e delle istituzioni. In questa sommaria concezione umanistica e illuminista, effettivamente si attribuiva a tutto il periodo lo stesso tratto dominante caratterizzante. L’approfondimento degli studi e il passaggio da una sommaria valutazione ideologica alla precisazione delle situazioni concrete, mise presto in evidenza che i 1000 e più anni che rientrano nel Medioevo, non sono affatto caratterizzabili in modo uniforme. L’idea della sostanziale diversità tra la prima e la seconda parte del Medioevo, si precisò e si riempì di contenuto attraverso gli studi storici dell’800 e del 900. Soprattutto la prima parte, caratterizzata dall’insediamento dei Germani nel territorio dell’Impero Romano, dal predominio dei ceti militari, dall’economia signorile e dalle prime sintesi culturali e istituzionali, parve segnata da una coerenza che la definiva come un momento con caratteri propri. Quel complesso di secoli venne globalmente indicato come “Primo Medioevo” o “Alto Medioevo”. Specularmente si misero in evidenza anche i caratteri tipici degli ultimi secoli del Medioevo, consistenti nella complessa articolazione della società distinta ormai in ordini e classi diverse e spesso contrapposte, nella crisi dell’unità cattolica sia sotto il profilo ecclesiastico che sotto quello culturale, nella depressione economica di cui già si è parlato. I secoli dalla seconda metà del 200 fino al 400 vennero complessivamente riuniti sotto l’indicazione di “Tardo” o “Basso Medioevo”. Restava per un consistente gruppo di secoli (dall’XIº fino circa alla metà del XIIIº) in cui le preminenti caratteristiche storiche non potevano essere completamente assimilata a quella dell’Alto né a quello del Basso Medioevo. Al centro di quel periodo, il XII secolo si presenta come il momento in cui il Medioevo esprime una civiltà originale, armonica e consapevole in tutti gli aspetti della vita sociale, così come nella letteratura e nell’arte. Non a caso il XII secolo è stato considerato come il primo Rinascimento nella storia europea. I secoli centrali del Medioevo presentano dunque un’autonoma coerenza, pari a quella riconosciuta ai due blocchi di secoli tra i quali si collocano. È nata quindi la consuetudine di considerare il corso del Medioevo, articolato in tre fasi indicate in Germania e in Inghilterra come: Primo Medioevo, Alto Medioevo e Tardo Medioevo. In italiano si sono conservate le indicazioni Alto e Basso Medioevo, per i due periodi estremi, mentre per la parte centrale non si è ancora affermata una designazione sintetica. La storiografia italiana di fine 800 aveva caratterizzato quei secoli come “età comunale” ma questa definizione non può essere estesa a tutta la storia europea. Anche in francese manca una designazione consolidata per i secoli centrali del Medioevo che in relazione alle caratteristiche della storia nazionale, vengono indicati come “età feudale”. In realtà le tre fasi, pur configurandosi come momenti diversi e bene identificabili, possono essere considerate rispettivamente come i tempi della formazione, della piena esplicazione e poi dalla decomposizione di una stessa realtà costituita da un fascio di componenti sociali, risorse economiche, creazioni culturali che si modificarono con processi interni, fino al sopravvenire di nuove e più incisive condizioni di trasformazione con l’età moderna. L’unità del Medioevo deve essere ravvisata nella coerenza della loro evoluzione, secondo un andamento che può essere considerato come una curva che parte molto in basso, tra il VI e il VII secolo, tende verso l’alto e raggiunge il culmine tra il XII e il XIII secolo, per poi cambiare direzione volgendo verso il basso, senza però tornare ai livelli di partenza verso la fine del 400. (2.2) Il medioevo e la storia europea L’epoca medievale può essere considerata conclusa, repulsiva o affascinante a seconda delle concezioni culturali e ideologiche dell’osservatore, ma comunque significativa in se stessa. Altrimenti può essere considerata come parte integrante di un divenire più lungo, attraverso il quale si modellarono realtà ideali che sono ancora viventi e costituiscono l’identità storica dell’Europa. La prima concezione può consigliare il Medioevo come una civiltà, ponendo l’accento sull’attività creativa degli uomini in campo economico, politico e soprattutto letterario, artistico, religioso di cui restano testimonianze imponenti che ancora oggi suscitano partecipazione emotiva. In questa prospettiva non ha senso porre il Medioevo in relazione comparativa con altra epoca della storia, perché ciascun sistema di valori e raffigurazioni ha un valore autonomo. La civiltà medievale è compiuta in sé stessa. Una forma attenuata e aggiornata di questa concezione è l’analisi del Medioevo in chiave antropologica. In essa il Medioevo è studiato nelle manifestazioni ripetitive della mentalità collettiva e della cultura sociale, ossia nelle convenzioni, nei rituali attraverso i quali le società regolano i bisogni e i comportamenti a base biologica degli individui e assicurano la propria perpetuazione. Anche in questo caso non vi è la necessità di collegare in forma evolutiva i sistemi culturali medievali con quelli del mondo attuale. La considerazione del Medioevo come componente ancora vivente della civiltà dell’Europa moderna nasce invece dall’esigenza di decifrare la cultura attuale, nelle sue premesse e nelle sue implicazioni. Si fa forza in questo caso il rischio di apprezzare il Medioevo essenzialmente in quanto epoca di origine, in cui cioè caratteri e situazioni pur salienti, hanno una configurazione primitiva ed un interesse genetico, di testimonianze dell’antichità e della nobiltà di situazioni e concezioni che trovano però maturità solo successivamente. Qualunque sia il punto di vista prescelto si deve tener presente che il Medioevo è un periodo storico che ha senso esclusivamente riferito alla vicenda storica europea. L’estensione dell’idea di Medioevo ad altre società di altre parti del mondo, si fonda su un criterio di pura contemporaneità con il Medioevo europeo e non su una somiglianza di esperienze storiche. E’ dunque puramente convenzionale e sostanzialmente privo di significato parlare di Medioevo cinese o indiano; il concetto conserva qualche legittimità quando è applicato a società che furono in rapporto di scambio reciproco con la europea nel periodo medievale, come quella araba. È proprio questa pertinenza esclusiva alla storia europea che ci impedisce di considerare il Medioevo come una sezione di passato neutro. Perciò i due atteggiamenti storiografici possono in realtà essere fusi insieme per conseguire un apprezzamento più ricco e profondo del ruolo dell’esperienza medievale nella configurazione generale della storia europea. Si potrebbe dire che il Medioevo è contemporaneamente un sottosistema chiuso e una componente dinamica dell’altro più grande sistema aperto che è la fisionomia storica dell’Europa. 3.Qualche tema generale per qualificare il medioevo – (3.1) Invasioni, barbari, germani L’irruzione delle popolazioni barbariche nel territorio dell’Impero Romano, l’imposizione del dominio dei barbari sui civilizzati e la conseguente decadenza dei costumi e dei modi di vita, fanno iniziare il Medioevo con la sconfortante constatazione che la civiltà può essere sopraffatta e non ha la garanzia di prevalere e perpetuarsi. Le invasioni determinarono una situazione inconsueta. Fino ad allora il mondo della civiltà e quello della barbarie erano stati nettamente separati. L’Impero Romano era un’organizzazione politica che tendeva a corrispondere con l’estensione della civiltà; la barbarie stava intorno ad esso ma fuori dai confini. Dopo le invasioni questi due mondi convissero nello stesso spazio fisico e umano dando luogo ad un confronto diretto. In questo confronto è stato visto il senso di gran parte del Medioevo. Una lunga tradizione ha considerato la barbarie come una condizione morale, oltre che culturale, destinata a cedere a contatto di superiori tradizioni di civiltà che agli inizi del Medioevo consistevano nella religione cristiana e nell’eredità culturale classica. In questa prospettiva il processo formativo della discussione dei limiti dell’autorità investì anche le teorie teocratiche propugnate dalla Chiesa negli ultimi secoli del Medioevo. Esse davano luogo a una sorta di sovranità limitata degli Stati che trasferiva alla Chiesa gerarchica la verifica finale sulla legittimità del potere politico e perfino dall’eventuale resistenza dei sudditi. Le teorie ecclesiastiche vennero contrastate sul piano teorico, rivendicando l’autonomia dello Stato, definito come società naturale che perseguiva fini propri consistenti nella realizzazione delle migliori condizioni di vita terrena per i suoi membri. Tale concezione discendeva dalla filosofia aristotelica ma i teorici politici del 300 di cui più noto è Marsilio da Padova, dedussero da essa conseguenze rivoluzionarie sullo Stato. Affermarono infatti che lo Stato era costituito dalla collettività dei cittadini, ciascuno dei quali era titolare di diritti e di doveri. Agli ordini privilegiati e al clero non era riconosciuta alcuna prerogativa politica; la Chiesa era priva di competenza nella vita dello Stato. La sovranità risiedeva nella comunità dei cittadini che la esprimeva in due modi: creando le leggi e delegando i poteri esecutivi a organi di governo, scelti liberamente, vincolati dalla volontà della comunità e revocabili. Alla fine del Medioevo si formulò dunque una dottrina della sovranità popolare anche se essa non ebbe attuazione pratica. La teoria valse comunque a contrastare sul piano teorico e giuridico le pretese teocratiche del Papato e diede occasione ad approfondimenti che avevano rilevanza pratica, come la determinazione del concetto di maggioranza o la definizione del principio secondo cui le disposizioni di governo, per divenire esecutive debbono essere approvate da coloro cui sono rivolte. (3.4) Nazioni Le nazioni sono una componente strutturale della fisionomia politica e culturale dell’Europa che ha avuto origine nel Medioevo. L’idea moderna di nazione si è configurata in versione antitetiche e ha assunto espressioni che ancora oggi conservano forte e compromettente attualità: nazione come gruppo umano caratterizzato da un’esperienza storica propria, ma in rapporto di comunicazione scambio con gli altri analoghi gruppi o nazione, come gruppo umano chiuso e tendenzialmente ostile agli altri e più o meno convinto di essere l’unico vero depositario dei connotati fondamentali dell’umanità. È questa seconda concezione che si trova documentata agli inizi, al Medioevo, nelle popolazioni germaniche, ciascuna delle quali si considerava un popolo scelto superiore agli altri. La coesione e l’identità collettiva del gruppo venivano spiegate in termini di affinità biologica, si riteneva che tutti i suoi componenti discendessero da un progenitore comune e fossero quindi consanguinei. In culture ancora pagane, l’antenato era perlopiù immaginato come un Dio o un semidio il che conferiva al popolo e alla sua unità consacrazione religiosa. Origine divina e remota veniva attribuita anche alle leggi, ai poteri di comando, ai costumi caratteristici del popolo la cui identità era dunque considerata un dato originario e immutabile espresso e perpetuato nella tradizione. L’idea di nazione come si configura nella storia europea è quindi in realtà un’eredità barbarica consolidata attraverso il Medioevo. Bisogna dire che l’idea di nazione non è sempre stata formulata in modo chiuso ed esclusivo. Nella cultura romantica ottocentesca, si lasciò cadere l’idea dei legami di sangue tra i connazionali, conservando quella che la nazione fosse comunque un corpo organico originario, caratterizzato da un proprio spirito che si esprimeva nelle Tradizioni popolari. Queste ultime avevano una fisionomia storica, ma lo spirito nazionale era in certa misura a priori rispetto alla storia. La nazione veniva dunque concepita come la dimensione spirituale e organica entro la quale potevano armoniosamente esplicarsi l’azione e la moralità dell’individuo. Anche questa concezione romantica era comunque in bilico tra il riconoscimento della dignità di tutte le nazioni e la tentazione di stabilire gerarchie e fondare su questa legittimazione degli egoismi nazionali e statali. In realtà dopo la Seconda Guerra Mondiale, la ricerca storica si è impegnata ad analizzare la struttura dei popoli nell’età delle migrazioni e i risultati della ricerca sono stati tali da mettere in discussione i fondamenti stessi dell’interpretazione organicistica delle formazioni nazionali. I gruppi che si consideravano geneticamente omogenei, erano in realtà composti da nuclei di varia origine etnica. Il richiamo all’origine comune era in realtà uno strumento culturale destinato a favorire la fusione di questi coacervi etnici che agiva per creare solidarietà politica e una nuova identità collettiva. Non sempre si raggiungeva però una stabilità etnica tale da evitare successivi frazionamenti e riaggregazioni. Inoltre, anche i gruppi più stabili e coerenti si irrobustivano aggregando nuclei etnici alogeni: come nel caso dei Franchi che assimilarono almeno in parte la popolazione gallo romana o dei Longobardi che periodicamente liberavano gli schiavi per ingrossare i ranghi del popolo. Le stesse tradizioni culturali, teoricamente immutabili, in realtà si trasformavano continuamente durante queste vicende, per reciproca contaminazione fra i gruppi che venivano a contatto. Le popolazioni germaniche dei primi secoli del Medioevo si presentano dunque come raggruppamenti plastici in continua trasformazione. Un processo definito dagli studiosi Etnogenesi, cioè formazione continua come popolo. Una stabilizzazione di questi processi nel mondo barbarico non si ebbe prima della sistemazione carolingia che favorì l’assestamento dei popoli entro territori determinati. Ma anche successivamente, lo stesso processo di continua trasformazione, si riscontra nelle nazioni che si affermano come strutture politiche fondamentali del Medioevo centrale. Esse vengono solitamente concepite come corpi nazionali già ben definiti nella fisionomia e nell’estensione territoriale che avrebbe costituito il sostegno delle monarchie, non a caso definite nazionali. In realtà nei secoli centrali del Medioevo, furono gli apparati politici e istituzionali che costruirono le comunità nazionali a partire da piccoli nuclei politici spesso di origine carolingia e postcarolingia. Nel corso del XII e XIII secolo i Re iniziarono a estendere la loro autorità oltre gli ambiti territoriali, usciti dalla decomposizione carolingia, e si adoperarono con l’aiuto dei loro seguaci militari a creare e divulgare riferimenti etici, religiosi, emozionali, attraverso i quali riqualificare una loro fisionomia e crearono motivi ideali di adesione, consenso, orgoglio nelle popolazioni che venivano comprese nell’allargata area di dominio. Il fenomeno è stato ben studiato per la Francia. La figura del Re fu consacrata facendo di San Dionigi il patrono speciale della monarchia, dando credito a miracoli che avvenivano in occasione della consacrazione; il Re stesso venne ritenuto capace di compiere particolari miracoli. La monarchia francese venne considerata erede continuatrice della tradizione di Carlo Magno e della sua lotta contro gli infedeli. I racconti dei giullari, le prediche degli ecclesiastici, le lettere regie, furono gli strumenti con cui queste idee furono divulgate. Si assicurò che tutti i sudditi del Re godevano come lui della protezione di San Dionigi e condividevano l’onore della monarchia. La terra Del re era la Francia e francesi divennero tutti coloro che vi abitavano indipendentemente dal gruppo etnico da cui discendevano. Questa qualificazione politico ideologica fu lo strumento per identificare un popolo e farne un gruppo nazionale. Anche in Inghilterra, Germania, Spagna, le monarchie costruirono e diffusero l’idea che la popolazione del regno costituisse un’entità omogenea e coerente dotata di una storia comune. Rispetto alle concezioni barbariche, la solidarietà storica diveniva più significativa della solidarietà di sangue. Dunque, anche nel Medioevo maturo le nazioni furono entità in divenire per le quali è ancora appropriato il concetto di Etnogenesi. (3.5) Il ciclo demografico L’età medievale venne definita inizialmente in riferimento ad aspetti di natura culturale. In un secondo tempo si presero in considerazione i sistemi economici. Con l’estendersi degli studi storici a campi di osservazione più larghi, si è osservato che la popolazione europea intesa come collettività biologica, conobbe un’evoluzione che si svolse negli stessi termini cronologici comunemente assegnati al Medioevo e che presenta un singolare parallelismo con la dinamica dei fenomeni culturali. L’inizio dell’età medievale coincide con una drastica riduzione della popolazione. I contemporanei lamentavano la penuria di uomini e l’abbandono delle campagne. I dati archeologici confermano le loro impressioni: numerosi luoghi abitati nel II e III secolo risultano abbandonati nel V e nel VI; molte città si estinguono; dovunque le foreste e le terre incolte avanzano. Successivamente la popolazione cominciò lentamente a crescere: lo si deduce da fatti, quali la messa a coltura delle terre, la ripresa dei traffici, cui dal X secolo si aggiunge, la fondazione di nuovi insediamenti e il dinamismo economico e sociale delle popolazioni cittadine. Grazie alla comparsa di una documentazione amministrativa e fiscale si consta che la popolazione europea continuò ad aumentare fino alla seconda metà del XIII secolo quando si stima che essa fosse quasi raddoppiata rispetto alle prime fasi di espansione e raggiungesse approssimativamente 70 milioni di abitanti. A questo livello si mantenne per qualche decennio tornando poi a diminuire a metà del XIV secolo. Il calo fu drammaticamente accelerato dalla grande epidemia di peste che nel 1348, sembra abbia causato la scomparsa di quasi un terzo della popolazione europea. Anche quando essa fu superata, la popolazione stentò a riguadagnare le perdite e anzi in alcune regioni continuò a decrescere giungendo a dimezzarsi. Solo nei decenni centrali del 400, lentamente la tendenza mutò, dando inizio a un nuovo ciclo espansivo che riguarda ormai la storia dell’Europa moderna. L’età medievale corrisponde dunque ad un ciclo demografico articolato in tre fasi: depressione- espansione-depressione, con le punte minime nel XII secolo e dopo la metà del XIV e il picco nella seconda metà del XIII. Va rilevato peraltro che la depressione del XIV secolo non raggiunse i minimi del XII e inoltre la fase involutiva alla fine del Medioevo, ebbe durata più breve di quella dell’inizio. La vitalità della popolazione europea sembra dunque complessivamente cresciuta fra un estremo all’altro del ciclo. Si constata facilmente che la visione della popolazione corrisponde a quella dei fenomeni economici e culturali nel corso del Medioevo: semplificazione, impoverimento dell’attività produttiva e della vita culturale nel primo periodo; espansione della produzione, dei commerci e delle città, fioritura intellettuale nel periodo di espansione; recessione economica, crisi sociale, involuzione ideologica nella fase finale. Dinamica della popolazione e dinamica socioculturale vanno di pari passo. I due periodi di minimo demografico sono accompagnati da ricorrenti epidemie di peste che si susseguirono a cadenza ravvicinata. Peraltro, l’epidemia del 1348 fu preceduta e seguita a intervalli di circa 10 anni da altre che compromisero la possibilità di ripresa della popolazione. Allo stesso modo l’inizio del medioevo è contrassegnato da una serie di epidemie che si manifestarono fin dal III secolo e che probabilmente divennero più gravi tra la seconda metà del VI secolo e la prima metà dell’VIII. Al contrario tra il X e il XIII secolo la peste non ebbe virulenza e frequenza altrettanto gravi. D’altra parte, si è anche osservato che le due grandi epoche di pestilenza furono contrassegnate da crisi egualmente gravi ricorrenti di carestia. I due flagelli sono connessi fra loro: la carestia indebolisce la resistenza biologica della popolazione, favorendo il diffondersi delle epidemie; queste a loro volta dissestano l’organizzazione sociale e produttiva determinando nuove carestie. Si è preso in considerazione anche la possibilità che all’origine delle crisi vi sia stato un deterioramento economico soprattutto della produzione agraria. Difficile peraltro trasformare le ipotesi in incertezze, soprattutto per l’inadeguatezza della documentazione. Tanto più difficile è individuare i meccanismi della crisi demografica alla fine dell’antichità. L’espansione demografica dei secoli centrali del Medioevo è stata invece spiegata come effetto della migliorata produzione economica, grazie all’adozione di nuove tecniche agricole e più efficienti attrezzature. Nella ricerca delle cause prime della dinamica demografica, si è proposto anche un’altra spiegazione facendo riferimento all’evoluzione climatica del continente europeo o addirittura nell’emisfero settentrionale. L’inizio e la fine del Medioevo avrebbero corrisposto a due fasi di peggioramento climatico caratterizzate dal raffreddamento della temperatura e dall’aumento della piovosità che avrebbero provocato dissesto del territorio e indebolimento biologico della specie umana, creando le condizioni per la diffusione delle carestie e delle epidemie. Invece tra il X e il XIII secolo le condizioni climatiche sarebbero state favorevoli, grazie a una moderata piovosità e all’aumento della temperatura. Ma neanche questa spiegazione può essere considerata risolutiva perché vi sono ancora molte incertezze sulla storia del clima, dato che le registrazioni degli eventi climatici sono approssimative e non coprono sistematicamente le diverse regioni europee. L’identificazione del ciclo demografico consente di attribuire alla periodizzazione un fondamento oggettivo: se l’evoluzione demografica che si è descritta costituisce un fenomeno unitario e coerente, l’età medievale trova in essa una identificazione strutturale di lunga durata nella quale si inquadrano i fenomeni culturali e sociali più caratteristici. (3.6) Europa Europa è un concetto che ha da un lato il significato geografico di spazio continentale, dall’altro quello storico culturale di complesso di popoli caratterizzati non solo dal fatto di abitare questo spazio, ma più ancora da tradizioni comuni e da relazioni scambievoli. In questa doppia accezione, Europa è un termine che compare agli inizi stessi del Medioevo, forgiato da un osservatorio settentrionale, cioè esterno ai tradizionali orizzonti della cultura mediterranea antica. Per quest’ultima il termine designava una delle tre parti del mondo conosciuto, senza attribuire ad esso alcuna caratteristica culturale, politica o ideale. Questa si legava semmai al termine “Occidente” che rapportato al suo omologo “Oriente” indicava l’ambito di una tradizione culturale distinta, all’interno della civiltà ecumenica raccolta nell’Impero Romano. Ma l'occidente imperiale non coincideva con l’estensione dell’Europa geografica. Furono gli esponenti delle culture barbariche cristianizzate a usare il termine per definire, non solo un continente, ma un insieme di popoli che condividevano qualche importante connotato culturale. Il monaco irlandese Colombano verso l’anno 600, volendo designare il complesso delle Chiese istituite nei regni barbarici occidentali, parlò delle “Chiese dell’Europa tutta”, preferendo questo inquadramento al riferimento all’Occidente, la cui accezione classica non comprendeva proprio i popoli nuovi, esterni all’impero. Questo uso di Europa ebbe successo: nel VII e VIII secolo ricorre per designare l’area continentale cristianizzata in cui si estendeva l’egemonia dei Franchi e così il termine venne inteso anche fuori di essa. Il termine “europei” si trova per la prima volta in una cronaca spagnola dell’VIII secolo dove però designa i Franchi, anche se in un contesto di lotta contro gli arabi di Spagna che attribuisce loro una funzione di rappresentanza del mondo cristiano. Questa particolare accezione del termine che attribuiva un contenuto politico ideale, al riferimento geografico, modificandone l’ambito, torna negli appellativi di “padre”, “vertice” d’Europa con cui venne salutato Carlo Magno. Europa non indicava l’intero continente ma la parte di esso che sottostava all’autorità di Carlo Magno e per questo veniva a costituire un’entità politica ideale di portata continentale. L’accentuazione di questa dimensione non cancello comunque la fondamentale consapevolezza che l’Europa era una totalità formata da parti distinte. Essa si esprime nell’interpretazione data dalla cultura barbarica, un mito che si trova nella Bibbia quello dei tre figli di Noè che dopo il diluvio si sarebbero diretti in diverse parti del mondo ripopolandolo. Il mito del progenitore comune vale qui a esprimere l’affinità tra i diversi popoli che costituivano l’Europa del tempo; la ramificazione della discendenza spiegava l’autonomia e l’individualità di ciascuno di loro. Nella stessa cultura Carolingia tornò presto la consapevolezza che i regni costituivano l’articolazione strutturale dell’impero e dopo il dissolvimento di questo, fu proprio mediante il concetto di Europa che venne indicato il complesso di popoli e regni che avevano ereditato la tradizione Carolingia e seguitavano a formare l’ambito di relazioni politiche preferenziali e di valori religiosi e culturali comuni che l’impero Ottoniano cercò di egemonizzare senza peraltro pretendere di esaurirlo in se. La definizione geografica conservò la corrispondenza con un ambito di civiltà che poteva essere definito in maniera elastica includendovi anche popoli e regni esterni all’impero Carolingio. E’ stato notato che dopo il X secolo l’uso di Europa con questo significato sembra cessare e il termine recupera il puro valore di parte geografica del mondo. In realtà esso entra in rapporto con altri termini che esprimono i nuovi orizzonti della cultura ecclesiastica dopo la riforma Gregoriana, conquistatrice ed egemonizzante; essa identificava l’ambito della civiltà con quello della fede e con quello dell’autorità della Chiesa Romana che tendenzialmente si proiettavano sul mondo intero e privavano di significato i confini geografici e le distinzioni etniche e politiche. Tuttavia, pur prevalendo l’accezione geografica, il termine non perse la capacità di identificare anche una comunità di popoli, una parte della cristianità, un settore distinto e privilegiato della Chiesa universale. Lo dimostra un’altra tradizione storico leggendaria secondo cui gli apostoli si sarebbero divisi le regioni da evangelizzare e Pietro e Paolo avrebbero preso quelle che una fonte Carolingia chiama Occidente, ma che nel XII secolo vengono fatte esplicitamente corrispondere all’Europa. Restava chiaro che l’Europa come quadro di civiltà, non coincideva con l’Europa geografica: al di là dei regni cristiani si trovavano regioni ancora Barbare e che si estendevano fino all’oceano glaciale. La nozione di Europa poté recuperare attualità dal XIV secolo, in corrispondenza della crisi di prestigio delle istituzioni universali in particolare del Papato. Essa consentiva nuovamente di evidenziare l’organicità dei legami esistenti tra le nazioni occidentali non più solo politici ma economici, nonché l’omogeneità della cultura non solo religiosa ma ormai anche pagana. La stessa fede cristiana non era più rappresentata all’universalismo della Chiesa Romana, ma dalle chiese dei diversi regni incardinate nella tradizione nell’organizzazione politica delle nazioni. Perciò la concezione di Europa che si manifesta negli ultimi secoli del Medioevo non è una novità: essa conferma le intuizioni dell’inizio del Medioevo. L’Europa è una comunità di popoli che hanno tradizioni e caratteri comuni ma anche individualità propria e piena autonomia politica; questa comunità non coincide con i limiti del continente definiti dalla geografia antica. I confini orientali della comunità dei regni europei restarono a lungo imprecisati, tuttavia proprio la sostanza politico culturale del concetto consentiva di estenderlo a nuovi popoli e territori man mano che essi divenivano partecipi della tradizione comune. Nel tardo Medioevo vi fu un fattore che contribuì a precisare e consolidare la coscienza dell’identità e della solidarietà tra i popoli europei: esso fu l’avanzata dei turchi nei Balcani che portò Europa e cristianità a coincidere e di fatto a identificarsi. Inoltre, l’aggressione turca suscitò reiterate richieste di un coordinamento politico tra gli Stati europei per fronteggiare il pericolo comune. In queste circostanze ricompare il termine europei, non nel senso ristretto dell’VIII secolo, ma proprio per designare tutti i membri della comunità politica, religiosa e culturale al di sopra delle distinzioni nazionali. Formulato da Boccaccio, il termine venne espresso con piena consapevolezza e intenzionalità dal Papa umanista Pio II (1405-1464) che aveva esperienza diretta di diversi paesi europei e sperava di opporre la loro unità al nuovo Oriente dominato dai Turchi. La definizione fonti materiali si riferisce alle fonti che trasmettono informazioni prevalentemente attraverso la forma, la posizione e la funzione di un manufatto, senza escludere che questo possa contenere anche comunicazioni verbali. ● Fonti archeologiche: sono costituite da tutti i manufatti suscettibili di misurazione, numerazione, valutazione tecnologica e di interpretazione in riferimento ai bisogni della vita di individui e gruppi sociali. Vi rientrano i corredi deposti nelle tombe barbariche, le attrezzature domestiche, i residui di attività produttive, le abitazioni e gli insediamenti, gli edifici monumentali. ● Fonti numismatiche: sono costituite dalle monete metalliche coniate nel Medioevo. ● Epigrafi: L’epigrafe è innanzitutto una comunicazione verbale che però trae parte del suo significato dai caratteri formali che presenta in quanto oggetto e dalla posizione in cui viene collocata attraverso la quale svolge parte delle funzioni di comunicazione. Le epigrafi medievali vennero apposte sulle sepolture per commemorare il defunto, oppure su edifici monumentali per celebrare la loro costruzione e il loro patrono. Funzioni analoghe avevano le scritture dipinte che commentavano immagini religiose o profane esposte al pubblico spiegandone il soggetto e il significato. ● Fonti artistiche: anche la produzione artistica medievale può costituire fonte per la ricostruzione storica e non tanto nel suo specifico valore formale quanto per i programmi che guidarono l’ideazione dell’opera d’arte e per i significati concettuali da essa trasmessi. Inoltre, l’opera d’arte costituisce spesso una illustrazione di ambienti, costumi, arredi che possono documentare la realtà quotidiana dell’epoca. (4.3) La lingua delle fonti medievali Fin dei primi secoli del Medioevo, la lingua parlata si allontanò progressivamente dal latino antico assumendo caratteri originali nella fonetica, nel lessico, nella sintassi fino a dare origine alle lingue romanze e neolatine che sono sostanzialmente diverse dalla lingua da cui discendono. Ciò nonostante il latino rimase la lingua della comunicazione scritta in tutta l’Europa medievale anche in regioni come la Germania e l’Inghilterra, dove la lingua parlata non derivava da esso. Dal XII secolo si cominciò a utilizzare la lingua corrente anche nello scritto, inizialmente soprattutto per testi di natura poetica, che avevano preso la loro forma espressiva attraverso l’elaborazione orale perciò in volgare. Tuttavia, il latino rimase ancora per molto tempo la lingua della Chiesa, della scuola, della dottrina in generale e di tutte le espressioni alte della cultura. Il latino medievale comunque è diverso dal latino classico; esso ebbe una propria evoluzione grazie alla quale poté assolvere le funzioni comunicative per cui veniva impiegato. Nei primi secoli del Medioevo, l'evoluzione della lingua latina scritta è caratterizzata dalla rapida e disastrosa decomposizione delle forme classiche e tardo antiche. Fra il VI e l’VIII secolo, essa risente sia dell’evoluzione della lingua parlata sia delle crisi delle istituzioni scolastiche che avrebbero potuto bilanciare l’evoluzione linguistica spontanea. Nei paesi in cui la tradizione linguistica non era latina, come l’Inghilterra e l’Irlanda, il latino fu importato come lingua della Chiesa, restò povero e sclerotizzato anche lì per mancanza di un efficace insegnamento scolastico. Le principali caratteristiche del latino barbarico sono: la riduzione delle declinazioni a uno o due casi, la perdita di molte forme verbali sintetiche, sostituite da espressioni perifrastiche, alterazione del lessico in cui si affermarono forme e significati del linguaggio parlato e parole di origine germanica, le incertezze dell’ortografia dovuta alla mutata pronunzia di vocali e consonanti. Inoltre, venne meno la capacità di costruire periodi complessi, anche perché ormai i modelli letterari più seguiti erano gli scrittori ecclesiastici della tarda antichità che avevano consapevolmente scelto uno stile semplice per evitare la superbia letteraria e per facilitare la comprensione del messaggio religioso. Il latino dei testi barbarici si presenta dunque estremamente impoverito e scorretto rispetto al canone classico. Questa situazione comincia a mutare nella prima metà dell’VIII secolo quando in alcuni centri cittadini o monastici dell’Italia e dell’Inghilterra si ricostruirono scuole fondate sugli studi letterari. Il mutamento prese consistenza quando Carlo Magno fece dell’istruzione grammaticale e letteraria del clero e degli amministratori un programma di governo. Furono compilate grammatiche e lessici recuperando le regole del buon latino, attraverso lo studio dei grammatici e degli autori antichi, pagani e cristiani. Tuttavia, i dotti incontrano difficoltà nel ricostruire le forme classiche e le abitudini linguistiche dei diversi paesi continuarono, talvolta, ad influenzare la lingua scritta. Tuttavia, nell’età Carolingia, il latino è nuovamente corretto e diventa veicolo di una comunicazione che poteva affrontare tanto la discussione teologica quanto la narrazione storica. Dalla stessa epoca, il latino si separa dalla lingua parlata anche nei paesi romanzi ed accentua il carattere di lingua artificiale elaborata nelle scuole e riservata a usi e ceti ristretti. Rivelatore è il confronto con il latino dalle regioni in cui la riorganizzazione Carolingia non arrivò, come l’Italia meridionale, dove la lingua scritta continuò a subire la forte influenza di quella parlata. Il latino medievale tuttavia non fu una lingua morta basata soltanto sull’imitazione scolastica. Al contrario essa venne continuamente elaborata dagli scrittori e adattata a svariate esigenze funzionali, anche creando forme linguistiche sconosciute al latino classico. Dall’XI secolo la diffusa ripresa degli studi, la conseguente crescita del livello culturale, l’intensificata comunicazione tra i dotti, portarono a un padroneggiamento sempre più maturo e raffinato del latino. Se da un lato furono recuperate molte intime attitudini espressive che la lingua aveva avuto nell’antichità, dall’altro si elaborò la sua capacità di servire all’uso moderno: vennero create parole nuove ricorrendo a procedimenti linguistici classici, ma mirando a un’espressività nuova e fu curata la raffinatezza dell’espressione. Nel XII secolo, questa lingua manifesta la sua versatilità, tanto nella poesia, quanto nella prosa. Nel secolo successivo l’espressione latina evolvette ulteriormente: mentre subiva la concorrenza vittoriosa delle lingue volgari nella scrittura letteraria, il latino divenne allora la lingua della scienza, del diritto, della teologia. Esso fu semplificato e adattato a esprimere l’argomentazione logica, essenziale strumento del pensiero scientifico medievale. Si crearono nuove parole in parte desunte dal greco e dall’arabo relative ai concetti astratti della filosofia e del diritto. Peraltro, in questo uso la lingua perse splendore ma nonostante questo il latino scolastico svolse la funzione di veicolo del pensiero e della scienza, conservando quel carattere di lingua universale usato da tutti gli studenti e i dotti in Europa, per apprendere e per comunicare il proprio pensiero al di sopra della varietà della lingua parlate. 6.La documentazione giuridica Accanto alle fonti che conservano la memoria degli eventi in forma di narrazione storica, un’altra grande categoria di testimonianze medievali riguarda i diritti giuridici goduti da enti e persone per concessione di un’autorità o per accordo fra parti interessate. Tali diritti possono essere: proprietà di beni, esercizio di giurisdizioni, esenzioni e privilegi, garanzia di attività economiche. Le società organizzate hanno usato diversi espedienti per dare notorietà e sanzione ai diritti dei singoli. Per quanto riguarda il Medioevo, i Germani che invasero l’Impero Romano fondavano il pacifico godimento di un diritto, sul fatto che esso fosse stato acquisito davanti a un’assemblea di liberi che ne prendeva atto e lo garantiva in rappresentanza di tutto il popolo. Nel mondo romano invece la funzione di serbare memoria dei diritti, almeno a partire dagli ultimi tempi della Repubblica, veniva affidata alla documentazione scritta, più precisa, durevole e comoda. Una volta insediati nei territori imperiali, anche i germani accolsero l’uso della documentazione scritta combinandola con le loro procedure tradizionali. Nei regni romano barbarici se ne servirono più frequentemente le autorità pubbliche e la Chiesa, ma progressivamente il ricorso alla documentazione scritta si diffuse. Nella seconda parte del Medioevo, soprattutto dal XIII secolo in poi, esso divenne abituale in ogni territorio europeo e in ogni strato sociale. Dopo la parentesi barbarica si ristabilì dunque l’impiego dell’atto scritto come forma basilare di documentazione giuridica. Lo studio critico della documentazione giuridica si è impostato verso la fine del XVII secolo. I diritti acquisiti nel corso del Medioevo da enti ecclesiastici, signorie territoriali, famiglie aristocratiche, continuarono a essere considerati validi addirittura fino alla Rivoluzione Francese, nella cosiddetta società dell’antico regime. Per questo gli atti scritti che ne serbavano testimonianza vennero di norma conservati negli archivi di questi soggetti. Nel XVII e nel XVIII secolo rivendicazioni di proprietà, diritti e di giurisdizioni, furono spesso fondate su precedenti che risalivano al Medioevo e diedero luogo a cosiddette “guerre documentarie” nelle quali le parti interessate, utilizzavano come armi i “diplomi” cioè gli atti emanati da autorità costituite in cui ritenevano che fossero fondate e documentate le loro rivendicazioni. Proprio in questi contesti cominciò ad affermarsi l’esigenza di un’analisi critica dei documenti giuridici medievali al fine di valutare la loro testimonianza con criteri più certi. Innanzitutto, bisognava poter distinguere i documenti genuini da quelli falsi. Il documento giuridico per la sua stessa funzione di fondamento e prova di diritti è sempre stato esposto a rischio di alterazione e falsificazione. Nonostante gli accorgimenti che venivano presi all’atto della redazione per garantire la genuinità e rendere difficile le falsificazioni, già nel Medioevo vennero prodotti documenti falsi talvolta dalle stesse persone e dagli stessi uffici deputati alla redazione dei documenti autentici. L’uso di alterare i documenti o di fabbricarne di falsi continuo anche in seguito. La necessità di sottoporre i documenti giuridici a un controllo di genuinità venne dunque avvertita già nel Medioevo, ma la critica dei documenti fece progressi soprattutto con la nascita della filologia testuale umanistica. Tuttavia, solo a partire dalla seconda metà del XVII secolo si mise a punto un metodo critico per la verifica dei documenti giuridici antichi. Un caposaldo di questa ricerca è costituito dal trattato De re diplomatica, che l’erudito benedettino Jean Mabillon pubblico nel 1681. Egli fissò un complesso di conoscenze e di regole oggettive per l’analisi critica dei documenti o “diplomi” sulla base delle loro caratteristiche formali, sia nell’aspetto esteriore sia nella struttura e nella formulazione del testo. Quest’opera segna la nascita di una disciplina specialistica: la Diplomatica. Dagli atti giuridici si traggono almeno tre tipi di informazioni: uno relativo all’atto medesimo, alla sua natura e alle sue caratteristiche; un secondo sull’evento cui il documento si riferisce; un terzo relativo all’organizzazione, la cultura, le istituzioni, le pratiche delle società in cui l’atto è stato prodotto. Si è verificato negli studi sulla documentazione giuridica un allargamento di prospettive analogo a quello che ha caratterizzato lo studio delle narrazioni storiografiche medievali. I documenti giuridici sono diventati testimonianza non solo del singolo negozio giuridico e della sua registrazione ma di tutto il complesso di componenti istituzionali e culturali che confluiscono nella produzione di ogni atto scritto. I documenti studiati dalla diplomatica sono così definiti “testimonianze scritte su fatti di natura giuridica compilate nell’osservanza di forme determinate, destinate a procurare loro forza di prova”. Questa definizione comprende tanto gli atti emanati (es. “diploma” di un sovrano) quanto gli atti procedenti dalla volontà di privati relativi a diritti per i quali essi abbiano competenza (es. atto notarile). Sotto il profilo giuridico i primi sono classificati come Atti Pubblici perché l’autorità che li emana ha natura pubblica cioè esercita poteri statali. Gli altri vengono definiti Atti Privati anche nel caso in cui figuri in essi un’autorità pubblica. Pertanto, l’analisi e la descrizione degli atti pubblici e di quelli privati vanno fatte separatamente per mettere in luce le caratteristiche proprie di ciascuna categoria. Esistono anche altri tipi di documenti giuridici: ad esempio i deliberati dei tribunali (placiti) oppure gli atti degli uffici amministrativi. Anche questi tipi di documenti possono essere oggetto di analisi e studio Diplomatistico perché presentano anch’essi caratteri interni ed esterni ricorrenti. (6.1) Gli atti pubblici Il documento pubblico studiato dalla diplomatica riguarda quelle manifestazioni del potere che dal punto di vista giuridico vengono definiti “Atti di Giurisdizione Graziosa”, consistenti in concessioni o riconoscimenti di diritti di varia natura fatti da un “titolare di autorità” avvantaggio di un beneficiario. L’espressione “Titolare di Autorità” cerca di adattarsi alla situazione medievale. Per definizione, gli unici veri titolari dell’autorità pubblica sono gli imperatori e i re, che esercitano la sovranità entro le strutture istituzionali di cui sono a capo. In senso stretto dunque solo gli atti degli imperatori e dei re dovrebbero essere considerati atti pubblici. Tuttavia, vengono fatti rientrare in questa categoria anche documenti emanati da altre autorità la cui fisionomia è meno chiaramente definibile in base al diritto pubblico moderno. Ad esempio, sono atti pubblici i documenti papali anche se riferiti alla giurisdizione spirituale ed ecclesiastica e non a quella temporale. Più complesso è il caso dell’autorità che esercitavano poteri politici e giurisdizionali autonomi: i signori dei principati feudali o i vescovi e gli arcivescovi. Anche agli atti di queste autorità può essere riconosciuta natura pubblica, perché nel Medioevo si tese ad assimilare la giurisdizione formale, esercitata da personaggi politicamente qualificati all’esercizio di poteri pubblici, qualunque fosse la loro origine e il loro rapporto con la sovranità regia o imperiale. Quindi si usa “Titolare di Autorità” per indicare l’autore del documento pubblico quando agisce nell’esercizio dei suoi poteri istituzionali. Un atto pubblico doveva definire il diritto che istituiva e al contempo doveva costituire la testimonianza autentica della sua esistenza. La validità giuridica del documento derivava dall’autorità che lo poneva in essere. Ma l'atto doveva presentare anche caratteristiche formali e materiali su cui si fondava il riconoscimento della sua autenticità, inoltre esso doveva avere un aspetto esteriore prestigioso. Per conseguire questi requisiti essenziali tutte le autorità che producevano atti scritti si servirono dell’opera di scrivani professionisti. Ciò significa che in tutte le sedi di governo e di potere del Medioevo vi furono solitamente uno o più specialisti della redazione degli atti, organizzati in uffici più o meno complessi e autonomi che operavano in stretto rapporto con l’autorità. Ciò si riscontra già nei regni romano barbarici che ereditarono l’organizzazione degli uffici dai governatori provinciali dell’Impero Romano. L’organizzazione burocratica non era molto complessa: uno o più Referendari accoglievano le istanze e le suppliche degli interessati, le riferivano al Re e curavano che venissero redatti gli atti corrispondenti alla decisione del sovrano. La stesura materiale degli atti era fatta da Notarii e Cancellarii; il Referendario controllava il testo finito, lo faceva sottoscrivere dal Re e lo completava sottoscrivendolo lui stesso. Questa procedura è ben documentata nel regno Merovingio. Con l’avvento del potere Carolingio questi caratteri vennero meno: i nuovi sovrani si servirono esclusivamente di ecclesiastici per stendere i loro atti e affidarono a uno di loro la guida e la responsabilità di tutto il servizio. Causa di queste innovazioni furono probabilmente il declino dell’istituzione laica e il coinvolgimento della Chiesa nel nuovo governo. I primi sovrani Carolingi erano analfabeti ed avevano perciò bisogno di un fiduciario che controllasse per loro il lavoro degli scribi e dei Notai. Sebbene non si formasse ancora un ufficio distinto e autonomo, perché il personale addetto alla redazione dei diplomi era costituito dal clero di corte che svolgeva funzioni anche nella cappella regia, tuttavia crebbe la qualificazione tecnica dei chierici-notai; venne rinnovato e adeguato il formulario giuridico; migliorarono la lingua e l’aspetto esteriore degli atti compresa la grafia. A partire dall’820, sotto Ludovico il Pio, l’ecclesiastico posto a capo del servizio di redazione degli atti imperiali divenne un personaggio influente nella corte e spesso scelto dall’Imperatore tra i suoi collaboratori politici. Egli ebbe dapprima il titolo di Arcinotaio o sommo cancelliere, verso la metà del secolo prevalse quello di Arcicancelliere. La qualifica di cancelliere risale all’organizzazione burocratica dell’Impero Romano in cui designava il custode dei cancelli che nei tribunali separavano il giudice dal pubblico e poi per estensione il segretario che redigeva i verbali del processo. Con tale significato il termine venne usato anche nel regno Franco sotto Merovingi e Carolingi. A corte esso designò anche l’estensore degli atti regi. Dalla parola cancelliere deriva il termine “Cancelleria” che a partire dalla fine del XII secolo, indica l’ufficio deputato alla produzione degli atti sovrani. Questo termine viene usato anche in riferimento a tempi e ad ambienti in cui non esisteva ancora nelle corti un vero ufficio autonomo destinato alla produzione dei documenti. L’Arcicancelliere non partecipava direttamente all’allestimento degli: atti egli era il piuttosto capo politico che il capo tecnico del servizio. Questa seconda funzione veniva esercitata da un notaio capo che sovrintendeva all’attività degli altri notai e che spesso sostituì l’Arcicancelliere anche in quella che in teoria restava la sua funzione caratteristica nel processo di produzione degli atti, la ricognizione cioè il controllo finale sul documento completo. Dalla fine dell’età Carolingia quest’ultimo, il notaio capo, assunse sempre più frequentemente il titolo di cancelliere. Perciò nella riorganizzazione del servizio al tempo del rinnovamento dell’impero in Germania sotto gli Ottoni, la gerarchia dei funzionari di cancelleria risulta la seguente: l’Arcicancelliere era normalmente un arcivescovo, un personaggio politico di altissimo rango, collaboratore diretto del sovrano, i cui rapporti di servizio con la cancelleria si allentarono sempre di più. Suo diretto subordinato era il cancelliere, il vero capo operativo della cancelleria. Anche egli ecclesiastico sovente compensato per i suoi servigi con qualche importante carica ecclesiastica, spesso un Vescovato. Questi risiedeva a corte e riceveva istruzioni tanto dall’Arcicancelliere quanto dal sovrano; era lui il custode del sigillo con cui si autenticavano gli atti. Dal cancelliere dipendevano i notai il cui compito consisteva nel preparare il testo secondo opportune forme letterarie e giuridiche. Essi potevano poi redigerlo materialmente oppure passare o dettare la minuta ad uno scriba che provvedeva a stendere l’atto in forma compiuta. Una più accentuata divisione di competenze tra il personale della cancelleria, si riscontra solo a partire dal XII secolo, quando compaiono funzioni specializzate. Un’altra istituzione sovrana che nel Medioevo ebbe una cancelleria complessa fu il papato. Le forme e le pratiche in essa originariamente seguite erano quelle degli uffici amministrativi imperiali. Il personale era costituito da un gruppo di notai organizzati in Schola, cioè un’associazione professionale sotto la guida di un Primicerio dei notai. Dalla fine dell’VIII secolo gli atti da loro redatti venivano autenticati da alti ufficiali della curia papale, i Giudici Palatini, che svolgevano la funzione di Datari cioè apponevano in calce al documento la datazione introdotta dalla formula “dato per mano di…” col nome e il titolo del giudice operante; questa indicazione aveva la centri culturali di alto livello in cui venivano elaborate le teorie della sovranità che avevano poi avallo ufficiale. Arcicancellieri e cancellieri furono spesso personalità di spicco non solo nel campo giuridico ma anche in quello letterario. Lo studio delle cancellerie perciò non riguarda esclusivamente la loro organizzazione burocratica ma anche la personalità intellettuale e politica dei loro componenti e costituisce un aspetto della più generale studio della cultura dell’epoca. (6.2) L’atto privato L’atto privato è la registrazione scritta della volontà di uno o più soggetti che esercitano diritti o stabiliscono accordi su materie rientranti nella sfera del diritto privato. Dal punto di vista giuridico un problema fondamentale degli atti privati è quello della loro funzione in rapporto al negozio cui si riferiscono. In particolare, è importante distinguere se l’atto scritto è una semplice memoria del negozio avvenuto oppure se ha la forza di una prova cioè testimonia di per sé l’esistenza del diritto di cui tratta. In questo secondo caso l’atto privato assume validità pubblica impegna cioè la società a riconoscere i diritti che esso documenta e l’autorità costituita a tutelarli. Si può dire che la storia della documentazione privata nel corso del Medioevo è caratterizzata proprio dall’evoluzione della funzione sociale e della natura giuridica dell’atto scritto. In età imperiale romana già esisteva la prassi di ricordare con un testo scritto i negozi giuridici dei privati. Queste scritture non avevano peraltro valore legale di prova; l’esistenza del negozio era garantita da testimoni presenti al contratto e solo questi facevano fede in giudizio. All’epoca di Costantino la prassi e la documentazione venne modificata adottando procedure atte a garantire l’autenticità delle scritture private e conferire loro valore testimoniale. Le amministrazioni pubbliche, centrali, provinciali e municipali, furono autorizzate a ricevere gli atti stipulati tra privati, conservarli e trarne all’occorrenza copie autentiche dotate di valore pubblico. Il deposito della scrittura privata nell’ufficio era chiamato Insinuazione. Era una procedura costosa ma che aveva vantaggi evidenti e veniva menzionata nell’atto stesso quando era compiuta. Essa venne abbandonata con la crisi e le istituzioni romane dopo le invasioni barbariche. Tuttavia, anche sotto il dominio dei barbari la società romana mantenne nei limiti in cui fu possibile le proprie usanze documentarie, mantenne perciò la prassi dell’atto scritto. Scrivani, Notarii, tabellioni continuarono ad esistere nei territori romani dominati dai barbari i quali adottarono progressivamente la pratica della documentazione scritta anche nell’ambito del diritto privato. Si ripropose perciò il problema della validità degli atti privati. L’Italia venne divisa dall’invasione Longobarda in due aree: una rimasta sotto il governo Bizantino in cui la società romana mantenne la sua organizzazione; l’altra caratterizzata oltre che dal dominio Longobardo, da una società mista Romano Germanica che dovette costituire nuove forme organizzative e istituzionali. Nei territori Bizantini incentrati intorno alle città di Ravenna, Roma e Napoli continuarono ad operare gli scrittori pubblici di documenti conservando la qualifica di Tabellioni organizzati in collegi professionali che curavano la preparazione tecnica dei propri membri e cercavano di garantire l’autenticità degli atti rogati. Nei territori conquistati dai Longobardi insieme alle curie municipali, vennero meno anche i collegi professionali, sicché gli estensori di carte private pur continuando ad esistere operarono individualmente senza il supporto di un’organizzazione. Anche l’accesso alla professione avveniva per apprendistato individuale piuttosto che attraverso un curriculum definito. Questi scrivani non avevano più un titolo professionale determinato perlopiù si qualificavano come Scriptor e anche come Notarius; quest’ultimo termine indicava semplicemente lo scrittore di documenti. La redazione delle carte avveniva nel modo più semplice: lo scrivano registrava la volontà delle parti addirittura in forma di discorso diretto probabilmente sulla base di appunti che poi sviluppava servendosi dei formulari tradizionali talvolta raccolti in manuali; una volta steso il testo lo consegnava alle parti interessate senza tenerne una copia per sé; il documento originale, l’unica testimonianza del negozio avvenuto, veniva conservato dalle parti interessate. L’atto era esposto a vari rischi di perdita, di sottrazione, ma anche di alterazione fraudolenta. Gli scrivani stessi potevano del resto redigere atti falsi o in contrasto con le leggi. Di entrambe le eventualità il re Longobardi si occuparono stabilendo pene per l’uno e per l’altro abuso. Nel IX e X secolo, per dare autenticità e validità pubblica al contenuto di un atto, si ricorse all’espediente di far presentare le parti in un tribunale dove a seguito di un dibattimento spesso fittizio il giudice riconosceva il diritto in questione e dava ordine allo scriba del tribunale di stendere un verbale che faceva fede su esso. Questa macchinosa procedura venne sostituita da un una semplice dichiarazione resa dalle parti davanti al giudice egualmente registrata in un atto scritto dal tribunale. Il principio che sottostà a queste varie pratiche nell’aria longobarda e che l’atto, anche se steso in presenza di testimoni, non ha validità pubblica e può riceverla soltanto dall'autorità giudiziaria. Il principio venne confermato e perfezionato dal governo Carolingio. In Italia gli estensori degli atti vennero sottoposti a un maggior controllo da parte dell’autorità pubblica che ne sorvegliò la preparazione professionale e subordinò l’esercizio della loro attività, ad una nomina da parte dei conti o dello stesso re. Il titolo di notaio divenne quello più frequente. Venne anche stabilito che il notaio non potesse rogare atti fuori dal distretto amministrativo nel quale risiedeva che normalmente era la contea. I conti stessi ebbero propri notai che redigevano gli atti di amministrazione, soprattutto i deliberati dei tribunali (placiti). Nonostante queste garanzie l’atto privato aveva sempre bisogno di una convalida formale per poter assumere validità pubblica. Sia nei territori Romani che in quelli Longobardi le chiese provvidero spesso alla l redazione degli atti che le riguardavano. Le curie arcivescovili di Roma e Ravenna ebbero propri scrivani di condizione ecclesiastica. Anche nell’Italia longobarda e poi carolingia le chiese vescovili ebbero notai propri che occasionalmente arrogavano anche gli atti dei privati. I notai ecclesiastici non ebbero bisogno della nomina regia neanche nell’età carolingia. Gli atti che essi arrogavano in caso di necessità dovevano essere ratificati dal sovrano o dal giudice. Tuttavia, lo statuto religioso e il prestigio morale e sociale della Chiesa conferivano credito particolare agli atti stipulati dai notai ecclesiastici. Nel corso del X e XI secolo, vennero maturando nuovi criteri di autenticazione e pubblicizzazione dell’atto privato, compilato in determinate condizioni. Le esperienze più significative ebbero luogo nelle città del regno Longobardo Carolingio. I notai rivendicarono competenza di esperti del diritto e si qualificarono regolarmente con il titolo di notai regi che faceva riferimento a un’origine pubblica delle loro facoltà documentarie. Sovente esercitarono anche la funzione di giudice cui tradizionalmente veniva riconosciuta la capacità di conferire validità pubblica agli atti privati; in quanto giudice il notaio poteva trovarsi nella posizione di convalidare gli atti da lui stesso rogati. Un passo ulteriore verso l’acquisizione di capacità probatoria dell’atto notarile fu compiuto quando i notai cominciarono a conservare presso di loro una copia degli atti. A questo punto diveniva possibile il riscontro delle copie in mano alle parti con quella detenuta dal notaio che faceva fede; di conseguenza l’atto poteva per forza di prova senza passare attraverso complesse procedure giudiziarie. Accanto a queste innovazioni pratiche, la riflessione teorica sulle condizioni di autenticità degli atti giuridici, approfondita sulla base del riscoperto il diritto romano, valse a rafforzare la tendenza a riconoscere validità pubblica agli atti notarili. Così nel corso del XII secolo al notaio che estendeva gli atti in forme codificate e li conservava nella propria bottega, venne riconosciuta la Pubblica Fides, cioè la capacità di creare atti autentici e validi come prova legale. L’atto notarile assunse così natura di Instrumentum Publicum. In questa trasformazione ebbe senza dubbio un’influenza decisiva l'evoluzione del sistema economico e dei rapporti sociali. Era indispensabile poter contare su registrazioni rapide e garantite delle transazioni da fare, dei rapporti patrimoniali che diventavano sempre più frequenti e complessi. La figura del notaio eliminò le altre figure di estensori di atti privati. Persero rilevanza e prestigio le corporazioni dei tabellioni e anche le chiese progressivamente rinunciarono ad avere propri notai. Cambiò anche la prassi della documentazione notarile: il notaio scriveva direttamente nel suo registro i dati essenziali dell’atto (luogo, data, identità delle parti, termini del negozio) non trascrivendo le parole delle parti ma esponendo il negozio in forma oggettiva secondo i termini del diritto. Questa formulazione dell’atto veniva chiamata Imbreviatura. Da essa potevano essere ricavate redazioni estese in forma più o meno completa a seconda delle esigenze e della spesa. Un primo livello era quello della stesura in Grossum che sviluppava in caratteri chiari l’esposizione dell’atto senza le clausole fisse e ripetitive; la redazione completa del testo era invece chiamata redazione in Mundum e il documento, che acquisiva così la Pubblica Forma, aveva un aspetto regolare e solenne conferito dalla pergamena, dalla scrittura chiara e ordinata, dalla sottoscrizione del notaio completata con particolari segni di autenticazione. La fede dell’atto era peraltro sempre garantita dall’imbreviatura che il notaio conservava nel suo studio. Vi era naturalmente la possibilità di frode: un notaio disonesto poteva alterare l’imbreviatura o estrarne atti falsificati. Perciò tra il XIII e il XIV secolo molti comuni istituirono registri ufficiali chiamati Libri Memoriali in cui venivano trascritti i contratti già registrati nei protocolli notarili. Inoltre, vennero istituiti gli archivi notarili per conservare i registri di imbreviature dei notai alla fine della loro attività. Si sviluppò anche l’organizzazione professionale dei notai. Nelle città comunali essi costituirono un influente corporazione. Bologna fu la città in cui l’organizzazione notarile fu più avanzata e documentata già agli inizi del XIII secolo. Una delle finalità della corporazione era quella di preparare i futuri notai attraverso una scuola professionale e un tirocinio pratico nella bottega di un notaio esercitante. Alla preparazione grammaticale e retorica venne unita una formazione giuridica che comprendeva i principi del diritto Romano. Si venne così configurando l’Ars Notariae (l’arte del notaio), rivendicante fondamento teorico e dignità professionale completamente autonomi e paritetici. L’Ars Notariae di Ranieri da Perugia (1226-1233) è il primo trattato che affronta e risolve i problemi emersi dalla pratica professionale del notariato. Nella Francia meridionale il notariato si affermò già nel corso del XII secolo con gli stessi caratteri di quello italiano cioè con la capacità di produrre atti autentici. In Spagna l’influenza il diritto romano portò alla diffusione del notariato pubblico e del valore legale degli atti a partire dal XIII secolo. Altrove lo sviluppo più lento: in Germania il notariato pubblico cominciò a diffondersi nella prima metà del XIII secolo ma per molto tempo convisse con la redazione di atti non legalizzati. Nella Francia settentrionale i documenti notarili dovevano essere autenticati col sigillo di un’autorità giurisdizionale per avere validità pubblica. Solo alla fine del Medioevo sotto l’influenza del diritto romano e della crescente centralizzazione monarchica, i vari sistemi vennero sostituiti dal notariato di nomina regia capace di produrre atti autentici. L’atto privato redatto in forma di originale singolo conservato dalle parti è sopravvissuto solo se sono conservati gli archivi delle parti interessate. Questa condizione si è realizzata quasi esclusivamente per gli enti ecclesiastici, gli unici che abbiano avuto una durata e un’organizzazione tali da consentire la conservazione degli archivi, da epoche tanto remote qual è l’alto Medioevo. Archivi laici Altomedievali sono invece praticamente sconosciuti anche se sappiamo che esistevano. Archivi privati laici si cominciano a possedere in Italia a partire dalla costituzione delle grandi famiglie della nobiltà che proseguirono fino all’età moderna e dunque non prima del XIII secolo. Dipende dalle condizioni dell’economia il fatto che la massima parte della documentazione conservata riguardi la proprietà fondiaria. Quando compaiono i protocolli notarili la natura dell’informazione documentaria cambia in modo sostanziale. Sebbene continuasse l’uso degli atti sciolti redatti su pergamena e questi siano pervenuti, sono i protocolli notarili che diventano la testimonianza più ricca e interessante perché essi offrono uno spaccato della vita sociale ed economica assai più vasto. Il ricorso al notaio si diffuse enormemente nella società italiana del tardo Medioevo: al notaio si presentavano persone di tutti i ceti per far registrare negozi di ogni genere. Le caratteristiche formali dell’atto privato medievale ripetono in genere quella dell’atto pubblico in forma semplificata e con qualche variante. Per quanto riguarda i caratteri estrinseci si ricorderà che l’atto era normalmente scritto su un foglio di pergamena. Anche per gli atti privati il papiro era stato abbandonato dopo il XII secolo per la difficoltà dell’approvvigionamento. La carta non trovò impiego, come materiale dei documenti notarili, che nell’età moderna. Nella redazione in Mundum i notai usavano una scrittura regolare e leggibile che conferiva prestigio e attendibilità all’atto; essi si sottoscrivevano tracciando accanto al loro nome complicati segni grafici che servivano dal riconoscimento e autenticazione; raramente veniva adoperato un sigillo. Per quanto riguarda il testo esso presentava la stessa articolazione degli atti pubblici sia pure in forma semplificata. Il protocollo iniziale conteneva formule di devozione spesso introdotte dal segno della croce e frequentemente anche dalla datazione, che poteva essere indicata anche alla fine del documento. Raramente il nome dell’autore figurava all’inizio del documento. Il testo del documento poteva iniziare con un preambolo che esprimeva le motivazioni d’ordine morale e religioso che avevano indotto l’autore all’azione giuridica. Seguiva quindi una formula di notificazione che introduceva la narrazione cioè l’esposizione delle circostanze in cui l’azione giuridica era maturata con la descrizione dell’azione stessa. Seguiva la Dispositio, introdotto da un verbo dispositivo, in cui veniva dichiarata la deliberazione dell’autore e nuovamente descritto il bene oggetto della transazione. Potevano seguire formule di sanzione contro eventuali violazioni dell’atto da parte degli stessi contraenti o di terzi con pene spirituali o materiali. Il testo si concludeva con l’enumerazione delle formalità adottate per garantire l’autenticità dello scritto, consistenti nella presenza e nelle sottoscrizioni dei testimoni e con la richiesta al notaio di redigere l’atto. L’escatocollo comprendeva le sottoscrizioni dei testimoni ed eventualmente delle parti, la datazione, la sottoscrizione del notaio che convalidava l’intero documento. Anche il documento notarile offre oltre alle informazioni sulla propria struttura e genesi, sulle pratiche scrittore e i quadri culturali in cui è stato redatto, una vastissima quantità di informazioni di primordine su un largo ventaglio di aspetti. Innanzitutto, sui negozi giuridici, sui diritti vigenti, le normative legali, la loro applicazione. Inoltre, su aspetti generali come: sfruttamento dei patrimoni fondiari, sfruttamento del suolo, caratteristiche degli abitanti e delle abitazioni, toponimi, organizzazione istituzionale del territorio, composizione della popolazione, antroponimi (cioè nomi di persone), soprannomi, strutture familiari, notizie biografiche, mezzi di pagamento, alfabetizzazione dei partecipanti all’atto. Anche la storia politica può essere illuminata dagli atti privati poiché per molto tempo fu consuetudine datare gli atti facendo riferimento agli anni di regno dei sovrani riconosciuti nel luogo in cui l’atto veniva rogato. Attraverso le datazioni si può individuare l’orientamento politico delle diverse regioni e località. Si comprende così l’interesse degli atti privati come fonti della ricerca storica.