Scarica Italia Longobarda di Stefano Gasparri e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! ITALIA LONGOBARDA Cap.1 – La conquista longobarda e la formazione del regno. 1.1 (Il quadro territoriale) L’avvio del regno longobardo fu faticoso, giacchè gli invasori dovettero impadronirsi della penisola mediante una vera e propria conquista armata, condotta contro l’esercito di Bisanzio, che con una guerra durata vent’anni aveva da poco spazzato via gli ambigui federati ostrogoti e restaurato l’autorità romana sull’Italia, sancita dalla promulgazione da parte di Giustiniano della Prammatica Sanzione nel 554. Fra il 568/569 e il 712 (inizio regno di Liutprando), mediante assedi, battaglie campali e patteggiamenti locali, i Longobardi costruirono un regno che si estendeva su una parte cospicua della penisola e aveva il suo baricentro politico a nord del Po, con capitale Pavia. Nonostante l’ampiezza delle conquiste, esse non coprirono mai l’intera penisola. Vaste regioni rimasero ancora in mano a Bisanzio che, con il doppio comando rappresentato dall’autorità politico-militare dell’esarca (a Ravenna) e da quella religiosa del papa (a Roma), minacciò la saldezza interna del regno, minando i primi tempi la fedeltà non tanto delle popolazioni genericamente intese, quanto delle loro superstiti classi dirigenti laiche ed ecclesiastiche. L’espansione territoriale si accompagnò all’elaborazione progressiva di strutture politiche adeguate al compito di gestire un regno che era comunque molto vasto: venne però a mancare in gran parte un apporto, che invece nel vicino regno franco dai Merovingi era stato fondamentale: quello delle vecchie èlites politiche, sociali e culturali romane. La classe senatoria era infatti stata duramente colpita nel corso dei primi decenni successivi all’invasione, e i suoi esponenti si erano rifugiati in terra bizantina, in Italia o in Oriente. I vescovi dal canto loro si erano trovati in una posizione difficile a causa, più che dell’arianesimo o del paganesimo dei Longobardi, dell’ostilità politico-militare dei nuovi venuti nei confronti della respublica Romanorum. Apporti e collaborazioni vennero dai ceti medio-bassi della popolazione italica, nei cui confronti i processi di fusione si misero in moto piuttosto presto, accompagnati dalla definitiva conversione dei Longobardi al cattolicesimo. Ciò aprì la strada ad una collaborazione anche con i vescovi (e con i monaci). Inoltre il modello incarnato da Bisanzio, con le sue strutture sociali ed amministrative, potè essere in parte applicato alle strutture del regno. La difficoltà maggiore della conquista consiste nel fatto che essa in realtà non può essere ricostruita con certezza, perché le fonti scritte sono praticamente inesistenti e quelle archeologiche in questa prospettiva sono solo parzialmente utilizzabili. Il perenne stato di guerra della penisola italiana, che durava dal 535, aveva danneggiato l’economia in modo netto; i Longobardi quindi si trovarono a fare i conti con un’economia disastrata. I racconti, apertamente coerenti e ben costruiti, che talvolta troviamo nei manuali, sono in realtà il frutto di congetture più o meno plausibili. Questi racconti si basano tutti sull’unica narrazione degli eventi che possediamo, quella scritta da Paolo Diacono all’età di Carlomagno, quindi a distanza di ben due secoli dagli avvenimenti. Il racconto di Paolo ha una dimensione spaziale molto limitata, in quanto consce e scrive solo ciò che è successo nella pianura padana. Fatte salve queste premesse, ecco ciò che riusciamo a ricostruire: - I Longobardi entrano in Italia guidati da Alboino nel maggio del 568/569, attraverso le Alpi Giulie. - Penetrano in Friuli, lasciando un forte presidio militare a Cividale. - Procedono lungo la via Postumia e occupano i principali centri del Veneto. Non dobbiamo però pensare ai progressi dell’invasione come una marea inarrestabile: prima di tutto i longobardi erano pochi, e seconda cosa i Bizantini opposero una fiera resistenza. Solo nei primi tre anni, in realtà, l’offensiva longobarda dovette avere il carattere strutturato che culminò con la presa di Pavia. I diversi capi longobardi guidarono i loro guerrieri sempre più in profondità, verso ovest (Torino, Asti) e al di là degli Appennini, in economico mediterraneo, che in quella fase era entrato in un trend pesantemente negativo. Inoltre essi trovano un’amministrazione fiscale funzionante nei territori conquistati, in particolare in quelli più a lungo presidiati dai Bizantini, ed è assurdo pensare che non abbaino cercato di servirsi di quanto era già in piedi ed offriva ottime opportunità di sfruttamento. I longobardi occuparono le terre numerose, ampie e disperse dell’antico fisco imperiale, le terre lasciate deserte dai grandi proprietari fuggiti o assenti, e altre ne poterono confiscare nei primi confusi momenti della conquista. A lungo, inoltre, molti capi longobardi oscillarono tra una posizione ostile ai Bizantini, che erano saldamente asserragliati nel Nord-est, in Liguria, in buona parte dell’Italia centrale e meridionale e nelle isole, ed una a loro favorevole, assumendo di nuovo il ruolo di federati e facendosi mantenere tramite stipendi pagati dai Bizantini stessi. Di fatto, mentre la conquista si ampliava e si estendeva, è possibile che si sia arrivati ad applicare in qualche modo – localmente – il sistema della “ospitalità”, con una ripartizione, sulla base di un terzo, di terre o proventi fra i Longobardi e i proprietari locali. Ma non dobbiamo sopravvalutare tale applicazione, dandole un valore troppo tecnico ed estendendola a gruppi troppo vasti di popolazione, altrimenti non si comprenderebbe come mai il sistema di tassazione scomparve così rapidamente. E’ proprio la varietà di situazioni locali, dovuta alle condizioni difficili in cui si svolse una conquista molto lenta e prolungata nel tempo, che ci fornisce la chiave di lettura complessiva delle situazione 1.3 (L’insediamento longobardo) La situazione determinata dal primo impatto dell’invasione longobarda fu senza dubbio transitoria. I rapporti politici all’interno del nuovo regno erano destinati infatti a mutare abbastanza rapidamente: la situazione del tardo secolo VI non era certo la stessa del VII o dell’VIII. Anche se mettiamo da parte la questione dei rapporti immediati annodatisi fra i Longobardi e la popolazione indigena della penisola italica, questione a cui soluzione è destinata a rimanere sfuocata, è però indispensabile cercare di cogliere le caratteristiche generali dell’insediamento longobardo in Italia. Il progresso degli studi ha fatto sì che risultasse sempre più difficile sostenere la radicale estraneità dei Longobardi rispetto alla vita cittadina, in presenza oltretutto di fonti narrative e documentarie che paravano chiaramente delle città come centri di potere civile e militare all’interno del regno. Si è ripiegato allora sull’idea di una semplice occupazione militare della città da parte dei Longobardi, dimenticando di chiedersi quanto questo fenomeno si sia protratto nel tempo. Il problema, quindi, è sempre lo stesso: rimanere fortemente bloccati sull’immagine, vera o presunta, che ci si forma dell’età dell’invasione, e poi la si proietta immutata sul periodo più tardo, il VII e l’VIII secolo. Un dato è certo: le città mantennero la loro centralità nel regno fondato dai Longobardi, nonostante la crisi che le caratterizzò ancora alla fine del VI secolo, e in esse si installarono i vertici del nuovo potere politico. Tuttavia, viste le grandi difficoltà dell’archeologia urbana, dovute alla fortissima continuità dei centri abitati italiani, è fuori dalle città che si colloca la maggior parte dei reperti archeologici attribuiti ai Longobardi e utilizzati di solito per ricostruire l’insediamento degli invasori. Prima però v analizzato un dato. In Italia non è stata trovata alcuna traccia di insediamenti longobardi autonomi rispetto alla popolazione romana. Processi di fusione, invisibilità degli insediamenti identificabili come longobardi: a questi fattori si aggiunga anche la difficoltà di interpretare in senso etnico i corredi funerari. Nulla ci autorizza a pensare che le tombe con corredi definibili come longobardi, di fine VI secolo e ancor più ovviamente VII. Non dobbiamo concepire i Longobardi, per tutta la durata della storia del regno, come un popolo acquartierato in mezzo ai Romani e rigidamente separato da essi, secondo una logica da esercito di occupazione. La realtà, già nel VII secolo, doveva essere infatti ben diversa. 1.4 (L’editto di Rotari e la corte regia) Da tutto ciò che abbiamo detto, si capisce che non è facile delineare i modi attraverso i quali si realizzò la costruzione del regno longobardo e poi la sua evoluzione. Chiunque voglia studiarli, si trova di fronte a due fasi nettamente distinte, separate da un lungo periodo quasi privo di fonti scritte: il periodo dell’invasione e della costruzione del regno, che dal 568/569 arriva fino al 600 circa, e il secolo VIII, anche oltre il 774, l’anno della conquista franca del regno. In mezzo, l’unica luce nel buio è l’editto del re Rotari dell’anno 643, che ci fornisce effettivamente molti dati e che rappresenta l’unica significativa fonte coeva per il pieno secolo VII: ad essa possiamo aggiungere la sola tarda testimonianza di Paolo Diacono. I tentativi di ricostruzione del regno e della società longobarda hanno dunque qualche possibilità solo per l’VIII secolo, quando, accanto all’immancabile Paolo Diacono, disponiamo finalmente di fonti documentarie: non solo diplomi regi ma pure centinaia di carte private, in originale o in copia, che aprono squarci importanti sulla società longobarda, ossia italica, di quel periodo. Il regno longobardo, dall’età di Rotari in poi, fu il primo fra tutti i regni fondati dai barbari nell’Occidente romano ad abbandonare del tutto l’eredità romana, costruendo le basi del potere pubblico sul possesso e lo sfruttamento della terra. In effetti l’editto di Rotari del 643 ci fa entrate in un modo completamente diverso da quello ancora fortemente tardoromano del VI secolo. Al centro del corpus, che era molto ampio e come tutte le leggi barbariche, sta la curtis regia. Questo termine in realtà indica diverse cose, tutte collegate fra loro anche se distinte. La curtis regia era il complesso dei beni fiscali, ossia pubblici, formato da terre, complessive delle persone che le lavoravano e degli edifici che si trovano su di esse, stabilimenti ecclesiastici compresi. Allo stesso tempo la curtis regia era anche la struttura che amministrava i beni fiscali, rappresentata da una gerarchia di funzionari con a capo il gastaldo e poi i varii agenti che da lui dipendevano. Da questi brevi accenni alla curtis regia si capisce che il re stesso è il centro dell’editto, che costituisce uno strumento per rafforzarne il potere. Infatti un altro aspetto importante dell’editto è l’imposizione di un sistema di multe: la proibizione assoluta della faida, la guerra privata tra i diversi lignaggi per riparare le offese ricevute, è accompagnata da una serie di riparazioni, secondo un complesso tariffario. Già l’imposizione di questo meccanismo arbitrale rivela la forza del re. Cap.2 – La società longobarda del secolo VIII. Il regno, le èlites e l’inquadramento cattolico della popolazione. 2.1 (Re, duchi e gastaldi) Nell’VIII secolo il regno longobardo aveva una struttura ormai piuttosto complessa. La struttura pubblica era incardinata in circoscrizioni più o meno ampie, la maggior parte delle quali aveva centro rappresentato da una città: il nome in latino di queste circoscrizioni, civitates, ben rappresentava la loro natura, basata sull’unione di una città con un territorio circostante. Le più importanti civitates avevano a capo un duca, le altre un gastaldo: - Duca: derivava i suoi poteri dal comando militare - Gastaldo: funzionario addetto alla gestione del patrimonio fiscale Nell’VIII secolo tuttavia queste figure erano diventate parificate agli occhi del re: entrambi erano i suoi giudici (iudices), alti funzionari con poteri giurisdizionali sui loro territori e sulle popolazioni che li abitavano. Tuttavia qualche differenza tra le due cariche permaneva, in quanto Paolo Diacono nei suoi scritti cita più volte i duchi ma solo una volta, e di sfuggita, un gastaldo: è probabile che le origini personali dei duchi fossero più elevare rispetto a quelle dei gastaldi (vediamo ciò ad esempio nei ducati di confine, lontani dal centro padano del potere regio; ducati come quelli di Spoleto e Benevento); in queste zone i duchi erano diventati dei principi semi-autonomi, che talvolta avevano dato origine a dinastie. I duchi di Spoleto e Benevento, inoltre, avevano dei palatia la cui organizzazione era simile al palazzo regio di Pavia. A parte i nuclei attivi alla periferia del regno, conosciamo l’esistenza di numerose cariche centrali, di corte: - Il maggiordomo: capo dell’amministrazione generale del palazzo, il quale tuttavia non raggiungerà mai l’importanza e il potere della sua controparte franca - Il marphais: il maestro di cavalli, carica molto prestigiosa - Il tesoriere - Il cubicularius: il responsabile degli appartamenti privati del re. Tutti insieme, questi titoli ci fanno intravedere l’immagine di una corte sofisticata e complessa, dove cariche schiettamente romane si univano ad altre la cui origine invece al mondo dei guerrieri di stirpe barbarica. A corte inoltre erano presenti anche intellettuali e inoltre nel palazzo regio si allevavano giovani aristocratici. Inoltre l’esistenza di una chiesa di palazzo sottintendeva l’esistenza di un clero ad essa addetto, che andava quindi ad ingrossare il personale di corte. A corte, infine, vivevano certamente i gasindi del re e della regina, ossia uomini legati da una particolare fedeltà personale ai sovrani. Il palazzo inoltre doveva essere a stretto contatto con la curtis regia, ossia con il cuore dell’amministrazione fiscale, i cui proventi servivano anche a macchina stessa del palazzo. Il re longobardo aveva la sua residenza fissa in un palazzo nella capitale Pavia: ciò comportava un radicamento della funzione regia che era la sua forza, ma anche la sua debolezza, perché impadronirsi della città, del palazzo e del tesoro regio significava impadronirsi del regno. Conosciamo molto poco i rituali regi longobardi. L’unico esempio di rituale di inaugurazione regia a noi noto avviene nel 744: Ildeprando viene nominato re dopo Liutprando, al quale viene consegnata una lancia, vero simbolo della regalità lombarda. a conferma di ciò qualche anno prima Liutprando aveva deposto sulla tomba di san Pietro degli oggetti, tra i quali però non vi era una lancia in quanto se l’avesse donata avrebbe significato una sottomissione alla Chiesa. 2.2 (Le terre dei re) I legami fra il centro e la periferia non erano facili. Il fatto che le assemblee pavesi si tenessero il primo marzo, all’inizio della primavera, è la prova indiretta che gli stessi collegamenti materiali fra le diverse aree del regno per molti mesi erano, se non impossibili, molto difficili. Non si trattava solo di un problema di vie e trasporti: era la stessa autorità del re che doveva, con fatica, imporsi in periferia, e con essa doveva essere salvaguardato il godimento fondiario del re in tutto il regno. Nell’VIII secolo il re sembra comunque capace di imporre la sua giustizia anche al di fuori della “terra del re” per eccellenza, la parte d’Italia a nord del Po. Ad esempio di ciò nel 747 il messo regio Insario, inviato del re, fece un’inchiesta in Sabina, per tutelare i diritti del monastero di S.Maria di Farfa, che aveva ricevuto dal duca Lupo il possesso dell’intero gualdo (vasto complesso di beni pubblici) pubblico di S.Giacinto. Ai nostri occhi appare un gran numero di persone di condizione sociale diversa, che vogliono salvaguardare le loro condizioni di lavoro nella nuova situazione, mantenendo le terre in proprio possesso senza subire un aumento di canoni. Sulle terre del gualdo non erano stanziati solo contadini, ma anche agenti del fisco, evidentemente fedeli al re che aveva concesso loro delle terre in quel luogo. L’intervento di Insario prova la capacità regia di agire capillarmente, ma ci fa anche capire che il valore economico fondamentale dei possessi fiscali in periferia era quello di mantenere direttamente la gerarchia dei funzionari locali e i gruppi di fedeli che il re si era costruito nei vari angoli del regno tramite lo sfruttamento della terra. Le curtes padane fornivano invece la maggior parte del sostentamento diretto al re e alla sua politica. Anche se un qualche piccolo trasferimento dalla periferia verso il centro c’era, esso doveva infatti avere prevalentemente il carattere di riconoscimento della supremazia regia, più che un valore economico in sé. Il regno longobardo, come gli altri regni post romani, si basava sulla rendita fondiaria delle terre pubbliche e non sulle tasse. Piuttosto i legami con la periferia venivano mantenuti installando a capo dei ducati più periferici duchi legati strettamente al re. 2.3 (Gli arimanni e l’esercito) Il terzo campo di intervento del potere regio, accanto al mantenimento della giustizia, espresso dai giudizi presieduti dai messi regi, e alla riscossione simbolica di donativi e a quella concreta delle pesanti multe, era il campo militare, che era quello fondamentale. Nell’esercito longobardo si vede bene che quello che conta è la ricchezza personale di chi si arruola nell’esercito, una ricchezza che ruota intorno ad un requisito fondamentale, il possesso del cavallo. I laici sono definiti in grande prevalenza exercitales, una minoranza di essi invece sono detti semplicemente uomini liberi. Abbiamo detto che gli exercitales erano persone che venivano mobilitate all’esercito, dunque si trattava di uomini liberi di una certa condizione sociale ed economica. Dai tesi del giudicato apprendiamo che gli arimanni non rappresentavano perciò un gruppo particolare della popolazione del regno, ne tantomeno erano i discendenti diretti degli invasori. In conclusione possiamo affermare che gli abitanti liberi del regno erano longobardi i quanto vivevano secondo la legge longobarda e che, se erano in condizione economica sufficiente, partecipavano all’esercito, ed erano dunque arimanni. I Romani erano altrove: erano gliabitanti dell’Italia bizantina, com’è provato sia dall’uso che di questo termine fa Paolo Diacono sia da quello che (raramente) ne fanno le leggi. Tuttavia secondo la tesi di Giovanni Tabacco, gli arimanni erano guerrieri longobardi stanziati dai re su terra fiscale, ossia pubblica, soprattutto ai confini del regno ma anche in zone strategicamente importanti al suo interno, con fini di difesa militare. teoria totalmente screditata a livello scientifico. 2.5 (Per la salvezza dell’anima) All’età di Liutprando la cristianizzazione della società del regno longobardo è ormai pienamente compiuta in tutte le sue componenti, fatte salve, è ovvio, le persistenze magico-pagane soprattutto rurali. Contro queste persistenze Liutprando agì duramente, emanando leggi che reprimevano con severità usi come la consultazione di indovini o il culto di alberi e delle fonti, che caratterizzavano da tempo le campagne. Al livello opposto della piramide sociale, la cristianizzazione di base corrispondeva ad un’assunzione piena della fisionomia cattolica da parte del potere regio, che è espressa solennemente nel prologo delle leggi del 713. La legislazione di Liutprando incontrò alcune difficoltà in riferimento agli usi guerrieri: infatti il suo tentativo di stroncare l’uso del duello per risolvere cause giudiziarie di omicidio non andò del tutto a buon fine; il re riuscì solo a introdurre norme cautelative contro gli abusi più evidenti, imponendo l’obbligo di un giuramento sui Vangeli da parte dello sfidante, nel quale egli doveva affermare di agire in base a sospetti certi. Alla base dell’azione di Liutprando, oltre che a motivi di ordine sociale, c’era pur sempre una preoccupazione religiosa. Il sovrano afferma infatti che è difficile interpretare con certezza il volere della divinità e quindi vorrebbe abolire del tutto la norma, ma non può a causa delle consuetudini dei Longobardi. In altri campi però l’opera legislativa di Liutprando appare assai efficace in senso cattolico. Ciò avviene in particolare con una serie di norme di legge che finivano per modificare profondamente la posizione dell’elemento femminile in campo patrimoniale, aprendo anche alla donna la via della successione dell’eredità paterna, eredità che diventava delle istituzioni religiose nel caso le figlie si fossero fatte suore o monache. Liutprando inoltre introdusse una norma che consentiva di premiare i figli che servivano bene il loro padre finchè era in vita, anche per favorire i figli illegittimi. Una società relativamente dinamica come quella dell’VIII secolo richiedeva infatti una maggior elasticità nella trasmissione dei patrimoni. Tutto questo complesso di norme aveva come conseguenza quella di inserire le istituzioni religiose a pieno titolo nei meccanismi sociali e patrimoniali del regno. Tutto ciò provato simbolicamente dal fatto che le chiese vengono esplicitamente protette nella loro sostanziale inviolabilità. La norma di legge che costituisce la chiave di volta di tutto questo sistema di promozione degli enti ecclesiastici però è un’altra: quella con cui Liutprando rese legittime le donazioni pro anima a chiese e monasteri. E’ una disposizione che ovviamente si indirizzava in primo luogo a favore di chiese e monasteri, luoghi di devozione il cui sostegno poteva assicurare un benevolo giudizio al defunto nell’aldilà; le donazioni così effettuate agli enti ecclesiastici rendevano nulle le pretese degli eredi legittimi. - Il donatore acquisiva un potente patrono - La donazione pro anima permetteva nell’intervallo tra a futura morte del donatore e quella della vedova, di lasciare a quest’ultima la gestione dei beni, rendendola indipendente dal resto della famiglia. - La libertà di decisione concessa dalla legge permetteva ai donatori di lasciare ampie donazioni anche a figlie e sorelle, che entrassero o meno in monastero Così le donazioni pro anima aiutano a disegnare una società differente e più ricca di attori rispetto a quella, per esempio, dell’età di Rotari. Come conseguenza di ciò la ricchezza dei monasteri e delle chiese cominciò ad aumentare in modo esponenziale, confortata anche dalle donazioni regie; e, dato non secondario, aumentò anche la volontà e la capacità ecclesiastica di conservare nei propri archivi la massa crescente di carte che attestavano i titoli di possesso. 2.6 (Le élites del regno) Grazie soprattutto alla documentazione ecclesiastica, le fonti dell’VIII secolo i consentono di tracciare un quadro delle caratteristiche delle élites del regno longobardo. Le élites longobarde appaiono come proprietarie di intere curtes, ossia grandi proprietà fondiarie che includevano al loro interno molte case massaricie. Certo è difficile stabilire il peso di queste corti in termini di ricchezza e di potere. L’unica che possiamo stimare con sicurezza, quella di Alfiano in Lombardia, aveva un valore complessivo di circa 8000 soldi d’oro. In ogni caso, l’ipotesi che viene spontaneo affacciare è quella di un ceto di possessori nella cui ricchezza entrava in modo significativo il denaro. Se paragoniamo l’aristocrazia longobarda a quella franca essa è inferiore anche per la diversità delle ricchezze, in quanto nei longobardi erano formate da terre e denaro insieme. Invece il rapporto dell’aristocrazia col potere regio doveva essere lo stesso della società franca: al pari dei sovrani franchi i re longobardi utilizzarono doni come strumento di collegamento clientelare con il ceto superiore della società. La presenza di numerose donazioni da parte dei duchi ai propri fedeli, sia a Spoleto che a Benevento, autorizza a pensare che i re longobardi procedessero in maniera analoga. Tuttavia la relativa modestia di alcune donazioni può far pensare a una loro presenza capillare nel tessuto sociale, che andava al di là del gruppo relativamente ristretto dell’aristocrazia. I documenti di donazioni sono inoltre più numerosi in zone periferiche, come Spoleto e la Toscana: forse la lontananza geografica dal centro del potere spingeva i fedeli del re a ricercare una maggiore certezza - I cremonesi, all’età di Carlo Magno e Pipino, effettuavano il loro commercio del sale e delle spezie all’interno del regno. - I loro traffici dovevano essere iniziati intorno agli anni dal 781 al 810 Questo documento permette di datare la nascita di un commercio padano di un certo livello ad opera di mercanti locali. Più o meno nello stesso periodo cominciano ad apparire i mercanti nelle sottoscrizioni dei documenti. La loro inoltre è una delle poche qualifiche di mestiere nominate: le altre concernono soprattutto monetieri e orefici, ovvero altre attività legate al denaro a alla ricchezza nobile. Nelle carte inoltre appare anche qualche accenno a operazioni di prestito di denaro: - Uno è chiaro ed è contenuto nella già citata carta del 796. - La seconda testimonianza non è così chiara: in una carta bobbiese, databile genericamente al secolo VIII, appare una lista di pagamenti molto frammentaria a favore di un certo Arechi. E’ plausibile che si tratti di un elenco relativo alla restituzione di denari prestati. L’attività di prestito è praticata in particolare da un gruppo familiare insolitamente ben documentato nelle carte, quello lombardo di Totone di Campione. La disponibilità di denaro è una caratteristica generale del gruppo di Totone: accanto a molte transazioni che concernono pochissimi soldi, passando all’acquisizione di terra Totone impegna prima cinquanta soldi e poi, nel 799, tre libbre d’argento, equivalenti a sessanta soldi. C’è infatti poca terra, e tutta o quasi dedicata a colture specializzate, nelle operazioni di questa famiglia. Traspare invece l’attività di acquisizione di schiavi, che certo venivano utilizzati come mano d’opera nei campi, il cui frutto era poi trasportato verso il cuore del centro amministrativo padronale, situato a Campione. Da molti punti di vista la famiglia di Totone è abbastanza anomale perché al centro della sua attività sono colture specializzate e traffici di denaro o di persone. Ma nell’ultima fase della documentazione che la riguarda queste anomalie sfumano. Nel 777 Totone fa una donazione pro anima al monastero di S. Ambrogio a Milano e fonda uno xenodochio (rifugio per pellegrini e viaggiatori) a Campione. Questo xenodochio è collegato alla chiesa familiare di S. Zeno, fondata forse dalla generazione precedente. Giunto al culmine della sua ascesa sociale Totone poteva vantare un patrimonio la cui tipologia era quella propria del grande possesso fondiario, che tuttavia non doveva essere così notevole. Ciò che soprattutto manca, nelle numerose carte del dossier di Totone, è la prova di un qualsiasi rapporto della famiglia con il potere regio, rapporto espresso da donazioni, legami clientelari, cariche pubbliche. Non ci sono prove di una vicinanza di Totone al potere regio, cosa che invece era la normalità per le èlites, tranne che in casi di opposizione politica. Dell’aristocrazia longobarda, un gruppo per la verità non sempre ben documentato, Totone dunque non faceva parte. Ma fprse proprio la sua passata lontananza dal potere lo favorì negli anni difficili dell’impatto della dominazione franca in Italia, in quanto non compromesso da legami clientelari con i sovrani. Quella di Totone è la carriera di un personaggio che, partendo da una base di liquidità presente già nella generazione precedente e derivante forse da attività commerciali, diventa proprietario fondiario di medio livello (né aristocratico, né grande proprietario). Alla fine della sua carriera Totone era arrivato “vicino all’aristocrazia”, gruppo sociale di cui aveva coscientemente imitato i comportamenti. 2.9 (I vertici dell’aristocrazia) L’aristocrazia lombarda sembra avere una grande disponibilità di denaro: il denaro circolava realmente ai livelli massimi, ed è un elemento da tenere assolutamente presente, accanto alla proprietà terriera, nel valutare l’entità della ricchezza dei vertici della proprietà longobarda. Anche quando non si parla di denaro liquido, la ricchezza è spesso valutata in denaro. Per cercare di valutare correttamente questi valori, si possono tenere presenti le più alte pene pecuniarie previste dalle leggi: in Rotari, il massimo è 900 soldi per reati con gravissimo contenuto politico o sociale. Ma sono pene molto rare; le altre in generale sono notevolmente più basse. Con Liutprando le cifre aumentano e si arriva a 1000 soldi per il rapimento di una donna che ha preso il velo. I grandi aristocratici e possessori di denaro erano qualificati in termini molto prestigiosi: “nobili” sono detti costoro. Cap.3 – Roma e i Longobardi. Dalle origini all’età di Liutprando 3.1 (I primi contatti) Re cattolico e legislatore ispirato dal papa, Liutprando cercò al tempo stesso di vibrare un colpo decisivo all’Italia bizantina nella quale il papato era tuttora pienamente inserito. Già nel 717 il re aveva invaso le terre bizantine, ricavandone però solo bottino; ma nel 726 riuscì ad estendere la sua autorità su numerosi castelli emiliani e su una parte della Pentapoli. Contemporaneamente Liutprando riusciva a estendere in modo efficace la sua autorità sui due grandi ducati longobardi centro-meridionali, che avevano il loro centro l’uno a Spoleto e l’altro a Benevento. La debolezza delle autorità bizantine e il favore con cui alcune popolazioni italiche guardavano a Liutprando, lo avevano messo in una posizione di forza mai avuta da alcun sovrano longobardo. Fu a questo punto che Liutprando – come in seguito i suoi successori Ratchis, Astolfo e Desiderio - si scontrò con un ostacolo che non riuscì a rimuovere: il pontificato romano. Viene così in piena luce il nodo principale della situazione italiana, il rapporto fra Roma-papato e i Longobardi. Roma città i Longobardi forse poterono conoscerla già durante la guerra gotica, alla quale alcuni loro contingenti presero parte, sia pur brevemente. Nel periodo immediatamente successivo all’invasione dell’Italia, le prime bande di guerrieri longobardi fecero la loro apparizione nei pressi di Roma durante il pontificato di Benedetto, fra il 575 e il 579. Dopo gli ulteriori attacchi dell’età di Agilulfo, i longobardi si disinteressarono di Roma per circa un secolo. I legami che erano stati annodati in quest’ultimo periodo, tra papa Gregorio Magno e la corte longobarda, e che gli storici hanno sempre interpretato come decisivi nella cristianizzazione del potere regio e dell’intero popolo dei tempi, pagano, non coinvolgeva l’intero popolo longobardo nelle scelte religiose del suo leader, che potevano essere facilmente ribaltate dal suo successore. - Fu molto più importante l’eresia dei Tre Capitoli rispetto all’arianesimo, che stava via via scomparendo. Il dato da tenere in considerazione è che il regno longobardo era impegnato, agli inizi del VIII secolo, in un difficile processo di assestamento politico, segnato da continue lotte interne per il potere, e ben di rado dunque si affacciava a sud degli Appennini; mentre il papato, a sua volta, era coinvolto in aspre lotte religiose con Bisanzio. Gli obbiettivi privilegiati di entrambi i protagonisti, regno e papato, in questi ottant’anni circa erano radicalmente divergenti, al punto che essi dovettero incontrarsi piuttosto raramente. I rapporti fra i papi e i Longobardi si disegnarono in modo diverso nei diversi periodi, e fra le varie possibilità c’era anche la sostanziale indifferenza reciproca, appena velata da buoni rapporti ufficiali. Forse però, il vuoto dei rapporti romano-longobardi nel VII secolo è solo apparente, o meglio è tale al livello dei rapporti politici al vertice. Infatti scoperte archeologiche ci fanno intravedere, al livello dei rapporti economici, uno scenario ben diverso, nel quale l’officina romana scoperta a Roma, probabilmente annessa ad un monastero, produceva ed assemblava armi, finimenti di cavali, fibule, cinture ecc. che venivano poi vendute anche nelle terre longobarde, in particolare in quelle che facevano parte del ducato di Spoleto. A dichiarazione dei buoni rapporti che c’erano tra il clero e la popolazione longobarda ci viene a testimonianza il giuramento dei vescovi toscani i quali giuravano: “affinchè sempre fosse conservata la pace, che Dio ama, fra la respublica e nos, id est gens Longobrdorum” noi, cioè la gente longobarda; si definivano così i vescovi toscani, distinguendosi dagli altri vescovi in territorio bizantino che giuravano fedeltà solo alla respublica, cioè l’impero romano rappresentato da Bisanzio. 3.3 (L’offensiva di Liutprando) Che i vescovi toscani si sentissero più longobardi che ligi all’obbedienza romana lo dimostra il loro atteggiamento tenuto in occasione di una delle ricorrenti crisi del secolo VIII. E’ quanto emerge in modo clamoroso dal messaggio inviato da Gregorio III nell’ottobre del 740 ai vescovi della Tuscia longobarda, nel quale il papa li incitava a recarsi presso il loro re – Liutprando – per perorare la consegna delle città di Amelia, Orte, Bomarzo e Blera da quelli occupate. Nella lettera il papa usa parole dure, segno che i vescovi toscani erano restii a fare ciò che veniva loro chiesto, tanto che Gregorio III minaccia di recarsi direttamente di persona a Pavia sebbene debole di salute. I vescovi esitano a intervenire perché fanno parte della “gente longobarda”, sono cioè longobardi e appartengono politicamente al regno. Siamo giunti così all’VIII secolo, che segna la svolta decisiva nei rapporti fra papi e Longobardi: un rilievo particolare ha l’età di Liutprando che ci viene descritta da Paolo Diacono. In Paolo il primo riferimento diretto ai rapporti fra il re e la Chiesa di Roma chiama ancora in causa il patrimonio delle Alpi Cozie: - Secondo lui il re confermò alla Chiesa romana il possesso di tali territori - Secondo il Liber Pontificalis invece Liutprando si appropriò di quelle terre e le cedette alla Chiesa di Roma solo dopo un severo ammonimento di Gregorio II. Una differenza non da poco che introduce subito nella fonte romana l’immagine di un sovrano sempre in bilico, nei confronti del papa, fra durezza e docilità. Un altro episodio degno di nota è l’occupazione di Sutri da parte di Liutprando, il quale, secondo Diacono, la restituì dopo pochi giorni. Tuttavia il biografo di papa Gregorio II ci dice che i Longobardi occuparono Sutri con l’inganno e la tennero per centocinquanta giorni, a differenza di quello che dice Paolo Diacono. L’episodio è famoso per la donazione di Sutri che avvenne nel 728, la quale sarebbe stata, secondo la tradizione, la prima pietra su cui si sarebbe costruito il futuro Stato pontificio. tuttavia Sutri fu restituita al papa e non fu una donazione. Nel corso di queste vicende, i protagonisti si mossero ancora in modo tradizionale. Liutprando si fermò e risparmiò Roma, ritrovando un accordo con quel Gregorio II i cui ammonimenti egli considerava alla base di alcuni suoi provvedimenti di legge, nei quali lo aveva definito “capo in tutto il mondo di tutte le chiese di Dio e dei sacerdoti. Il papa dal canto suo non si sognava di rovesciare gli equilibri dell’Italia romana e si limitava a rivendicare ciò che era suo. Il punto di un rinnovato equilibrio i due protagonisti lo ritrovarono un momento prima che fosse tropo tardi, prima cioè che l’accordo fra il re e l’esarcato di Eustachio, spingesse Liutprando a lasciare il papa nelle mani di quest’ultimo, per avere in cambio via libera contro i duchi di Spoleto e Benevento, periodicamente ribelli e troppo autonomi. Come esito dell’accordo Liutprando sottomise i duchi ma, una volta arrivato alle porte di Roma, vinto dalle preghiere di Gregorio II depose a S. Pietro una parte delle sue insegne regali. Fu una prova clamorosa dell’ascendente di Gregorio II su Liutprando. In una chiave più politica possiamo leggere l’esito finale di questa vicenda in un altro modo, come una prova che i tempi per l’eliminazione diretta di Bisanzio in Italia non erano maturi, e che agli occhi del re l’interlocutore principale, per garantire comunque la sua egemonia sull’intera penisola, fosse il papa e non l’esarca, duramente criticato dagli eserciti italici di Bisanzio, i quali erano ormi avviati sulla via della costruzione di realtà locali autonome. Apparentemente tutto era tornato come prima. In realtà, la scossa subita dall’Italia romana era stata troppo forte e non poteva non riflettersi anche sul regno longobardo. Pochi anni dopo, anche per l’irruzione sulla scena italiana di nuovi protagonisti, le cose non andranno più alla stessa maniera, e lo stesso termine di “restituzione” assumerà un significato del tutto diverso. 3.4 (L’attivismo di Gregorio III) Il contrasto della narrazione di Paolo con il resto del Liber è piuttosto netto. Paolo trascura i rapporti fra il re e i api, soprattutto tace i momenti di accordo. Al contrario, nelle pagine del Liber Pontificalis il re longobardo è protagonista di lunghi e tormentati rapporti con ben tre papi: oltre a Gregorio II, infatti, furono molto intensi i rapporti con Gregorio III e Zaccaria, scanditi da scontri militari e soprattutto da incontri, alcuni dei quali drammatici. di Zaccaria, quello a Pavia, non si era svolto per motivi legati al ducato romano; alla base del viaggio c’era l’appello dell’esarca di Ravenna che aveva chiesto aiuto al papa contro la costante offensiva di Liutprando i quei territori. Secondo la versione del biografo, Zaccaria, sulla via di Pavia, fu accolto a cinquanta miglia da Ravenna prima dall’esarca e poi dalla popolazione plaudente. Il ritorno del papa a Roma è quello di un sovrano vincitore, quasi fosse un imperatore. Quelli fra Zaccaria e Liutprando sono i primi incontri solenni fra un papa e un sovrano dei regni occidentali. In essi Liutprando ostenta un ruolo di grande dignità, potremmo dire di superiorità: in entrambi casi il re aspetta il papa, non gli va incontro come fanno l’esarca di Ravenna e appunto Pipino a Ponthion: naturalmente er l’esarca ciò era prova di evidente debolezza. Inoltre è interessante il fatto che, dopo il regno di Liutprando, gli altri incontri non abbiano minimamente fornito spunto ad altre descrizioni. Già per l’incontro fra lo stesso Zaccaria e Ratchis a Perugia, nel 749, si torna ad una descrizione abbreviata e di genere. 3.6 (Una situazione fluida) Da questa analisi delle fonti relative ai rapporti tra papato e i Longobardi si ricava una lezione precisa: questi rapporti non vanno letti in una chiave deterministica, come s e non potessero, cioè, finire in altro modo. Dietro tale rifiuto c’è la consapevolezza che, se le cose potevano in vari momenti prendere pieghe diverse, è perché da parte papale non c’era quella chiara coscienza della strada da percorrere che troppo spesso viene invece presupposta. E’ caratteristico di come si vada disponendo il puzzle costituito dalle fonti a nostra disposizione, tutte ormai invischiate in discorsi con fini molto diversi, segnati dalla propaganda: es. l’alleanza fra Longobardi e Franchi mai citata nelle fonti franche e in quelle papali. All’opposto era interesse dei Franchi, nei decenni successivi al 774 ricordare un altro fatto: e cioè che già Gregorio III aveva chiesto loro aiuto contro Liutprando. I franchi in quest’occasione tuttavia rifiutarono di aiutare il papato. Da parte papale, invece, poiché era il racconto di un fallimento, la richiesta di aiuto ai Franchi fu taciuta nella versione principale della vita di Gregorio III. Essa è presente nella così detta “recensione franca” del Liber: il fatto che la storia dell’invito circoli solo in questa particolare versione è la controprova della rielaborazione delle fonti avvenuta nell’ambiente carolingio. E’ evidente l’interesse da parte franca nel presente i fatti in modo tale da creare un precedente rispetto agli eventi che si verificarono circa trent’anni più tardi. Gli sviluppi della crisi italiana vanno letti nel loro preciso contesto, che era in continuo mutamento talvolta a distanza di pochi anni. Al suo interno l’evoluzione politica della penisola avrebbe potuto prendere anche strade diverse da quelle che poi effettivamente imboccò. Da parte longobarda si trova la medesima normalità di comportamenti. Si spiegano così atti come la collaborazione tra Gregorio II e Liutprando, ciascuno nel proprio ambito, per la risoluzione della controversia fra gli episcopati di Siena e Arezzo; o la richiesta di chiarimenti in materia di matrimoni illeciti; o ancora la concessione del pallio a Severo d’Aquileia da parte di Gregorio II. Sono prove della ricerca costante di un dialogo con Roma da parte dei vertici politici e religiosi del regno longobardo, una ricerca che si snodava parallelamente alle difficili situazioni politiche e militari che di quando in quando si determinavano, senza mai però interrompersi. In queste condizioni sembra difficile poter sostenere ancora l’esistenza di una presunta, persistente estraneità culturale dei Longobardi rispetto alla Chiesa di Roma. Cap.4 – Il passaggio dai Longobardi ai Carolingi 4.1 (“Essendoci stato consegnato il popolo dei Romani”) Le campagne condotte da Liutprando durante il suo lungo regno lo avevano portato a un passo dal dominio completo della penisola, con la sottomissione al potere centrale dei duchi di Spoleto e Benevento e il progressivo smantellamento del dominio bizantino. Alla fine il re si era fatto convincere da papa Zaccaria e aveva risparmiato Ravenna da un secondo attacco. Era rimasto così in piedi un embrione dell’Italia bizantina, che poggiava sul prestigio spirituale e sull’abilità diplomatica dei papi, i quali fermarono per ben due volte Liutprando dal conquistare Roma e Ravenna. Lo stallo fu superato dall’improvvisa morte del re, nel gennaio del 744. Con il nuovo sovrano Ratchis infatti, papa Zaccaria stipulò, non solo a nome della sola città di Roma ma di tutta l’Italia bizantina, un pace ventennale. Ratchis riprese le ostilità, nonostante la pace firmata: ma anche egli si fece fermare da papa Zaccaria, che lo convinse a togliere l’assedio a Perugia. Poco dopo questi fatti, nel 749, Ratchis rinunciò al titolo regio entrando in monastero. Ciò è probabile dovuto alla presa di potere del fratello Astolfo. Astolfo, ex duca del Friuli, come re si rivelò molto meno malleabile del fratello. La mobilitazione militare del 750 fu la prova chiara delle sue intenzioni, che si concretizzarono nella presa di Ravenna (751): l’ultimo esarca di Ravenna si consegnò; Ferrara, Comacchio e l’Istia il re le prese combattendo. E’ possibile, e sarebbe la prova definitiva della decomposizione politica dell’Italia bizantina in unità indipendenti, che gli stessi Venetici si schierarono a fianco dei Longobardi nella conquista di Ravenna. Nel 751 l’Italia intera era nelle mani di Astolfo, il quale si definì, nel prologo delle sue leggi, “re della stirpe Longobarda, essendoci stato consegnato da Dio il popolo dei Romani”. Longobardi e Romani, abitanti del regno e dell’esarcato erano ormai ugualmente soggetti al re. Nello sbando generale dell’Italia bizantina, l’unico potere in grado di avere un minimo di rappresentatività collettiva, scomparso l’esarca, era il papa. Di qui nacque l’alleanza stretta progressivamente tra questi e la corte dei maestri di palazzo franchi; tuttavia il rapporto tra Pipinidi e papa non fu costruito linearmente, ma fu costruito nel tempo non senza passi indietro e diffidenze reciproche. La posizione di Desiderio in questi anni appare molto forte, e ciò rinforza l’idea che egli potesse contare su una sponda politica all’interno del regno franco. La svolta politica definitiva si ebbe con la morte di Carlomanno nel dicembre del 771, che provocò un fortissimo indebolimento del sistema politico messo n piedi da Desiderio. Il primo atto fu un vero e proprio rovesciamento delle alleanze: carlo ripudia la sua sposa longobarda, sposando la sveva Ildegarda. Come risposta Desiderio accolse a Pavia la vedova di Carlomanno Gerberga con i suoi due figli. Nella nuova situazione che si era creata con la morte di Carlomanno, il re longobardo indurì fortemente la sua pressione sul papa, che dal 772 era divenuto Adriano I. C on lo scopo di fargli ungere re i due figli di Carlomanno, il re iniziò a devastare le terre della Chiesa romana, giungendo vicino alla stessa Roma. Nella primavera del 773 era Viterbo, ma non procedette oltre, e in questa sua decisione più che la minaccia di anatema inviatagli dal papa dovette pesargli la notizia della mobilitazione dell’esercito franco. Carlo infatti nell’estate del 773 passò le Alpi, rispondendo all’appello del papa, e sconfisse i guerrieri di Desiderio alle Chiuse di Val di Susa. Stavolta non ci fu solo una vittoria militare franca e una pace di compromesso: nel giro di un anno l’intero regno longobardo cadde in mano franca. Desiderio e la sua famiglia furono catturati e inviati in Francia. Sono gli Annali franchi a sottolineare che il re fu catturato con “la moglie e la figlia”. 4.3 (La superiorità militare dei Franchi) Solo il sud longobardo, ossia il ducato di Benevento, era sfuggito alla conquista franca. Stavolta dunque la sconfitta militare era stata totale e senza appello. E’ evidente che dietro questo esito ci dovevano essere cause profonde. I due regni rappresentavano entrambi due strutture politiche piuttosto evolute: è possibile che la sofisticazione dell’impalcatura statale longobarda fosse più complessa di quella franca. La differenza dunque doveva essere innanzitutto sul piano strettamente militare. Se ragioniamo in termini di tecniche belliche e di armamento in senso stretto, però, la superiorità franca non emerge così nettamente come un tempo riteneva la storiografia. Entrambi i regni basavano il nucleo della loro forza militare sulla cavalleria pesantemente armata. Va sottolineato inoltre che c’era un’evidente differenza di scala fra la ricchezza fondiaria dell’aristocrazia franca e quella longobarda, e che quest’ultima era meno ricca di terra e dunque meno potente. La spina dorsale del regno longobardo era invece formata dai piccoli e medi proprietari fondiari, i quali costituivano la base numericamente più nutrita dell’esercito regio. I loro omologhi franchi erano invece abituati ad una convocazione annua per le spedizioni di saccheggio-repressione al di là dei confini franchi: l’abitudine mentale alla guerra e l’addestramento dei franchi era anche dovuto ad esempio alla presenza di popolazioni barbariche al di là del confine del Reno (popolazioni come Sassoni e Frisoni). Tutto ciò spiega lo stato di guerra permanente in cui versava il grande regno franco e la sua aristocrazia. Da parte loro i Longobardi si erano anch’essi dovuti confrontare con dei vicini scomodi, gli Avari e poi gli Slavi, che dai confini nord-orientali premevano per sboccare nella pianura padana orientale. Ma l’entità degli scontri era stata sempre infinitamente minore; l’unico nemico veramente minaccioso, gli Avari, dopo il 610 non tentarono più incursioni in Italia ma si volsero a oriente, verso i Balcani e l’impero bizantino. 4.4 (I problemi interni di Desiderio) Come abbiamo visto, lo scontro alle Chiuse di Val di Susa era risultato subito decisivo. Una volta spezzata la difesa longobarda, infatti, i Franchi erano dilagati nella pianura padana e Desiderio e Adelchi erano stati costretti a richiudersi rispettivamente, ma invano, dentro Pavia e Verona. Già prima della battaglia però si erano verificate delle defezioni importanti nello schieramento longobardo, che faceva presagire un possibile smottamento generale. - Molti aristocratici longobardi avevano condannato la cupidigia di ricchezze di Desiderio e avevano invitato Carlo a venire in Italia e prendersi il regno. - Desiderio inoltre sfrutto le divisioni dell’aristocrazia veneto-friulana. Divisioni però che perdurarono e che costituirono un potente fattore di disgregazione del tessuto politico del regno, facendolo arrivare indebolito al momento dello scontro. 4.5 (Sottomissioni e rivolte) Se la situazione interna del regno prima del 774 era quella ora descritta, è evidente che l’elemento primo della sua disgregazione non risiedeva nel fatto di doversi confrontare con il papa. Un rifiuto generalizzato, o comunque diffuso, di combattere per Desiderio, per non doversi scontrare con uno schieramento animato dal papa, avrebbe dovuto lasciare tracce evidenti nell’atteggiamento dei vescovi; ciò invece non è affatto riscontrabile. Al contrario, abbiamo segnali evidenti di un coinvolgimento delle stesse gerarchie ecclesiastiche del regno nella lotta anti-franca e dunque anti- papale. E’ noto l’esempio del vescovo Walprando, di Lucca: nel luglio del 754 egli partì per seguire il re Astolfo in guerra. E’ certo che il vescovo lucchese partecipasse allo sforzo bellico per fronteggiare i Franchi; non c’era nessuna solidarietà, da parte di Walprando, con la Chiesa romana. (Abbiamo già citato i vescovi della Tuscia, riluttanti ad obbedire a Gregorio III per recarsi a Pavia). Tutti i dati concordano insomma nel delineare i tratti di un episcopato compatto dietro i propri sovrani. I membri del ceto vescovile nel VIII secolo erano espressione diretta del ceto dominante del regno; i suoi esponenti infatti erano membri delle famiglie localmente potenti e ricche di terre. Quanto alle defezioni dei Longobardi non membri del clero, avvenute nel corso dell’ultima e decisiva guerra anti-franca, l’unica lettura possibile di tale atteggiamento è politica, in opposizione a Desiderio. Non erano i vescovi come tali, dunque, a contrapporsi a Desiderio, ma una parte dell’aristocrazia. Inoltre si sa che alcuni esponenti di spicco del ducato di Rieti e del ducato di Spoleto, capeggiati da un certo Ildeprando, si rifugiarono a Roma per evitare la chiamata alle armi di Desiderio. Qui, dopo la sconfitta di Desiderio, Ildeprando fu nominato duca di Spoleto. Questa fu una mossa giocata moto abilmente da papa Adriano I, in risultassero provocate da situazioni di necessità. La molla che potrebbe aver costretto venditori e donatori a compiere certi atti veniva individuata nella carestia, la necessitas famis, e quindi si stabilisce che se, dopo un attento esame, ciò sarà provato, tali atti andranno stracciati. Vi fu quindi un lungo periodo di disordine, avviatosi negli ultimi caotici mesi del regno di Desiderio. La situazione era critica un po’ ovunque, e le disposizioni di Carlo Magno puntavano a restaurare un minimo di ordine sociale e di protezione dei pauperes, secondo i suoi doveri di sovrano cristiano. A favore delle chiese suona una lettera solenne scritta nel 779-780 da Carlo Magno e rivolta ai vertici del regno longobardo occupato, dai conti in giù, nella quale il sovrano li invitava all’obbedienza verso le gerarchie ecclesiastiche “in quelle cose che riguardano Dio” ed esortava al pagamento regolare delle none, delle decime e degli altri censi. Un solo esempio può essere sufficiente per chiarire le novità introdotte dai Franchi. Nonostante il loro reclutamento ai livelli più alti dell’aristocrazia del regno, vescovi e abati prima del 774 raramente avevano collaborato con i sovrani dal punto di vista istituzionale. In età carolingia, invece ciò divenne la normalità. Nei trentuno resoconti delle assemblee politico-giudiziarie italiane che sono stati tramandati fino a noi per il periodo 774-820, ben dodici volte sono vecovi o abati che presiedono il giudizio e altre sei vote compaiono in questo ruolo preti, arcipreti e diaconi; inoltre, come abbiamo detto, fra i missi che ressero il regno in qualità di tutori di Pipino (figlio di Carlo e re dei Longobardi), figurano due abati. 4.8 (La fase più dura dell’occupazione) L’Italia longobarda, ad un esame ravvicinato, ci appare sempre più caratterizzata da diversità regionali molto nette. Le nuove istituzioni politiche (i conti) furono installate più rapidamente là dove c’era una situazione difficile da controllare: molti bene confiscati vennero dati in beneficio là dove c’era bisogno di impiantare una vera e propria occupazione militare. Nel 812 finisce la parte più aspra dell’occupazione militare e c’è quindi la conseguente messa a regime dei meccanismi di funzionamento della dominazione carolingia in Italia. Il diploma del 808 è significativo di un clima che cominciava a cambiare. Con esso, l’imperatore restituiva a Manfredo di Reggio i beni confiscatigli come garanzia quando era stato esiliato in Francia insieme ad alri longobardi. Veniamo così a sapere che Carlo aveva preso numerosi ostaggi. E’ però l’esempio di Aione che consente di chiarire la questione della sostituzione o meno della casse dirigente longobarda ad opera dei Franchi. Tale sostituzione non fu affatto né rapida né totale, così come fu lenta l’introduzione degli usuali meccanismi di governo franco: i conti infatti non sostituirono immediatamente i duchi, ma andarono solo dove c’erano situazioni tese da controllare. 4.9 (Vassalli e signori) Fu solo fra il terzo e il quarto decennio del IX secolo che, insieme con i conti e i vescovi transalpini, arrivarono in Italia molti nuovi vassalli. Terminata la fase dell’emergeza, dunque, le istituzioni vassallatico- beneficiarie dimostrarono un radicamento lento della società longobardo-italica. L’importanza delle istituzioni vassallatico- beneficiarie è innegabile, al punto che il loro trapianto in Italia rappresenta senza dubbio una elle maggiori novità introdotte dai Franchi. Fin dai primissimi tempi i Longobardi si erano inseriti all’interno delle nuove clientele franche. Pur essendo un uso tipico degli immigrati, quindi, il vassallaggio si diffuse superando con relativa facilità le barriere etniche. Rimane in piedi il dubbio sulla reale diffusione delle istituzioni vassallatiche, che anche nell’ambito delle prestazioni militari dovettero sempre fare i conti con tipi diversi di subordinazione fra uomini liberi che erano più caratteristici della società italica. Il caso più evidente è quello testimoniato da un contatto amiantino dell’809, fra i due fratelli Boniperto e Leuperto e il monastero di S. Salvatore, nel quale i due si impegnavano a pagare un certo canone agrario, che però in caso di chiamata dell’abate all’esercito regio era sostituito dalla loro partecipazione alla spedizione “cum caballu et vestitu”, ossia con il cavallo e l’armamento completo. Sempre nelle campagne, a mano a mano che ci si inoltra nel IX secolo, molti uomini liberi, piccoli proprietari fondiari, verranno attratti nelle maglie della grande proprietà fondiaria in forte crescita. Così le dipendenze contadine , anche da parte di uomini un tempo definibili come arimanni, aumentarono di numero. L’Italia longobarda insomma entrò nel mondo franco conservando molte delle sue specificità. Tuttavia queste specificità non intaccano un dato di fondo, e cioè che nelle sue linee portanti il regno longobardo aveva assunto una fisionomia che aveva molti tratti in comune con quella del regno franco. Era la conquista di un regno cattolico, molto simile a quello franco e allo stesso tempo ad esso politicamente estraneo. Non si trattò insomma di un fatto normale: e di qui discende la grande difficoltà a raccontarlo che trapela dalle testimonianze contemporanee. Cap.5 – Narrare la caduta. La fine del regno longobardo fra propaganda e memoria. 5.1 (La voce dei vincitori e quella dei vinti) Sarebbe logico ritenere che un fatto importante come la caduta del regno longobardo nelle mani degli invasori franchi fosse largamente testimoniato dalle fonti. Invece non è affatto così. Infatti se si dilata la prospettiva temporale, fino ad arrivare almeno al secolo XI, la prospettiva cambia. Alcune interessanti rievocazioni della fine del regno longobardo ci sono. Ad esempio il Chronicon Salernitanum, della fine del X secolo, ci fa un ritratto drammatico dell’ultimo redi stirpe longobarda, Desiderio, che viene trascinato via in catene ed è fatto accecare dal suo crudele vincitore. Sono notizie interessanti, che provano l’esistenza di una tradizione filolongobarda mantenutasi nel tempo. Nel caso della battaglia delle Chiuse, l’esito sarebbe stato deciso, secondo il Chronicon della Novalesa, dal tradimento di un giullare “di stirpe longobarda”, che avrebbe indicato a Carlo Magno la via per aggirare le fortificazioni e prendere l’esercito di Desiderio alle spalle. Anche la successiva caduta di Pavia sarebbe stata da imputarsi ad un tradimento, in questo caso della figlia di Desiderio che, in cambio della promessa da parte di Carlo di sposarla, gli avrebbe aperto le porte della città, finendo poi calpestata dagli zoccoli dei cavalli dei guerrieri franchi che irrompevano dentro le mura. Dal canto suo Desiderio, presentato come un pio sovrano cristiano, si arrende a quella che interpreta come la volontà di Dio. la figlia di Desiderio, fase immortalata dalla celeberrima lettera in cui il papa, che sta volta è Stefano III, definisce i longobardi una “perfida e fetentissima gente, dalla quale si è originata la stirpe dei lebbrosi”. E’ la lettera da cui siamo partiti per dipanare tutta la matassa legata alla vicenda del matrimonio, sulla quale pesa una evidente e precisa strategia di damnatio memoriae perseguita inflessibilmente dalle fonti papali e franche. Anche i pericoli di riscossa longobarda successivi alla sconfitta di Desiderio hanno grande rilievo nelle lettere papali, ma qui il tono non raggiunge mai il grado di violenza verbale legato ai due episodi precedenti. Ed è significativo dell’ottica papale che nelle lettere non appaia mai in primo piano la vera e propria rivolta friulana, il solo episodio citato invece negli annali franchi, che evidentemente avevano ben valutato la pericolosità dell’opposizione armata del ducato longobardo nord-orientale; il complotto, nell’epistolario, ha come protagonista Adelchi, nei quali confronti papa Adriano I utilizza espressioni forti. Pur nell’evidente preoccupazione di Adriano I, il linguaggio relativamente misurato dimostra che, a differenza dei due episodi precedenti, in questo caso egli non dubita dell’appoggio di fondo di Carlo. Naturalmente bisogna intendersi sul concetto di “misurato” riferito al linguaggio della cancelleria papale com’è riflesso nel Codex Carolinus. Ad esempio, un aggettivo pesante come nefandissimus scatta automaticamente nell’epistolario per tutti coloro che si ritrovano sul fronte opposto rispetto agli obiettivi in quel momento perseguiti dalla Chiesa di Roma. Lo stesso linguaggio è utilizzato inoltre da altre fonti di parte ecclesiastica. Nel descrivere le dure condizioni imposte alla sua chiesa da parte dei Longobardi negli anni precedenti al 774, il patriarca Grado Giovanni usa espressioni come “perfida gente dei Longobardi, crudelissimi Longobardi”. Sono espressioni del tutto analoghe a quelle papali, la retorica politica è la medesima. E’ possibile, tuttavia, anche un’altra osservazione: da parte ecclesiastica c’è una persistenza del linguaggio politico che appare saldissima. E’ probabile che le radici di tale linguaggio risalgano proprio alla seconda metà del VI secolo, all’età di Pelagio II e di Gregorio Magno. 5.3 (La propaganda papale: le vite dei pontefici) L’altra fonte di cui disponiamo, il Liber Pontificais, è stata forse anche più sfruttata del Codex Carolinus. Il Liber è un testo molto studiato, ma sul quale i risultati raggiunti sono tutt’altro che concordi e definitivi. Un motivo delle difficoltà sta senz’altro nella complessa e variegata tradizione del Liber. Il Liber, quindi, circolava in molte versioni differenti, un fatto questo di cui abbiamo già accennato e di cui parleremo di nuovo più avanti. A ragione, probabilmente, è stato messo in luce di recente come buona parte almeno di questa varietà di classi testuali vada ricondotta all’ambiente stesso di produzione, che era senza dubbio quello patriarchico lateranense: la varietà di classi è tale da far addirittura dubitare che sia mai esistita una versione definitiva e quindi ufficiale del Liber stesso. Da qui si può prendere lo spunto per ragionare se esso fosse da intendersi come la voce del papa ovvero della Chiesa romana: un ragionamento che potrebbe portarci a indebolire il carattere del Liber in quanto espressione ufficiale delle posizioni dei pontefici. Il Liber Pontificalis è quanto di più simile ad una fonte ufficiale abbia espresso il patriarcato lateranense. Dobbiamo ammettere però che non abbiamo la possibilità di arrivare a distinguere tra posizioni dei papi e posizioni della Chiesa romana. Allo stesso modo è sbagliato distinguere tra un’èlite clericale e una laica: di questi gruppi e del loro vertice è voce ufficiale il Liber Pontificalis. Una lettura incrociata di questo testo e delle lettere papali consente delle osservazioni interessanti: - 1) I Longobardi e il loro re, dopo una pausa lunghissima di più di un secolo, riappaiono in modo significativo nel Liber solo con la biografia di papa Zaccaria. In essa il trattamento riservato a Liutprando è solo politico, se si accentua l’esultanza finale per la sua morte, che suona un po’ incongrua rispetto al tono generale della vita. - 2) La biografia di Stefano II può essere letta in perfetto contrappunto alle durissime lettere inviate dalla sua cancelleria. La portata della minaccia politica rappresentata da Astolfo lo fa definire con tutti gli aggettivi negativi possibili (protervo, nefando, crudelissimo, atrocissimo, blasfemo ecc.). L’azione che più di tutte lo caratterizza è la rappresaglia contro Roma del 756, la stessa descritta con toni accorati nelle lettere. - 3) Il cambio di registro impresso dalla vita di Stefano II coincide pienamente con la testimonianza dell’epistolario: il periodo caldo è quello che inizia intorno al 750. Invece le vite successive, quelle di Paolo I e di Stefano III, fra il 757 e il 772, sono di non semplice valutazione: La prima è de tutto priva di riferimenti politici, mentre la seconda è divisa in due parti, di cui la prima è dedicata agli avvenimenti successivi alla morte di Paolo. - 4) Con la vita di Adriano I le cose cambiano: ormai il nodo è sciolto e la questione longobarda è in via di risoluzione. Carlo, dopo che Carlomanno è morto nel dicembre del 771, è divenuto unico sovrano dei Franchi e la figlia di Desiderio è stata ripudiata, e a questo punto la dinamica politica si è rimessa in moto nei binari precedenti, nonostante i tentativi di Desiderio di manovrare i figli di Carlomanno. Desiderio non è presentato come il tiranno Astolfo, ma è comunque un re arrogante, accecato dalla superbia. Se dunque Desiderio non è demonizzato, tuttavia la retorica papale tocca qui di nuovo vertici elevati, ma su un versante diverso, sforzandosi di mostrare il favore divino che sta dietro all’operare di Carlo. Ed è qui che finalmente sono descritti gli eventi del 774, che erano assenti invece nell’epistolario. Il parallelismo fra la descrizione della prima campagna di Pipino, vent’anni prima, e quella di Carlo è evidente, anche se gli accenti sono messi in punti diversi. In entrambi i casi è il favore divino che dà la vittoria ai Franchi, ma nel primo caso lo si chiama in causa solo per spiegare come questi, pochi di numero, abbiano potuto vincere. Nel secondo caso invece Dio infonde il terrore nel cuore di Desiderio, di Adelchi e di tutti i Longobardi, che addirittura fuggono senza combattere: l’immagine è evidentemente molto più forte. Questo è il racconto del 774 nel Liber Pontificalis, che però sembra interessato più che altro a descrivere gli eventi che si verificano nell’Italia centrale in conseguenza alla vittoria dei Franchi, con le sottomissioni ripetute delle varie città i cui maggiorenni vanno a Roma a giurare fedeltà a S. Pietro. così. Questa versione, che accentua la giustificazione dell’intervento di Pipino e Carlo alla luce di fatti precedenti che vengono reinterpretati, prova la plasmabilità del testo delle biografie papali e introduce quindi perfettamente una riflessione sull’altra versione del Liber, la così detta “recensione longobarda”, sulla quale rimangono in piedi molti interrogativi. La recensione longobarda porta una riscrittura della vita di Stefano II che espunge sistematicamente le espressioni offensive e denigratorie nei confronti di Astolfo e del popolo longobardo. E’ l’unica biografia sulla quale si è esercitata quest’opera di revisione: vengono messi a tacere gli aggettivi negativi nei confronti dei longobardi e anche quelli che lodano Pipino. In questo modo ci troviamo difronte ad un nudo racconto dei fatti al cui interno l’intervento di Dio e di Cristo, che non è cancellato, appare semplice frutto dell’imperscrutabile giudizio divino. E’ ovvio che ci troviamo difronte ad una versione scritta per gli abitanti del regno longobardo, o meglio ancora per la classe dominante del regno. 5.5 (Frammenti di memoria) Tornando alla prospettiva longobarda, si può forse trovare una memoria del 774 annidata in fonti non del tutto prevedibili. Infatti c’è un modo di datare, che è specifico dei notai toscani e in particolare dei lucchesi, tra la fine dell’VIII secolo e gli inizi del IX, che appare interessante. In esso compare costantemente il riferimento alla conquista del regno longobardo da parte di Carlo, con espressioni di questo tipo “Regnante il nostro signore Carlo r dei Franci e dei longobardi, nell’ano del suo regno da quando conquistò la Langobardia…”; segue poi il numero di anni di regno successivi alla presa di Pavia. Per necessità le carte registrano immediatamente i mutamenti del regime. Può essere significativo il fatto che altrove si usino modi diversi di datare, che pur riferendosi a Carlo non sottolineino la conquista? Infatti nelle carte dell’Italia settentrionale la frase “da quando prese la Longobardia” è quasi del tutto sconosciuta. Ci furono diversi tipi di datazione: - Quella proposta da Taindo, un gasindo di Desiderio - Quella contenuta in una carta piacentina del 6 maggio 774 in cui si parla di “tempo barbarico”, ossia crudele e violento. - Quella contenuta in una carta friulana del 778, nella quale si parla della conquista di Carlo dell’area friulana. Rimane il fatto, tuttavia, che il 774 ha segnato in modo chiaro solo la datazione dei documenti toscani; altrove invece questo non è successo se non in misura minima. Nelle carte lucchesi il riferimento alla conquista rimane costante fino alla morte di Carlo, anche quando questi, con grande enfasi, è chiamato col titolo imperiale. A mano a mani che si scende verso sud il ricordo della conquista comincia a sbiadire nelle datazioni. 5.6 (Prospettive regionali) Si può individuare un altro testo dello stesso tipo della recensione longobarda del Liber, la cui originalità risulta ugualmente dal rimaneggiamento di un testo precedente. Si tratta della così detta “Continuazione cassinese” di Paolo Diacono, contenuta in un codice cassinese datato all’inizio del XIV secolo, copia a sua volta di un manoscritto perduto della second metà del X secolo. La “Continuazione cassinese” è in realtà una sorta di premessa della “Storia dei Longobardi di Benevento” di Erchemperto, del secolo IX, che inizia il suo racconto dopo il 774. Essa consiste in una brevissima storia del regno longobardo a partire da Liutprando, un re di cui racconta le numerose conquiste; la narrazione continua e si arriva fino l regno di Astolfo, facendo tornare al centro dell’attenzione la vita di Stefano II. Nella Longobardia minore esiste un’altra versione fortemente filo- desideriana della fine del regno, che in questo caso risale a meno di un secolo dai fatti. Si tratta del prologo delle leggi del principe beneventano Adelchi II, che contiene una vera contro-storia della caduta del regno. Nel prologo Carlo è presentato come un traditore, invidioso e infido. Le fonti longobarde meridionali del secolo IX dunque contengono brevi narrazioni dei fatti del 774; non li tacciono, ma li presentino in modo neutro oppure nettamente anti-franco. 5.7 (“La spada dei Longobardi”) Le differenti narrazioni della caduta vanno quindi lette innanzitutto in riferimento al contesto temporale in cui furono prodotte. Ma anche l’origine geografica è fondamentale per poterle interpretare correttamente: non è un caso che già in riferimento all’VIII secolo sia emersa una possibile prospettiva locale, toscana, o addirittura lucchese. L’impressione è che le versioni dei fatti legati in senso lato alla caduta del regno che emergono dal mondo longobardo siano versioni regionali, in sintonia con il generale processo centrifugo avviatosi nell’Italia longobarda del tardo secolo VIII. E non stupisce che queste versioni emergano dalle zone politicamente più importanti: l’Austria, o meglio il Friuli, con la sua potente aristocrazia; il Beneventano, da sempre un solido principato semi- autonomo per di più collegato al Friuli, e la Tuscia, che sicuramente ricopriva anch’essa un ruolo chiave e che era essa pure legata ai Friulani. Entrambe, la fragile prospettiva longobardo-italica degli eventi del 774 e dintorni, così come la debordante versione dei vincitori, i Franchi e il papato, si propongono dunque come uno specchio deformante degli equilibri e delle realtà politiche del periodo, confermando così l’utilità di studiare insieme, in uno spettro ampio di scritture, la politica e la memoria della politica, i fatti e la loro interpretazione. Simbolicamente il nostro discorso può concludersi facendo riferimento ancora una volta alle fonti legate alla controversia fra Siena e Arezzo, per mostrare come al loro interno cambi il rapporto con il passato. Torniamo per un momento indietro fino al 650, al primo documento della lite, che rappresenta anche il più antico documento longobardo di origine non regia sopravvissuto: un accordo, rivelatosi poi quanto mai fragile, fra Mauro vescovo di Siena e Servando di Arezzo, che dette ragione al secondo. In esso si rievoca con precisione il passato romano: si fa riferimento al governo del bizantino Narsete, durato fino al 568. Già nel 714, nel giudizio dell’inviato di Liutprando, Ambrogio, il periodo più antico è diventato un generico e vago “tempo dei Romani”. Per contro, si dice che vi è nozione precisa che le pievi siano appartenute ad Arezzo, ma solo “dopo che i Longobardi entrarono in Italia e fino al tempo presente”. L’anno dopo, una volta fatta l’inchiesta di Gunteram, il concilio dei vescovi toscani fece vincere di nuovo Arezzo. In questo caso l’ origine della proprietà di Arezzo furono fatte risalire più indietro,