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Italo Svevo. La coscienza di Zeno e continuazioni., Sintesi del corso di Letteratura

Italo Svevo. La coscienza di Zeno e continuazioni.

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018
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Caricato il 01/02/2018

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Scarica Italo Svevo. La coscienza di Zeno e continuazioni. e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura solo su Docsity! Italo Svevo. La coscienza di Zeno e continuazioni. Introduzione. Zeno. (di Mario Lavagetto). Quando la guerra finisce e il violino viene abbandonato, Svevo si trova a tu per tu con la letteratura e, nel 1919, comincia a scrivere “La coscienza di Zeno”. Nel 1926 Svevo scrive a Montale una lunga lettera, in cui definisce la specificità e descrive la genesi del suo terzo romanzo: «È vero che la Coscienza è tutt'altra cosa dei romanzi precedenti. Ma pensi ch'è un'autobiografia e non la mia... Ci misi tre anni a scriverlo nei ritagli di tempo. E procedetti cosí: quand'ero lasciato solo cercavo di convincermi d'essere io stesso Zeno. Camminavo come lui, come lui fumavo e cacciavo nel mio passato tutte le sue avventure che possono somigliare alle mie...». la formula è brillante e richiama alla mente la definizione del romanzo come autobiografia del possibile. Per Svevo, chi scrive un romanzo deve crederci, anche se è consapevole che la realtà mai si svolse così. Svevo aveva cercato di convincersi di essere lui stesso l’impiegato Schmitz; si tratta di un personaggio che viene ripetutamente e clandestinamente meno al progetto che aveva presieduto alla sua nascita: sono le lettere-commemorazione, scritte dopo il 25, a regalare a Schmitz l’immunità contro la letteratura che non era riuscito a procurarsi nella vita quotidiana. Ma Schmitz sopravvive alle commemorazioni. E basta che Svevo esca del territorio della sua prodigiosa ultima stagione, perché la voce di Schmitz torni a farsi sentire: porta a galla una consapevolezza letteraria di gran lunga inferiore a quella che sembra essere presupposta dai romanzi e dai racconti di Svevo. Ma se a tratti si ha l’impressione che Svevo sia sopraffatto dal suo sosia, accade più spesso di pensare che quell’invenzione fosse anche molto redditizia, uno strumento per mettersi tra virgolette e mettere tra sé e le cose quella distanza ironica da cui sono vigilate le pagine narrative; uno strumento anche per raccogliere e selezionare indisturbato i materiali necessari a una ricostruzione che si sarebbe trasformata poi, nel romanzo, in una nuova costruzione. Svevo riprende anche Svevo: il palinsesto della Coscienza lasca affiorare altre scritture. Basta pensare al “Diario per la fidanzata”, dove il tema del fumo è certo prelevato dalla biografia, ma è già un tema, è già scritto, già modulato. O pensare anche alla lettera sulla morte della madre che Svevo scrive al fratello Ottavio nel 95, dove l’agonia è descritta con lucida freddezza: riscontrabile in “Specifico del dottor Menghi”. Così la voce di Zeno sembra a tratti trovata con un anticipo di oltre 15 anni. Se esaminiamo la composizione del capitale accumulato alle spalle di Svevo nel 19, quando comincia a scrivere la Coscienza, un’attenzione particolare merita la psicoanalisi. Svevo le si accosta intorno all’11 e riconoscerà che si tratta in ogni caso di una grande cosa per romanzieri. Svevo se ne serve per risolvere un problema strettamente letterario: la creazione di un narratore inattendibile, calato nei panni di un vecchio bugiardo che scrive. I problemi posti dalla creazione di un simile narratore rientrano all’interno di un problema letterario più generale: la rappresentazione della bugia, che non presenta particolari difficoltà se il narratore è onnisciente e se può contrapporre la sua parola vera a quella falsa di uno dei suoi personaggi. La menzogna, in tal caso, è precisamente localizzata e circoscritta da ciò che la contraddice e la denuncia. Ogni parola di ogni racconto che noi leggiamo o ascoltiamo è soggetta all’ipoteca della menzogna. Il parlante è un mentitore potenziale e non nel senso in cui ci è stato detto molte volte che la letteratura è menzogna, vale a dire invenzione e non accaduto. Questo si verifica non soltanto quando il narratore è un bugiardo che si proclama tale, ma anche quando il narratore rivendica la propria attendibilità. Non rivendica l’onniscienza, ma la buona fede: si attiene ai fatti, ci racconta quello che i suoi occhi hanno veduto. Per Kafka confessione e bugia sono la stessa cosa. Ciò che si è non lo si può esprimere, appunto perché lo si è; non si può comunicare se non ciò che non siamo, cioè la menzogna. Zeno il prodotto di questa necessità. Svevo lo ha costruito con un abile stratagemma: è un personaggio fittizio e quindi la sua confessione potrebbe essere vera. Ma Svevo ha risolto un problema tecnico inventandosi un genere impossibile: un’autobiografia altrui, alla quale si potrebbe riconoscere al massimo un’ineffabile probabilità non diversa, secondo Gadda, dalla probabilità fisica che si incontra nella teoria dei quanti. Alla figura del narratore inattendibile è complementare quella del lettore incredulo, che può essere considerato a sua volta un effetto del testo e la cui creazione comporta la risoluzione di ulteriori difficoltà tecniche. Prima fra tutte, il bisogno di mettere in mora la naturale credulità dei lettori, che costituisce la più antica ed economica fonte di energia per il funzionamento di una macchina pigra. È qui, nel risolvere questi problemi, che la psicoanalisi si rivela uno strumento prezioso per cerare “quel” narratore e per mantenere in vita un lettore costretto all’incredulità. Non c’è una parola, non un gesto compito da Zeno narratore e da Zeno personaggio che non si delinei come un residuo, come un epifenomeno dell’inconscio, la cui rappresentazione in forma di consapevolezza è allora il risultato di una crudele parodia. Il lettore deve rassegnarsi a non sapere niente altro che quello che Zeno ha raccontato, magari a sospettare e a sapere con quasi certezza che Zeno ha mentito. Proprio come la letteratura, la confessione di Zeno non ha alcun debito obbligatorio con la realtà. La verità esiste da qualche parte, dietro le parole, e non può essere affidata che all’interpretazione, quella più antica della stilistica o della critica letteraria. Guai allora a cadere in quest’ultima trappola e a leggere Zeno in buona fede. Lo psicoanalista ascolta o dovrebbe ascoltare per scoprire e guarire con l’ausilio della teoria; qui sembra non restargli altro compito che permettere agli altri di mentire liberamente, e ogni eventuale risultato terapeutico è da attribuire all’effetto eutrofico della bugia. Forse è Svevo che si è inventato ogni cosa a partire da Zeno Cosini, dalla sua voce e dal suo inconscio. Una storia vera si è così trasformata in una storia falsa. Ad assicurare la consapevole complicità di Svevo, c’è un altro passo del romanzo, quello in cui Zeno si affanna a svalutare una scoperta dello psicanalista: un grande deposito di legname apparteneva alla ditta Guido Speier & C. e Zeno non ne ha mai fatto parola. Svevo sembra aver inserito all’interno del suo romanzo una serie di sogni: anche alla fine degli esercizi più raffinati e costosi di ermeneutica, c’è sempre qualcosa che sfugge e che oppone una storia di residuo enigmatico a chi cerca di rubare ad essi l’ultimo segreto. Insomma, i sogni di Zeno sono provvisti di un ombelico, di un punto che li ricongiunge all’ignoto e all’insondabile. Il sogno forse più enigmatico è “Vino generoso” del 1914: ripetuto nella Coscienza, dove l’ebrezza di Zeno appare quasi come un remake, tanto che “Vino generoso” può apparire uno di quei testi prematuri che si fanno quadrati e non trovano mai il loro posto. L’inettitudine dei suoi personaggi è la forma psicologica del loro decentramento, della loro inappartenenza alle azioni che compiono e alle parole che pronunciano. Sono superflui, hanno smarrito ogni destino e ogni territorialità realistica. Per Joyce è come se Svevo avesse inventato, a sua volta, e a somiglianza di uno dei suoi personaggi, uno specifico capace di alterare la percezione del tempo e dello spazio. L’Annina, il farmaco del dottor Menghi, produce un vertiginoso rallentamento dei ritmi vitali che finisce col dilatare la percezione dei fenomeni. Dell’analisi vera e propria, che viene collocata tra il momento in cui Zeno finisce di scrivere il 7 capitolo e il momento in cui comincia a scrivere l’8, non sappiamo quasi nulla: sappiamo che è stata interrotta e che il paziente alla fine si congratula con se stesso per avere raggiunto la salute senza dover nulla alla cura. Dietro la Coscienza, s’intravede l’ombra di “Processo” di Dibenedetti: solo che qui il verdetto dei magistrati, che governano la giustizia, è favorevole all’imputato. Zeno non sa perché è stato assolto, così come K. non sa perché è stato condannato, entrambi ignorano i capi di imputazione che sono stati formulati contro di loro. “La coscienza di Zeno” si chiude con una ipotesi di deflagrazione universale: un uomo più malato degli altri, dopo essersi impadronito di un esplosivo potentissimo, s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto dove il suo effetto potrà essere massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno sentirà e la terra ritornata alla forma di nebulosa eterna errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie. La teoria degli ordigni è stata messa insieme mescolando molto liberamente e senza troppi scrupoli letture diverse: Darwin, Marx… Da ancora più lontano, nella storia di Svevo, viene la figura del folle artificiere che provoca l’esplosione della terra: precisamente da Zola. Una conclusione apocalittica solo in apparenza, perché, come ha notato Kott, la fine del mondo provocata da un’enorme bomba, è suggestiva ma grottesca. Sarebbe una fine da commedia buffa. Dopo la pubblicazione della Coscienza e dopo una pausa di un paio d’anni, Svevo torna a scrivere: i personaggi che affiorano in questi racconti risultano accomunati dall’età, sono immersi nella vecchiaia. E la vecchiaia, per Svevo, è un’età selvaggia, intemperante, priva di riserve. Giovanni Chierici, il protagonista di “Rigenerazione”, vuole ringiovanire e recuperare la propria virilità. Non esita ad accettare la complicità di un ciarlatano nel tentativo di esautorare il tempo con uno stratagemma chirurgico. Svevo colloca al centro della sua scrittura l’arte avventizia e ammiccante di chi cerca di esorcizzare il tempo. L’esorcismo non riesce a Giovanni Chierici, ma a Svevo sì: i suoi legami con le origini e il provvisorio ritorno all’ordine narrativo vengono liquidati. Dietro Giovanni Chierici si intravede l’ombra di Zeno Cosini. Non c’è dubbio che Chierici è solo il nome che è stato scritto su una tessera d’identità falsa e che è servita a Zeno per misurarsi sulle scene, per tentare l’avventura in giurisprudenza). Il fumo è il primo tema trattato dal protagonista e la scelta è indotta dal dottore che lo invita "a iniziare il suo lavoro con un'analisi storica della sua propensione al fumo": scopriamo così che Zeno è un accanito fumatore fin dalla adolescenza e che ha iniziato a fumare con un sigaro lasciato in giro per casa dal padre. Tuttavia l'aspetto che subito viene evidenziato da egli stesso è che appena creatosi il vizio, Zeno tenta, invano, di liberarsene: ogni occasione, come una bella giornata, la fine dell'anno, il piacevole accostamento delle cifre di una data, coincide con la scritta U.S.-ultima sigaretta. Zeno si rivolge a facoltosi medici, riempie libri e addirittura pareti con la sigla U.S., ma non riesce a smettere: il tentativo dura moltissimi anni e non si realizza mai, neanche dopo essersi recato in una clinica specialistica dove, una volta pentitosi di avere iniziato la cura, corrompe l'infermiera con l'alcol per scappare pensando erroneamente che la moglie lo stia tradendo con il Dottor Muli, il dottore della clinica. Il continuo rimandare un evento è tipico del nevrotico, che, in questo caso, può gustare sempre di più l'ultima sigaretta. La morte di mio padre Zeno rievoca il rapporto conflittuale con suo padre, dando particolare attenzione ai suoi ultimi giorni di vita. Si tratta di una relazione ostacolata dall'incomprensione e dai silenzi. Il padre non ha alcuna stima del figlio, tanto che, per sfiducia, affida l'azienda commerciale di famiglia a un amministratore esterno, l'Olivi. A sua volta il figlio, che si ritiene superiore per intelletto e cultura, non stima il padre e sfugge ai suoi tentativi di parlare di argomenti profondi. Il più grande dei malintesi è l'ultimo, che avviene in punto di morte: quando il figlio è al suo capezzale, il padre (ormai incosciente) lo colpisce con la mano. Zeno non riuscirà mai a capire il significato di quel gesto: uno schiaffo assestato allo scopo di punirlo o soltanto una reazione inconscia del padre ammalato? L'interrogativo produce un dubbio che accompagnerà il protagonista fino all'ultimo dei suoi giorni. Alla fine Zeno preferisce ricordare il padre come era sempre stato: "io divenuto il più debole e lui il più forte". La storia del mio matrimonio Zeno parla delle vicende che lo portano al matrimonio. Il protagonista conosce tre sorelle, le figlie di Giovanni Malfenti, con il quale Zeno ha stretto rapporto di lavoro e per il quale nutre profonda stima, al punto che lo vedrà come una figura paterna dopo la morte del padre. La più attraente delle figlie è la primogenita (Ada), a cui il protagonista fa la corte. Il suo sentimento però non è ricambiato, perché ella lo considera troppo diverso da lei e incapace di cambiare, oltre che già promessa sposa a Guido un uomo profondo (che lei ama). Anche dopo il rifiuto, Zeno è sempre attratto dalla sua bellezza esteriore ed interiore. Tuttavia, ormai deciso a chiedere in sposa una delle sorelle Malfenti, si dichiara ad Alberta che ugualmente lo respinge. Egli finisce quindi per sposare Augusta, la terza delle sorelle Malfenti (quella che meno gli piaceva e che aveva assicurato alle altre sorelle di non sposare mai). Nonostante questo, il protagonista arriverà a nutrire per la moglie un amore sincero, anche se ciò non gli impedirà di stringere una relazione con un'amante, Carla. Augusta costituisce nel romanzo una figura femminile dolce e tenera, che si prodiga per il proprio marito. In lei Zeno trova la figura materna che cercava e un conforto sicuro mancatogli nell'infanzia. La moglie e l’amante Il conflittuale rapporto di Zeno Cosini con la sfera femminile (la sua patologia è stata bollata dallo psicologo come sindrome Edipica) è evidenziato anche dalla ricerca dell'amante. Zeno accenna a tale esperienza come un rimedio per sfuggire al «tedio della vita coniugale». Quella con Carla Gerco è una «avventura insignificante». Lei è solo una «povera fanciulla», «bellissima», che inizialmente suscita in lui un istinto di protezione. All'inizio Zeno e Carla sono legati da una relazione basata sul semplice desiderio fisico, ma successivamente essa viene sostituita da una vera e propria passione. Anche Carla subisce dei cambiamenti: prima insicura, diventa poi una donna energica e dignitosa e finisce con l'abbandonare il suo amante a favore di un maestro di canto, che Zeno stesso le aveva presentato. Zeno non smetterà mai di amare la moglie Augusta (che dimostra verso di lui un atteggiamento materno e gli comunica sicurezza). Verso la conclusione del suo rapporto con Carla, invece, maturerà per quest'ultima un sentimento ambivalente che si avvicinerà all'odio. Storia di un'associazione commerciale Incapace di gestire il proprio patrimonio, Guido prega Zeno di aiutarlo a mettere in piedi un'azienda. Egli dice a se stesso di accettare per "bontà", ma in realtà lo fa per un oscuro desiderio di rivalsa e di superiorità nei confronti del fortunato rivale in amore che, nel frattempo, ha sposato Ada. Anche Guido, peraltro, nei ricordi di Zeno appare come un inetto e comincia, per inesperienza, a sperperare il suo patrimonio e a tradire la moglie con la giovane segretaria Carmen, mentre Zeno ha la soddisfazione di essere incaricato da Ada di aiutare e proteggere il marito. Questi, dopo un'ennesima perdita (ha infatti iniziato a giocare in borsa) simula un tentativo di suicidio, per indurre la moglie a sovvenzionarlo con la propria dote. Più tardi ritenterà il colpo astuto, ma (per un banale gioco della sorte) si ucciderà davvero. Zeno, impegnato a salvarne (per quanto è possibile) il patrimonio, non riesce a giungere in tempo al suo funerale, accodandosi al corteo funebre sbagliato. Per questo è accusato da Ada, divenuta nel frattempo brutta e non più desiderabile per una malattia (il morbo di Basedow), di avere in tal modo espresso la sua gelosia e il suo malanimo verso il marito. Il famoso triangolo matrimoniale termina con tre sconfitte irreparabili, ma anche con l'autoinganno dei tre protagonisti, incapaci di distinguere fra sogno e realtà. Psicoanalisi Nel capitolo precedente si era concluso il racconto imposto dal medico a Zeno. Questi però lo riprende per ribellarsi al medico, che crede non l'abbia guarito. Zeno tiene un diario, che in seguito invierà al Dottore per comunicargli il suo punto di vista. Il diario di Zeno si compone di tre parti, contrassegnate dalle date di tre giorni distinti negli anni di guerra 1915-1916. Nella riflessione conclusiva, Zeno si considera completamente guarito, perché ha scoperto che la "vita attuale è inquinata alle radici" e che rendersene conto è segno di salute, non di malattia. Continuazioni. Intanto l'autore lavora anche a una lunga serie di frammenti, che avrebbero probabilmente dovuto fondersi nel cosiddetto quarto romanzo (il cui titolo era forse Il vecchione o Il vegliardo). L'autore ne dà ripetutamente notizia ai suoi amici francesi: Mi sono messo a fare un altro romanzo, una continuazione di Zeno. Tempo fa in un momento di buon umore Zeno vegliardo stese una prefazione delle sue nuove memorie. I titoli di questi frammenti, alcuni piuttosto estesi, sono Un contratto, Le confessioni del vegliardo, Umbertino, Il mio ozio e il vecchione. Furono tutti scritti rapidamente da Svevo, con correzioni e varianti, negli ultimi mesi di vita, fra l'aprile e il maggio del 1928. Essi si riallacciano all'ottavo e ultimo capitolo della Coscienza e abbozzano un ritratto della psicologa di Zeno diventato ormai anziano. Non più costretto a narrare su invito del dottor S., egli ci presenta ora nuove avventure (per esempio una scappatella extraconiugale con una sigaraia) e riflessioni, assieme ai ritratti di familiari che già conosciamo (la moglie) e nuovi (il nipotino Umbertino). Malgrado le ripetizioni e le incongruenze proprie di un testo non portato a termine, ne risulta un complesso narrativo molto interessante. Svevo assume come tema privilegiato la condizione alienata del vecchio nel mondo contemporaneo, nella civiltà del produttivismo, dell'efficienza e del successo. Il suo scopo è riscattare dall'emarginazione il vegliardo Zeno, mettendo a fuoco, mediante le sue memorie, tutte le qualità e virtù del suo ultimo tempo di vita, consegnato alla meditazione, al ricordo e al raccoglimento che conducono alla saggezza estrema. Intanto prende corpo un ritratto perfido e demistificante della famiglia borghese, lo stesso che già affiorava dalle pagine della Coscienza. Tra le carte sveviane sono rimasti anche i frammenti di un quarto romanzo, progettato dallo scrittore, «una continuazione di Zeno» come lo definisce egli stesso. Il titolo avrebbe dovuto essere probabilmente “Il vecchione” o “Le confessioni del vegliardo”. Svevo riprende i motivi della “Coscienza” e di “Senilità” ma le sviluppa in una direzione più intimamente autobiografica. Ritornano così i motivi dell’amore, della relazione erotica, della malattia, dei rapporti difficili fra vecchi e giovani. La riflessione sulla memoria, per i vecchi esercizio obbligato, si accompagna al pensiero della morte, della fine del viaggio, del «nulla» per sempre. Un contratto. L’attività del protagonista-narratore fu quella della guerra e dopo lo scoppio della pace cominciò a muoversi negli affari. Fu costretto dal genero, incaricato da Olivi, di trattare insieme un contratto (gli affari andavano male e bisognava riorganizzare la ditta). Olivi esigeva il 50% dei benefici. Con astuzia Olivi aveva convinto tutti che lui era insufficiente per gli affari. Egli chiese al genero di licenziare Olivi. Inoltre si confidò con Augusta la quale gli consigliò di domandare l’onorario doppio a quello di Olivi. Ma egli propose ad Olivi che fosse concesso un onorario uguale al suo o che si trascurassero tutti i benefici. L’Olivi non accettò. Nel contratto Olivi veniva esonerato da qualsiasi perdita. Zeno imbrogliò Valentino dicendo, al suo arrivo per discutere di tale affare, che aveva già tutto concordato con Olivi. Alla fine decise di dare tutte le concessioni all’Olivi a patto che si eliminasse il genero Valentino da quell’affare, chiedendo appunto di tenere il segreto sul finto incontro del giorno prima. Firmò quel contratto e per molto tempo se la prese col genero, il cui intervento l’aveva costretto a dare il consenso al contratto. Alla morte di Valentino però cominciarono i rimorsi. Zeno non si voleva rassegnare ad avere il suo ufficio, e l’Olivi disse di stracciare il contratto così che avrebbe potuto riaverlo. Zeno urlò al notaio di difendere il contratto e che alcune clausole dovevano essere rivedute prima. Nemmeno il figlio di Zeno poté entrare a far parte della ditta poiché l’Olivi aveva inserito nel contratto una clausola anche nei suoi riguardi. Le confessioni del vegliardo. Gli investimenti di Zeno non risultarono ottimi investimenti, dovette vendere il sapone a Vienna, dalla città fu ripagato in corone austriache che arrivarono solo quando non c’era più il tempo di cambiarle e non valevano più nulla. Quando Olivi andò in guerra, Zeno tornò in ditta e i suoi affari ripresero bene, Olivi tornò in ufficio alle dirette dipendenze di Zeno. Olivi muore. Entra in ditta, dopo aver abbandonato il Ginnasio, il figlio di Zeno, Alfio, che ogni tanto veniva a fare pratica. Tra Zeno e Alfio ci sono stati sempre dei dissidi. Tutto inizia quando Carlo, nipote di Zeno, dice ad Alfio di non abbandonare il liceo così da poter arrivare all’Università. Zeno vuole evitare che tra lui e il figlio si riproducano i rapporti che erano esistiti tra lui e il padre. Nella creazione dei ruoli, Zeno ha commesso un errore banale: si è ritagliato la parte di padre a misura del figlio che lui stesso era stato. Sarebbe perfetto, se Alfio stesse al gioco e facesse di buon grado la parte del giovane Zeno. Ma Alfio non ci sta; si ribella e allora Zeno cerca di stipulare un contratto anche con lui. Gli offre di comprare uno dei quadri che Alfio dipinge e che costituiscono il nucleo della sua ribellione. Inizialmente Zeno vedeva il quadro come uno “sgorbio” ma non voleva spostarlo dalla parete per non ferire il figlio. Poi comprese e che Alfio creò la sua personale sintesi della vita. Zeno cominciò ad ammirare il figlio, ma poi il periodo felice finì. Zeno fece una battuta con l’amico Cima sul quadro del figlio. Quest’ultimo lo guardò impallidito e si arrabbiò; si guastarono da allora i rapporti. Antonia, invece, è l’altra figlia di Zeno. Signorina piacente e per la quale Zeno ha molta ammirazione. Questo suo desiderio di sentirsi coccolata e posta in uno scrigno, dimostrava di sentirsi un gioiello prezioso. Antonia da piccola aveva un’amica che divenne poi sua cognata poiché sposo uno dei suoi fratelli, Valentino. Valentino, rispetto al defunto fratello, non era bello quindi Antonia dovette accontentarsi. Valentino morì di invecchiamento precoce. Antonia si fece convincere dai genitori di tornare a casa con loro. Umbertino. Figlio di Antonia e Valentino è Umbertino. Bambino di 7 anni e mezzo che Zeno amava tanto. Quando Valentino era vivo stava ore ed ore a raccontare le storie al figlio. Ora che Umbertino sta a casa del nonno, è lo stesso nipote che racconta le storie. Essendo Zeno troppo impegnato per stare a sentire le sue storie decide di affidarlo a Renata, un’orfana che vive con loro. Ma comunque Zeno e Umbertino uscivano spesso per le