Scarica IV libro dell'Eneide analisi traduzione e commento e più Dispense in PDF di Lingua Latina solo su Docsity! ENEIDE IV LIBRO Versi 1 – 5: ll IV libro dell’Eneide inizia con una Didone che ha appena ascoltato le peripezie affrontate dallo straniero (Enea), nel cui percorso un po’ si rivede lei stessa, e reagisce al racconto con un forte turbamento. Didone, dopo aver ascoltato il racconto di Enea, si è ritirata nelle sue stanze, ma non riesce a prendere sonno: già preda della passione, ella rivive continuamente le avventure del suo eroe, l’immagine e le parole di lui le ritornano sempre alla mente. Abbiamo la ricorsività del pensiero della persona amata: Didone ripensa alle parole del racconto di Enea, perché è rimasta colpita da questo naufrago straniero che è approdato a Cartagine. Versi 6 – 30: Al sorgere dell’aurora, Didone si confida con la sorella Anna. Con apparente fermezza, la regina dichiara il proposito di non cedere alla passione; ma le lacrime rivelano il sentimento che si è impadronito di lei. Didone è definita male sana (non sana), ovvero è folle: l’amore è visto come una malattia, come una forma di follia. Al verso 20 emerge l’immagine di Sicheo, il marito morto di Didone. Didone ammette che Enea l'ha turbata rispetto alla promessa che ha fatto al marito di non sposarsi più. Anna, sua sorella, sostiene che non ci sia niente di male a risposarsi di nuovo. I penati erano le divinità protettrici della casa e del focolare. Versi 31 – 53: Di fronte al turbamento della sorella, Anna risponde rinfocando la passione che l’ha avvinta: a che pro – dice – mantenere la fedeltà a un morto? Anna dice che è inutile essere fedeli al marito morto perché le sue ceneri e i Mani sepolti (le anime dei morti, un concetto romano) non si interessano di ciò: c’è un sottile accenno all’epicureismo, per cui la morte è assenza di sensazione. Ciò che Didone deve fare, a giudizio di Anna, è cercare di trattenere lo straniero finché la stagione invernale renderà impraticabile la navigazione. Al verso 50 Anna consiglia di fare sacrifici e pregare gli dèi affinché Enea possa rimanere a Cartagine. Versi 54 – 67: Le parole di Anna hanno incendiato l’animo già ardente di Didone, eliminando in lei ogni ritegno ed esitazione. Ora le due sorelle entrano nei templi e compiono sacrifici propiziatori, allo scopo di procurarsi la benevolenza degli dèi. Versi 68 – 89: Ai versi 68 – 73 Didone è paragonata a una cerva, che viene ferita da un pastore che non sa neanche di averla colpita perché ha lanciato la freccia da lontano: Enea corrisponde al pastore che è ignaro di aver suscitato l’amore di Didone. Non a caso Didone è già definita infelix: Didone morirà gettandosi sulla spada di Enea, così come la cerva muore per mano della freccia del pastore. Ai versi 74 – 89 abbiamo la rappresentazione dell’ossessione di Didone, che non pensa più ai lavori della città perché concentrata solo su Enea. Ella trascura i suoi doveri di sovrana, tanto che giacciono abbandonati anche i grandiosi lavori di costruzione della città. La regina non trova pace e porta Enea a vedere la città e mentre parla qualche volta si ferma: dimostra l’incapacità di parlare tipica di chi è innamorato. Enea non vive nella reggia di Didone, ma si reca lì soltanto per il banchetto: la regina aspetta con ansia il tempo del banchetto e non pensa ad altro, dopo ciò si tormenta nell’oscurità e nella solitudine della domo vacua, abbandonandosi nelle coperte del banchetto Versi 90 – 104: Giunone, che scorge nei fati il pericolo che la futura stirpe di Enea rappresenterà per la sua città prediletta, persuade Venere a far sì che l’eroe troiano resti a Cartagine e si congiunga a Didone con il sacro vincolo del matrimonio. Commento: Abbiamo un dialogo tra Venere e Giunone: Venere è riuscita a far innamorare Didone e Giunone le rinfaccia questa sua responsabilità. Giunone, quindi, dice “perché non approfittiamo della situazione?”, per far sì che Didone ed Enea possano davvero sposarsi: propone così un accordo a Venere, ovvero mettersi d’accordo e governare quel popolo. Venere protegge i Troiani in quanto madre di Enea e Giunone fa di tutto per ostacolarli: momentaneamente, però, le due si trovano d’accordo. Giunone non vuole che Enea vada nel Lazio e quindi è favorevole all’innamoramento; Venere vuole anche lei che Enea si fermi perché la flotta è distrutta ed è bene organizzarsi prima di ripartire. Giunone accusa Venere di voler ostacolare l’espansione di Cartagine, perché Venere sa che sarà destinata ad essere distrutta da Roma. Anche nelle parole di Giunone abbiamo l’idea di un amore che si è insediato nelle ossa. Versi 105 – 128: Venere comprende l’inganno che si cela dietro le parole di Giunone, ma è felice di accettare la proposta, che corrisponde a quanto anche ella ha sempre desiderato. La sposa di Giove spiega allora il suo piano: durante una battuta di caccia, scatenando un temporale, farà sì che Didone ed Enea si trovino da soli in una grotta, e lì avverrà l’unione coniugale. Venere annuisce e sorride compiaciuta. Versi 129 – 159: Al sorgere del sole viene organizzata la battuta di caccia: Didone ed Enea, a capo delle rispettive schiere dei Tiri e dei Troiani, si distinguono tra tutti. I cacciatori si disperdono, mentre il piccolo Ascanio si augura di potersi scontrare con un cinghiale o un fulvo leone. Ai versi 143 – 146 si ha una similitudine tra Enea e il dio Apollo mentre nel primo libro si ha una similitudine tra Didone e Diana; dunque, si crea un ulteriore parallelismo tra Enea e Didone, poiché entrambi vengono paragonati a due dèi che, inoltre, sono fratelli (Diana e Apollo). Questo potrebbe anticipare il fatto che l’incontro fra i due non sia di buoni auspici. Versi 160 – 172: Quel che Giunone aveva previsto nel suo colloquio con Venere puntualmente si verifica: allo scoppio del temporale Didone ed Enea, abbandonati dai compagni, trovano riparo nella grotta e lì, sotto l’alta protezione della sposa di Giove, viene celebrata la loro unione. Al verso 166 il termine pronuba è riferito a Giunone: Giunone che è la dea che favorisce il matrimonio. I fulmini, ignes del verso 167, svolgono la funzione delle fiaccole durante il matrimonio: le fiaccole nuziali accompagnavano il corteo che portava la sposa dalla casa d’origine a quella del marito (i matrimoni si svolgevano solitamente la sera). L’ululato delle ninfe descritto al verso 168 potrebbe essere una sorta di canto nuziale, ma il verbo scelto da Virgilio, ulularunt (forma contratta per ululaverunt) ha una connotazione funesta: sembra anticipare l’esito infelice della vicenda. Versi 173 – 197: La Fama, spargendosi per le città della Libia, diffonde subito la notizia dell’unione tra Didone ed Enea. Essa è rappresentata come un mostro orrendo, dotato di molti occhi e orecchi atti a vedere e ascoltare tutto ciò che accade nel mondo, e di tante lingue per poterlo riferire. Nel suo incessante cammino, la Fama giunge sino al re Iarba, diffondendo allo stesso modo notizie false e vere. La notizia dell’unione tra i due arriva fino a Iarba grazie alla Fama (personificata), il quale rivolge una preghiera a Giove affinché intervenga perché si è offeso del fatto che Didone lo ha rifiutato e ha Al verso 331 si ha una contrapposizione tra gli occhi fissi di Enea e lo sguardo che si volge di qua e di là di Didone, profondamente inquisitorio: lui tiene gli occhi immobili pensando agli ordini che gli sono arrivati da Giove. Enea cerca di nascondere l’affanno e si sforza di non lasciar trapelare nessuna emozione e lotta per acquisire uno stato di imperturbabilità, mentre Didone lo esprime tutto. Didone ha mosso delle vere e proprie accuse: di voler partire di nascosto, di non aver rispettato il patto nuziale, di volerla abbandonare in un contesto pericoloso. Insomma, Enea viene accusato come se fosse colpevole e dunque la sua replica si dimostra come una difesa. Enea dice di non essersi mai sentito legato da un vincolo matrimoniale e nega quindi che questo loro legame possa essere equiparato al patto di matrimonio. Versi 362 – 392: Didone guarda Enea con odio, finché prorompe in una violenta invettiva. Didone scaglia una vera e propria maledizione su Enea: gli augura di fare naufragio. Se gli dèi fossero giusti dovrebbero farlo morire per quello che ha fatto. C’è il riferimento a lei che, pur assente, lo inseguirà con “i fuochi”: probabilmente, metaforicamente rappresentano il rimorso che, secondo Didone, dovrebbe tormentare Enea. Dovrebbe quindi essere un’allusione alle fiaccole delle Erinni, dee greche infernali che perseguitavano i peccatori. C’è anche un’ironia tragica perché Didone si trafiggerà con la spada di Enea sulla pira, ovvero sul rogo. Il quinto libro inizia con la partenza di Enea, il quale si volta indietro a guardare e vede il fuoco: i Troiani non sanno perché ci sia questo incendio, ma hanno un presentimento. L’eroe rimane esterrefatto, con il cuore gonfio dal dolore. Ella fugge dalla sua vista e poi, vinta dall’angoscia, sviene; le ancelle la raccolgono e la riportano nelle sue stanze Versi 393 – 407: Il pio Enea, benché angosciato e desideroso di consolare l’amante infelice, obbedisce al comando dei numi e affretta la partenza. I Troiani si prodigano nell’apprestare le navi. Al verso 393 l’epiteto pius è molto significativo, perché è la prima volta nel IV libro in cui Enea viene definito pius dal narratore, proprio nel momento in cui egli ha deciso di lasciare Didone: l’eroe torna a seguire quello che è il suo dovere verso la famiglia, gli dèi e la patria. A partire dal verso 402 fino a 407 si ha una similitudine tratta dall’ambito animale, in particolare con le formiche, che presentano dei tratti “umanizzati”: i Troiani che si danno da fare per la partenza ricordano il movimento instancabile delle formiche che mettono da parte dei chicchi di frumento per l’inverno. Questa similitudine ha un precedente in Apollonio Rodio, nel IV libro delle Argonautiche, dove si scrive che gli eroi che si aggiravano attorno a una fonte come le formiche si aggirano attorno ad un buco in terra. Versi 408 – 436: Didone si rivolge ad Anna, la fedele sorella, perché parli con Enea e cerchi di convincerlo, se non a rinunziare al viaggio, almeno ad attendere un po’ di tempo. Perché Didone manda la sorella Anna a parlare con Enea? Didone attribuisce alla sorella una particolare confidenza con Enea e per questo motivo la invia a fare un ultimo tentativo per convincerlo a restare. A proposito di questi versi, Servio ci ricorda che esisteva una tradizione attestata in Varrone, secondo la quale la storia d’amore non era tra Didone ed Enea, ma tra Anna ed Enea. È possibile che il riferimento di Virgilio alluda a questa tradizione, seppur lui non la segua nell’Eneide. Qui non sembra esserci traccia di gelosia. Così come Enea voleva trovare il miglior momento per poter parlare con Didone ai versi 293-295, anche Didone ora manda la sorella Didone a cercare gli accessi più favorevoli per parlare con lui. Didone sembra spostare il discorso su un argomento abbastanza ovvio, ovvero: lei non si è comportata da nemica di Enea, non ha fatto niente di male contro di lui. Aulide è il porto della Beozia da cui partì la spedizione di Greci (Danais) contro Troia. Nei versi 433 – 436 Didone non chiede più ad Enea le nozze o la rinuncia alla partenza (pulchro ut Latio suona con un po’ di ironia, sarcasmo), ma chiede di aspettare che la stagione sia propizia alla navigazione (extremum munus), quindi solo un rinvio di poco tempo che le servirà ad abituarsi all’idea che sarà abbandonata. Con il termine morte si può intendere o “alla mia morte”, quindi quando Didone morirà, o come un anticipo del suicidio, anticipo che la sorella Anna non riesce a cogliere. Versi 437 – 449: Anna compie senza indugio la sua ambasciata, ma Enea non può ascoltarla, il suo destino glielo vieta. Dal verso 441 viene introdotta la similitudine con la quercia (quercum), che ha già una sua tradizione nell’Iliade di Omero, dove la quercia sta ad indicare la forza tipica dei guerrieri; mentre Virgilio rinnova questo paragone, indicando con la quercia una fermezza morale, capace di resistere all’urto delle passioni. Versi 450 – 473: Perdute ormai tutte le speranze, la sventurata Didone invoca la morte. Ai versi 465 – 466 si dice che in sogno Didone vede un Enea crudele che la insegue, sogna anche di essere lasciata sola, di compiere una via da sola e di cercare i suoi compagni, i Tiri, perché è appunto rimasta sola e riaffiora, quindi, la paura di rimanere sola in mezzo a dei nemici e che i suoi stessi compatrioti le siano diventati ostili perché aveva preferito Enea ai pretendenti africani. Si tratta, dunque, di un sogno simbolico. C’è poi una similitudine ai versi 469 – 470 in cui questa follia di Didone viene paragonata alla follia di due personaggi tragici, Penteo e Oreste. ● Penteo era re di Tebe e si era opposto al culto di Bacco e per questo motivo viene punito dal dio che lo fa impazzire e verrà sbranato dalle baccanti. ● Oreste era figlio di Agamennone, il quale uccide la madre Clitemnestra per vendicare la morte del padre Agamennone: Clitemnestra aveva ucciso Agamennone con l’amante Egisto. In seguito a questo atto è perseguitato dalle Eumenidi. In questa similitudine Oreste fugge dalla madre, la quale è essa stessa rappresentata come una furia, armata con le fiaccole e i serpenti. Questi riferimenti ai due miti sembrano non essere stati ripresi da Virgilio in modo completamente corretto, in particolare Penteo non viene perseguitato dalle Eumenidi ma dalle baccanti e dalla madre, e Oreste non viene perseguitato dalla madre ma dalle Eumenidi: c’è come un’inversione dei personaggi rispetto a come il mito viene raccontato in Euripide e in Eschilo. Le ipotesi fatte sono varie: è possibile che Virgilio alluda a versioni secondarie, rappresentate nella tragedia latina; oppure che abbia volontariamente invertito i tratti relativi a questi due personaggi, perché questa inversione è funzionale a rendere lo stravolgimento e la follia stessa di Didone. Queste similitudini non fanno parte del sogno di Didone, ma sono state istituite da Virgilio. Versi 474 – 503: Didone ha ormai preso la decisione di morire, ma cerca di progettare la cosa in modo da non destare alcun sospetto, soprattutto nella sorella, per cui finge di voler ricorrere alle arti magiche per liberarsi dal tormento d’amore. Si apre poi la digressione su questa maga, in grado di fare un sacco di mirabolanti cose e potrà, quindi, aiutare Didone. Anche la maga ha una sua una grandezza epica perché è custode del tempio delle Esperidi e dava cibo al drago che stava lì a custodire questi alberi dai frutti d’oro. Al verso 477 si ha un’enallage, perché ci aspetteremmo “rasserena la fronte con la speranza”, invece Virgilio dice “rasserena la speranza sulla fronte”. Didone presenta, quindi, questa facciata apparentemente rasserenata quando, invece, la decisione è già stata presa. Versi 504 – 521: Viene allestito il rogo, sul quale Didone pone la spada e l’effigie di Enea. Viene poi celebrato il rito magico, durante il quale la maga invoca a gran voce le divinità infernali: l’Erebo, che è la personificazione delle tenebre infernali; il Caos, che è la personificazione dell’abisso infernale; e l’Ecate, che è una dea triplice perché adorata sotto tre forme, che sono la dea Diana, la Luna e l’Ecate (= forma terrestre, forma celeste e forma infernale). Al verso 512 viene nominato il lago Averno, presso Cuma in Campania, ritenuto uno degli ingressi del mondo infernale: in un rito che coinvolge gli dèi infernali ci vorrebbe l’acqua dell’Averno. Al verso 518, unum exuta pedem vinclis, indica la nudità di un piede, usuale nel rituale magico. Ma perché Didone scioglie un solo piede dai calzari? Probabilmente perché, trattandosi di un rito dedicato alle divinità infernali, la nudità dei piedi può spiegarsi come mezzo per trovarsi in più immediato contatto con la terra e, quindi, Didone vuole simboleggiare il suo stato attuale, a metà tra il regno dei vivi e quello dei morti. Versi 522 – 553: Scende la notte, per tutti apportatrice di pace e di tranquillità tranne che per l’infelice regina, colpita da una tempesta d’ira e d’angoscia. Didone con una serie di domande retoriche prende coscienza del fatto che non può né cercare di nuovo di sposare un pretendente locale né può seguire i Troiani. L’unico atto di coerenza che le resta è quello di morire. Si ha un punto di confronto con Aiace che, nel momento in cui si accorge di aver fatto strage di pecore, capisce che l’unica cosa che può fare per restaurare la sua onorabilità è uccidersi. Versi 554 – 583: La scena si sposta sulla spiaggia di Cartagine. A Enea, che sta dormendo a bordo della sua nave, appare in sogno Mercurio, che lo avverte del pericolo: se ancora indugia in quei luoghi, potrebbe incorrere nella vendetta di Didone che, furiosa per l’imminente abbandono, medita contro di lui inganni e violenze. L’eroe troiano, destatosi, lancia immediatamente l’allarme e con la spada taglia gli ormeggi. I Troiani con grande ardore si mettono ai remi e così l’intera flotta prende il mare. Al verso 554 si presenta un Enea che è già sulla nave perché la partenza è ormai imminente e dorme tranquillamente. C’è quindi un fortissimo contrasto con Didone che vegliava tormentata dalle sue pene e affanni: lui è certus eundi, sicuro di partire, lei è certa mori, sicura di morire. C’è, dunque, questo secondo intervento di Mercurio ai versi 556 – 559 che gli si presenta con lo stesso volto della volta precedente. Al verso 569 si ha una delle più famose espressioni di misoginia dell’antichità, una formulazione di carattere generale messa in bocca a Mercurio, che indica la donna come un essere (uso del neutro, che concorre alla generalizzazione) incostante e mutevole: varium et mutabile semper femina. Il topos della mutevolezza e della scarsa affidabilità della donna è un motivo ricorrente nella letteratura antica. Il mondo antico è profondamente sessista e quasi tutti gli autori antichi sono uomini, con le eccezioni di Corinna e Saffo per il mondo greco e Sulpicia per il mondo latino. Nell’undicesimo libro dell’Odissea di Omero c’è un dialogo tra Odisseo e l’anima di Agamennone, che definisce la donna “cane”, termine più dispregiativo da riferire alla donna, riferendosi a Clitemnestra che lo aveva ucciso (era suo marito). Agamennone mette in guardia Odisseo sul fatto che le mogli possono giocare brutti scherzi. Poi, anche Simonide, un poeta giambico del sesto secolo e scrittore di invettive e satire, e il suo componimento più famoso è la satira contro le donne, in cui prende in considerazione varie tipologie di donne Traduzione: Il timore rivela (arguit) gli animi ignobili. Ahimè (heu) egli da quali destini è stato travagliato!(iactatus) Quali guerre compiute cantava! Se a me non risiedesse (sederet) fisso e immobile nell’animo di non voler unirmi a qualcuno (cui sta per aliqui) in vincolo coniugale (vincolo iugali) dopo che il primo amore ha ingannato (fefellit) con la morte me illusa (deceptam sott me) se non ci fosse (non fuisset) disgusto (pertaesum) per il letto nuziale (talami) e per le fiaccole forse (forsan) avrei potuto (potui) soccombere a questa unica colpa (huic uni culpae) Note: Didone ha promesso a se stessa e soprattutto al marito Sicheo che non si sarebbe riunita in un'unione coniugale. Le fiaccole sono quelle che accompagnano la sposa la sera nelle nozze. Tipico di Virgilio è usare un cerimoniale romano e adattarlo al mondo di Didone. I critici lo accusano di anacronismo, che è funzionale a inserire la saga nel mondo contemporaneo. → Al verso 19 si ha un indicativo perfetto del verbo potere, ovvero potui, ma l’apodosi dovrebbe avere un congiuntivo imperfetto o piuccheperfetto. Questo è il cosiddetto falso condizionale (il condizionale non esiste in latino e alcuni tipi di congiuntivo svolgono il ruolo del condizionale): il latino usa l’indicativo quando, in realtà, in italiano si userebbe il condizionale. Anna (fatebor enim) miseri post fata Sichaei coniugis, et sparsos fraterna caede Penates, solus hic inflexit sensus, animumque labantem impulit: agnosco veteris vestigia flammae. Traduzione: Anna infatti confesserò dopo i destini del misero marito Sicheo e i penati dispersi per la strage fraterna lui solo ha piegato i sensi e ha scosso (impulit) l’animo vacillante. Riconosco i segni (vestigia) dell’antica fiamma. Note: → Sicheo era stato ucciso a tradimento da Pigmalione il fratello di Didone la quale era stata costretta ad allontanarsi da Tiro. → i penati sono le divinità che proteggevano la casa, sono stati dispersi a causa della strage → Didone riconosce i segni nell’antico amore perchè Enea la sta facendo soffrire come quando ha perso il marito. “riconosco i segni dell’antica fiamma”è un verso che verrà ripreso da Dante nel XXX canto del Purgatorio nel momento in cui si rende conto di essere vicino a Beatrice, la quale sostituirà Virgilio come guida Sed mihi vel tellus optem prius ima dehiscat, 25 vel pater omnipotens adigat me fulmine ad umbras, pallentes umbras Erebi, noctemque profundam, ante, pudor, quam te violem, aut tua iura resolvam. Ille meos, primus qui me sibi iunxit, amores abstulit, ille habeat secum, servetque sepulcro." Traduzione: Ma vorrei che prima o la terra profonda mi si apra o che il padre onnipotente mi spinga con un fulmine verso le ombre, le ombre pallide di Erebo e la notte profonda prima (ante) che io ti violi (quam te violem),o pudore, oppure sciolga i tuoi giuramenti. Lui che per primo mi ha unito a sè (iunxit me) ha portato via (abstulit) i miei amori, lui (ille) li abbia con sè e li conservi nella tomba Note: ombre anadiplosi, ripetizione dello stesso termine → Al verso 24 il verbo optem è un cosiddetto congiuntivo indipendente, che si usa in frasi principali: qui potrebbe essere un congiuntivo desiderativo (si traduce con un condizionale). Da questo congiuntivo dipendono dehiscat e adigat (sono dei congiuntivi), senza bisogno dell’introduzione ut. L’Erebi è una personificazione del mondo dei morti, degli Inferi, ed è un ablativo di luogo senza la preposizione in. → Al verso 28, meos amores è tradotto al singolare: gli stati d’animo in latino al plurale indicano le manifestazioni concrete di amore, mentre al singolare è più un amore astratto (così come l’ira, ad esempio, o l’odio). Tuttavia, in poesia a volte troviamo dei plurali che sono utilizzati per soluzioni metriche. Sic effata, sinum lacrimis implevit obortis. Anna refert: "O luce magis dilecta sorori, solane perpetua maerens carpere iuventa? Nec dulces natos, Veneris nec praemia noris? Id cinerem, aut manes credis curare sepultos? Traduzione: Così parlato (sic effata) riempì la veste di lacrime ininterrotte. Anna risponde “O tu gradita più della luce per la sorella forse tu sola sarai consumata(carpere) piangendo (merens) per tutta la giovinezza)? e non avrai conosciuto né i dolci figli nè i premi di Venere? Credi che la cenere o i mani sepolti si curino di ciò (curare id)?” Note: → carpere futuro passivo sta per carperis → noris sta per noveris → Anna esorta ad avvicinarsi a Enea per conoscere l’amore → Al verso 32 si ha la particella enclitica ne, che si va ad attaccare alla parola sola-ne, che si traduce con “forse che”. → Al verso 34, manis è un accusativo di forma poetica che equivale a manes. Esto, aegram nulli quondam flexere mariti, non Libyae, non ante Tyro despectus Iarbas, ductoresque alii, quos Africa terra triumphis dives alit: placitone etiam pugnabis amori? Nec venit in mentem quorum consederis arvis? Traduzione: Sia pure (esto) nessun pretendente (nulli mariti) un tempo (quondam) piegò (flexere) te afflitta non di Libia, non prima di Tiro; fu respinto (despectus) Iarba e gli altri condottieri che (quos) la terra Africa ricca di trionfi (triumphis dives) alimenta (alit) ma combatterai (pugnabis) anche (etiam) contro un amore consentito (amori placito)? Non ti viene in mente (nec venit in mentem) nei territori (arvis) di chi (quorum) ti sei stabilita (consederis)? Note: Iarva fu un pretendente di Didone, figlio di Giove ammone. Iarva aveva ospitato didone le aveva chiesto la mano e lei si era rifiutata. Anna le dice che ha bisogno di qualcuno che protegga militarmente Hinc Getulae urbes, genus insuperabile bello, et Numidae infreni cingunt, et inhospita Syrtis: hinc deserta siti regio, lateque furentes Barcaei. Quid bella Tyro surgentia dicam, germanique minas? 45 Dis equidem auspicibus reor, et Iunone secunda huc cursum Iliacas vento tenuisse carinas. Traduzione: Da una parte le città dei Getuli popolo insuperabile in guerra e i Numidi violenti attorniano (cingunt) l’inospitale Sirti, dall’altra (hinc) una regione deserta per la siccità e i Barcei che infuriano largamente (late) Cosa potrei dire (dicam cong dubitativo) delle guerre che sorgono da Tiro e delle minacce del fratello? Io credo (reor) che certamente le navi troiane (iliacas carinas sineddoche) abbiano tenuto (tenuisse) questo corso sotto l'auspicio degli dei e con Giunone favorevole (Iunione secunda) grazie al vento. Note: Anna porta i potenziali nemici contro cui Didone si deve difendere. Compare Giunone come favorevole a Cartagine, ma è anche la protettrice dei matrimoni. → La Sirte, ovvero Syrtis al verso 41, è la regione dell’Africa compresa tra i due golfi di Sidra e di Gabes, detta inhospita per la conformazione della costa, caratterizzata da scogli e secche che erano pericolosi per le navi. Quam tu urbem, soror, hanc cernes! Quae surgere regna coniugio tali! Teucrum comitantibus armis, Punica se quantis attollet gloria rebus! 50 Tu modo posce deos veniam, sacrisque litatis indulge hospitio, causasque innecte morandi, dum pelago desaevit hiems, et aquosus Orion, quassataeque rates, et non tractabile caelum." Traduzione: Quanto grande (quam) vedrai (cernes) questa città sorella quali regni sorgere (regna surgere) con una tale unione! Con l’accompagnamento delle armi dei Teucri a quanto grandi imprese (rebus) si solleverà la grolia cartaginese (gloria Punica). Tu soltanto invoca (posco costruito con l’accusativo della persona a cui si chiede) il favore agli dei e celebrati i sacrifici (sacris litatis) attendi all’ospitalità e accampa motivi di indugio (morandi) finchè (dum) sul mare (pelago) imperversa l’inverno e il piovoso Orione finché le navi (rates) sono sfasciate (quassatae sott sunt) finché il clima non è favorevole (tractabile sott est). Note: Anna esorta Didone all’unione che le garantirà il piacere dell’amore ma le permetterà anche di ottenere vantaggi politici per ingrandire Cartagine. His dictis impensum animum inflammavit amore, 55 spemque dedit dubiae menti solvitque pudorem. Principio delubra adeunt, pacemque per aras exquirunt: mactant lectas de more bidentes legiferae Cereri, Phoeboque, patrique Lyaeo: Iunoni ante omnes, cui vincla iugalia curae. Con queste parole accese l’animo di uno smisurato amore, diede speranza alla mente incerta, vinse il pudore Subito vanno nei templi e chiedono (exquirunt) la grazia (pacem) fra gli altari; Secondo l’uso immolano (nel senso di “sacrificano”)(pecore) scelte bidenti (lectas bidentis) a Cerere legislatrice, a Febo, al padre Lieo e soprattutto a Giunone alla quale (sono) di interesse (curae) i vincoli coniugali (vincula iugalia) Note: Giunone protegge Didone, quando si accorge che Didone è molto innamorata di Enea va a parlare con Venere cercando un’alleanza perché si capisce che non porterà a niente di buono la follia amorosa di Didone. Nec me adeo fallit, veritam te moenia nostra, suspectas habuisse domos Carthaginis altae. Sed quis erit modus? Aut quo nunc certamine tanto, quin potius pacem aeternam pactosque Hymenaeos 100 exercemus? Habes, tota quod mente petisti; ardet amans Dido, traxitque per ossa furorem. Traduzione: Nè certamente mi sfugge che tu temendo le nostre mura hai avuto sospette le dimore dell’alta Cartagine. Ma quale sarà il modo? O dove (andremo) ora con una contesa così grande (certamen tanto) perchè piuttosto non stringiamo un’eterna pace e patti matrimoniali? Hai tutto ciò che hai cercato con la mente; Didone arde amando e ha assorbito (traxit) la passione nelle ossa (per ossa). Communem hunc ergo populum, paribusque regamus auspiciis: liceat Phrygio servire marito, dotalesque tuae Tyrios permittere dextrae." Traduzione: Dunque governiamo in comune questo popolo con pari autorità, sia concesso (liceat) sottostare (servire) ad un marito frigio e affidare (permittere) alla tua destra i Tiri in dote Note: La proposta di Giunone a Venere è quella di un matrimonio. Olli (sensit enim simulata mente locutam (sott esse), quo regnum Italiae Libycas averteret oras) sic contra est ingressa Venus: "Quis talia demens abnuat? Aut tecum malit contendere bello? Si modo, quod memoras, factum fortuna sequatur. Traduzione: A lei (olli sta per illi) si accorse infatti di aver parlato con un’intenzione ingannevole per deviare il regno di Italia verso le coste libiche, così al contrario esordì Venere “Chi pazzo negherebbe tali cose? O preferirebbe mettersi in lotta con te? a patto che la sorte assecondi l’evento che tu ricordi Sed fatis incerta feror, si Iuppiter unam esse velit Tyriis urbem Troiaque profectis, miscerive probet populos, aut foedera iungi. Tu coniunx, tibi fas animum tentare precando. Perge; sequar." Tum sic excepit regia Iuno: 115 "Mecum erit iste labor. Nunc qua ratione quod instat confieri possit, paucis, adverte, docebo. Traduzione: Ma io sono tenuta incerta dai fati se Giove voglia che ci sia una sola città per i Tiri e per i profughi (profectis) da Troia e approvi che i popoli siano mescolati o che siano stretti patti (foedera). Tu sei una moglie, per te è lecito sedurre l’animo con la preghiera, avanza (erge) ti seguirò (sequer). Allora così riprese la regina Giunone: “Questo compito sarà con me, ora quale modo possa essere compiuto ciò che preme lo spiegherò con poche parole, stai attenta. Venatum Aeneas, unaque miserrima Dido in nemus ire parant, ubi primos crastinus ortus extulerit Titan, radiisque retexerit orbem. 120 His ego nigrantem comitata grandine nimbum, dum trepidant alae, saltusque indagine cingunt, desuper infundam, et tonitru caelum omne ciebo. Diffugient comites, et nocte tegentur opaca. Traduzione: Enea e la disperatissima Giunone si preparano ad andare insieme (unaque) nel bosco a caccia (venatum) quando il sole (Titan) di domani (crastinus) avrà emesso le prime luci e avrà ricoperto la terra con i raggi. Io rovescierò su di loro (desuper his) un nero acquazzone (nigrantem bibum) misto a grandine mentre le schiere si affannano e cingono le balze con la rete (indagine) e scuoterò tutto il cielo con un tuono. Speluncam Dido dux et Troianus eandem devenient. Adero: et, tua si mihi certa voluntas, connubio iungam stabili, propriamque dicabo. Hic Hymenaeus erit." Non adversata petenti annuit, atque dolis risit Cytherea repertis. Traduzione: I compagni si disperderanno e saranno accolti da una notte scura, Didone e il comandante troiano giungeranno alla stessa grotta. Io ci sarò e se la tua volontà per me è sicura li unirò (iungam) in un vincolo indissolubile e la proclamerò sua, questo sarà il matrimonio. Non opponendosi a lei che chiedeva la Citerea annuì e sorrise per gli inganni scoperti. Note → La struttura del verso 124 è significativa perché: si ha l’iperbato a cornice speluncam – eandem; si ha l’inversione della congiunzione et (anastrofe), che dovrebbe stare prima di dux, e l’allitterazione Dido dux, che avvicinano immediatamente i due membri della coppia, ovvero Didone ed Enea. Oceanum interea surgens Aurora reliquit. 130 It portis iubare exorto delecta iuventus: retia rara, plagae, lato venabula ferro, Massylique ruunt equites et odora canum vis. Traduzione: Nel frattempo l’aurora sorgendo lasciò l’oceano. Sorto il sole (iubare exorto) la gioventù scelta (delecta) esce (it) dalle porte, reti larghe, lacci, larghi spiedi di ferro (lato venabula ferro),i cavalieri massili irrompono e la forza odoratrice dei cani. → iubar è un sostantivo enniano Reginam thalamo cunctantem ad limina primi Poenorum exspectant; ostroque insignis et auro 135 stat sonipes, ac frena ferox spumantia mandit. Traduzione: I principi dei cartaginesi aspettano presso le soglie la regina che temporeggia (cunctantem) nella stanza da letto, (sott il cavallo) dai piedi che risuonano adorno di porpora e di oro attende (stat) e morde impaziente i freni schiumosi (spumantia). Tandem progreditur magna stipante caterva, Sidoniam picto chlamydem circumdata limbo; cui pharetra ex auro, crines nodantur in aurum, aurea purpuream subnectit fibula vestem. Traduzione: Finalmente avanza (progreditur) accompagnandola con un grande seguito (lett un grande seguito accompagnandola) rivestita di un mantello sidonio con l’orlo(limbo) ricamato; a lei (è sott dat di poss) una faretra d’oro i capelli sono annodati nell’oro una fibula d’oro allaccia la veste purpurea Nec non et Phrygii comites, et laetus Iulus incedunt. Ipse ante alios pulcherrimus omnes infert se socium Aeneas, atque agmina iungit. Traduzione: Avanzano (incedunt) anche (non) i compagni troiani e Iulo felice. Enea stesso bellissimo rispetto a tutti gli altri si presenta come compagno e unisce le schiere → Iulo era capostipite della gens Iulia Qualis ubi hibernam Lyciam, Xanthique fluenta deserit, ac Delum maternam invisit Apollo, 145 instauratque choros, mistique altaria circum Cretesque, Dryopesque fremunt, pictique Agathyrsi; Traduzione: Come quando Apollo abbandona (deserit) la Licia invernale (lyciam hibernam) e le correnti dello Xanto e rivede la materna Delo e rinnova le danze e misti intorno agli altari si agitano i Cretesi i Driopi e gli Agatirsi tatuati (picti). ipse iugis Cynthi graditur, mollique fluentem fronde premit crinem fingens, atque implicat auro; tela sonant humeris: haud illo segnior ibat 150 Aeneas: tantum egregio decus enitet ore. Traduzione: egli stesso avanza per i gioghi del Cinto e con la fronda pieghevole (fronde molli) stringe la chioma fluente (crinem fluentem) acconciandola (fingens) e la annoda con l’oro risuonano i dardi sulle spalle: Enea procedeva non(non) più lento di lui: tanto altrettanta bellezza risplende nel volto nobile → la fronda molle è l’alloro, che è la pianta sacra ad Apollo Postquam altos ventum in montes, atque invia lustra, extremam (ut perhibent) Caeo, Enceladoque sororem 180 progenuit, pedibus celerem, et pernicibus alis: monstrum horrendum, ingens; cui, quot sunt corpore plumae, tot vigiles oculi subter, (mirabile dictu) tot linguae, totidem ora sonant, tot subrigit aures. Traduzione: La madre terra, come raccontano (ut pethibent) mossa dall’ira (ira irritata) nei confronti degli dei la generò (progenuit illa) come ultima sorella a Ceo ed Encelado, veloce nei piedi (pedibus celerem) e con agili ali, mostro orrendo, imponente al quale sono tante piume sul corpo (dativo di possesso che ha tante..) tanti occhi vigili al di sotto (incredibile a dirsi) tante lingue, analoghe bocche risuonano, tante orecchie tiene aperte → questa è la maniera in cui Vigilio rappresenta la fama, un mostro che ha tante piume, tante orecchie, che si accresce e si deforma, questo è quello che succede alla fama che arriva alle orecchie di chi non dovrebbe arrivare Nocte volat caeli medio terraeque per umbram 185 stridens, nec dulci declinat lumina somno. Luce sedet custos, aut summi culmine tecti, turribus aut altis, et magnas territat urbes; tam ficti pravique tenax, quam nuntia veri. Traduzione: di notte vola nel mezzo del cielo e della terra attraverso l’ombra stridendo e non chiude gli occhi (lumina) al dolce sonno con la luce sta seduto come custode o dalla sommità di un alto tetto o su alte torri e spaventa grandi città tenace annunciatrice (tenax nuntia) tanto del finto e del malvagio quanto del vero Haec tum multiplici populos sermone replebat 190 gaudens, et pariter facta atque infecta canebat: Traduzione: Questa allora riempiva i popoli con un discorso molteplice esultando (gaudens) e cantava allo stesso tempo (pariter) cose compiute e cose non compite venisse Aeneam Troiano a sanguine cretum, cui se pulchra viro dignetur iungere Dido: nunc hiemem inter se luxu, quam longa, fovere regnorum immemores, turpique cupidine captos. Traduzione: Enea era venuto (venisse) nato da sangue troiano al quale la bella Didone si degnava di congiungersi (iungere se) come ad un marito, ora trascorrevano l’inverno tra di loro nella lussuria, per quanto lunga (quam longa) immemori dei regni e presi da una turpe passione Haec passim dea foeda virum diffundit in ora. Protinus ad regem cursus detorquet Iarbam, incenditque animum dictis, atque aggerat iras. (198) Traduzione: Queste cose la dea turpe diffonde dappertutto sulle bocche degli uomini subito (protinus) volge il corso verso il re Iarba e incendia l’animo con le parole e accresce le ire Hic Ammone satus, rapta Garamantide nympha, templa Iovi centum latis immania regnis, 200 centum aras posuit, vigilemque sacraverat ignem, excubias divom aeternas, pecudumque cruore pingue solum, et variis florentia limina sertis. Costui seminato (satus) da Ammone e dalla ninfa Garamantide rapita (cioè sedotta) innalzò nei regni smisurati (latis regnis) cento enormi templi e cento altari a Giove ed aveva dedicato (sacraverat) un fuoco vigile, guardie (excubias) eterne degli dei, e il suolo (solum) ricco (pingue) di sangue di bestiame (cruore pecudum) e soglie fiorite (florentia limina) con varie ghirlande (sertis) Isque amens animi, et rumore accensus amaro dicitur ante aras, media inter numina divom, 205 multa Iovem manibus supplex orasse supinis: "Iuppiter omnipotens, cui nunc Maurusia pictis gens epulata toris Lenaeum libat honorem, aspicis haec? An te, genitor, cum fulmina torques, nequicquam horremus? Caecique in nubibus ignes 210 terrificant animos, et inania murmura miscent? E lui delirante (amens) nel cuore (animi) e acceso dalla diceria amara, si dice che davanti agli altari e in mezzo alle statue degli dei abbia pregato (orasse) molto Giove supplichevole con le mani alzate(supinis):” O, Giove onnipotente, a cui ora il popolo mauritano (maurisia gens) dopo aver banchettato (epulata) su letti ricamati (toris pictis) offre (libat) un omaggio di Bacco(Lenaeum epiteto) vedi (aspicis) queste cose? Oppure, o genitore, quando scagli (torques) i fulmini ti temiamo (horremus) inutilmente, e ciechi fuochi nelle nubi terrorizzano (terrificant) gli animi e suscitano (miscent) vani rimbombi? Femina, quae nostris errans in finibus urbem exiguam pretio posuit; cui litus arandum, cuique loci leges dedimus, connubia nostra reppulit, ac dominum Aenean in regna recepit. Una donna, che errando (errans) nei nostri confini fondò (posuit) una piccola città (urbem exiguam) con il denaro (pretio), a cui demmo (dedimus) una spiaggia da arare (erandum) e le leggi del luogo, le nostre nozze respinse (repullit) e accolse (recepit) nei regni come signore Enea. 215 Et nunc ille Paris cum semiviro comitatu Maeonia mentum mitra, crinemque madentem subnixus, rapto potitur: nos munera templis quippe tuis ferimus, famamque fovemus inanem." E ora quel Paride, con il comitato di mezzi uomini, allacciato (subnexus) il mento e capelli bagnati con mitra meonia gode (potitur) del furto: noi portiamo (ferimus) ai tuoi templi offerte davvero(quippe) e coltiviamo (fovemus) una gloria vana.” Talibus orantem dictis, arasque tenentem 220 audiit omnipotens, oculosque ad moenia torsit regia, et oblitos famae melioris amantes. Tunc sic Mercurium alloquitur, ac talia mandat: "Vade, age, nate, voca Zephyros, et labere pennis: Dardaniumque ducem, Tyria Carthagine qui nunc 225 exspectat, fatisque datas non respicit urbes, alloquere, et celeres defer mea dicta per auras. L’onnipotente sentì (audiit) che pregava (orantem) con tali parole e si teneva (tenentem) agli altari e volse (torsit) gli occhi alle mura regali e agli amanti dimentichi di fama migliore. Allora così parla (adloquitur) Mercurio e ordina(mandat) tali cose (gli) : “Orsù (age) va (vade), o figlio, invoca gli zefiri e scendi giù con le ali parla (adloquere) al comandante dei Dardani, che nella Tiria Cartagine ora aspetta (expectat) e non guarda indietro (respicit) alle città concesse dai fati, e porta (defer) le mie parole attraverso le rapide brezze. litus arenosum Libyae, ventosque secabat materno veniens ab avo Cyllenia proles. Non altrimenti volava (haut aliter volabat) fra le terre e il cielo verso la spiaggia sabbiosa di Libia e fendeva (secabat) i venti venendo dall’avo materno il figlio Cillenio. Ut primum alatis tetigit magalia plantis, 260 Aeneam fundantem arces, ac tecta novantem conspicit; atque illi stellatus iaspide fulva ensis erat, Tyrioque ardebat murice laena demissa ex humeris; dives quae munera Dido fecerat, et tenui telas discreverat auro. Non appena toccò (tetigit) con le piante dei piedi alate (alatis plantis) le capanne, scorge (conspicit) Enea che costruiva rocche e fabbricava case. Lui aveva (illi erat dat di possesso) aveva anche una spada (ensis) costellata di fulvo diaspro e un mantello di porpora (murice) Tiria fiammeggiava cadendogli (demissa) dalle spalle, doni che gli aveva fatto la ricca Didone e aveva ricamato il tessuto con oro sottile → i due part. pres li possiamo pure intendere come finali, quindi intento a costruire rocche e a fabbricare case 265 Continuo invadit: "Tu nunc Carthaginis altae fundamenta locas, pulchramque uxoribus urbem exstruis, heu regni, rerumque oblite tuarum! Ipse deum tibi me claro demittit Olympo regnator, caelum et terras qui numine torquet; 270 ipse haec ferre iubet celeres mandata per auras. Subito lo assale (invadit): “tu ora poni le fondamenta dell’alta Cartagine, e innalzi (exstruis) una bella città (schiavo) della moglie ahimè dimentico (oblite vocativo da oblitus perfetto di obliscor) del regno e delle tue imprese? Il re degli dèi in persona mi manda a te dall’Olimpo luminoso, che con la sua autorità muove cielo e terre; lui stesso ordina di portare questi ordini attraverso le rapide brezze Quid struis? Aut qua spe Libycis teris otia terris? Si te nulla movet tantarum gloria rerum, nec super ipse tua moliris laude laborem, Ascanium surgentem, et spes heredis Iuli 275 respice, cui regnum Italiae, Romanaque tellus debentur." Tali Cyllenius ore locutus mortales visus medio sermone reliquit; et procul in tenuem ex oculis evanuit auram. Che cosa mediti (struis)? O con quale speranza consumi il tempo libero (teris otia) nelle terre libiche? Se non ti smuove nessuna gloria di così grandi imprese, ( nè per te stesso intraprendi (da molior deponente) l’impegno per tua fama) pensa (respice) ad Ascanio che cresce (surgentem) e alle speranze dell’erede Iulo al quale è dovuto (debetur) il regno d’Italia e la terra Romana.” Il Cillenio, avendo parlato/dopo aver parlato (locutus) con tali parole (tali ore) Lasciò (reliquit) l’aspetto mortale nel mezzo del discorso e lontano sparì (evanuit) dalla vista (ex oculis) in una tenue brezza. At vero Aeneas aspectu obmutuit amens. 280 Arrectaeque horrore comae, et vox faucibus haesit. Ardet abire fuga dulcesque relinquere terras, attonitus tanto monitu, imperioque deorum. Heu, quid agat? Quo nunc reginam ambire furentem audeat affatu? Quae prima exordia sumat? Ma Enea davvero ammutolì (abmutuit) smarrito(amens) per la visione, i capelli si drizzarono per la paura e la voce restò attaccata (haesit) alla gola (faucibus, alle fauci lett.). Arde (ardet) di andarsene (abire) in fuga e lasciare (relinquere) le dolci terre, attonito per un così grande monito e comando degli dei. Ahimè che fare (agat cong deliberativo)? con quale discorso (quo adfatu) adesso osare (audeat congiuntivo deliberativo) avvicinare (ambire) la regina furiosa? da quali prime parole dovrebbe partire? 285 Atque animum nunc huc celerem, nunc dividit illuc, in partesque rapit varias, perque omnia versat. Haec alternanti potior sententia visa est. Mnesthea Sergestumque vocat fortemque Cloanthum: classem aptent taciti, sociosque ad litora cogant, 290 arma parent; et, quae sit rebus causa novandis, dissimulent: sese interea, quando optima Dido nesciat, et tantos rumpi non speret amores, tentaturum aditus, et quae mollissima fandi tempora, quis rebus dexter modus. Ocius omnes 295 imperio laeti parent ac iussa facessunt. E rivolge (dividiit) il pensiero veloce ora qui ora là (nunc huc nunc illuc) lo trascina (rapit) da varie parti e lo volge (versat) a ogni proposito. Questa decisione, a lui esitante/che esitava (alternanti) parve (visa est) la migliore (potior): chiama (vocat) Mnesteo, Sergesto e il forte Seresto allestiscano (aptent cong esortativo) in silenzio (taciti) la flotta e radunino (cogant cong esortativo) i compagni sulla spiaggia, e preparino (parent cong esortativo) le armi e dissimulino (dissimulent cong esortativo) quale sia (sit) la causa del cambiare Lui intanto, poiché (quando) l’ottima Didone non sa (nesciat) e non si aspetta (speret) che gli amori così grandi siano spezzati (rumpi), tenterà (temptaturum part fut) le strade (aditus) e i momenti dolcissimi per parlare (fandi), quale (sia) il modo adatto (dexter) alle cose. Subito (ocius) tutti obbediscono (parent) lieti al comando ed eseguono (facessunt) gli ordini DA VV 296 At regina dolos (quis fallere possit amantem?) praesensit, motusque excepit prima futuros, omnia tuta timens. Eadem impia fama furenti detulit armari classem cursumque parari. Ma la regina intuì l’inganno (chi potrebbe ingannare un’amante?) e per prima indovinò i futuri movimenti (futuros motos) temendo tutte le cose sicure. La stessa empia fama a lei furente riferì che che si armava la flotta e si preparava il viaggio. → Al verso 296, at regina ripete l’incipit del quarto libro: siamo, quindi, ad un momento di svolta, all’inizio del precipitare degli eventi poi verso l’esito tragico. L’immagine di Didone che vaga persa per la città era già stata anticipata all’inizio del libro, quando viene paragonata alla cerva ferita. Sevit inops animi, totamque incensa per urbem bacchatur: qualis commotis excita sacris Thyas, ubi audito stimulant Trieterica Baccho orgia, nocturnusque vocat clamore Cythaeron. Infuria (saevit) mancante nell’animo agitata impazza per tutta la città come una Baccante (Thias, grecismo) eccitata per gli arredi sacri messi in movimento → Enea non la guarda in faccia, ha gli occhi immobili per gli ammonimenti di Giove. Elissae è il nome fenicio di Didone e viene usato sempre nei casi obliqui, genitivo e ablativo (negli altri casi si usa Dido): l’alternanza motivata da ragioni metriche. Pro re pauca loquar: nec ego hanc abscondere furto speravi, ne finge, fugam: nec coniugis umquam praetendi taedas, aut haec in foedera veni. Sulla faccenda dirò poche cose: né ho sperato di nascondere questa fuga con l’inganno (non pensarlo) né ho mai innalzato fiaccole nuziali o sono venuto a questi patti. Me si fata meis paterentur ducere vitam auspiciis, et sponte meas componere curas, urbem Troianam primum, dulcesque meorum reliquias colerem, et Priami tecta alta manerent; et recidiva manu posuissem Pergama victis. Se i fati mi permettessero di condurre la vita secondo i miei desideri e di risolvere le sofferenze autonomamente innanzitutto onorerei la città di Troia e le care reliquie dei miei resterebbero gli alti tetti di Priamo e di mia mano avrei costruito per i vinti una nuova Pergamo → Al verso 340 abbiamo il periodo ipotetico dell’irrealtà, dove Enea spiega di star seguendo un destino che non corrisponde alla sua volontà: egli vorrebbe tornare a Troia. 345 Sed nunc Italiam magnam Gryneus Apollo, Italiam Lyciae iussere capessere fortes. Hic amor, haec patria est. Si te Carthaginis arces Phoenissam, Libycaeque aspectus detinet urbis, quae tandem Ausonia Teucros considere terra 350 invidia est? Et nos fas extera quaerere regna. Ma ora Apollo Grineo i responsi di Licia hanno ordinato di raggiungere la grande Italia. Questo è l'amore, questa è la patria. Se le rocche di Cartagine e la vista di una città libica attraggono te fenicia, quale invidia c’è dunque che i Teucri si stanzino nella terra Ausonia? E’ lecito che anche noi cerchiamo regni stranieri Me patris Anchisae, quotiens humentibus umbris nox operit terras, quotiens astra ignea surgunt, admonet in somnis, et turbida terret imago: me puer Ascanius, capitisque iniuria cari, 355 quem regno Hesperiae fraudo, et fatalibus arvis. L’immagine del padre Anchise ogni volta che la notte copre le terre con le umide ombre ogni volta che sorgono gli astri luminosi, mi ammonisce nei sogni e sdegnata mi atterrisce, (mi ammonisce) il fanciullo Ascanio e l’offesa di una persona cara, che io privo (fraudo) del regno dell’Esperia e dei campi fatali → Esperia è l’Italia vista da un greco, in greco esperion significa occidentale. Enea è angosciato dell’immagine di Anchise e non vuole privare Ascanio del regno che merita Nunc etiam interpres divom Iove missus ab ipso (testor utrumque caput) celeres mandata per auras detulit: ipse deum manifesto in lumine vidi intrantem muros, vocemque his auribus hausi. 360 Desine meque tuis incendere teque querelis: Italiam non sponte sequor." Ora anche il messaggero degli dei mandato dallo stesso Giove (lo giuro (testor), su entrambe le teste), ha portato ordini attraverso il cielo veloce, io stesso ho visto il Dio in una splendente luce che entrava per le mura e ho ascoltato la voce con queste orecchie. Smettila di tormentare me e te con le tue lamentele cerco l’Italia non di mia volontà. Talia dicentem iamdudum aversa tuetur, huc illuc volvens oculos, totumque pererrat luminibus tacitis; et sic accensa profatur: 365 "Nec tibi diva parens, generis nec Dardanus auctor, perfide; sed duris genuit te cautibus horrens Caucasus, Hyrcanaeque admorunt ubera tigres. Mentre lui dice tali cose, lei guarda ostile già da tempo (iamdudum) volgendo gli occhi di quà e di là e lo squadra tutto con occhi silenziosi e infervorata parla così: “Nè a te (fu) madre una dea nè Dardano (fu) il fondatore (auctor) della stirpe, o maledetto; ma ti generò il Caucaso aberrante per dure rocce e le tigri ircane ti porsero le mammelle Nam quid dissimulo? Aut quae me ad maiora reservo? Num fletu ingemuit nostro? Num lumina flexit? 370 Num lacrimas victus dedit? Aut miseratus amantem est? Quae quibus anteferam? Iam iam nec maxima Iuno, nec Saturnius haec oculis pater aspicit aequis. Perchè infatti fingo ? O a quali cose più grandi mi riservo? Forse si è intenerito con il nostro pianto? Forse ha abbassato gli occhi? Forse vinto ha versato lacrime o ha avuto pietà dell’amante? Quali cose dovrei anteporre a queste? Ormai né la somma Giunone né il padre Saturnio guarda queste cose con occhi equi. → Al verso 369, fletu nostro è un dativo della quarta declinazione, ma dovrebbe terminare con -ui: probabilmente, quindi, si tratta di un arcaismo. Nusquam tuta fides. Eiectum litore, egentem excepi, et regni demens in parte locavi: 375 amissam classem, socios a morte reduxi. Heu furiis incensa feror! Nunc augur Apollo, nunc Lyciae sortes, nunc et Iove missus ab ipso interpres divom fert horrida iussa per auras. In nessun luogo la lealtà è sicura. Ho raccolto lui gettato (eiectum) sulla spiaggia bisognoso e io folle l’ho messo a parte del regno: ho salvato la flotta perduta, i compagni dalla morte. Ahimè sono trascinata infiammata dal furore! Ora Apollo augure ora i responsi di Licia, ora anche il messaggero degli dei inviato dallo stesso Giove, riporta gli ordini spaventosi attraverso il cielo Scilicet is superis labor est; ea cura quietos 380 sollicitat. Neque te teneo, neque dicta refello. I, sequere Italiam ventis; pete regna per undas. è chiaro che (scilicet) agli dei del cielo è questa fatica (Senza dubbio gli dei del cielo hanno questa fatica); questa preoccupazione turba loro tranquilli. Nè ti trattengo né ribatto le parole. Va’ insegui l’Italia grazie ai venti; cerca i regni attraverso le onde Spero equidem mediis (si quid pia numina possunt) supplicia hausurum scopulis, et nomine Dido saepe vocaturum. Sequar atris ignibus absens; 385 et, cum frigida mors anima seduxerit artus, omnibus umbra locis adero; dabis, improbe, poenas; Per parte mia spero che tu sconterai le pene in mezzo agli scogli (se gli dei pietosi possano qualcosa) e che spesso chiamerai Didone per nome. Pure in assenza ti seguirò con neri fuochi, e quando la fredda morte avrà separato le membra dall'anima ti seguirò con l’ombra in tutti i luoghi; pagherai le pene o miserabile. → hausurum (sta per hausturum) audiam; et haec manes veniet mihi fama sub imos." His medium dictis sermonem abrumpit, et auras aegra fugit, seque ex oculis avertit, et aufert, 390 linquens multa metu cunctantem, et multa parantem dicere. Suscipiunt famulae, collapsaque membra marmoreo referunt thalamo, stratisque reponunt. Lo ascolterò e questa notizia giungerà a me sotto i profondi Mani. Dette queste cose interrompe a metà il discorso e sconvolta (aegra), fugge la luce si (se) sottrae agli occhi e scappa, lasciando (linquens) lui che era molto titubante per la paura e pronto a dire molte cose. Le ancelle la raccolgono e riportano le membra svenute nella camera di marmo e la adagiano sui cuscini. At pius Aeneas quamquam lenire dolentem solando cupit, et dictis avertere curas, exspectet facilemque fugam ventosque ferentes. Va (i), sorella, e supplice parla (adfare) al superbo nemico: Io non giurai (iuravi) con i Danai di sterminare (exscindere) il popolo troiano in Aulide e non mandai (misi) a Pergamo la flotta, né violai (revelli) le ceneri o i Mani del padre Anchise: perché rifiuta (negat) di accogliere (demittere) nelle dure orecchie i miei detti? Dove scappa (ruit)? Dia (det) questo ultimo dono (munus) alla misera amante: aspetti (expectet) una fuga facile e venti propizi (ferentis). Non iam coniugium antiquum, quod prodidit oro; nec pulchro ut Latio careat regnumque relinquat: tempus inane peto, requiem spatiumque furori; dum mea me victam doceat fortuna dolere. 435 Extremam hanc oro veniam, (miserere sororis) quam mihi cum dederis, cumulatam morte relinquam." Non chiedo (oro) più l’antica unione, che tradì (prodidit), né che si privi (careat) del bel Lazio e abbandoni (relinquat) il regno. Chiedo (peto) un tempo vuoto, quiete e spazio per il furore, finchè la mia sorte, vinta, mi insegni (doceat) a soffrire (dolere). Questa ultima grazia prego (oro), abbi pietà (miserere) della sorella, e quando me la concederà (dederit) la restituirò (remittam) accresciuta dalla morte Talibus orabat; talesque miserrima fletus fertque refertque soror. Sed nullis ille movetur fletibus, aut voces ullas tractabilis audit. 440 Fata obstant, placidasque viri deus obstruit aures. Ac velut annosam valido cum robore quercum Alpini Boreae nunc hinc, nunc flatibus illinc ervere inter se certant; Con tali parole pregava (orabat), e la sventurata sorella porta (fert) e riporta (refert) tali pianti. Ma lui non è smosso (movetur) da alcun pianto (nullis flentibus) o arrendevole ascolta (audit) alcuna parola; i fati si oppongono e un dio chiude le orecchie benevole dell’uomo E come quando i venti alpini ora di qua ora di là con soffi (flantibus) tra loro gareggiano (inter se certant) ad abbattere una quercia vigorosa dall’antico tronco; Note → Al verso 440 si parla di un deus (probabilmente si tratta di Giove) che chiude le placidas auris, ovvero le “orecchie benevole” (= in assenza di un comando divino sarebbero state benevole) o le “orecchie imperturbabili” (= non si lasciano smuovere da nulla). it stridor, et alte consternunt terram concusso stipite frondes: 445 ipsa haeret scopulis, et quantum vertice ad auras aetherias, tantum radice in Tartara tendit. Haud secus assiduis hinc atque hinc vocibus heros tunditur, et magno praesentit pectore curas: mens immota manet, lacrimae volvuntur inanes. va (it) lo stridore e le alte fronde cospargono (consternunt) la terra, essendo scosso il tronco; quella resta attaccata alle rocce e per quanto con la cima si tende verso l’aria del cielo, altrettanto con le radici tende verso il Tartaro: non diversamente (haud secus) l´eroe è colpito (tunditur) di qua e di là (hinc atque hinc) da parole continue (adsiduis vocibus) , e nel gran petto prova (persentit) gli affanni; la mente resta (manet) irremovibile, le lacrime scorrono (volvuntur) inutili → Le lacrime sono le lacrime di Enea, di Didone o della sorella Anna? Diciamo che la similitudine con la quercia fa pensare che possano essere le lacrime dello stesso Enea, nonostante la decisione di partire rimanga salda e immutata. 450 Tum vero infelix fatis exterrita Dido mortem orat: taedet caeli convexa tueri. Quo magis inceptum peragat, lucemque relinquat, vidit, thuricremis cum dona imponeret aris, (horrendum dictu) latices nigrescere sacros, 455 fusaque in obscaenum se vertere vina cruorem. Hoc visum nulli, non ipsi effata sorori. Praeterea fuit in tectis de marmore templum coniugis antiqui, miro quod honore colebat, velleribus niveis, et festa fronde revinctum. 460 Hinc exaudiri voces, et verba vocantis visa viri, nox cum terras obscura teneret. Solaque culminibus ferali carmine bubo saepe queri, et longas in fletum ducere voces. Multaque praeterea vatum praedicta priorum 465 terribili monitu horrificant: Allora davvero l'infelice Didone, atterrita (exterrita) dai fati prega (orat) la morte; ha fastidio a (teadet) guardare (tueri) la volta (convexa) del cielo. Affinchè concluda (peragat) di più il proposito e lasci (relinquat) la luce, vide (vidit), mentre poneva (imponeret) i doni sugli altari fumanti d’incenso (turicremis), orribile a dirsi (horrendum dictu), i liquidi sacri annerirsi (nigrescere) e i vini versati(fusa vina abl ass) cambiarsi (vertere) in funesto sangue. A nessuno raccontò (effata) questa visione, neppure alla stessa sorella. C’era (fuit) nel palazzo un tempio di marmo dell’antico marito, che venerava (colebat) con grande onore, cinto di candide bende e di fronde festose: di qui le sembrò di udire la voce e le parole del marito che la chiamava, quando la notte oscura copriva le terre; e (le sembrò) che il gufo solitario (sola bubo) si lamentasse (queri) spesso con canto funereo dai tetti (culminibus) e che volgesse(ducere) in pianto i lunghi gemiti; ed inoltre (praeterea) molte predizioni di antichi vati (vatum priorum) con terribile monito la terrorizzano(horrificant). agit ipse furentem in somnis ferus Aeneas: semperque relinqui sola sibi, semper longam incomitata videtur ire viam, et Tyrios deserta quaerere terra. Eumenidum veluti demens videt agmina Pentheus, 470 et solem geminum, et duplices se ostendere Thebas: aut Agamemnonius scaenis agitatus Orestes, armatam facibus matrem et serpentibus atris cum fugit, ultricesque sedent in limine Dirae. Lo stesso Enea furioso nei sogni tormenta (agit) la furiosa, le sembra (videtur) di essere sempre lasciata (relinqui) sola, di andare (ire) sempre non accompagnata (incomitata) per una lunga via, e cercare (quaerere) su terra deserta i Tirii; come Penteo, pazzo, vede (videt) le schiere delle Eumenidi e mostrarsi (se ostendere) un doppio sole e doppia Tebe, o come Oreste figlio di Agamennone (Agamemnonius) perseguitato (agitatus) sulle scene, quando fugge (fugit) la madre armata di fiaccole (facibus) e neri serpenti e le Dire vendicatrici siedono (sedent) sulla soglia Ergo ubi concepit furias evicta dolore, 475 decrevitque mori, tempus secum ipsa modumque exigit; et maestam dictis aggressa sororem, falcibus et messae ad lunam quaeruntur ahenis pubentes herbae, nigri cum lacte veneni. 515 Quaeritur et nascentis equi de fronte revulsus, et matri praereptus amor. Ipsa mola, manibusque piis, altaria iuxta, unum exuta pedem vinclis, in veste recincta testatur moritura deos, et conscia fati 520 sidera; tum, si quod non aequo foedere amantes curae numen habet, iustumque, memorque precatur. Aveva sparso (sparserat) le acque simulate della fonte d´Averno, si cercano (quaereuntur) mietute con falci di bronzo sotto la luna erbe mature con latte di nero veleno; si cerca (quaeritur) anche l´amore strappato (revulsus) dalla fronte d´un cavallo nascente (nascentis) rubato (praereptus) alla madre. Lei stessa con farina e mani pie/devote presso gli altari, tolta(exuta) un solo piede dai calzari in veste slacciata, chiama a testimoniare (testatur) gli dei, lei destinata a morire, (moritura) e le stelle consapevoli del fato; poi se qualche volontà divina(numen), giusta e benevola, ha (habet) cura dei patti non equi degli amanti lo invoca Nox erat, et placidum carpebant fessa soporem corpora per terras silvaeque et saeva quierant aequora: cum medio volvuntur sidera lapsu: 525 cum tacet omnis ager, pecudes, pictaeque volucres; quaeque lacus late liquidos, quaeque aspera dumis rura tenent, somno positae sub nocte silenti lenibant curas, et corda oblita laborum. Era (erat) notte ed i corpi stanchi (fessa corpora) godevano(carpebant) un tranquillo riposo sulle terre, le selve ed i mari crudeli erano tranquilli (quierant), quando le stelle volgono (volvuntur) a metà del corso, quando ogni campo tace (tacet), le mandrie e gli uccelli variopinti, che occupano (tenent) per ampio tratto (late) i limpidi laghi e campagne aspre di cespugli, raccolti nel sonno sotto una notte silenziosa, addolcivano (lenibant) gli affanni ed i cuori dimentichi (oblita) delle fatiche. → L’inizio di questo passo, nox erat al verso 522, è famoso anche per il motivo del contrasto tra il riposo e la pace della natura che la notte dovrebbe portare e la veglia del singolo, dell’eroe Enea: è il cosiddetto topos del notturno. Questo topos lo ritroviamo nel secondo e decimo libro dell’Iliade di Omero e nel III libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio. At non infelix animi Phoenissa, nec umquam 530 solvitur in somnos, oculisve aut pectore noctem accipit. Ingeminant curae, rursusque resurgens saevit amor; magnoque irarum fluctuat aestu. Sic adeo insistit, secumque ita corde volutat: Ma non la Fenicia infelice nel cuore, né mai si scioglie (solvitur) nel sonno o coglie (accipit) negli occhi e nel cuore la notte: si raddoppiano (ingeminant) gli affanni e inoltre rinascendo (resurgens) infuria (saevit) amore e fluttua (fluctuat) nella gran tempesta di ire. A tal punto (adeo) insiste (insistit) e tra sé così medita (volutat) nel cuore: "En, quid agam? Rursusne procos irrisa priores 535 experiar? Nomadumque petam conubia supplex, quos ego sum totiens iam dedignata maritos? Iliacas igitur classes atque ultima Teucrum iussa sequar? Quia ne auxilio iuvat ante levatos? Et bene apud memores veteris stat gratia facti? " Ecco, che faccio (ago)? Forse di nuovo derisa affronterò (experiar) i vecchi pretendenti, e supplice cercherò (petam) le nozze dei Nomadi, quei mariti che ormai tante volte ho sdegnato (sim dedignata cong perf)? Inseguirò (sequar) dunque (igitur) le flotte iliache e gli ultimi ordini dei Teucri? Forse perché giova (iuvant) che siano prima stati alleviati (levatos) da un aiuto e sta bene (stat bene) la gratitudine presso i memori di ́un vecchio fatto? 540 Quis me autem (fac velle) sinet? Ratibusque superbis irrisam accipiet? Nescis, heu perdita, necdum Laomedonteae sentis periuria gentis? Quid tum? Sola fuga nautas comitabor ovantes? An Tyriis, omnique manu stipata meorum 545 insequar? Et quos Sidonia vix urbe revelli, rursus agam pelago, et ventis dare vela iubebo? Chi poi, fai (fac) di volerlo (velle), permetterà (sinet) o accoglierà (accipiet) me odiata sulle superbe barche? Ahimè, non sai (nescius), disperata e non capisci (sentis) i tradimenti del popolo di Laomedonte? E poi? Da sola in fuga accompagnerò (comitabor) marinai esultanti o attorniata (stipata) dai Tirri e da ogni schiera dei miei mi porterò(inferar) e, e di nuovo spingerò in mare quelli che a stento ho strappato dalla città Sidonia, e ordinerò di spiegare le vele ai venti? Quin morere, ut merita es, ferroque averte dolorem. Tu lacrimis evicta meis, tu prima furentem his germana malis oneras atque obicis hosti. 550 Non licuit thalami expertem sine crimine vitam degere more ferae? Tales nec tangere curas? Non servata fides cineri promissa Sichaeo." Muori (morere) piuttosto come hai meritato (ut es merita), cancella (averte) con la spada il dolore. Tu vinta (evicta) dalle mie lacrime, sorella, tu per prima opprimi (oneras) con questi mali me impazzita e (mi) abbandoni (obicis) al nemico. Non fu lecito (licuit) trascorrere(degere) la vita priva del talamo senza colpa come (more) una bestia, e non toccare (tangere) tali affanni; non è mantenuta (servata) la fede promessa alla cenere di Sicheo". Tantos illa suo rumpebat pectore questus. Aeneas celsa in puppi, iam certus eundi, 555 carpebat somnos, rebus iam rite paratis. Huic se forma dei voltu redeuntis eodem obtulit in somnis, rursusque ita visa monere est; omnia Mercurio similis, vocemque coloremque, et crines flavos et membra decora iuventae. Ella emetteva (rumpebat) dal suo cuore così grandi lamenti: Enea sull’alta poppa ormai sicuro di andare (eundi gerundio gen.) prendeva (carpebat) sonno, già ben preparate (paratis) le cose. A lui si offrì (obtulit) nei sogni l´immagine del dio che tornava (redeuntis) con lo stesso volto e di nuovo parve (visa est) ammonire (monere) così: in tutto simile a Mercurio, nella voce nel colore nei biondi capelli e nelle membra belle di giovinezza: 560 "Nate dea, potes hoc sub casu ducere somnos? Nec quae circumstent te deinde pericula cernis demens? Nec Zephyros audis spirare secundos? Illa dolos, dirumque nefas in pectore versat certa mori, varioque irarum fluctuat aestu. Infelix Dido, nunc te facta impia tangunt? Non prenderanno le armi e non lo inseguiranno da tutta la città e altri (alii) non trascineranno le navi dai cantieri (navalibus)? Andate (ite), portate (ferte), rapidi, le fiamme, date le armi, spingete i remi. Che cosa dico o dove sono? Quale follia sconvolge la mente? Sventurata Didone, ora ti colpiscono le azioni empie? Tum decuit, cum sceptra dabas. En dextra, fidesque! Quem secum patrios aiunt portare Penates, quem subiisse humeris confectum aetate parentem! 600 Non potui abreptum divellere corpus, et undis spargere? Non socios, non ipsum absumere ferro Ascanium, patriisque epulandum apponere mensis? Allora doveva essere conveniente (decuit), quando davi gli scettri. Ecco (en) la destra e la promessa (fides)! Colui che dicono (aiunt) abbia portato con sè i patrii penati (patrii Penati sta per penates) che abbia portato (subisse) il padre indebolito dall’età (confectum aetate) sulle spalle. Non ho potuto strappare il corpo maciullato e disperderlo nelle onde, non ho potuto (potuit sottinteso) colpire i compagni con la spada e lo stesso Ascanio porlo da mangiare sulle mense paterne ? Verum anceps pugnae fuerat fortuna. Fuisset: quem metui moritura? Faces in castra tulissem, 605 implessemque foros flammis, natumque patremque cum genere exstinxem: memet super ipsa dedissem. Davvero la sorte della battaglia (fortuna pugnae) era stata dubbia (anceps). Lo fosse stata! Chi ho temuto io destinata a morire? Io avrei portato (tulissem) le fiamme (faces) nell’accampamento avrei riempito ( implessem, forma arcaica implevissem) i ponti di fuochi avrei estinto( estinxem forma arcaica exinxissem) il figlio (natum) e il padre con la stirpe (cum genere) e avrei posto me stessa (dedissem) su di essi (super ipsa) Sol, qui terrarum flammis opera omnia lustras; tuque harum interpres curarum et conscia, Iuno, nocturnisque Hecate triviis ululata per urbes, 610 et Dirae ultrices, et di morientis Elisae, accipite haec: meritumque malis advertite numen, et nostras audite preces. O sole che illumini con i raggi tutte le opere delle terre, e tu Giunone mediatrice e consapevole di questi affanni e tu Ecate, invocata (ululata) per le città nei trivi notturni, voi Furie vendicatrici e dei di Elissa che muore, accettate queste cose volgete (advertite) ai malvagi la giusta vendetta e ascoltate le nostre preghiere. Si tangere portus infandum caput, ac terris adnare necessest: et si fata Iovis poscunt; hic terminus haeret: 615 at bello audacis populi vexatus, et armis, finibus extorris, complexu avulsus Iuli, auxilium imploret, videatque indigna suorum funera: nec, cum se sub leges pacis iniquae tradiderit, regno aut optata luce fruatur: 620 sed cadat ante diem mediaque inhumatus arena. Se è necessario che l’infame tocchi i porti e navighi su terre e così chiedono i fati di Giove questo traguardo è fisso ma oppresso dalla guerra di un popolo audace e dalle armi esule (extorris) dai territori (finibus) strappato (avulsus) dall’abbraccio di Iulo implori aiuto e veda le indegne morti dei suoi nè essendosi consegnato sotto le leggi di una pace iniquia (avendo consegnati se stesso sotto le leggi di una pace iniquia) goda del regno o della luce desiderata ma cada prima del tempo (ante diem) e insepolto in mezzo alla sabbia. Haec precor, hanc vocem extremam cum sanguine fundo. Tum vos, o Tyrii, stirpem et genus omne futurum exercete odiis, cinerique haec mittite nostro munera: nullus amor populis, nec foedera sunto. Prego queste cose verso questa ultima voce verso con il sangue. Poi voi o Tiri trattate con odio la stirpe e tutto il genere che verrà (futurum) e inviate alla nostra cenere questi doni(haec munera). Per i popoli (popolis) non ci sia alcun amore nè patti Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor, qui face Dardanios ferroque sequare colonos. Nunc, olim, quocumque dabunt se tempore vires, litora litoribus contraria, fluctibus undas imprecor, arma armis: pugnent ipsique nepotes." Sorgi (exoriare che sta per exoriaris) tu vendicatore dalle nostre ossa, quale che sia (aliquis), che insegui (sequare che sta per sequaris) i coloni dardani con il ferro e il fuoco, ora, in futuro , e in qualunque tempo si daranno le forze. Prego lidi contrari a lidi, onde opposte a flutti, armi opposte ad armi, combattano sia loro stessi sia i nipoti. 630 Haec ait, et partes animum versabat in omnes, invisam quaerens quam primum abrumpere lucem. Tum breviter Barcen nutricem affata Sichaei, (namque suam patria antiqua cinis ater habebat): Questo disse e volgeva la mente da tutte le parti cercando di troncare l’odiata luce quanto prima. Poi brevemente si rivolse a Barce la nutrice di Sicheo, infatti la cenere nera conservava la sua (nutrice) nell’antica patria, "Annam cara mihi nutrix huc siste sororem: 635 dic, corpus properet fluviali spargere lympha, et pecudes secum, et monstrata piacula ducat. “ O, nutrice a me cara porta qui la sorella Anna dì (dic) che si affretti a cospargere il corpo di acqua fluviale e porti con sè gli animali e i sacrifici indicati Sic veniat: tuque ipsa pia tege tempora vitta. Sacra Iovi Stygio, quae rite incoepta paravi, perficere est animus, finemque imponere curis, Dardaniique rogum capitis permittere flammae." Venga così e anche tu stessa copri le tempie con la pia benda. (Ho) in mente (animus) di completare i riti sacri (perficerest) a Giove stigio che ho iniziato e preparato secondo il rito e porre fine agli affanni e affidare il rogo del troiano (Dardanii capitis) alla fiamma Sic ait: illa gradum studio celerabat anili. At trepida, et coeptis immanibus effera Dido sanguineam volvens aciem, maculisque trementes interfusa genas, et pallida morte futura 645 interiora domus irrumpit limina, et altos conscendit furibunda rogos, ensemque recludit Dardanium, non hos quaesitum munus in usus Così parlò. Quella velocizzava il passo (gradum) con intenzione senile. Ma Didone, trepidante e furente per i propositi atroci, roteando lo sguardo sanguineo avendo coperto (interfusa) le guance (genas) tremanti di macchie (trementis maculis) e pallida per la morte che avverrà irrompe nelle interne soglie della casa (limina interiore) e sale (consedit) fuoribonda sugli alti gradini e sguaina la spada dardania, regalo non preposto per questi usi Extinxit te meque, soror, populumque patresque Sidonios, urbemque tuam. Date, volnera lymphis abluam, et, extremus si quis super halitus errat, 685 ore legam." Sic fata, gradus evaserat altos, semianimemque sinu germanam amplexa fovebat cum gemitu, atque atros siccabat veste cruores. O sorella tu hai ucciso te e me e il popolo e gli antenati sidoni e la tua città, lasciate che io lavi (abluam) con le acque le ferite e se un estremo sospiro vaga al di sopra lo prenderò con la bocca”. Avendo così parlato aveva scalato gli alti gradini e avendola abbracciata e stringeva sul petto la sorella (germanam) semiviva con gemito e asciugava il nero sangue (lett i neri sangui) con la veste Illa graves oculos conata attollere, rursus deficit: infixum stridet sub pectore volnus. 690 Ter sese attollens cubitoque innixa levavit: ter revoluta toro est, oculisque errantibus alto quaesivit caelo lucem, ingemuitque reperta. Quella, tentando di alzare gli occhi pesanti di nuovo sviene; stride la ferita conficcata sotto al petto. Tre volte sollevandosi e appoggiandosi sul gomito si alzò, tre volte ricadde sul letto e cercò con gli occhi erranti nell’alto cielo la luce e gemette essendo stata trovata Tum Iuno omnipotens longum miserata dolorem difficilesque obitus, Irim demisit Olympo, 695 quae luctantem animam, nexosque resolveret artus. Nam quia nec fato, merita nec morte peribat, sed misera ante diem, subitoque accensa furore, nondum illi flavum Proserpina vertice crinem abstulerat, Stygioque caput damnaverat Orco. Allora Giunone onnipotente commiserando (verbo dep) il lungo dolore della difficile agonia (genitivo) mandò dall’Olimpo Iride, che sciogliesse l’anima che lottava e le membra incatenate. Infatti, poiché non moriva né per destino né per morte meritata, ma sventurata prima del giorno e accesa da improvvisa follia, Proserpina non le aveva ancora strappato dal capo il biondo capello e aveva condannato la persona all’Orco Stigio 700 Ergo Iris croceis per caelum roscida pennis, mille trahens varios adverso sole colores, devolat, et supra caput astitit: "Hunc ego Diti sacrum iussa fero, teque isto corpore solvo." Sic ait; et dextra crinem secat: omnis et una 705 dilapsus calor, atque in ventos vita recessit. Dunque, Iride rugiadosa con le ali del color del croco attraverso il cielo traendo mille colori vari nel sole opposto vola giù e si fermò sulla testa: «Questo io porto consacrato secondo gli ordini a Dite e ti sciolgo da questo corpo». Così disse e con la destra taglia il capello, in un momento tutto il calore si dissolse/venne meno e la vita svanì nel vento.