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L' Adone di Marino. Canto primo., Appunti di Letteratura

Allegoria LA FORTUNA. Nella sferza di rose e di spine con cui Venere batte il figlio si figura la qualità degli amorosi piaceri, non giamai discompagnati da’ dolori. In Amore che commove prima Apollo, poi Vulcano e finalmente Nettuno, si dimostra quanto questa fiera passione sia potente per tutto, eziandio negli animi de’ grandi.

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 13/06/2019

roraa
roraa 🇮🇹

4.8

(17)

19 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica L' Adone di Marino. Canto primo. e più Appunti in PDF di Letteratura solo su Docsity! ADONE -MARINO CANTO I Allegoria LA FORTUNA. Nella sferza di rose e di spine con cui Venere ba�e il figlio si figura la qualità degli amorosi piaceri, non giamai discompagna� da’ dolori. In Amore che commove prima Apollo, poi Vulcano e finalmente Ne�uno, si dimostra quanto questa fiera passione sia potente per tu�o, eziandio negli animi de’ grandi. In Adone che con la scorta della Fortuna dal paese d’Arabia sua patria passa all’isola di Cipro, si significa la gioventù che so�o il favore della prosperità corre volen�eri agli amori. So�o la persona di Clizio s’intende il signor Giovan Vincenzo Imperiali, gen�luomo genovese di belle le�ere, che questo nome si ha appropriato nelle sue poesie. Nelle lodi della vita pastorale si adombra il poema dello Stato rus�co, dal medesimo leggiadramente composto. Argomento Passa in picciol legne�o a Cipro Adone dale spiagge d’Arabia, ov’egli nacque. Amor gli turba intorno i ven� e l’acque, Clizio pastor l’accoglie in sua magione. Canto primo Io chiamo te, per cui si volge e move 1ª o�ava la più benigna e mansueta sfera, santa madre d’Amor, figlia di Giove, bella dea d’Amatunta e di Citera; te, la cui stella, ond’ogni grazia piove, dela no�e e del giorno è messaggiera; te, lo cui raggio lucido e fecondo serena il cielo ed innamora il mondo, tu dar puoi sola altrui godere in terra 2ª o�ava di pacifico stato ozio sereno. Per te Giano placato il tempio serra, addolcito il Furor �en l’ire a freno; poiché lo dio del’armi e dela guerra spesso suol prigionier languir� in seno e con armi di gioia e di dile�o guerreggia in pace ed è steccato il le�o. De�ami tu del giovine�o amato 3ª o�ava le venture e le glorie alte e superbe; qual teco in prima visse, indi qual fato l’es�nse e �nse del suo sangue l’erbe. E tu m’insegna del tuo cor piagato a dir le pene dolcemente acerbe e le dolci querele e’l dolce pianto; e tu de’ cigni tuoi m’impetra il canto. Ma mentr’io tento pur, diva cortese, 4ª o�ava d’ordir testura ingiuriosa agli anni, prendendo a dir del foco che t’accese i pria sì gra� e poi sì gravi affanni, Amor, con grazie almen pari al’offese, lievi mi pres� a sì gran volo i vanni e con la face sua, s’io ne son degno, dia quant’arsura al cor, luce al’ingegno. E te, ch’Adone istesso, o gran Luigi, 5ª o�ava di beltà vinci e di splendore abbagli e, seguendo ancor tenero i ves�gi del morto genitor, quasi l’agguagli, per cui suda Vulcano, a cui Parigi convien che palme colga e statue intagli, prego intanto m’ascol� e sos�en ch’io intrecci il giglio tuo col lauro mio. Se movo ad agguagliar l’alto conce�o 6ª o�ava la penna, che per sé tanto non sale, facciol per o�ener dal gran sugge�o col favor che mi regge ed aure ed ale. né so chi mi ri�en ch’or or non stracci quante re� malvage ordisci e spandi, che per sempre dal ciel non � discacci, che’n essilio perpetuo io non � mandi su i gioghi ircani e tra le caspie selve, arcier villano, a sae�ar le belve. Che tu fra gli egri e languidi mortali, 15ª o�ava di cui s’odono ognor gridi e lamen�, semini colaggiù mar�ri e mali, convien, malgrado mio, ch’io mi conten�; ma soffrirò che’n ciel vibri i tuoi strali, non perdonando ale beate gen�? che sostengan per te strazi sì rei, serpentello orgoglioso, anco gli dei? Che più? fin dele stelle il sommo duce 16ª o�ava questo malnato di sforzar si vanta, e spesso a stato tale anco il riduce ch’or in mandra or in nido, or mugghia or canta. Un pes�fero mostro, orbo di luce, avrà dunque fra noi baldanza tanta? un, che la lingua ancor �nta ha di la�e, cotanto ardisce? - E ciò dicendo il ba�e. Con flagello di rose insieme a�orte 17ª o�ava ch’avea groppi di spine, ella il percosse e de’ bei membri, onde si dolse forte, fe’ le vivaci porpore più rosse. Tremaro i poli e la stellata corte a quel fiero vagir tu�a si mosse; mossesi il ciel, che più d’Amor infante teme il furor che di Tifeo gigante. Dela reggia materna il figlio uscito, 18ª o�ava con quello sdegno allor se n’allontana con cui soffiar per l’arenoso lito calcata suol la vipera africana o l’orso cavernier, quando ferito si scaglia fuor dela sassosa tana e va fremendo per gli orror più cupi dele valli lucane e dele rupi. Sferzato e pien di dispe�osa doglia, 19ª o�ava fuggì piangendo ala vicina sfera, là dove cinto di purpurea spoglia, gran monarca de’ tempi, il Sole impera e’nsu l’entrar dela dorata soglia, stella nunzia del giorno e condo�era, Lucifero incontrò, che’n oriente apria con chiave d’or l’uscio lucente. E’l Crepuscolo seco, a poco a poco 20ª o�ava uscito per la lucida contrada sovra un corsier di tenebroso foco, spumante il fren d’ambrosia e di rugiada, di fresco giglio e di vivace croco forier del bel ma�n spargea la strada e con sferza di rose e di viole affre�ava il camino innanzi al Sole. La bella luce, che’n su l’aurea porta 21ª o�ava aspe�ava del Sol la prima uscita, era di Citerea ministra e scorta, d’amoroso splendor tu�a crinita. Per varcar l’ombre innanzi tempo sorta già la biga rotante avea spedita e’l venir dela dea stava a�endendo, quando il fier pargole�o entrò piangendo. Pianse al pianger d’Amor la ma�u�na 22ª o�ava del re de’ lumi ambasciadrice stella e di pioggia argentata e cristallina rigò la faccia rugiadosa e bella, onde di vive perle accolte in brina potè l’urna colmar l’Alba novella, l’Alba che l’asciugò col vel vermiglio l’umido raggio al lagrimoso ciglio. Ricoverato al ricco albergo Amore, 23ª o�ava trovò che, posto a’ corridori il morso, già s’era accinto il principe del’ore con la verga gemmata al novo corso e i focosi destrier, sbuffando ardore, l’altere iube si scotean su’l dorso e, sdegnosi d’indugio, il pavimento ferian co’ calci e co’ nitri� il vento. Sta quivi l’Anno sovra l’ali accorto, 24ª o�ava che sempre il fin col suo principio annoda e’n forma d’angue innanellato e torto morde l’estremo ala volubil coda e, qual Anteo caduto e poi risorto, cerca nova materia ond’egli roda; v’ha la serie de’ Mesi e i Dì lucen�, i lunghi e i brevi, i fervidi e gli algen�. L’aurea corona, onde scin�lla il giorno, 25ª o�ava del Tempo gli ponean le qua�ro figlie. Due schiere avea d’alate ancelle intorno, dodici brune e dodici vermiglie. Mentre accoppiavan queste al carro adorno gli aura� gioghi e le rosate briglie, gli occhi di foco il Sol rivolse e’l pianto da’ canali del ciel sor� e venture, che de’ piane� al numero costru�e sono in se�e metalli incise tu�e. Quivi ciò che seguir deggia di questo 34ª o�ava legger potrai, quasi in vergate carte: prole tal nascerà del bell’innesto, che non � pen�rai d’avervi parte. In lei, pur come gemme in bel contesto, saran tu�e del ciel le grazie sparte; e questa, o per tai nozze apien beato, al �ranno del mar prome�e il fato. Se ciò farai, non pur n’andrà in oblio 35ª o�ava la memoria tra noi de’ gran contras�, ma tal premio n’avrai d’un dono mio, che’n mercé di tant’opra io vo’ che bas�; lira nel mio Parnaso aurea serb’io, ch’ha d’or le corde e di rubino i tas�; fu d’Armonia tua suora ed io di lei con questa celebrai gli al� imenei. Questa fia tua. Così qualor � stai 36ª o�ava di cure e d’armi alleggerito e scarco musico com’arcier, tra�ar potrai il ple�ro a par di me non men che l’arco; ché l’armonia non sol ristora assai qualunque sia più fa�coso incarco, ma molto può co’ numeri sonori ad eccitare ed incitar gli amori. - Fur queste efficacissime parole 37ª o�ava folli, ch’al folle cor soffiaro orgoglio, ond’irritato abbandonò del Sole senza far mo�o il lampeggiante soglio e, ruinando dal’eterea mole inver le piagge del materno scoglio, corse col tra�o dele penne arden�, più che vento leggier, le vie de’ ven�. Come prodigiosa acuta stella, 38ª o�ava armata il volto di scin�lle e lampi, fende del’aria, orribil sì ma bella passaggiera lucente, i larghi campi; mira il nocchier da questa riva e quella con qual purpureo piè la nebbia stampi e con qual penna d’or scriva e disegni le mor� ai regi e le cadute ai regni: così mentrech’Amor dal ciel disceso 39ª o�ava scorrendo va la region più bassa, con la face impugnata e l’arco teso gran traccia di splendor dietro si lassa; d’un solco ardente e d’auree fiamme acceso riga intorno le nubi ovunque passa e trae per lunga linea in ogni loco striscia di luce, impression di foco. Su’l mar si cala, e sicom’ira il punge, 40ª o�ava sestesso aventa impetuoso a piombo; circonda i lidi quasi mergo e lunge fa del’ali striden� udire il rombo; né grifagno falcon quando raggiunge col fiero ar�glio il semplice colombo fassi lieto così, com’ei diventa quando il leggiadro Adon gli si presenta. Era Adon nel’età che la facella 41ª o�ava sente d’Amor più vigorosa e viva ed avea dispostezza ala novella acerbità degli anni intempes�va, né su le rose dela guancia bella alcun gemoglio ancor d’oro fioriva o, se pur vi spuntava ombra di pelo, era qual fiore in prato o stella in cielo. In bionde anella di fin or lucente 42ª o�ava tu�o si torce e si rincrespa il crine; del’ampia fronte in maestà ridente so�o gli sorge il candido confine; un dolce minio, un dolce foco ardente, sparso tra vivo la�e e vive brine, gli �nge il viso in quel rossor che suole prender la rosa infra l’aurora e’l sole. Ma chi ritrar del’un e l’altro ciglio 43ª o�ava può le due stelle lucide serene? chi dele dolci labra il bel vermiglio, che di vivi tesor son ricche e piene? o qual candor d’avorio o qual di giglio la gola pareggiar, ch’erge e sos�ene, quasi colonna adaman�na, accolto un ciel di meraviglie in quel bel volto? Qualor feroce e faretrato arciero 44ª o�ava di quadrella pungen� armato e carco, affronta o segue, inun leggiadro e fiero, o fere a�ende fuggi�ve al varco e in a�o dolce cacciator guerriero sae�ando la morte incurva l’arco, somiglia intu�o Amor, senon che solo mancano a farlo tale il velo e’l volo. Egli tanto tesoro in lui raccolto 45ª o�ava di natura e d’amor par ch’abbia a vile Chiunque Amore o Marte a seguir prende 53ª o�ava convien che’l nome mio celebri e chiami; chi solca l’acqua e chi la terra fende o s’alcun v’ha ch’onore e gloria brami, porge preghi al mio nume e vo� appende ed io dispenso altrui sce�ri e reami; toglier posso e donar tu�o ad un cenno e quanto è so�o il sol reggo a mio senno. Me dunque adora e’nsu l’eccelsa cima 54ª o�ava dela mia rota ascenderai di corto; per me nel trono, onde � trasse in prima l’empio inganno materno, or sarai scorto; solché poi dove il fato or � sublima sappi nel conservar� essere accorto, ché spesso suol con preveder periglio romper fortuna rea cauto consiglio. - Tace ciò de�o ed egli, vago allora 55ª o�ava di costeggiar quel dile�oso loco, entra nel legno e del’angusta prora i duo remi a tra�ar prende per gioco. Ed ecco al sospirar d’agevol ora s’allontana l’arena a poco a poco, siché mentr’ei dal mar si volge ad essa par che navighi ancor la terra istessa. Scorrendo va piacevolmente il lido 56ª o�ava mentr’è placido e piano il molle argento e da principio, del suo patrio nido rade la riva a passo tardo e lento, indi al’instabil fè del flu�o infido sestesso crede e si comme�e al vento lunge di là dov’a morir va l’onda e con roco latrar morde la sponda. Trasparean sì le belle spiagge ondose, 57ª o�ava che si potean del’umide spelonche nele profonde viscere arenose ad una ad una annoverar le conche. Zefiri destri al volo, Aure vezzose l’ali scotean: ma tosto lor fur tronche, il mar cangiossi, il ciel ruppe la fede: oh malcauto colui ch’ai ven� crede. O stolto quanto industre, o troppo audace 58ª o�ava fabro primier del temerario legno, ch’osas� la tranquilla an�ca pace romper del crudo e procelloso regno; più ch’aspro scoglio e più che mar vorace rigido aves� il cor, fiero l’ingegno, quando sprezzando l’impeto marino gis� a sfidar la morte in fragil pino. Per far una leggiadra sua vende�a 59ª o�ava Amor fu solo autor di sì gran moto; Amor fu ch’a pugnar con tanta fre�a trasse turbini e nembi, africo e noto. Ma dela stanca e misera barche�a fu sempr’egli il poppiero, egli il piloto; fece vela del vel, vento con l’ali, e fur l’arco �mon, remi gli strali. Dala madre fuggendo iva il figliuolo 60ª o�ava quasi bandito e contumace intorno, perché, com’io dicea, vinto dal duolo, di fanciullesca s�zza arse e di scorno. Né perché poscia il richiamasse, il volo fermar volse giamai né far ritorno e’n tal dispe�o, in tant’orgoglio salse che di vezzo o pregar nulla gli calse. Per gli spazi sen gia del’aria molle 61ª o�ava scioccheggiando con l’Aure Amor volante e de�ava talor rabbioso e folle tragiche rime a più d’un mesto amante; talor lungo un ruscello o sovra un colle piegava l’ali e raccogliea le piante e, dovunque ne giva, il superbe�o rubava un core o trapassava un pe�o. - Non è questo lo stral possente e fiero 62ª o�ava ch’al re�or dele stelle il fianco offese? per cui più volte dal celeste impero l’aureo sce�ro deposto in terra scese? quel ch’al quinto del ciel nume guerriero spezzò, passò l’adaman�no arnese? quel che punse in Tessaglia il biondo dio, superbo sprezzator del valor mio? Questa la face è pur cui sola adora, 63ª o�ava nonché la terra e’l ciel, S�ge e Cocito, che strugger fè, che fè languir talora il signor dele fiamme incenerito, quella da cui non si difese ancora di Te� il freddo ed umido marito, che tra’ gelidi umori infiamma i fon�, tra l’ombre i boschi e tra le nevi i mon�. Ed or costei, da cui con biasmo eterno 64ª o�ava mill’onte gravi io mi soffersi e tacqui, perché dee le mie forze aver a scherno, seben dal ventre suo conce�o io nacqui? Dunque andrà da que’ lacci il cor materno con un riso villan da terra il prende. Tra le ruvide braccia avinto e stre�o l’ispido labro per baciarlo stende e la sudicia barba ed incomposta al molle viso e dilicato accosta. Ma mentre ch’egli l’accarezza e stringe, 73ª o�ava raccolto in braccio, con paterno zelo, Amor, perché baciando il punge e �nge, la faccia arretra dal’irsuto pelo e, con quel sozzo lin che’l sen gli cinge, per non macchiarsi di carbone il velo, al’aspra guancia d’una in altra ruga del’immondo sudor le s�lle asciuga. - Padre, dala tua man (poscia gli dice) 74ª o�ava voglio or or sovrafina una sae�a, che fia de’ tor� tuoi vendicatrice: lascia la cura a me dela vende�a. Il come appalesar né vo’ né lice, bas� sol tanto, spaccia�, ch’ho fre�a; non porta indugio il caso, altro or non puoi da me saper, l’intenderai ben poi. Il quadrel ch’io � cheggio esser conviene 75ª o�ava di perfe�o ar�ficio e ben condo�o, ch’esserne fin nele più interne vene deve un pe�o divin forato e ro�o. S’usò mai sforzo ad impiegarsi bene il tuo braccio, il tuo senno esperto e do�o, fa, prego, in cosa ov’hai tanto interesse, del gran saper le meraviglie espresse. Starò qui teco a ministrar� intento 76ª o�ava so�o la rocca del camin che fuma; accioché’l foco non rimanga spento, man�ce � farò del’aurea piuma e s’egli averrà pur che manchi il vento al folle che l’accende e che l’alluma, prome�o accumular tra ques� ardori in un soffio i sospir di mille cori. - Non pon Vulcano in quell’affar dimora, 77ª o�ava ma sceglie la miglior fra cento zolle, e pria che’nsu l’incudine sonora ei la cas�ghi, al focolar la bolle; e non la ba�e e non la tra�a ancora finché ben non rosseggia e non vien molle; divenuta poi tenera e vermiglia, con la morsa tenace ei la ripiglia. Amor presente ed assistente al’opra 78ª o�ava come l’abbia a temprar, come l’aguzzi gli mostra, accioché poi quando l’adopra non si rompa o si pieghi o si rintuzzi e di sua propria man vi sparge sopra del’umor d’un’ampolla alquan� spruzzi, piena di s�lle di dogliosi pian� di sfortuna� e despera� aman�. Mentr’è caldo il metallo, i tre fratelli 79ª o�ava ch’un sol occhio hanno in fronte e son gigan�, con vicende di tuoni i gran martelli movono a grandinar bo�e pesan� e’l do�o mastro al martellar di quelli, che fan tremar le volte arse e fuman�, per dar effe�o a quel ch’ha nel disegno, pon gli stromen� in opera e l’ingegno. Tosto che’l ferro è raffreddato, in prima 80ª o�ava sbozza il suo lavorìo rozzo ed informe, poi, so�o più so�l minuta lima, con industria maggior gli dà le forme; l’arrota intorno e lo forbisce in cima, applicando al pensier studio conforme; col foco alfin l’indora e col mordente e fa l’acciaio e l’or terso e lucente. Poiché l’egregio artefice alo strale 81ª o�ava pertu�o il liscio e’l lustro ha dato apieno, n’arma il fanciullo un’as�cciuola frale, ma che trafige ogni più duro seno; gl’impenna il calce di due picciol ale e’l �nge di dolcissimo veleno e, tu�o pien d’una superbia stolta, pon la caverna e i lavoran� in volta. Va dela dea che generaro i flu� 82ª o�ava il baldanzoso e temerario figlio spiando intorno e i ferramen� tu� dela scola fabril me�e in scompiglio; or de’ ciclopi mostruosi e bru� la difforme pupilla e’l vasto ciglio, or il corto tallon del piè paterno prende con risi e con disprezzi a scherno. Veggendo alternamente arsicci e neri 83ª o�ava pestar ferro con ferro i tre gran mostri - Troppo son (dice) deboli e leggieri a librar le percosse i polsi vostri; omai con colpi assai più for� e fieri questa mano a ferir v’insegni e mostri; impari ognun dala mia man, che spezza qualunque di diamante aspra durezza. - tra gl’infini� esserci� guizzan� sparse mill’esche di sospiri e pian�. Strana di quella casa è la stru�ura, 92ª o�ava strano il lavoro e strano è l’ornamento; ha di ruvide pomici le mura e di tenere spugne il pavimento; di lubrico zaffiro è la scultura, dela scala maggior l’uscio è d’argento, variato di pietre e di cocchiglie azzurre e verdi e candide e vermiglie. Nel’antro istesso è la magion di Te� 93ª o�ava e gran famiglia di Nereidi ha seco, che’n vari uffici ed essercizi lie� occupate si stan nel cavo speco. Queste con passi incogni� e secre� e per sen�er caliginoso e cieco van, del’arida terra irrigatrici, a nutrir piante e fiori, erbe e radici. Intorno e dentro al’umida spelonca 94ª o�ava chi danzando di lor le piante vibra, chi sceglie o gemma in sabbia o perla in conca, chi fila l’oro e chi l’affina e cribra; qual de’ germi purpurei i rami tronca, qual degli ostri sanguigni i pesi libra e so�o il piè d’Amor v’ha molte ninfe che van di musco ad infiorar le linfe. Belle son tu�e sì, ma differen�, 95ª o�ava altra ceruleo ed altra ha verde il crine, altra l’accoglie, altra lo scioglie ai ven�, altra intrecciando il va d’alghe marine; e di man� diafani e lucen� velan le membra pure e cristalline; simili al viso ed agili e leggiadre mostran che figlie son d’un stesso padre. Pasce Proteo pastor mandra di foche, 96ª o�ava orche, pistri, balene ed altri mostri, dele cui voci mormoran� e roche fremon pertu�o i cavernosi chiostri; e le guarda e le conta e non son poche, e scagliose han le terga e curvi i rostri; glauchi ha gli occhi lo dio, cilestro il volto, e di teneri giunchi il crine involto. Giunto ala vasta e spaziosa corte 97ª o�ava stupisce Amor da tu�quan� i la�, poiché per cento vie, per cento porte cento vi scorge entrar fiumi onora�, che quindi poi con piante oblique e torte tornan per invisibili mea� fuor del gran sen, che gli concepe e serra, con chiare vene ad innaffiar la terra. Vede l’Eufrate divisor del mondo, 98ª o�ava che i bei cristalli suoi rompendo piange. Vede l’original fonte profondo del Nil che’l mar con se�e bocche frange e vede in le�o rilucente e biondo del più fino metal corcarsi il Gange, il Gange onde trae l’or, di cui si suole ves�r quand’esce insu’l ma�no il sole. Vede pallido il Tago insu la riva 99ª o�ava non men ricchi sputar vomi� d’oro e trar groppi di gel nel’onda viva il Reno e l’Istro e’l Rodano sonoro; di salce il Mincio, l’Adige d’oliva, l’Arno alpar del Peneo cinto d’alloro, di pampini il Meandro e d’edre l’Ebro e d’auree palme incoronato il Tebro. Vede di verdi pioppe ombrar le corna 100ª o�ava l’Eridano superbo e trionfale, ch’ove il re�or del pelago soggiorna vien dal’Alpi a votar l’urna reale e mercé de’ suoi duci il ciglio adorna di splendor glorïoso ed immortale, onde quel ch’è nel ciel, di lume agguaglia e con fronte di luna il sole abbaglia. Poi di grido minor ne vede mol�101ª o�ava che con rami divisi in varie par� per l’Italia felice errano sciol�, del gran padre Appennin conce� e par� e, quai di canna e quai di mirto avol� le tempie e quai di rosa orna� e spar�, somministran con l’acque in lunga schiera sempiterno alimento a primavera. Tra ques�, umil figliuol del bel Tirreno, 102ª o�ava il mio Sebeto ancor l’acque confonde, picciolo sì, ma di delizie pieno, quanto ricco d’onor, povero d’onde. - Giri� intorno il ciel sempre sereno, né sfiori aspra stagion le belle sponde, né mai la luce del tuo vivo argento turbi con sozzo piè fe�do armento. Giacque in te la Sirena e per te poi 103ª o�ava sorger virtute e fiorir gloria io veggio, trono di Giove e di pregia� eroi impetrar qualch’effe�o ale mie voci, dee l’u�l proprio almeno a’ preghi miei far più le voglie tue pronte e veloci: da ques� felicissimi imenei corteggiata da mille e mille proci, Beroe uscirà, che più d’ogni altra bella fia dele Grazie l’ul�ma sorella. Costei, sicome mi mostraro in cielo 112ª o�ava l’adaman�ne tavole immortali, dove nel cerchio del signor di Delo Giove scolpì gli oracoli fatali, concede al re del liquefa�o gelo l’alto tenor di quegli eterni annali, perché venga a scaldar col dolce lume del freddo le�o tuo l’umide piume. Ma quando ancor da quel ch’ivi scolpio 113ª o�ava chi move il tu�o, il fato altro volgesse, seben di Tebe il giovine�o dio fia tuo rival nele bellezze istesse, a dispe�o del ciel tel prome�’io, scri�e in diamante sien le mie promesse. Io, che Giove o des�n punto non curo, per l’acque sacre e per mestesso il giuro. - Così parlava e’l re del’onde intanto 114ª o�ava a lui si volse con tranquilla faccia: - O domatore indomito di quanto il ciel circonda e l’oceano abbraccia, a chi può dar altrui le�zia e pianto ragion è ben ch’apieno or si compiaccia: spendi comunque vuoi quanto poss’io, pende dal cenno tuo l’arbitrio mio. E qual’onda fia mai, ch’a tuo talento 115ª o�ava qui non si renda o torbida o tranquilla, s’ardon nel molle e mobile elemento per Cimotoe Triton, Glauco per Scilla? Come fia tardo ad ubbidir� il vento se’l re de’ ven� ancor per te sfavilla e rice�an l’ardor ne’ freddi cori Borea d’Orizia e Zefiro di Clori? Tu virtù somma de’ superni giri, 116ª o�ava dispensier dele gioie e de’ piaceri, imperador de’ nobili desiri, illustrator de’ torbidi pensieri, dolce requie de’ pian� e de’ sospiri, dolce union de’ cori e de’ voleri, da cui natura trae gli ordini suoi, dio dele meraviglie e che non puoi? Sicome tan� qui fiumi che vedi, 117ª o�ava del mio reame tributari sono, così, signor che l’anime possiedi, tributario son io del tuo gran trono. Onde a quant’oggi brami e quanto chiedi da questo sce�ro a te devoto in dono, o gioia, o vita universal del mondo, altro che l’esseguir più non rispondo. - Così dice Ne�uno e così de�o 118ª o�ava crolla l’asta trisulca e’l mar scoscende. D’alpi spumose oltre il ceruleo le�o cumulo vasto inver le stelle ascende; urtansi i ven� in minaccioso aspe�o, dele concave nubi anime orrende e par che ro�o o distemprato in gelo voglia nel mar precipitare il cielo. Borea d’aspra tenzon tromba guerriera 119ª o�ava sfida il turbo a ba�aglia e la procella; curva l’arco dipinto Iride arciera, e scocca lampi in vece di quadrella; vibra la spada sanguinosa e fiera il superbo Orion, torbida stella e’l ciel minaccia ed ale nubi piene d’acqua insieme e di foco apre le vene. Fuor del confin prescri�o in alto poggia 120ª o�ava tumido il mar di gran superbia e cresce; ruinosa nel mar scende la pioggia, il mar col cielo, il ciel col mar si mesce; in novo s�le, in disusata foggia, l’augello il nuoto impara, il volo il pesce; oppongonsi elemen� ad elemen�, nubi a nubi, acque ad acque e ven� a ven�. Potè, tant’alto quasi il flu�o sorse, 121ª o�ava la sua sete ammorzar la cagna es�va e di nova tempesta a rischio corse, non ben secura in ciel, la nave argiva. E voi fuor d’ogni legge, o gelid’orse, malgrado ancor dela gelosa diva, nel mar vietato i luminosi velli lavaste pur dele stellate pelli. Deh che farai dal patrio suol lontano, 122ª o�ava misero Adone, a navigar mal a�o? vaghezza pueril tanto pian piano il mal guidato palischelmo ha tra�o, che la terra na�a sospiri invano, dal gran rischio confuso e sovrafa�o. né dela volpe insidiosa e doppia il semplice�o pollo inganno teme; fede al’amica agnella il lupo osserva, e secura col veltro erra la cerva. Da’ molli campi, i cui benna� fiori 131ª o�ava nutre di puro umor vena vivace, dolce confusion di mille odori sparge e’nvola volando aura predace: aura, che non pur là con lievi errori suol tra’ rami scherzar spirto fugace, ma per gran tra�o d’acque anco da lunge peregrinando i navigan� aggiunge. Va oltre Adone e Filomena e Progne 132ª o�ava garrir ode pertu�o ovunque vanne e di stridule pive e rauche brogne sonar foreste e risonar cappanne di villane sordine e di sampogne, di boscherecci zuffoli e di canne e, con alterno suon, da tu� i la� doppiar muggi� e replicar bala�. Solitario garzon posarsi stanco 133ª o�ava vede al’ombra d’un lauro in rozza pietra; ha l’arco a’ piedi e gli a�raversa il fianco d’un bel cuoio linceo strania faretra; veste pur di cerviero a negro e bianco macchiata spoglia e �ene in man la cetra; dolce con questa al mugolar de’ tori accorda il suon de’ suoi selvaggi amori. Di dorato coturno ha il piè ves�to, 134ª o�ava eburneo corno a verde fascia appende; ride il labro vivace e colorito, sereno lampo il placid’occhio accende; ha fiorita la guancia, il crin fiorito e fiorita è l’età che bello il rende; tu�o in somma di fiori è sparso e pieno, fior la man, fior la chioma e fiori il seno. Formidabil mas�n dal destro lato 135ª o�ava in un groppo giacer presso gli scorse, che con rabbioso ed orrido latrato quando il vide apparir contro gli corse. Ma posto il ple�ro insu l’erboso prato il cortese villan subito sorse, e l’indomito can, perché ristesse, fugò col grido e col baston corresse. Ubbidisce il superbo, a piè gli piega 136ª o�ava l’irsuta testa e l’irta coda abbassa; quegli ala gola intorno allor gli lega con tenace cordon serica lassa; poscia il real donzello invita e prega ch’oltre vada securo: ed egli passa. Passa colà, dove raccoglie umile famiglia pastoral rus�co ovile. Stassene alcun su le fiorite rive 137ª o�ava d’una sorgente cristallina e fresca; altri per l’elci folte al’ombre es�ve i vaghi augelli insidioso invesca; altri ne’ verdi faggi intaglia e scrive d’amor tu�o sole�o il foco e l’esca; altri rintraccia di sua ninfa l’orme, altri salta, altri siede ed altri dorme. Quei con versi d’amor l’aure addolcisce 138ª o�ava al sussurrar de’ lubrici cristalli; ques� al tauro, al monton, che gli ubbidisce, insegna al suon dela siringa i balli; qual fiscelle d’ibisco e qual ordisce ser� di fiori o purpurini o gialli; chi torce al’agne le feconde poppe, chi di la�e empie i giunchi e chi le coppe. Col bel fanciullo, ove grand’ombra stende 139ª o�ava pergolato di mir�, il pastor siede. Quivi Adon sue fortune a narrar prende, dela contrada e di lui stesso chiede. L’un gli risponde e l’altro intanto pende dal parlar, che d’amore il cor gli fiede. - Strani (gli dice) oltr’ogni creder quasi, peregrino gen�l, sono i tuoi casi! Ma cangiar patria omai, deh! non � spiaccia 140ª o�ava con sì bel loco e rasserena il ciglio, ché se pur, come mostri, ami la caccia, qui fere avrai senz’ira e senz’ar�glio. Né creder vo’ che’ndarno il ciel � faccia campar da tanto e sì mortal periglio o senz’alta cagion per via sì lunga perduto legno a queste rive giunga. Così compia i tuoi vo� amico cielo 141ª o�ava e secondi i desir destra fortuna, come, fra quan� col suo piè di gelo paesi inferior scorre la luna, non potea più conforme a sì bel velo terra trovarsi o regione alcuna. Certo con lei, che con Amor qui regna, sol di regnar tanta bellezza è degna. L’isola, dove sei, Cipro s’appella, 142ª o�ava piume l’erbe�e e padiglion le fronde. Cede a quest’ombre ogni più chiara luce, 150ª o�ava ai lor silenzi i più canori accen�; ostro qui non fiammeggia, or non riluce, di cui sangue e pallor son gli ornamen�; se non bastano i fior che’l suol produce, di più bell’ostro e più bell’or lucen�, con sereno splendor spiegar vi suole pompe d’ostro l’aurora e d’oro il sole. Altro mormorator non è che s’oda 151ª o�ava qui mormorar che’l mormorio del rivo; adulator non mi lusinga o loda fuorché lo specchio suo limpido e vivo; livida invidia, ch’altrui strugga e roda, loco non v’ha, poich’ogni cor n’è schivo, senon sol quanto in ques� rami e’n quelli gareggiano tra lor gli emuli augelli. Hanno colà tra mille insidie in corte 152ª o�ava Tradimento e Calunnia albergo e sede, dal cui morso crudel trafi�a a morte è l’Innocenza e lacera la Fede; qui non regna Perfidia e, se per sorte, picciol’ape talor � punge e fiede, fiede senza veleno e le ferite con usure di mel son risarcite. Non sugge qui crudo �ranno il sangue, 153ª o�ava ma discreto bifolco il la�e coglie; non mano avara al poverello essangue la pelle scarna o le sostanze toglie; solo al’agnel, che non però ne langue, havvi chi tonde le lanose spoglie; punge s�mulo acuto il fianco a’ buoi, non desire immodesto il pe�o a noi. Non si tra�a fra noi del fiero Marte 154ª o�ava sanguinoso e mortal ferro pungente, ma di Cerere sì, la cui bell’arte sos�en la vita, il vomere e’l bidente, né mai di guerra in questa o in quella parte furore insano o strepito si sente, salvo di quella che talor fra loro fan con cozzi amorosi il capro e’l toro. Con lancia o brando mai non si contrasta 155ª o�ava in queste bea�ssime contrade; sol di Bacco talor si vibra l’asta, onde vino e non sangue in terra cade; sol quel presidio ai nostri campi basta di tenerelle e verdeggian� spade che, nate là su le vicine sponde, stansi tremando a guerreggiar con l’onde. Borea con soffi orribili ben pote 156ª o�ava crollar la selva e ba�er la foresta: pacifici pensier non turba o scote di cure vigilan� aspra tempesta. E se Giove talor fiacca e percote del’alte querce la superba testa, in noi non avien mai che scocchi o mandi fulmini di furor l’ira de’ grandi. Così tra verdi e solitari boschi 157ª o�ava consola� ne meno i giorni e gli anni; quel sol, che scaccia i tris� orrori e foschi, serena anco i pensier, sgombra gli affanni; non temo o d’orso o d’angue ar�gli o toschi, non di rapace lupo insidie o danni, ché non nutre il terren fere o serpen�, o se ne nutre pur, sono innocen�. Se cosa è che talor turbi ed annoi 158ª o�ava i miei riposi placidi e tranquilli, altri non è ch’amor. Lasso, dapoi che mi giunse a veder la bella Filli, per lei languisco e sol per gli occhi suoi convien che quant’io viva arda e sfavilli e vo’ che chiuda una medesma fossa del foco insieme il cenere e del’ossa. Ma così son d’amor dolci gli strali, 159ª o�ava sì la sua fiamma e la catena è lieve, che mille strazi rigidi e mortali non vagliono un piacer che si riceve. Anzi pur vaga de’ suoi propri mali conosciuto velen l’anima beve e’n quegli occhi ov’alberga il suo dolore, volontaria prigion procaccia il core. Curi dunque chi vuol delizie ed agi, 160ª o�ava io sol piacer di villa apprezzo ed amo; co’ tuguri cangiar voglio i palagi, altro tesor che povertà non bramo; sazio de’ vezzi perfidi e malvagi, ch’han so�o l’esca dolce amaro l’amo, qui sol quella o�ener gioia mi giova che ciascun va cercando e nessun trova. Non � meravigliar che la selvaggia 161ª o�ava vita tanto da me pregiata sia, ch’ancor di Giano insu la patria spiaggia ne cantai già con rus�ca armonia;