Scarica Storia di Roma tra diritto e potere, Capogrossi Colognesi - lezioni di storia del diritto romano e più Prove d'esame in PDF di Storia del Diritto Romano solo su Docsity! 1 STORIA DI ROMA TRA DIRITTO E POTERE Capitolo I La genesi della nuova comunità politica 1. Le condizioni materiali nel Lazio arcaico. Il paesaggio fisico in cui si situavano gli insediamenti umani che, agli inizi dell'ultimo millennio a. C. , avrebbero dato origine a Roma, non doveva essere molto diverso da quello odierno. La presenza di aree boschive e di vasti acquitrini, negli avvallamenti, contribuiva all'isolamento delle comunità umane ivi stanziate. Le dimensioni complessive del territorio di cui discorriamo erano relativamente modeste. Esso era limitato a Nord dal Tevere, a Ovest dal mare, a Est dai primi altipiani che segnano il confine tra i Latini e le popolazioni sabelliche (Tivoli e Palestrina) e a sud dagli ultimi contrafforti dei colli Albani. Nella primitiva economia delle popolazioni laziali un ruolo importante era rappresentato dall'allevamento. Era però già praticata anche una forma primitiva di agricoltura, legata anzitutto alla coltivazione di un cereale povero, ma resistente e adatto alle zone umide: il farro. Abbastanza antico appare anche lo sfruttamento di certi alberi da frutto, come il fico e l'ulivo, mentre la vite avrebbe assunto maggiore rilevanza in età successiva. Sin dagli inizi dell'ultimo millennio a.C. vennero sviluppandosi forme di circolazione di uomini e cose. Le principali rotte commerciali univano l'Etruria alla Campania. Uno dei pochi punti di passaggio, dove era più facile il guado del Tevere, è costituito dall'area su cui sorgerà Roma. Non meno importanti erano anche le vie di comunicazione dal mare verso l'interno: infatti, il Tirreno era già coperto da una fitta rete di traffici marittimi che contribuiva all'intenso flusso di beni tra la zona costiera degli scambi e l'entroterra. Ancora oggi il nome della Via Salaria, a Roma, ricorda appunto uno di questi percorsi commerciali, relativo a un bene di fondamentale importanza per l'alimentazione umana: il sale. Quest'aria era caratterizzata dalla presenza di numerosi villaggi vicini gli uni agli altri e costituiti da poche capanne, la cui struttura è rappresentata in alcune urne cinerarie trovate nei sepolcreti arcaici della zona. La loro relazione interna si fondava sulla presenza di forme familiari o pseudoparentali, legate alla memoria di una più o meno leggendaria discendenza comune. Queste numerose comunità non sempre e non tutte erano destinate a evolvere verso forme cittadine. Contro ogni accelerazione della loro crescita materiale giocava la persistente difficoltà di assicurarsi lo sfruttamento di zone adeguate di territorio. Ciò infatti non implicava solo la capacità di difesa contro l'esterno, ma soprattutto presupponeva un adeguato controllo dell'uomo sulla natura. Così che non possono meravigliare le piccole dimensioni dei numerosi centri che, ancora tra IX e VIII secolo a.C., appaiono disseminati nell’area laziale. L'elevata quantità degli insediamenti in un'area territoriale relativamente circoscritta è confermata anche da un suggestivo testo di Plinio, in cui si afferma che, in un tempo remoto, in Latio vi furono, accanto a piccole cittadine (clara oppida), dei populi, uniti da un vincolo religioso costituito dal culto di Iupiter Latiaris che si svolgeva in monte Albano, l'odierno Monte Cavo. Questi populi, designati unitariamente come Albenses, sono menzionati in numero di 30. Si questi che gli oppida sarebbero stati tutti destinati a risolversi in età storica senza lasciare traccia. 2. Villaggi, distretti rurali e leghe religiose. Non facile è l'individuazione delle forme culturali e delle strutture che regolavano questi primi arcaici insediamenti la cui conoscenza è possibile solo attraverso lo studio delle tracce archeologiche che sono restate nei sepolcreti. Nelle tombe d'epoca arcaica, scavate nelle varie località laziali, vediamo la presenza di antiche forme culturali, attestate dal trattamento del cadavere, dalle suppellettili che lo attorniano, legate alla vita quotidiana: recipienti con cibo, ornamenti, le armi per gli uomini, e gli strumenti di tessitura delle donne. Ciò fa pensare che fosse già diffusa la credenza in una vita ultraterrena. I vincoli parentali o pseudoparentali non dovevano necessariamente coincidere con singole unità familiari, mentre invece erano rafforzati dal culto degli antenati e dalla presenza di più o meno circoscritte unità sepolcrali. Le elementari funzioni di guida del gruppo dovevano poi associarsi all'età e al ruolo militare. Accanto agli anziani, ai patres, detentori della saggezza e della capacità di ben guidare la comunità, è verosimile che, nei momenti di pericolo e crisi, i poteri di decisione di comando venissero 2 deferiti ad alcuni guerrieri di particolare valore e capacità. Dobbiamo comunque immaginare un ruolo permanente dell'assemblea degli uomini in arme, che restava, insieme al parere degli “anziani”, dei patres del gruppo, competente per le decisioni relative alla vita della comunità. È probabile che questi stessi patres, o alcuni di essi, assolvessero anche particolari funzioni religiose, non solo all'interno della singola famiglia, ma anche in un ambito più ampio, essendosi già affermata una competenza particolare di singoli individui, assurti quindi a una posizione di prestigio all'interno della comunità. La grande quantità di questi piccoli villaggi, situati in un'area circoscritta, contribuiva ad accentuare un ininterrotto e fitto sistema di relazioni tra di essi. Era un mondo caratterizzato da una "cultura" comune, consistente nella comunanza della lingua latina e nella partecipazione a riti e culti di cui restano numerose tracce. La gestione in comune o la spartizione dei pascoli, il controllo dei sistemi di comunicazione e dei traffici commerciali, la circolazione e lo sviluppo delle pur rudimentali tecniche agricole, la ripartizione o l'uso in comune delle terre, e la diffusione di prodotti metallurgici sono fattori di coagulo tra più comunità. La celebrazione di sacrifici in comune costituisce un momento importante nel sistema di comunicazioni e di scambio tra le varie comunità, assumendo anche un valore più propriamente “politico”. Come anche latamente" politica" appare la figura arcaica del rex Nemorensis, il grande e solitario sacerdote del bosco sacro presso Nemi (risalente a un'epoca in cui il "sacro" si identificava con la dimensione naturale del bosco). Esso era il luogo di un culto collettivo e di aggregazione di più comunità, non meno di altri centri religiosi, quali l’aqua e il lucus Ferentinae (la sorgente e il boschetto presso Ferentino), il grande culto arcaico a Lavinio, il culto di Diana nel santuario sito nei boschi tra Ariccia e Nemi. Intorno agli anni in cui la tradizione colloca la fondazione di Roma, precisamente nel 753 a.C. se seguiamo la cronologia indicata da Varrone, il grande erudito romano di fine Repubblica, profonde trasformazioni sembrerebbero verificarsi nell'orizzonte economico-sociale della Lazio primitivo. Si tratta anzitutto di un processo di differenziazione, documentato dalla presenza di tombe con arredi funerari di crescente opulenza, nettamente distinte da quelle tuttora più diffuse, assai più modeste. Esse attestano, con l’affermata egemonia dei gruppi economicamente e socialmente più forti, una chiara ideologia aristocratica. Lo sfarzo anche funerario si ricollega infatti all'affermazione di una gerarchia sociale e di una distinzione di ruoli legata alla ricchezza. Un processo del genere fu reso possibile da un primo sviluppo economico delle società da esso interessate, con l'avvio dei primi fenomeni di accumulazione della ricchezza e con la parallela crescita della popolazione. Dove ormai interveniva in modo sempre più accentuato, a favorire l'ineguaglianza di distribuzione dei beni, un fondamentale fattore costituito dalla guerra, "il grande lavoro collettivo" di questa prima età. È in essa infatti che il valore individuale, gli stessi armamenti e quindi le prede belliche, definivano diversità di posizioni e di prestigio. Attorno ai guerrieri e ai gruppi familiari più forti si concentrò un numero crescente di seguaci. È allora che la documentazione archeologica evidenzia un primo sviluppo tecnologico, con il passaggio da una produzione "domestica" dei principali manufatti, e in primo luogo degli oggetti di terracotta, ha una produzione specializzata, mentre si moltiplicano gli oggetti metallici, la cui realizzazione implica la presenza di un'elevata tecnologia e la concentrazione di adeguate risorse. In questa fase lo sviluppo economico permette ad alcuni individui di non partecipare immediatamente alla produzione dei beni alimentari e immediatamente funzionali al sostentamento, specializzandosi invece in altre attività artigianali e dando così luogo a un primo “mercato” di scambio tra prodotti agro-pastorali e manufatti. Tra i fattori che dovettero contribuire a tale processo di trasformazione, si può annoverare lo sviluppo dell'attività agricole. È verosimile che sin da allora esistesse un regime di appropriazione individuale dei beni mobili, esteso anche al bestiame minore (pecore e suini), oltre che agli animali da trasporto e da lavoro (sommari, cavalli, buoi). Analogamente dovevano già essere presenti forme limitate di pertinenza della terra, se non altro sulla capanna e sullo spazio circostante, e probabilmente anche sui circoscritti campi coltivati. Ciò, insieme alla diversa distribuzione delle risorse della pastorizia, dovette determinare una progressiva stratificazione dei singoli patres all'interno delle varie comunità rafforzando alcune di 5 quanto possibile i loro elementi identitari: dal riferimento alle origini e al sepolcro comuni, ai riti e culti ancestrali e ai richiami alla loro stesso territorio d'origine. Dall'altro dai gruppi dovevano anche riaffermare la loro fisionomia individuale nel nuovo assetto introdotto dalla città. Ciò che avvenne uniformando i sistemi di autodefinizione contro l'uso uniforme del nomen, secondo lo schema che sarà proprio quello delle gentes in epoca storica. Tali fenomeni contribuirono a fissare la struttura piramidale della società primitiva, rendendo più evidente il dualismo interno che forse era già affiorato nei villaggi precivici. Ci riferiamo alla presenza delle gentes detentrici di risorse e di terre, in seguito identificate con la primitiva aristocrazia, e ad un insieme di individui relativamente al margine, sovente da quelle dipendenti come "clienti". Questo vertice aristocratico combinato con il termine "patrizi" o con lo stesso termine che connota il capofamiglia: patres è attribuito dagli antichi all'atto fondativo di Romolo. È incerta l'ipotesi che le gentes patrizie fondassero la loro supremazia economica su sfruttamento di terre lavorate esclusivamente dei loro clienti. In effetti su questa stratificazione sociale, sui rapporti tra clienti e patres, sulle terre gentilizie e sul primitivo lotto di terra assegnato da Romolo a ciascun cittadino, l’heredium, gli storici sono addivenuti a diverse interpretazioni. L'identificazione dei vertici politici cittadini con gruppi gentilizi sanciva una distinzione di ruoli tra essi e il resto dei cittadini, in termini sia politici che sociali, legati in buona parte al controllo della ricchezza fondiaria. La preminenza delle forme di allevamento, in alternativa lo sfruttamento agrario del territorio romano, rende legittima l'ipotesi che ad esse si debba associare la supremazia della primitiva aristocrazia. Di qui anche l'ipotesi di un diverso tipo di signoria sulla terra: giacché diversa era la forma di relazione con le terre a pascolo, di dimensioni molto più estese, della minuta frammentazione delle piccole unità fondiarie conquistate all'agricoltura. 5. La città delle origini come sistema aperto. Si ricorda la degenza del ratto delle Sabine, che evoca il ricordo di un confronto-scontro tra la comunità latina del Palatino e quella sabina del Quirinale. Esso si concluse con la loro fusione, segnando il primo grande balzo in avanti nella storia di Roma. Latini e Sabini, poi Etruschi sono componenti diverse che, fondendosi in un organismo politico della città, contribuirono a staccarla da uniformi radici etnico culturali e a "modernizzarla", trasformandola in una realtà nuova. Tali fusioni appaiono riproporre e accentuare il carattere di Roma come "ponte", vincolo strategico e punto di controllo dei collegamenti e delle comunicazioni di più ampio respiro. Questo aspetto, insieme alla capacità di assorbimento che la struttura cittadina arcaica aveva mostrato verso entità diverse e una più generale sua apertura verso flussi eterogenei, segnerà la fisionomia politica e le fortune di Roma. Fu per essa un fattore di vantaggio che le permise di sopravanzare rapidamente le altre comunità in via di evoluzione verso le forme cittadine situate nell'area del Latium vetus; con vantaggi militari ma anche in termini di sviluppo economico e sociale. Dobbiamo tornare su un carattere fondamentale del mondo precivico dei villaggi. Si tratta del fondamento parentale. Ne conseguiva che le forme di circolazione e di integrazione individuale avvenissero mediante meccanismi assimilativi fondati sulla finzione di un vincolo di sangue, di fatto inesistente. Una circolazione ristretta e processi di crescita e di integrazione che incontravano un limite fortissimo in questo carattere familiare: il gruppo sociale presupponeva un "padre", un comune antenato ed era circoscritto ai soli suoi discendenti, veri o fittizi. Qui è la differenza radicale di questa più fluida fisionomia che caratterizza molte società arcaiche con la città: che ha un fondatore, non un "padre" e che pertanto può unire insieme soggetti diversi senza necessariamente inglobarli in un vincolo di parentela. Mentre nelle strutture precedenti, l'inserimento del nuovo individuo avviene nella sua trasformazione in "parente", nella città essa avviene con la sua integrazione nelle istituzioni: come "cittadino", membro del populus. Queste considerazioni sono essenzialmente riferite a Roma. Le vicende delle poleis greche è infatti abbastanza diversa. Gelose depositarie di una tradizione, esse sono state riluttanti a estendere la loro cittadinanza anche a estranei. Questo mutamento a sua volta, rompendo il mondo d'uso del villaggio della famiglia, dilatava eccezionalmente gli spazi della circolazione. Come attestato già dalla designazione del successore di Romolo: anche esso un personaggio semileggendario. Numa non era membro della città, 6 provenendo dalla città sabina di Cures. In tutta la storia successiva incontreremo l'eco di queste migrazioni, della facilità con cui Roma assorbì questi gruppi di cittadini. È un'apertura che costituisce un meccanismo fondamentale per l'accelerazione del processo di crescita cittadina. L'immagine tradizionale della città antica ha sempre insistito sull'esclusivismo di tale organismo e sulla sua tendenziale chiusura all'esterno. E, man mano che le sue strutture vennero rafforzandosi, dovette accentuarsi la distanza tra "chi è dentro e chi è fuori", tra cittadino lo straniero. Questo carattere di Roma ha fatto immaginare che la condizione originaria di tale comunità fosse uno stato di “ naturale” ostilità delle une con le altre, che avrebbe impedito ogni tutela dello straniero fuori della sua piccola patria. Questo reciproco esclusivismo, questa chiusura della città all'esterno, sono paralleli e collegati al rafforzamento strutturale del nuovo corpo politico. Si tratta di due fenomeni sviluppatisi in stretta relazione tra loro che non costituiscono un dato di partenza. Un processo che si ripetè nel corso dei successivi conflitti: la vittoria dell'una comunità sull'altra significava la scomparsa della città vinta e l'assorbimento della sua popolazione da parte della città vincitrice. In tal modo le guerre di Roma appaiono come una forma accelerata di successivi sinecismi, con uno spostamento degli insediamenti sottomessi ed il loro totale assorbimento nella città vincitrice. Esemplare è il caso di Alba Longa, il più o meno leggendario centro federale delle comunità latine, evolutosi tuttavia più lentamente rispetto le forme cittadine e, restato più fragile rispetto ai centri come Arriccia, Tivoli, Praeneste o Roma stessa. Alba infatti fu integralmente dissolta e assorbita da quest'ultima, dopo la vittoria conseguita dal suo re Tullo Ostilio. La sua popolazione viene trasferita a Roma, incorporata nella cittadinanza romana, mentre i suoi maggiorenti furono immediatamente integrati nell'aristocrazia gentilizia romana. Da questo inserimento derivò un importante nucleo delle genti patrizie di Roma, tra cui i Giulii, i Servilii, i Quintii, i Geganii, i Curiazii e i Clelii. Il risultato del processo un'accelerazione della crescita quantitativa e politico-militare dei centri che si erano rapidamente consolidati, tra cui sicuramente Roma, ma anche Tivoli e Palestrina. È allora che gli antichi oppida, i populi, i castelli isolati come anche molte città ancora non consolidate scomparvero senza lasciare traccia, alimentando la forza di quelle comunità destinate invece quasi tutte a persistere nel corso di tutta l'antichità e oltre ancora. Ma, accanto a queste forme di "cannibalizzazione" dei centri più forti nei riguardi dei vicini più deboli, è da segnalare anche un altro tipo di mobilità rappresentato dalla facilità con cui gruppi minori, clan gentilizi o singole famiglie e addirittura individui, si staccarono dalle loro comunità di appartenenza, emigrando in Roma. In effetti essa appare, sin dall'inizio, un'importante polo d'attrazione, anche a causa della particolare posizione strategica e del suo ruolo di snodo delle comunicazioni. Si trattò di fenomeni che a loro volta indebolirono la stretta relazione dell'ordinamento con le strutture gentilizie. Da un lato le possibili migrazioni di interi gruppi gentilizi, esaltavano l'autonomia di tali strutture. Ma dovette essere ancora più numerosa una forma capillare di spostamenti individuali o di nuclei familiari, non riconducibile all'interno delle gentes, che contribuirono invece a rompere le logiche di sangue. Livio, riferendosi alla venuta del futuro re Tarquinio, evoca bene la molla che si trovava allora a operare, destinata a riproporsi tante volte nella storia: la scelta di emigrare in Roma è giustificata dal fatto che "in quel popolo nuovo, dove la nobiltà era del tutto recente e fondata sul valore individuale, avrebbe trovato posto un uomo animoso e operoso”. È da ricordare il tasso d'immigrazione del gruppo gentilizio dei Claudi, agli inizi del secolo V a.C. Il capo di una grande gens sabina, Appio Claudio, avrebbe abbandonato la sua città di origine per dissensi politici in ordine al rapporto con Roma, trasferendosi in quest'ultima, con tutta la sua gens e i clienti, in un numero leggendario di 5000. A tutti sarebbe stata immediatamente concessa la cittadinanza romana insieme all’Heredium (appezzamento di terreno distribuito ai patrizi e lavorato da plebei; in origine si componeva di 2 iugeri di terreno assegnati, secondo la tradizione, da Romolo a ciascuno dei compagni all'atto della fondazione di Roma) di spettanza di ciascun cittadino, mentre Appio fu ammesso nel Senato, dando origine alla potente gens Claudia che attraverserà tutta la storia di Roma sino all'impero. Capitolo II 7 Le strutture della città. 1. La chiave di volta delle istituzioni cittadine: il “rex”. Più delle due componenti della città primitiva, il consesso dei patres, il futuro Senato, e il popolo, dovette essere il rex a costituire il fattore propulsivo dell'ordinamento cittadino. Egli ne esaltava infatti l'interno dinamismo rispetto ai vecchi meccanismi parentali e alle logiche di lignaggio, affermando, con il suo potere, la funzione unificante della città. Certo, in tale figura sono presenti le radici preistoriche che cogliamo nel suo carattere carismatico e nella forte accentuazione religiosa derivata dall'arcaica immagine dei re-sacerdoti. Il rex si colloca in un quadro nuovo, dove è assente innanzitutto ogni logica dinastica. Non è mai il figlio che succede al padre in questa monarchia. Al contrario, è troppo insistita la vicenda di morte che segna la fine del monarca, a partire dall'eroe eponimo, per non cogliere traccia di logiche molto arcaiche, pur conservatesi a lungo nel paesaggio laziale. Da quanto si è detto è ovvio che la volontà divina avesse un ruolo fondamentale nella designazione del nuovo re. Se Romolo, il leggendario fondatore della città, consulta gli dei, interpretando i segni favorevoli (ottimo augure lo chiama Cicerone) il successore, anch'egli forse una figura convenzionale, Numa Pompilio, ascende alla carica attraverso la solenne cerimonia dell’inauguratio. L’augure tocca con la destra il capo di Numa e chiede a Giove di manifestargli, con segni sicuri, la volontà di egli sia re di Roma. Rex inauguratus perché carico di una dimensione sacrale, supremo sacerdote e tramite della comunità con i suoi dei. Ma non solo quello, e non solo in virtù di un volere divino: giacché nell'avvento del nuovo re intervengono sia Senato che il popolo. L’inauguratio infatti è effettuata nei riguardi del nuovo re attraverso un suo membro specificatamente qualificato per la sua funzione di interrex. Dopo la sua creatio e la successiva inauguratio il nuovo rex si sarebbe presentato al popolo riunito nella forma dei comizi curiati, da lui stesso convocati, al fine di assumere di fronte a loro il supremo comando. L'incontro tra il rex e i suoi governati, anzitutto il suo esercito, era carico di valore, esprimendo solidarietà e consenso. È comunque questo incontro che perfeziona il rituale dell'acquisizione dei poteri regali da parte dell’investito dal favore umano e divino. È ben comprensibile che l'assenza di un principio dinastico, insieme alle pratiche correnti in età repubblicana, facesse pensare alla partecipazione popolare come a una forma di elezione. Ma si tratta di una probabile anticipazione di forme più tarde. Sacerdote e capo militare, il rex è insieme ductor dell'esercito ma anche, rispetto la città, il garante della pax deorum, dove si esalta la sua funzione di custode e tutore del diritto. È colui che "sa e dice" le norme della città e le applica al fine di assicurare l'esistenza e la sicurezza della città. Riferimenti storici parlano di leges regiae come norme attribuite ai vari re succedutisi a Roma. Non è probabile che, in origine, il rex, analogamente al magistrato repubblicano, sottoponesse formalmente all'approvazione dell'assemblea del popolo una sua proposta. Si deve supporre che la statuizione destinata a vincolare tutti i membri della comunità cittadina non si distinguesse talora dal giudizio reso per un litigio tra cives. Erano solenni pronunce espresse unilateralmente dal rex di fronte all'assemblea cittadina, unica garanzia di pubblicità in un'epoca in cui ancora la scrittura era inesistente e un ruolo fondamentale era svolto dalla memoria individuale e collettiva. L'altro ruolo del re, era quello di custode del tempo, scandendo la vita cittadina. Ciò dipendeva dal fatto che in quell'epoca, i romani non conoscevano ancora un calendario fisso, corrispondente al ciclo annuale del sole. I periodi e le date del calendario erano pertanto definiti secondo un sistema mobile è sempre variante di divisione dell'anno che serviva a stabilire tutte le scadenze della vita cittadina. Ciò avveniva agli inizi di ogni mese, dinanzi ai comizi convocati dal pontefice, dovere indicava il calendario del mese, con i giorni fasti e nefasti. In ogni sfera della sua attività, il re fu progressivamente coadiuvato da una serie di collaboratori istituzionali. Talché egli finì col non essere mai solo nella sua azione di governo: non lo fu al comando dell'esercito, dove accanto a lui vi era un comandante militare, che all'occorrenza poteva anche sostituire. Era il magister populi (si ricorda che populus indica anzitutto l'esercito, solo in seguito designerà la comunità di cittadini) a sua volta associato a un magister equitum, al comando della cavalleria. Nel governo civile della città era assistito da un praefectus urbi, il cui ruolo si sarebbe cresciuto nel delicato settore dei giudizi civili e della repressione 10 passaggio di una gens dal patriziato alla plebe) o relativi all'ammissione di uno straniero. Tra di essi risalta la detestatio sacrorum, con la quale il membro di una gens scindeva il suo vincolo familiare e religioso con il gruppo di origine. È rilevante che le attività che incidevano sulla vita delle curie o che riguardavano, mediante l’inauguratio di sacerdoti maggiori, il rapporto del populus Romanus con la divinità, non potessero prescindere dalla presenza solenne del comizio. Ciò comportava già una prima forma di controllo. Certo con dei forti limiti, giacché le assemblee non dovevano avere potere di esprimere se stesse la volontà delle città e neppure quello di modificare o di paralizzare decisioni prese dagli organi del governo cittadino: rex e patres. Anche se, proprio nelle delibere di interesse generale il peso dell'assemblea dovette accentuarsi. Chiamata a esprimere rumorosamente la sua approvazione o il dissenso (il termine suffragium indica il voto, ma originariamente si associa all'applauso), senza tuttavia che si addivenisse ancora a un voto formale. In una fase più avanzata di vita della città, verso la fine della monarchia è possibile che i comizi curiati siano giunti a esprimere formalmente un loro voto, almeno per alcuni aspetti specifici. In tal caso la decisione dovette essere presa dalla maggioranza delle 30 curie. Comunque i vari rituali non rappresentano mere sovrastrutture rituali di processi sovrimposti alla comunità. Non lo è l'invocazione e l'interrogazione degli dei, che riempie una reale spazio spirituale e "culturale”, non lo è l'applauso o la stessa silenziosa presenza delle curie e non lo sono i "consigli" dei patres, gli anziani detentori della saggezza politica. 4. I collegi sacerdotali. Tutti e tre gli organi costitutivi della città: rex, patres e populus, hanno radici preciviche. Eppure il segno della nuova realtà cittadina è dato proprio dal loro ridefinirsi in termini nuovi: nessuno di essi, con il profilo assunto in età civica, esisteva prima. Per quanto riguarda il suo patrimonio culturale, il carattere di continuità con il mondo precivico appare più evidente. Questo vale innanzitutto per la sfera religiosa dove, come osserva Tim Cornell, si può cogliere un'accentuata mistura di conservatorismo e di innovazione. Ma vale anche per le la presenza di collegi sacerdotali che costituiscono uno degli aspetti che meglio ci fa capire la natura complessa e stratificata dell'organizzazione e dell'identità cittadina. Al fine di comprendere il ruolo della sfera religiosa nella società umana arcaica, si deve ricordare la presenza di una molteplicità di filoni in essa confluenti. Anzitutto i culti dei Lari e Penati (antenati divinizzati) propri di ciascuna famiglia, di competenza di ciascun pater familias, poi culti e riti delle gentes, delle curiae o di aggregazioni più ampie e infine culti della città. In essi confluisce una molteplicità di elementi che ci riporta all'epoca preistorica, con l'innumerevole serie di divinità che accompagnano i romani in ogni aspetto della vita e in ogni periodo. Spiccano i Luperci Quinctiani e i Lupercali Fabiani, che presiedevano l'importante rito dei lupercali, quel percorso rituale, evocativo degli arcaici legami territoriali di alcune comunità preciviche. Ma non meno antico a fare il collegio dei Salii, una specie di sacerdoti-guerrieri impegnati in singolari rituali di tipo magico-animistico, e dei Frates Arvales che sovrintendevano al culto dell'antichissima dea Dia. Nella fase successiva di espansione della vita cittadina appare conservare una rilevanza maggiore collegio dei flamines, appartenente al più antico patrimonio religioso romano. Ciò è particolarmente evidente nei tre flamines maiores: Dialis, Martialis, e Quirinalis, dove il culto di arcaiche divinità si saldava a quello delle nuove figure del Pantheon cittadino. Vi è un punto chiave che evidenzia il carattere precivico di tali figure: la loro sostanziale estraneità al rex. Il nucleo centrale della religione cittadina fu infatti rapidamente occupato da un originale fusione di elementi arcaici con forme decisamente innovatrici. Un processo che ha un momento di particolare evidenza nella significativa modifica intervenuta al vertice dell'intero sistema. Ci riferiamo alla sostituzione delle tre supreme divinità arcaiche, Giove, Marte e Quirino, con quelle della religione olimpica che ruota intorno alla cosiddetta "triade capitolina": Giove, Giunone e Minerva il cui culto si svolge sulla "roccaforte" della città: il Campidoglio, in un grande tempio appositamente edificato. Rientra in questa sfera nuova il culto di Vesta affidato ad apposite sacerdotesse che godevano di una condizione sociale elevatissima. Il compito delle Vestali che la custodia del fuoco sacro, che deve restare acceso permanentemente e, accanto a questo, dell'acqua. Inutile sottolineare il diretto simbolismo di questi compiti relativi agli elementi fondamentali della vita umana. Se questi aspetti ci riportano a età 11 precivica (ricordiamoci che Rea Silvia, la madre dei gemelli, era consacrata a Vesta), l'integrazione nella città di questo culto e attestata dalla dipendenza delle vestali dal rex; in un rapporto di dipendenza di tipo familiare sostituito poi, in età repubblicana, dal rapporto della vestale maggiore con il pontefice massimo. L'ambivalenza tra radici preistoriche e la nuova funzionalità cittadina si può cogliere anche in altri collegi religiosi: quello dei feziali con compiti circoscritti alle relazioni internazionali. Si tratta di un sacerdozio che non era esclusivo dei romani, ma presente soprattutto tra i Latini. Il che lo rendeva atto costituire sistema di comunicazione formale tra Roma e le altre comunità. Il collegio, di 20 membri nominati a vita, non sembra presieduto da un sommo sacerdote, anche se al suo interno si distingue il pater patratus. Ogni richiesta rivolta a popoli stranieri o da questi a Roma doveva avvenire mediante questo canale, che Varrone identifica come garante del rispetto della fides pubblica inter populos: della lealtà internazionale. È solo attraverso i feziali che poteva dichiararsi una guerra "giusta" e, una volta terminata, stringersi la pace legittima. Si tratta di un sistema di comunicazioni che non incideva sulla sostanza dei rapporti internazionali di pertinenza del rex. I feziali e il pater patratus semplicemente dovevano tradurre le decisioni politiche nella forma richiesta dall'ordinamento romano per la validità degli atti internazionali. Esso comportava la possibilità di rendere giusta ogni guerra dichiarata nel rispetto di certe regole, prescindendo dalla validità delle pretese originarie. Entrava in gioco così il rispetto delle forme rituali, non la giustizia sostanziale della pretesa. Lo sviluppo delle regole formali dette luogo alla formazione di una procedura che era alla base di quella sorta di diritto internazionale costituito dal ius fetiale. Estendendosi anche rapporti di diritto privato tra romani e stranieri, il ius fetiale era destinato a contribuire al complesso processo di arricchimento dell'esperienza giuridica romana arcaica. Che gli antichi romani si interrogassero costantemente sulla volontà degli dei al fine di regolare la vita sociale e di prendere decisioni importanti, non è fatto singolare. In moltissime società culture incontriamo una scienza dei segni della volontà degli dei e la presenza di un gruppo di depositari legittimi di tale sapere. Tutto fa pensare a una loro origine antichissima. Questa interpretazione dei segni della volontà divina finisce con il dar luogo a due sistemi diversi. In effetti romani distinguevano gli auguria dagli auspicia, secondo un criterio che derivava dalla categoria di persone legittimate a interrogare la volontà degli dei: il rex e poi i magistrati per gli auspicia, gli auguri e per gli auguria. Un'altra differenza tra auguria e auspicia sembra associarsi al riferimento di quest'ultimi essenzialmente a situazioni immediate nel tempo e di per sé ben individuate. La constatazione di infausti auspici da parte del magistrato riguardava l'atto da compiersi nel giorno in cui tali auspici erano stati presi. E questo atto, che non poteva allora essere effettuato per lo stile atteggiamento divino, poteva essere ripreso nel giorno o nei giorni successivi. L’augurium può riguardare una situazione lontana nel tempo e può investire anche un oggetto più ampio sino a riferirsi al destino stesso di Roma. Dal verbo augere (aumentare), deriva l'idea che l’augurium euro che non la semplice manifestazione di una volontà divina, ma una crescita di potenza, un arricchimento della condizione e dell'azione umana a seguito di una richiesta di intervento degli dei. Per questo sia un luogo che una persona possono essere oggetto di inauguratio. Il rex è persona inaugurata per eccellenza concentrandosi su di lui la forza magico-religiosa del consenso divino. Il grande prestigio del collegio degli auguri giustifica il numero ridotto dei suoi componenti (solo in seguito elevati da tre a nove). Anche in questo campo si venne solidificando una scienza augurale e un diritto augurale. A tali collegi in genere si era prescelti, per cooptazione e vi appartennero solo elementi pratizi. Ma è da sottolineare il fatto che solo pochissimi ruoli presuppongono una totale "consacrazione" del sacerdote alla divinità, con la separazione della vita corrente nella città. In genere venivano nominati a vita, ed erano esclusi da ogni forma di gestione diretta del potere. Per il resto i ruoli sacerdotali sono assunti da ordinari cittadini che non dismettono i loro correnti interessi e non diventano una casta separata nè portatori di valori diversi da quelli della polis. La relativa debolezza della diretta gestione del potere dei collegi sacerdotali in Roma, anche dei più importanti, appare collegabile alla forte preminenza di un'aristocrazia guerriera e al precoce affermarsi del peso politico dell'esercito cittadino. Il nuovo ruolo 12 cittadino fece confluire molte funzioni religiose, innanzitutto nei titolari del potere legittimo sulla comunità: magistrati e Senato, e nei collegi sacerdotali. Diversamente da quanto si scrive, il nucleo della religione ancestrale non era destinato a dissolversi. Esso si è piuttosto "trasferito" a livelli nuovi, articolandosi in una pluralità di dimensioni. E questo ci fa capire come sia inesatta la frequente rappresentazione della religione romana come un fatto secondario rispetto agli sviluppi della cultura cittadina. Questa valutazione oggi non è più accettabile. In effetti la fisionomia unitaria della città è passata anche attraverso la costruzione degli dei cittadini, legato alla funzione unitaria dei templi e dei grandi culti collettivi, oltre che al ruolo dei collegi sacerdotali. 5. I pontefici. Il collegio pontificale, sebbene in nessun modo possa considerarsi diverso dai vari collegi esaminati, viene isolato per il suo ruolo nella formazione e nello sviluppo delle forme giuridiche e dei saperi a essa relativi. Aspetti fondamentali nella storia di Roma. Appare sempre più innovativa, soprattutto perché poi, nel corso di un ampio arco di tempo che travalica l'età dei re, i pontefici non si limitarono a registrare e trasmettere la memoria, ma intervennero su di esso con una continua attività di interpretazione e di innovazione. È ai pontefici che risale l'elaborazione delle prime logiche interpretative e delle prime tecniche analitiche in grado di fornire la base di una elaborazione razionale autonoma, segnando così l'inizio della straordinaria avventura della scienza giuridica romana. In essa si esprime la capacità romana di gestire il passato in funzione del futuro, di usare materiale antico per costruire nuove realtà. Il collegio era presieduto, almeno in età repubblicana, dal pontefice massimo. Ne doveva far parte lo stesso rex, all'epoca del suo potere, giacché, poi, ne sarà membro il rex sacrorum, la sua proiezione depotenziata. Esso inoltre annoverava altri 13 membri, tra cui i tre flamines maggiori destinati a restare in carica tutta la vita. Per l'età monarchica invece sappiamo che il collegio, istituito da Numa, era composto da cinque membri. Il pontefice massimo aveva una superiore autorità di controllo su tutte le forme della vita religiosa romana. È indubitabile la generale funzione di supporto e di consulenza esercitata dal pontifex maximus nei riguardi del rex con un ruolo particolare per ciò che concerne i comizi calati. Soprattutto questo rapporto di collaborazione si coglie in tutta una serie di cerimonie religiose (sacrifici a protezione della città, consacrazione di luoghi) oltre che nell'enunciazione del calendario. Ma è soprattutto in relazione alla conoscenza e applicazione delle primitive norme che disciplinano la vita della comunità cittadina che si evidenzia la fondamentale funzione di supporto di tale collegio. Norme che il rex faceva osservare con la sua autorità e il suo potere, e che investivano sia i complessi cerimoniali che regolano il rapporto della comunità o di singoli gruppi cittadini con le proprie divinità sia quelle infrazioni individuali che potevano attirare l'ira divina sulla città intera, si è meccanismi volti a garantire la convivenza dei singoli cittadini e vari gruppi familiari e gentilizi. Quest'ultimo tipo di esigenza avrebbe dato luogo a una forma embrionale di rapporti che potremmo definire di diritto processuale e di diritto privato. I pontefici raccolsero e conservarono queste primitive regole di comportamento e il modo di gestire gli inevitabili conflitti al fine di preservare la pace sociale. Una funzione che da sola sarebbe stata sufficiente a spiegare il prestigio di questo collegio. È evidente come tali competenze si intrecciassero strettamente al ruolo del rex, come supremo garante della vita della comunità e quindi come suo giudice e il legislatore. Dobbiamo presumere che primario fosse il ruolo pontificale nella elaborazione e conservazione delle leges regiae. Con esse non si faceva altro che innovare e modificare singoli elementi di un tessuto istituzionale preesistente. Di ciò i romani d'epoca più tarda avevano perfetta consapevolezza, riferendosi a questo come ai mores et instituta maiorum. Ma in cosa consistono queste istituzioni, a quali maiores ci si riferisce, come si sono formate? Una prima risposta è quella data da De Francisci, secondo cui tali mores risalirebbero alle stesse origini laziali, consistendo in regole già vigenti nelle "strutture dell'organizzazione precivica”. Null'altro dunque "che le norme sulle quali si fondava l'ordinamento della gens, il suo ordinamento giuridico". 6. Le radici arcaiche del diritto cittadino. Un primo aspetto riguarda il modo e i tempi secondo cui si venne definendo una specifica area di fenomeni che possiamo definire giuridici rispetto alle forme del rito, alle 15 tipo di attività. Si tratta della familia proprio iure, dove ha limitato numero di partecipanti, corrispondeva una reale compattezza; e dove l'unità si realizzava in senso verticale. In essa più generazioni potevano essere saldate insieme, sotto la potestas dell’avus, dando luogo a un sistema adatto alla trasmissione di un sapere "tecnico". Si pensa al modello della bottega artigiana dove il mestiere si tramanda di padre in figlio e certi segreti dell'arte, sono un valore che si eredita come gli altri elementi del patrimonio avito. Questa diffusa e articolata crescita economica aveva accentuato due aspetti della originaria fisionomia della città, destinati a influenzarne gli sviluppi successivi. Il primo riguarda il diverso carattere dei due poli su cui si era fondata la comunità politica: il mondo aristocratico delle gentes e la restante cittadinanza. Questo dualismo anticipava quella distinzione tra patrizi e plebei che costituisce una delle più oscure, difficili e dibattute questioni dell'intera storia di Roma. La dimensione di tali questioni e lo spessore del dibattito storiografico che si è accumulato su di essi rende impossibile dar conto dell'intera problematica. Tra gli aspetti meno incerti ci si limita a richiamare un'osservazione di Momigliano su carattere "più aggregato" è meglio evidenziato dei clan patrizi, rispetto ai gruppi sociali che avrebbero dato origine alla plebe. Quest'ultimi in un primo momento, parrebbero privi di una loro specifica identità, potendosi definire in termini negativi: come "non patrizi”. Il secondo punto è che in nessun modo si deve immaginare che il rafforzamento delle condizioni economiche cittadine e dei vari gruppi in esse coinvolti comportasse una diminuzione delle distanze tra i vari strati sociali. È precisamente vero il contrario. La crescita economica del VI secolo a.C., lungi dall'attenuare i dislivelli sociali, piuttosto li accentuò. Di ciò resta evidenza nelle forme di sfarzo di tipo aristocratico che possiamo cogliere nell'arricchirsi dei corredi di alcune tombe, ad affermare una sicura superiorità sociale. Fino a quando un improvviso mutamento non comportò la fine di queste pratiche. 2. La fisionomia della nuova città. Questo è lo scenario in cui si collocano le profonde trasformazioni politiche e istituzionali intervenute a Roma nel corso del VI secolo a.C. Ne fu protagonista una serie di re di origine etrusca, portatori di un diverso e più elevato livello culturale rispetto alle società del Lazio primitivo. Questi mutamenti coincisero con un generale avvicinamento di Roma alle potenti città etrusche. L'amicizia di Roma era preziosa per gli etruschi in una fase di forte espansione verso la Campania, facendo di essa un punto d'appoggio di importanza strategica nel contesto ostile delle città latine. Un'antica tradizione etrusca richiamata dall'imperatore Claudio, identifica in Servio Tullio la figura di Mastarna, capo militare venuto a Roma al seguito di Celio Vibenna, che, dopo aver conquistato militarmente il Celio, si sarebbe impadronito del regnum spodestando Tarquinio Prisco. Una notizia che parrebbe trovare conferma nella dominazione di un guerriero che appare in un dipinto di una tomba etrusca di Vulci. In effetti l'esistenza di molteplici capi- clan e "condottieri" di eserciti privati alla ricerca di fortuna trova anche riscontro nell'arcaica iscrizione relativa ai sodales di un Poplios Valesios, un personaggio appartenente alla gens di Valerio Publicola. Del resto la stessa vicenda di un altro grande condottiero repubblicano, Coriolano, che ruppe i suoi rapporti con Roma e guidò contro di essa l'esercito dei Volsci, conferma la fragilità dei rapporti di lealtà e la consistenza autonoma di questi singoli clan di guerrieri. Secondo le indicazioni anonime delle fonti, il potere dei nuovi re si accentuò, sia nella sostanza che nella sua rappresentazione simbolica. Dalle indicazioni degli antichi tutti questi re: Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio superbo, parrebbero essere ascesi al regnum in forme difettose, per l'assenza dell’inauguratio, per la mancata procedura dell’interregnum, o della presentazione ai comizi curiati. Oltre alla mera violenza con cui l’ultimo Tarquinio strappa il potere al grande Servio. L'altro aspetto che connota la fisionomia di questi sovrani è la forte spinta militare che sottolinea il carattere autoritario del loro comando. Compensato da Tarquinio Prisco e Servio Tullio, da un diretto appoggio popolare. Con Servio, la sua ascesa al regnum era avvenuta senza l'intervento di una regolare lex curiata, l'accento cade infatti sul sostegno popolare al nuovo rex. Per questi motivi acquista verosomiglianza l'accostamento, effettuato da alcuni storici, di questi monarchi al ruolo e alla fisionomia dei tiranni greci. Costoro infatti furono determinanti nello spostare gli equilibri politici cittadini, indebolendo le antiche aristocrazie e ricercando un diretto sostegno popolare. Le fonti antiche sono 16 esplicite nell'attribuire questi nuovi re una politica filo popolare e un potere diverso da quello tradizionale: più forte e con una fisionomia più accentuatamente militare. L'innovazione appare sottolineata dalla nuova simbologia, sono introdotte quasi tutte dal mondo etrusco le insegne della sovranità del comando: la corona d'oro, la toga purpurea, le calzature rosse, il trono d'avorio, la corona d'alloro, lo scettro d'avorio e la guardia dei littori armati dei fasci e della scure. Simboli che riappaiono nel corso di tutta l'età repubblicana, in occasione della cerimonia del trionfo. Essi evidenziano un potere supremo di governo che la Repubblica erediterà dai re etruschi, indicato con il termine imperium. Le precedenti tradizioni latino- sabine appaiono radicalmente superate le con esse l'equilibrio che aveva connotato il rapporto tra l'ordinamento gentilizio e rex. L'intero assetto istituzionale preesistente, costituito dall'identificazione tra ordinamento curiato, organizzazione militare e strutture gentilizie, fu così travolto, sostituito dalla centralità della ricchezza individuale e della proprietà privata. Va spiegato che cosa si intende per proprietà privata. Secondo i principi fondanti del diritto romano validi ancora in età imperiale, questi diritti e poteri non riguardavano tutti i cittadini, che pur avevano pienezza dei diritti pubblici e partecipavano a tutti i titoli alla vita politica cittadina. Nella sfera privatistica persisteva una rigida logica patriarcale in base a cui solo il pater familias era titolare di tale insieme di facoltà. Il filius familias, quale che fosse la loro età, rango e posizione pubblica, restavano privi di qualsiasi potere di carattere giuridico-economico. Proprietà privata, obbligazioni, crediti ecc. erano tutti e solo del pater. Il che accentuava quelle logiche gerarchiche profondamente insite nella struttura sociale romana: un sistema che iniziava dalla sua unità di base: la famiglia nucleare. 3. Le prime riforme. Direttamente collegate ai processi descritti appaiono le due riforme avviate da Tarquinio Prisco: l'ampliamento del Senato e dell'organico della cavalleria. Entrambe investono il vertice dell'ordinamento cittadino allargando la compagine aristocratica. Gli storici attribuiscono a lui l'incremento del numero dei patres, da 200 a 300, spiegandone motivo nella ricerca di una base più forte e leale di consenso. I nuovi senatori sarebbero stati sicuramente un “partito del re”. Questi processi di mobilità verticale non dovettero essere un fatto improvviso: il cambiamento consiste nell'accelerazione improvvisa data loro da Tarquinio con questa “ nobilitazione di massa". A rendere memorabile la vicenda, fu la quantità: il blocco di 100 casi insieme. Tant'è che esso non si fuse con i patres preesistenti, dando origine invece a un nuovo gruppo sociale annoverato tra i patrizi, ma di minor rango: indicato come minores gentes: “ genti minori”. L'indeterminatezza stessa della gens rispetto ad altre strutture familiari rendeva difficile evidenziare il punto di non ritorno che segnava il passaggio dalla ramificazione di un dato raggruppamento familiare a una gens. Questo "punto di non ritorno" era rappresentato dall'inserimento, ad opera del rex, di un membro della nuova gens nei ranghi del Senato. Che la politica dei re etruschi mirasse a trarre tutte le conseguenze organizzative dalle migliorate condizioni economiche della città lo mostra l'altra riforma tentata da Tarquinio: allargare l'organico della cavalleria. L'opposizione al tentativo, di cui fu espressione un augure Atto Navio, indusse il re ad aggirare l'ostacolo, raddoppiando le tre antiche centurie di celeres. Non si faceva altro che rafforzare il fondamento della potenza romana: l'esercito. L'intervento sull'organico dei cavalieri, se da una parte rispondeva a esigenze tattiche, dall'altra doveva avere una portata più ampia, mirando al superamento delle stesse tribù romulee con l'inserimento al vertice dell'esercito di gruppi non appartenenti alla vecchia aristocrazia gentilizie. Le prime riforme ci aiutano a capire che la crescita economico-sociale aveva in generato una situazione nuova, ponendo problemi e aprendo possibilità prima inesistenti. Con tali sviluppi erano aumentati i gruppi detentori di una notevole percentuale della ricchezza cittadina. Di lì l'aspirazione a un'integrazione nel vertice cittadino, che abbiamo visto soddisfatta da Tarquinio Prisco con un incremento dei senatori, ma anche della cavalleria cittadina. Il che non poteva dissociarsi da un più generale potenziamento della struttura di base dell'esercito: la fanteria. Ciò si rivelò possibile, facendo leva sull'accresciuta potenza economica della città, utilizzando le ricchezze individuali in funzione di un armamento uniforme e fortemente potenziato di tutto 17 l'organico della legione. Un risultato cui non poteva sopperire l'antico sistema curiato, in cui i cittadini erano inseriti solo in base alla loro discendenza. È questo il problema risolto dal successore di Tarquinio, il grande Servio Tullio. 4. L'ordinamento centuriato. Al centro della sua riforma si impone una organizzazione militare nuova, in funzione di un tipo di combattimento più moderno. La primitiva legione fornita dalle curie e costituita secondo i genere hominum, fu così soppiantata da quello schieramento oplitico che costituì la grande novità delle forme di combattimento. La sua denominazione deriva dalla parola greca oplites, che significa "armato", uno schieramento compatto di guerrieri dotati di armi pesanti, anche difensive. Tali trasformazioni ebbero un fondamento di carattere economico che si espresse nella disponibilità di una maggior quantità di armamenti individuali. Il che fu reso possibile dagli sviluppi tecnologici e con l'aumentata produzione del metallo lavorato. In Grecia come a Roma, l'affermazione di questo sistema bellico coincise con un profondo mutamento dei rapporti sociali e politici. Entrò in crisi il fondamento guerriero del predominio gentilizio. Con l'armamento oplitico le differenze di classe non si attenuarono, ma si spostarono. Si accentuava il rilievo della ricchezza individuale; infatti lo schieramento oplitico presupponeva un numero maggiore di cittadini abbienti, in grado di procurarsi un armamento abbastanza costoso. Di qui la netta distinzione tra costoro e una schiera di individui privi di mezzi e destinati a funzioni subalterne, di ausilio e assistenza agli opliti. La massa più elevata di armati presupposti della riforma serviana non postulava solo una crescita di ricchezza dei romani. Richiedeva una precisa stratigrafia, fondata su un sistema di inquadramento della popolazione diverso da quello basato sulle curie. Va tenuto presente come il criterio di appartenenza a queste sulla base dei lignaggi non rendesse trasparente i diversi livelli di ricchezza della popolazione, che invece, ora, erano divenuti il criterio fondamentale per l'arruolamento. Di qui una nuova forma di distribuzione dei cittadini fondata sulla ricchezza individuale. Ormai l'individuo si trova in un rapporto diretto con la città; si può dire che la creazione del cittadino ormai è perfezionata. Ciò avrebbe comportato la sostituzione del comizio curiato con un nuovo sistema di carattere timocratico. Tutti cittadini sarebbero stati distribuiti in cinque classi corrispondenti a diversi livelli di ricchezza suddivise a loro volta in centurie. Si avevano cinque classi: la prima composta da coloro che avevano un capitale di 100.000/120.000 assi, la seconda classe di 75.000, la terza di 50.000, la quarta di 25.000 e la quinta di 12.500 assi. La prima classe forniva all'esercito, oltre alle centurie di cavalieri (18 circa), ben 40 centurie di iuniores, cittadini tra i 18 e i 46 anni di età che costituivano il vero corpo combattente della città, e 40 centurie di seniores, soldati più anziani che servivano da riserve. La seconda, la terza alla quarta classe fornivano ciascuna 10 centurie di iuniores e 10 di seniores. La quinta classe infine forniva 15 centurie di iuniores e 15 di seniores. A queste 188 centurie si devono aggiungere cinque centurie: due di soldati del "genio", di tecnici che si collocavano accanto alle centurie della prima classe, due centurie di musici, posti accanto alla quarta classe che infine un'unica centuria di capite censi, in cui erano inclusi tutti cittadini privi di qualsiasi capitale ed estranei alle specializzazioni ora ricordate. Tuttavia delle prime classi di centurie dovevano far parte anche molti esponenti di famiglie non patrizie, qualificate dalla loro ricchezza. L'egemonia patrizia, in questa nuova organizzazione militare, restava sempre forte, non era però assoluta. È anche evidente che il maggior peso finisse col gravare sui cittadini più ricchi, quelli delle prime classi. Essi, proporzionalmente meno numerosi dei cittadini delle altre classi, dovevano fornire il maggior numero di soldati. Il che era perfettamente coerente alle nuove caratteristiche dell'esercito oplitico che del suo fondamento timocratico (legato alla ricchezza individuale). Quando l'ordinamento centuriato si estese dall'originaria sfera militare alla politica, il voto dei membri delle prime classi di centurie fu ben più "pesante" e importante di quello degli altri cittadini. Il rapporto tra la sfera politica e quella militare sarebbe sempre restato strettissimo; non a caso la convocazione del popolo nei comizi, era indicata con l'espressione di exercitus imperare: “ convocare l'esercito” e la stessa assemblea centuriata era designata come "esercito urbano". Restando all'età di Servio, è da presumersi che la svolta si esaurisse negli aspetti 20 comunità intera. Il caso più importante di sanzione consiste nella consacrazione del colpevole agli dei. Tale condizione comportava il suo distacco dalla comunità per la perdita di ogni tutela giuridica, esponendolo a qualsiasi aggressione cui non avrebbe reagito l'intervento sanzionatorio della città. Vi sono poi altre azioni delittuose punite gravemente ma che non comportano questa sacratio. Si pensi alla repressione degli atti di magia contro il vicino o l’incendio doloso del raccolto. La sanzione prevista avveniva attraverso i canali delle forme religiose arcaiche. Tutto fa pensare che occorresse la reazione del danneggiato e la sua denuncia del malfattore. Sistemano comportamenti lesivi dei singoli cittadini ed effettuare ingiustamente; si pensi al furto, al danneggiamento di un bene o alle lesioni fisiche arrecate all'individuo. In questi casi la comunità primitiva interveniva a proteggere il danneggiato contro l'autore della condotta illegittima. Bisogna riprendere il concetto di proprietà e degli altri diritti individuali. Dove questo concetto è riferito esclusivamente alla figura del pater della familia proprio iure. Un criterio molto rigido considerando che esso non sembra evolversi granché nell'età più avanzate, sino all'epoca imperiale. Esso corrisponde a quello che giuristi e antropologi definiscono sistema "patriarcale", dove l'unità familiare imprigiona i singoli individui in vincoli di sangue e di status che li accompagnano per tutta la vita. Si è detto già come l'unità familiare si dissolvesse col passaggio di ogni generazione, alla morte del pater, suddividendosi per quanti sono gli immediati suoi discendenti. Questo è il motivo istituzionale per cui l'ordinamento cittadino ha valorizzato questo sistema. La famiglia romana era fortemente coesa, nella sua struttura giuridica, ma transeunte: non superava una generazione e per questo non poteva assumere una valenza latamente politica, contribuendo al contrario a indebolire la stessa logica gentilizia. Capitolo IV Dalla monarchia alla repubblica 1. La cacciata dei Tarquini e la genesi della costituzione repubblicana. Nella vicenda romana si innesta un fattore internazionale: il collegamento di Roma con il mondo etrusco, a sua volta proteso verso la Campania, in diretto conflitto con gli insediamenti greci ivi situati. Ciò contribuì ad accentuare la tradizionale inimicizia tra i Greci d'Occidente e gli Etruschi, alleati ai Cartaginesi, per il controllo del Tirreno. Negli ultimi decenni del VI secolo a.C. spinta etrusca verso la Campania aveva conosciuto una serie battuta d'arresto, a seguito di alcune grandi sconfitte militari ad opera dei Greci e dei loro alleati Latini. Tutto ciò ebbe a riflettersi sugli equilibri interni a Roma, giacché divenne possibile un vero e proprio colpo di Stato da parte dell'aristocrazia romana, che non sono estromise dal trono Tarquinio il Superbo, ma cancellò lo stesso istituto della monarchia. La data in cui si colloca questa svolta è di 509 a.C. Tra l'altro si può cogliere una significativa stagnazione delle dimensioni numeriche della cittadinanza romana, accompagnata addirittura da un'erosione delle aree territoriali già acquisite. In questa fase è facile immaginare che riprendessero forza le forme sociali ed economiche arretrate: le gentes arroccate nei loro possesso territoriali. Certo si è che i primi anni della Repubblica furono caratterizzati da una fisionomia incerta e da gravi difficoltà internazionali. Da un lato Roma ebbe a fronteggiare la reazione etrusca, in appoggio al Tarquini. È certo che il capo etrusco di Chiusi, Porsenna, abbia conquistato militarmente Roma. Ma questo successo non comportò la restaurazione di Tarquinio. Che tuttavia la solidità di Roma fosse ormai un fatto acquisito, lo prova la relativa rapidità con cui essa seppe reagire, anche militarmente, all'ostilità latina pervenendo a un esito sostanzialmente positivo e al rinnovo dell'antica alleanza con il Foedus Cassianum. Questo prende nome da Spurio Cassio, figura di grande rilievo nei primi anni della Repubblica, che, nel 493 a.C., dopo aver guidato gli eserciti romani nella guerra contro i latini riuscì a concludere con essi una pace duratura. La brusca scomparsa del rex, a opera dell'antico patriziato, avere dato a quest'ultimo una rinnovata preminenza di cui resta traccia evidente. In effetti, nella nuova forma repubblicana, le gentes patrizie si spinsero bloccare proprio vantaggio l'insieme dei canali di circolazione sociale e di ascesa politica che avevano funzionato nell'età precedente e che avevano permesso la presenza in Senato di un gruppo di conscripti accanto ai patres. Questa chiusura segnò l'inizio di una crisi lenta a danno dei vincitori. Che sin 21 dall'inizio trovavano un limite nella loro reazione costituito dall'impossibilità di un semplice ripristino della situazione anteriore all'età serviana, giacché avrebbe causato indebolimento della città. Si trattava del nuovo ordinamento centuriato, con il superamento dei comizi curiati. Un ritorno alla situazione originaria avrebbe pertanto comportato un collasso dell'apparato militare in un momento di massima necessità di difesa. Egualmente difficile sarebbe stato il ripristino dell'originaria figura del re-sacerdote. Aristocrazia gentilizia, rinunciando al ritorno alle origini latino-sabine, puntò sull'ulteriore modifica delle riforme serviane. Fu un meccanismo semplice, che consisteva nel circoscrivere, senza depotenziarlo, il vertice del governo cittadino. La soppressione del carattere vitalizio della carica suprema di governo il suo sdoppiamento, con i due consoli eletti annualmente, realizzarono tale riequilibrio, salvaguardando il forte carattere militare. In tal modo si realizzavano le premesse per un permanente spostamento del baricentro politico a favore dell'altro organo del governo cittadino: il Senato. I primi cinquant'anni del nuovo assetto repubblicano sono forse il periodo più oscuro e ricco di interrogativi di tutta la storia Roma. Addirittura fonte di incertezza sono quei importanti elementi di magistrati eponimi (i cui nomi, elencati in serie successive, servivano indicare l'anno della loro carica) che hanno inizio con la Repubblica. Giacché in questi “Fasti” (cronache ufficiali in cui erano indicati i nomi di magistrati e consoli)come sono chiamati dai romani, compaiono, sino al 486 a.C. circa, accanto ai nomi di consoli patrizi, anche quelli di magistrati plebei. Poi, questi nomi cessano, a conferma delle unanimi indicazioni degli storici antichi e relative all'esclusione dei plebei dal consolato e dalle altre magistrature, così come dagli stessi ranghi del Senato. Una svolta che un tempo si tendeva semplicemente ad annullare, negando l'autenticità alle liste con i nomi plebei. È abbastanza verosimile, al contrario, che proprio ciò sia avvenuto e che la scomparsa di nomi plebei dai Fasti consolari corrisponda al momento di massimo arretramento di questo gruppo sociale di fronte alla ripresa gentilizia. D'altra parte tale questione si intreccia al problema della possibile precoce presenza, nel consesso dei patres, accanto a costoro, di un certo numero di conscripti, estranei alle gentes patrizie. La fase iniziale della Repubblica, in cui alla suprema magistratura potevano ancora accedere anche i non patrizi, è possibile che essi potessero rientrare nel Senato, pur restando questo una roccaforte patrizia. Non solo dei conscripti in tale epoca parlano le fonti antiche, ma vi concorda circa l'inserimento selettivo di nuovi membri da parte del rex. L'incertezza più grave riguarda la sequenza complessiva delle innovazioni istituzionali. Stando alle fonti si dovrebbe ammettere che, con la caduta dei re si fosse addivenuti in Roma alla nomina di un supremo collegio di due consoli sino a metà del V secolo, quando per due anni di seguito essi sarebbero stati sostituiti da un collegio di 10 membri avente anche il compito di raccogliere e redigere il testo delle leggi romane: i decemviri legibus scribundi. D'altra parte, con la liquidazione di siffatto collegio, nel 449, il ripristino dei due consoli non sarebbe stato costante, essendo questa pratica frequentemente sostituita dalla nomina di più tribuni militum consulari potestate. Si nutrono alla 367 a.C., quando si raggiunse la definitiva parificazione politica tra patrizi e plebei ammettendosi che uno dei due consoli potesse o dovesse essere plebeo. Questa fase conferma la presenza di alcuni elementi di fondo del nuovo assetto politico come condizione per il funzionamento complessivo della macchina politica. Tra essi elenchiamo il limite temporale nelle supreme cariche di governo, la fisionomia militare, unita alla elevata concentrazione dell’imperium loro attribuito, nonché, nel governo della città, l'accresciuto ruolo dell'esercito oplitico, con il valore deliberante dei comizi, e l'accresciuta rilevanza del consesso dei patres. Quindi nel V secolo a.C. si impone il conflitto tra i due ordini sociali: patrizi e plebei. Specie dopo l'esclusione di quest'ultimi della suprema magistratura repubblicana. L'accento di antichi, in relazione alla cacciata dei Tarquini, è stata la nuova libertas repubblicana. Connaturato a tale libertas è comunque diritto riconosciuto a ciascun cittadino di appellarsi al popolo di fronte al potere di repressione criminale del magistrato, sino ad allora giudice ultimo sulle questioni di vita e di morte. È possibile che una prima legge in tal senso fosse approvata sin dall'inizio della Repubblica, certo essa dovette essere ribadita con una legge Valeria Orazia in cui si vietava ai magistrati competenti di mettere a morte un cittadino romano colpevole 22 di una colpa capitale, senza previa consultazione del popolo riunito nei comizi (provocatio ad populum). Tale normativa avrebbe vietato di istituire una qualsiasi magistratura sottratta a questo potere di provocatio, concepito come una suprema garanzia per tutti cittadini. È chiaro il particolare interesse plebeo per tale garanzia, se si considera come le magistrature contro cui si introducevano queste limitazioni fossero ancora di esclusiva estrazione patrizia. 2. Patrizi e plebei. La radicale chiusura dell'aristocrazia gentilizia verso le altre componenti cittadine, favorì la reazione negativa di un corpo sociale segmentato e composito che finì col coagularsi in una potente e pericolosa unità di interessi e di azioni. Il prolungato conflitto si sviluppò su più piani. Anzitutto quello politico: che riguardava la radicale esclusione plebea del governo tra città: dalle supreme magistrature fino ai collegi sacerdotali. Più articolato appare il conflitto economico che si sviluppa su due piani. Anzitutto vi è l'insistente richiamo che gli storici antichi fanno alla richiesta di un alleggerimento dei debiti che opprimevano gli strati economicamente più deboli della città. In moltissime società i centri agricoli più poveri erano infatti esposti al flagello dei debiti: bastava un'annata o poche annate di cattivi raccolti e subito le riserve familiari e la stessa semente venivano consumate. Di qui i rischi crescenti di perdita del campicello avito e di riduzione in totale povertà. A ciò, nella romana arcaica, si aggiungeva una forma di esecuzione personale particolarmente gravoso in cui il debitore fine condizione semi servile o, con la sua definitiva insolvenza, veniva venduto come schiavo in territorio straniero. Ma il punto su cui il contrasto appare ancora più grave fu dal V secolo, lo sfruttamento della terra. Gli antichi ricordano l'insistente richiesta plebea di distribuire in proprietà privata a tutti i cittadini i territori strappati ai nemici. Tale pretesa si scontrò con la decisa opposizione dei patrizi, interessati a conservarne la maggior parte nella forma dell’ager publicus, di pertinenza della città, ma sfruttando direttamente dai privati. Della gravità del conflitto dà la misura la crisi e la messa a morte, per opera patrizia, dello stesso Spurio Cassio che aveva tentato di venire incontro l'ispirazione dei plebei. L'accusa rivolta da questi ai laterizi e che si volessero di fatto mantenere il controllo di tali terre, a favore loro e dei loro clienti. Ciò ha indotto la grande maggioranza degli storici a supporre un'originale esclusione dei plebei di fatto o almeno dal possesso e dallo sfruttamento dell’ ager publicus. Essi qualificavano come pubbliche le terre che apparivano sottratte alla proprietà dei privati. Ma nelle terre intorno a cui si dovette sviluppare la lotta patrizio-plebea dovevano essere ricomprese anche quelle aree, da sempre di pertinenza delle varie genti. Tra cui non si devono dimenticare i vasti pascoli ai quali era associata parte della ricchezza gentilizia. Contro questo monopolio gentilizio si mosse la richiesta plebea di distribuire tutte le terre in proprietà privata. Per quanto concerne l'aspetto sociale della contrapposizione tra plebei e patrizi, il punto centrale è in genere indicato dall'assenza del connubium. Il che escluderebbe la possibilità di un rapporto matrimoniale valido fra un patrizio e una plebea o viceversa. Questo avrebbe comportato la degradazione sociale dei figli nati da tali matrimoni, esclusi comunque dai ranghi del patriziato, oltre alla perdita di rango della sposa, se essa era d'origine patrizia. Una sanzione che ribadiva l'inferiorità sociale dei plebei: i quali, contro di essa si batterono, fino a ottenere il superamento con la lex Canuleia del 445 a.C. Il ricompattamento della plebe contro questo sistema di esclusioni fu talmente violento da minacciare la sopravvivenza della comunità politica. E quanto traspare dalla famosa sua secessione sul Monte Sacro o sull'Aventino del 494 a.C., in cui si adombra la possibile formazione di una comunità politica alternativa alla città dominata dai patres. La crisi fu superata solo con il riconoscimento alla plebe di un insieme di strumenti protettivi rispetto alle prevaricazioni delle magistrature patrizie. A guidare la secessione plebea si erano posti dei magistrati, ispirati alla figura dei tribuni militum, o addirittura alcuni tribuni militum dell'esercito centuriato avevano assunto il nome di tribuni della plebe. Il compromesso politico che ne seguì comportò il loro riconoscimento come organi della città: sancendo dunque il loro "diritto d'aiuto" a favore della plebe. Ma proprio questo carattere escluse per molto tempo la loro partecipazione all'effettivo governo della città, attribuendo ad essi una funzione di controllo nei riguardi dell'azione degli altri magistrati repubblicani. Il 25 Di contro, fu il sistema decemvirale a introdurre correttivi e fattori di elasticità alla pesante autorità del pater familias. Li cogliamo nel meccanismo ideato per rompere la patria potestà del pater, mediante una particolare applicazione della mancipatio. Ma ancora più importante appare superamento del sistema oppressivo e rigidamente patriarcale costituito dal matrimonio cum manu che necessariamente assimilava la moglie alla condizione di una figlia di famiglia sottomessa alla piena potestà del marito. Il sistema giuridico adombrato dalle XII Tavole corrisponde a una società agraria relativamente stabile. Al centro di esso si pone coerentemente la figura della proprietà fondiaria. Essa non appare isolata ma governata piuttosto da un insieme di regole che miravano a integrarla all'interno di un coerente assetto territoriale, volto a massimizzare i vantaggi a favore di tutti i fondi interessati. Ese da un lato vietavano le turbative a danno dei vicini, che introducevano una più vasta regolamentazione territoriale, avviando quella successiva straordinaria esperienza romana rappresentata dalla centuriatio. Dove appare centrale la duplice preoccupazione di assicurare una buona viabilità locale e un adeguato controllo delle acque, pericolose, in certi periodi, per le culture e la stessa preservazione dei campi agricoli. I beni in proprietà sono distinti in due categorie diverse, le res mancipi e res nec mancipi, sottoposte a un diverso regime di circolazione. Per le prime, in generale le più importanti cose in un'economia primitiva, gli immobili, il trasferimento della proprietà era possibile solo attraverso l'impiego di una forma negoziale particolarmente solenne e che coinvolgeva la presenza di una pluralità di testimoni: la mancipatio. Ma ancora più interessante è la presenza dell’usus a sanare gli eventuali vizi intervenuti negli atti di trasferimento della proprietà stessa e della mancipatio. Esempio questo molto importante dell'innovazione apportata dall’interpretatio pontificale che fornisce la certezza del diritto. Non può pertanto meravigliare che il sistema della successione dei familiari nel patrimonio del defunto fosse ben disciplinato. Anche se la libertà del pater di disporre del suo patrimonio mediante testamento appare ancora più significativa e ricca di conseguenze. Sarà nel secolo successivo all'introduzione di questa legislazione, che l'interpretazione dei pontefici, oltre che da magistrati competenti a regolari processi dei cittadini, avrebbe contribuito a sviluppare nella pratica un'applicazione sempre più innovativa e ampia delle regole decemvirali, adattandole alle esigenze di una società in trasformazione. 4. La conclusione di un percorso. Delle tappe della lenta ripresa plebea e facciamo un resoconto: l'istituzione dei tribuni, tra 494 e 471 a.C., quando la loro apparizione fu deferita con una lex Publilia ai comizi tributi, la legislazione decemvirale, intervenuta nella metà del secolo, le coeve leggi Valerie Orazie, a conferma del diritto di provocatio dei cittadini, sino infine alla lex Canuleia di pochi anni successiva. Anche forse in ragione di esigenze militari che richiedevano un numero di magistrati cum imperio maggiore della sola coppia consolare, si provvide dal 444 168 a.C., ad attribuire, al posto della coppia consolare, l’imperium consulare agli ufficiali delle legioni:i tribuni militum. Questi, eletti in numero da tre a sei, sostituirono la coppia consolare, essendo titolari di un imperium di rango e forza minori di quello dei consoli, tant'è che costoro potevano convocare il Senato solo in via eccezionale, non conservavano dopo la carica il prestigio e il ruolo particolare degli ex consoli. Che in tal modo si accentuasse l'erosione della supremazia patrizia, lo mostra il fatto che, verso la fine del secolo, a tale carica vennero eletti anche elementi plebei. D'altra parte questo meccanismo rispondeva anche all'esigenza di articolare maggiormente il governo cittadino. Un'esigenza oggettiva costituita dall'introduzione, verso il 442 a.C., della censura. Si trattava di una nuova e importante magistratura preposta alla delicatissima funzione di effettuare il censimento della città. Sin dall'inizio dovette definirsi la netta separazione tra le funzioni del censore e il ruolo di governo dei magistrati cum imperio. Il secolo si chiudeva dunque con sostanziali progressi verso l'equiparazione politica dei due ordini, mentre restava immutato il monopolio patrizio sulle terre pubbliche e addirittura aggravato il problema dell'indebitamento degli strati più poveri della plebe. È qui che interviene la svolta nel 396 a.C., quando si concluse vittoriosamente l'annoso tentativo di Roma di conquistare militarmente la potente città etrusca di Veio, che bloccava la sua espansione verso il Nord. Questa vittoria, seguita dall'accentuata 26 espansione anche verso il Lazio, a seguito del durissimo confronto con i Volsci, fece cadere in mano romana un enorme ricco patrimonio fondiario, che portò in pratica a raddoppiare il precedente ager Romanus. Tutto ciò ebbe a riflettersi positivamente anche sul lungo stallo che aveva caratterizzato la lotta patrizio- plebea in ambito sociale ed economico. La distribuzione a tutti cittadini romani di un appezzamento di sette iugeri ricavati dalle terre strappate a Veio attenuò l'interesse plebeo per la ridistribuzione dell'antico ager publicus. Questa redistribuzione di ricchezza alleggerì anche la pressione esercitata sugli strati più deboli dai processi di indebitamento: l'altro punto centrale delle rivendicazioni plebee. Questa distribuzione della terra riguardava sette iugeri assegnati a ciascun cittadino. In base al regime della proprietà vigente in Roma, che riconosceva tale diritto solo al pater familias, i vari lotti assegnati ai cittadini in età adulta, ma ancora sotto la potestas del padre tuttora vivente, venivano a sommarsi nelle mani di quest'ultimo dall'origine, nel caso di famiglie abbastanza numerose, a unità fondiarie di notevoli dimensioni. È in quell'epoca delle basi economiche della società romana si allargarono consistentemente, innescando un processo di espansione della proprietà, ma anche di meccanismi finanziari e mercantili che avrebbero reso possibile una colossale politica militare e di opere pubbliche. I tempi erano maturi per il grande compromesso politico, mentre una nuova circolazione della ricchezza modificava rapidamente gli assetti interni. Nel 367 a.C. furono approvate tre distinte proposte di legge che, da magistrati proponenti, sono ricordate come le Leggi Licinie Sestie. Nella memoria storica dei romani esse appaiono come un fondamentale punto di svolta nella lunga vicenda della lotta patrizio-plebea con il quale la plebe appare conseguire gran parte degli obiettivi principali che si era prefissi, sia sul piano politico che economico- sociale. Con la legislazione del 367 a.C., si accelerò piuttosto un processo di trasformazione delle strutture politico-istituzionali e sociali di Roma che rese possibile un'intima saldatura tra i due ordini sociali. I patrizi e i plebei restarono distinti per tutta l'età repubblicana e oltre ancora, ma a livello politico essi vennero rapidamente fondendosi in un ceto di governo patrizio-plebeo, mentre la centralità della proprietà individuale della terra e lo stesso carattere individualistico delle terre pubbliche sfruttate dai privati completò la già avviata dissoluzione delle arcaiche strutture gentilizie che da allora ha persero ogni residuo ruolo economico. La prima delle tre Leggi Licinie Sestie prevedeva che uno dei due consoli potesse essere plebeo (divenendo ciò un vincolo solo in seguito) si apriva così la strada per la piena partecipazione della plebe a tutte le cariche politiche e religiose romane. Con la seconda legge si introduceva un limite al possesso di terre pubbliche da parte di ciascun individuo (500 iugeri: circa 125 ettari). Per i debiti, l'ultima legge prevedeva infine una serie di provvedimenti volti a limitare il peso di questi, prevedendo che gli stessi interessi già pagati dovessero computarsi come parte del capitale da restituire. Un insieme di norme di grandissima rilevanza sociale, limitava e poi sopprimeva definitivamente l'asservimento personale del debitore, rompendo le forme di dipendenza arcaiche. Il cittadino indebitato era così sottratto all'asservimento personale da parte del creditore, restando vincolato solo sul piano giuridico ed economico. È da ricordare la sequenza politico-sociale che si innesta partire dal 396. Da un lato infatti, dopo un ristagno durato tutto il V secolo, ben otto nuove tribù si aggiunsero al precedente nucleo delle 17 tribù rustiche. Nel successivo periodo conclusosi nel 241 a.C. si completò il numero complessivo delle tribù, giungendo al totale di 31 tribù rustiche non più destinato a mutare. Con la svolta del 367 a.C. si era ormai pervenuti al completamento dell'architettura costituzionale della città. Con essa i censori, successivamente al compromesso patrizio-plebeo del 367 a.C., assumevano una fisionomia più netta, precisandosi le loro competenze per quanto concerne l'arruolamento da loro effettuato, nei ranghi del Senato, degli ex magistrati, sia patrizi che plebei. Essi diventavano così i garanti della costruzione di una nuova aristocrazia politica (la nobilitas patrizio-plebea) che si sostituì, nel governo della res publica, dall'antica nobiltà di nascita costituita dai patrizi. In quello stesso anno, uno magistrato veniva introdotto, destinato ad amministrare la giustizia e a regolare le controversie tra i privati: il pretore. 27 PARTE SECONDA: L’apogeo repubblicano. Capitolo V Il compiuto disegno delle istituzioni repubblicane 1. Il consolato e il governo della città. Nel considerare il quadro istituzionale della città repubblicana: le magistrature, il loro funzionamento e le logiche di governo, si deve tener conto di una logica di fondo. A qualificarne la fisionomia, non era solo l'assenza di una "costituzione scritta"; giocava in tal senso anche la natura delle singole leggi che, di volta in volta, avevano introdotto nuove figure di governo o nuovi compiti e regole per le magistrature già esistenti. Ci limiteremo dunque a indicare il nucleo centrale del potere e delle funzioni riconosciute a ciascun organo della Repubblica e che si è conservato e perfezionato nel tempo. Partendo dalla figura dei consoli, abbiamo visto già introdotti probabilmente all'inizio della Repubblica, ma riaffermati regime e definitivamente solo nel 367 a.C. A questa coppia di magistrati, al vertice dell'intero assetto di governo della città, è dunque conferito il supremo potere di comando. Esso è indicato come imperium maius, in quanto superiore a quello di ogni altro magistrato. Insieme alla collegialità, questa carica è caratterizzata dall'annualità. Come abbiamo visto l'antica figura del rex presentava intimamente fusi in sé due fondamentali aspetti: un ruolo politico-militare e uno religioso che si esprimeva nella sua inauguratio, e nella legittimazione a interrogare la volontà degli dei, mediante gli auspicia. Con la sua scomparsa i romani ne preservarono alcuni aspetti meramente religiosi in capo a quello che potremmo indicare come: rex sacrorum. La sopravvivenza dell'antico rex all'interno del nuovo ordinamento repubblicano era necessitata dall'esigenza di scindere la figura inaugurata del rex dal potere politico di cui egli era stato il titolare supremo. Un ulteriore conseguenza di tale processo era la rafforzata autonomia nel governo cittadino dall'influenza delle forme religiose. Il titolare dell’imperium perde quell'intimo rapporto con la sfera sacra che aveva invece caratterizzato il rex inauguratus delle origini. Vi era un aspetto della sfera religiosa che non poteva invece disgiungersi dalla vita politica e militare: il potere/dovere di interrogare la volontà degli dei prima di intraprendere ogni azione pubblica. Di prendere cioè gli auspicia per cogliere il segno di questa volontà e interpretarlo. L’imperium consolare era poi distinto, a seconda che fosse esercitato all'interno del confine della città, orientato essenzialmente a governare la comunità politica e la vita dei suoi membri (imperium domi) o che si sostanziasse in un comando militare, fuori della città (imperium militiae). Una serie di limitazioni introdotte a circoscrivere l'efficacia dell’imperium domi nei riguardi dei cittadini non poteva infatti applicarsi. Ci riferiamo al diritto dei cittadini di appellarsi al popolo contro la repressione esercitata dai magistrati, ma anche al potere di veto esercitato dai tribuni della plebe. Questo non significa che i consoli potessero anche decidere della guerra, essendo ciò di competenza dei comizi centuriati: era però loro compito provvedere all'arruolamento di cittadini, previa decisione del Senato, e dirigere la campagna militare con la supervisione del Senato, assicurando la disciplina dell'esercito. In funzione di ciò il loro imperium militiae si spingeva sino al potere di mettere a morte i propri soldati, in casi gravi. Occorreva il parere di un consilium magistratuale, ma le procedure erano piuttosto sommarie; in seguito tuttavia le garanzie a favore dei cittadini vennero estese anche nei riguardi del comando militare esercitato fuori del pomerium. Sempre a fini militari i consoli avevano altresì il compito di imporre dei tributi ai cittadini per sostenere le spese della guerra. All'interno della città, nell'esercizio del governo civile, ai consoli era riconosciuto sin dall'inizio un duplice potere: il ius agendi cum populo e il ius agendi cum patribus. Da una parte cioè il potere di convocare i comizi centuriati, sia al fine di proporre l'approvazione di nuove leggi, che di fare eleggere i magistrati, procedendo quindi alla proclamazione degli eletti. In questo caso essi, d'intesa con Senato, presentavano ai comizi liste preselezionate e circoscritte dei candidati. L'altra facoltà era quella di chiedere il parere del Senato, convocato su problemi di particolare rilievo, soprattutto per quanto riguarda la politica estera, monetaria e ogni materia di carattere religioso. Altri poteri dei consoli consistevano nella gestione del tesoro pubblico, sotto il controllo del Senato e con l'ausilio di questori, e nell'amministrazione delle 30 consistente nella summa coercendi potestas, con cui il tribuno, pur privo di imperium, poteva giungere a uccidere il trasgressore delle leggi sacrate, compreso qualsiasi magistrato repubblicano, o comminargli la consacrazione dei beni senza l'ostacolo della provocatio. Abbiamo visto come essi potessero convocare la plebe in assemblea, organizzata per tribù territoriali, proponendo l'approvazione di delibere comuni. L'originaria natura rivoluzionaria della lotta da cui era scaturita l'istituzione dei tribuni si rifletteva sulla loro estranietà al sistema di magistrati preposti al governo della città e alla logica del cursus honorum. La stessa funzione di difesa della plebe a essi affidata, vincolava l'azione e persino la persona dei tribuni all'interno della sfera cittadina, essendo loro precluso di allontanarsi da Roma, anche solo per una notte. Accanto ai tribuni, sono introdotti gli edili della plebe con compiti organizzativi all'interno da città. Accanto ad essi saranno introdotti gli edili curuli, appartenenti invece alle magistrature cittadine, con funzioni di sovrintendenza alla vita materiale ed economica della città, dai mercati alla viabilità, dalla polizia all'igiene, alle cerimonie pubbliche e, in seguito, ai giochi pubblici. Il controllo dei mercati ebbe rilevanza particolare, giacché era finalizzato a garantire un adeguato approvvigionamento di beni di prima necessità, comportando anche una costante sorveglianza sull'andamento dei prezzi. A tal fine gli edili furono titolari di una limitata giurisdizione sui mercati e le transazioni cittadine, emanando loro editti cui si rivolse anche l'attenzione dei giuristi. Un'innovazione importante era intervenuta nel 442 a.C., con l'introduzione dei censori che riprendeva una funzione già dei re etruschi e dei primi consoli. In effetti la redazione del censimento della popolazione era un compito quanto mai delicato giacché in base alle liste del censo, tutta la cittadinanza romana veniva a essere "fotografata". In tal modo si distinguevano i cittadini dagli stranieri e dagli schiavi e, tra i cittadini, i nati liberi dagli schiavi manomessi: i "liberti". Ciascun cittadino era così collocato nella sua famiglia, associato alla proprietà fondiaria di cui era titolare, radicato nelle varie tribù territoriali e inserito nelle classi di censo cui lo legittimava la sua ricchezza familiare. Non solo: questi magistrati, redigendo le liste del censo, enumeravano i membri del Senato. Con la lectio senatus (redazione della lista dei vecchi e nuovi senatori) si inserivano nuovi nomi, tra i membri del Senato, a riempire i vuoti verificatisi nel quinquennio precedente a seguito delle morti di altri eventi. Dalla fine del IV secolo, in coincidenza con il plebiscito Ovinio, la selezione viene attribuita definitivamente ai censori ed agganciata a criteri obiettivi. Venivano anzitutto prescelti gli ex magistrati: prima gli ex censori ed ex consoli, poi gli ex pretori e infine gli ex questori. D'altra parte erano i poteri censori anche quello di escludere dai ranghi del Senato, con apposito provvedimento, un suo membro che si fosse macchiato di comportamenti lesivi del prestigio di tale consesso. Era una decisione che derivava dal loro generale potere di controllo dei costumi dei cittadini: la cura morum. In base a essa, nei casi più gravi, tali magistrati potevano irrogare una specifica sanzione consistente nella nota censoria. Essa comportava una generica condizione di ignominia all'interno della comunità cittadina, ma poteva anche determinare una retrocessione nel ruolo politico-sociale, con l'iscrizione del cittadino indegno in una classe di centurie inferiore a quella cui aveva diritto in base al suo patrimonio. Altro ambito di competenza dei censori riguarda l'amministrazione delle proprietà e dei beni pubblici, registrati nel censimento insieme ai patrimoni privati. Essi sovrintendevano alle attività economiche della città, controllando le entrate e le spese pubbliche, e provvedendo allo svolgimento di tutte quelle attività fondate sul sistema degli appalti da parte dei privati. I censori venivano eletti ogni cinque anni e duravano incarica fino al completamento del censimento, ma non oltre i 18 mesi. Altissimi erano il loro prestigio e il rango pur non avendo dirette funzioni di governo. Essi non erano muniti di imperium, estranei ai compiti militari e anche alle dirette delibere politiche: il che spiega perché non avessero il diritto di convocare il Senato e i comizi popolari. Anche la repressione (sino a riduzioni schiavitù), di coloro che dolosamente si fossero sottratti al censimento, poteva essere attuata solo mediatamente, attraverso la coercizione materiale esercitata dai consoli o da altri magistrati cum imperio. È opportuno indicare una tendenza di tutta l’età repubblicana a integrare la struttura di base dell'organizzazione di governo della res publica, con una serie di elementi volti a far fronte alle particolari esigenze. Vennero a far 31 parte in modo stabile di collegi aventi competenze molto diverse, un insieme di magistrati minori quali viginti sex viri. Questi collegi, istituiti i momenti diversi, vanno dai quattro praefecti Capuam Cumas, con funzioni giurisdizionali in relazione all'espansione romana in Campania ed alle complesse forme di gestione dei diritti privati, ai tresviri capitales, introdotti nel III secolo a.C., destinati ad assistere i magistrati superiori nella loro giurisdizione criminale, e poi i decemviri litibus iudicandis preposti a giudicare delle cause di libertà. Ad altri collegi infine erano attribuite molteplici e diverse competenze: dalla coniazione della moneta, alla manutenzione delle strade pubbliche; mentre vere e proprie funzioni di polizia furono affidate ai quinqueviri cis Tiberim, la cui denominazione segnava anche i confini del loro ambito di attività. Magistrature straordinarie sono invece quelle istituite per specifiche esigenze propostesi di volta in volta al governo della Repubblica. Si tratta di magistrati nominati agris dandis adsignandis et coloniae deducendae, preposti alle attività richieste per la fondazione di una colonia, con la procedura di divisione e redistribuzione delle terre coloniarie mediante la centuriazione. Talora si provvide alla creazione di magistrature straordinarie per procedere a operazioni di competenza in genere delle magistrature ordinarie: dalla leva militare, alla presidenza di assemblee elettorali, o per la conclusione di accordi di pace. 3. Il Senato. Il fatto che il Senato romano fosse disegnato col termine di patres la dice lunga sulla sua composizione originaria. Tale vocabolo serviva a indicare sia la figura del capo della famiglia nucleare, la cellula dell'intera vita sociale e giuridica romana, sia l'insieme dei patrizi, contrapposti ai plebei. Per gran parte del primo secolo della Repubblica patriziato e Senato dovettero coincidere pressoché integralmente. Solo quando i plebei iniziarono ad essere ammessi gradualmente alle magistrature superiori, cum imperio, come tribuni militum consulari potestate, e poi come pretori e consoli, i ranghi del Senato si allargarono a ricomprendere, accanto ai membri delle antiche gentes patrizie, anche gli ex magistrati di rango plebeo, arruolati per la prima volta (conscripti) in tale organismo. Da allora l’endiadi patres conscripti indicherà il Senato nella sua pienezza. Spettano all'organismo alcune funzioni esclusive: quella di approvare le delibere dei comizi in tema di leggi. Nel corso del tempo una serie di leggi stabilirono che quest'approvazione senatoria non dovesse confermare la delibera comiziale, ma intervenisse preventivamente, come autorizzazione dei vari magistrati a presentare una proposta ai comizi. Il mutamento aveva lo scopo di sottrarre la sovranità del comizio, nella formazione della legge, alla conferma da parte del Senato. Il suo ruolo non fu cancellato, ma solo ridotto ad un filtro preventivo. La sua funzione di propulsore e ispiratore dell'intera politica romana, nonché il suo funzionamento come stanza di compensazione delle opposte linee politiche e di governo e delle tensioni sociali, trovavano un momento di particolare rilievo nell'assistenza e consulenza prestata all'azione di governo dei magistrati superiori. Consulenza non facoltativa, giacché il "consiglio" non lasciava molti margini alla libertà d'azione del magistrato stesso. Questo appare evidente in certi settori delicati e importanti come la politica estera, le scelte tra guerra e pace, gli affari di carattere religioso, la gestione delle entrate e delle uscite. In questi settori si affermò infatti una prassi consolidata che vincolava sostanzialmente l'azione del magistrato, prima a chiedere il consultum del Senato e poi a seguirne l'orientamento. Connesso a queste funzioni ed egualmente carico di potere e l'altro privilegio riconosciutogli con la funzione di approvare la selezione dei candidati alle varie cariche magistratuali effettuata dai magistrati in carica. È pur vero che la compattezza e la limitatezza del ceto di governo romano, nonché il fatto che gli stessi personaggi fossero nuovamente eletti ad altre cariche nel corso di un periodo di tempo relativamente ristretto, rendevano possibile la presenza di consistenti strategie politiche nel ceto di governo che controllava le cariche magistratuali. Ma è vero anche che la sponda inevitabile e il luogo di dibattito di orientamento, è e diverrà sempre più il Senato. In virtù della sua assoluta centralità politica nei secoli di splendore della costituzione repubblicana, il Senato appare in grado di assicurare un costante e talora non facile equilibrio dell'intero assetto delle magistrature romane. Si pensi solo alla sua funzione di arbitro in rapporto alle possibili tensioni interne alla coppia consolare. Restava sì in tutta la sua originaria pienezza la forza del potere monarchico in capo ai consoli, ma transeunte e indebolita dalla loro 32 collegialità. Qui possiamo cogliere un carattere di fondo delle istituzioni politiche repubblicane, sino alla crisi che, dalla fine del II secolo a.C., avvierà il tramonto della libera res publica. Si tratta di quello che potremmo definire il loro carattere "consociativo". Data la facilità dei reciproci veti all'interno delle magistrature collegiali, il potere politico e di governo non tendeva a costruirsi sul criterio della maggioranza e sulla conseguente differenziazione dei ruoli tra questa e la minoranza. Neppure le reciproche garanzie si fondarono sul principio della divisione dei poteri. Al contrario, il governo della comunità ha sempre richiesto una compartecipazione di tutti i soggetti politici nella gestione dei singoli centri del potere politico. Certo, tale partecipazione interveniva quasi sempre a livelli diseguali tra tutte le forze politiche e sociali; alle cariche magistratuali si veniva comunque letti in base al gioco delle maggioranze comiziali. Tuttavia, all'interno di ogni azione di governo, di ogni scelta assunta secondo tali logiche, dovette poi verificarsi un minimo di consenso comune. Ove questo fosse mancato e il peso delle esigenze della parte soccombente fosse stato troppo sottovalutato nella politica cittadina, scattava il potere di veto e di paralisi. L'evolversi degli equilibri tra i gruppi sociali si espresse anzitutto nei continuamente modificati livelli di loro partecipazione e di controllo dei vari meccanismi di governo. È degno di rilievo il fatto che il sistema di governo della Repubblica, malgrado questo singolare carattere, abbia funzionato a lungo e in modo molto efficace. Il rapporto tra Senato e consoli: va interpretato anche considerando la configurazione sociale dei magistrati romani e il loro destino politico-istituzionale. Giacché non si deve dimenticare che essi, scaduto il loro anno di carica, venivano a far parte, per tutto il resto dei loro anni di vita, dei suoi ranghi. Il loro comportamento, nel corso della loro carica, restava profondamente condizionato dal loro collegamento con il consesso senatorio di cui facevano già parte e in cui sarebbero comunque rientrati. Di qui l'omogeneità dell'organizzazione magistratuale romana con la politica e gli interessi senatori. Quanto agli aspetti concreti del suo funzionamento, dobbiamo ricordare che tale potente consesso non si poteva autoconvocare, essendo questo compito affidato ai titolari del ius agendi cum patribus. La sua organizzazione interna funzionava secondo una logica gerarchica legata al rango degli ex magistrati. La sua presidenza era affidata all'ex censore più anziano. Con il consolidarsi delle sue competenze nella politica estera, il Senato si arrogò il diritto di inviare ambascerie presso i popoli e le nazioni straniere onde trattare accordi e ogni questione di rilevanza internazionale. I personaggi prescelti per compiere tali missioni furono indicati come legati, i cui compiti erano predeterminati da un apposito senatoconsulto. 4. Il popolo delle leggi della città. Con la Repubblica si dovettero definire le forme di designazione dei nuovi governanti. L'introduzione dei magistrati annuali, non inaugurati, postulava la loro elezione da parte della comunità cittadina, con un voto del popolo riunito in assemblea. La versione civile dell'antica organizzazione militare costituita dai comizi centuriati assolse tale funzione. In quest'assemblea il peso dei cittadini era disuguale, sia in relazione al censo che all'età. Nel comizio centuriato le delibere erano assunte dalla maggioranza delle centurie che costituivano ciascuna un'unità di voto. Le centurie delle prime classi e, all'interno di ciascuna classe, quelle dei seniores, erano meno affollate rispetto a quelle delle classi inferiori e a quelle degli iuniores e pertanto i loro membri avevano un peso politico maggiore. Per ciascuna classe sussisteva infatti un eguale numero di centurie comprensive di cittadini più giovani e di seniores. E ovvio che, data la durata media della vita il numero di seniores all'interno della stessa classe di centurie fosse minore rispetto a quello dei corrispondenti iuniores. Di qui il peso ponderato maggiore dell'anziano rispetto al giovane, oltre che del ricco rispetto al povero. Le 193 centurie non votavano contemporaneamente, ma secondo l'ordine progressivo. In un primo momento il voto era orale ed era raccolto da appositi funzionari, poi si passò alla votazione scritta. D'altra parte, se ricordiamo come il numero complessivo delle centurie fosse 193, si capisce che sovente le 18 centurie dei cavalieri e le 80 centurie della prima classe, votando in modo uniforme, realizzassero da sole la maggioranza, tagliando fuori dalla decisione tutto il resto della popolazione. Poiché, una volta raggiunta la maggioranza, la votazione finiva, le ultime centurie del comizio raramente riuscivano a esprimere il loro voto. Sin dall'inizio della Repubblica, non solo la nomina dei 35 sanciva che "se non sia legittimo votare alcunché, ciò si consideri come non votato". Un limite assoluto che chiariva e limitava la portata di quell'altra norma antichissima, già ricordato circa l'onnipotenza delle delibere popolari, piegandola a un superiore principio di legalità. Da questi rapidi cenni è possibile supporre che fosse immanente al pensiero politico romano la coscienza dell'esistenza di limiti posti anche al potere della legge, coessenziali alla libertas repubblicana. Nella realtà delle vicende politiche affiora l'idea di un nucleo di principi e di reciproche garanzie, all'interno della comunità politica, connaturato alla esistenza di questa e immodificabili, o difficilmente modificabili, senza minacciare la sua stessa essenza. In questa prospettiva si colloca l'altro assunto posto a salvaguardia della Repubblica: il divieto di attentare all'esistenza della res publica. Molti cittadini verranno accusati di "aspirare a divenire re": adfectatio regni, e per questo ne sia morte; ma non sembra sia mai stata votata una norma che vietasse questo comportamento eversivo. Questi stessi principi, non necessariamente scritti e formulati in regole, sono incorporati all'interno della storia stessa della costituzione repubblicana: anzitutto nel riconoscimento del valore fondante del processo di integrazione che ne è alla base. Per questo né l'autonomia né la sfera dei poteri del Senato, da una parte, né il ruolo e la sua sacertà dei tribuni della plebe dall'altra, potrebbero essere messi in discussione da qualche legge positiva. Essi sono incorporati nella storia comune della civitas e ne costituiscono il fondamento da tutti condiviso. Si tratta di pochi e fondamentali meccanismi che possiamo considerare come il nucleo della costituzione reale della Repubblica. Esso è integrato da un sistema ben più fluido di regole che ne integrano il contenuto rendendone possibile il funzionamento concreto. La loro efficacia e le relazioni tra di esse potrà variare nel tempo, sia a seguito di leggi positive, sia per gli equilibri concreti tra gli organi. Spesso si tratta di principi incorporati nel complesso edificio istituzionale, addirittura privi di una loro formale evidenza, finché un comportamento o una norma di diritto positivo sembri intaccarne l'esistenza: solo allora se ne coglie l'esistenza. Insomma è la violazione che evidenzia e conseguentemente parrebbe "creare", per reazione, la norma stessa. Come non sussiste una "carta" e un disegno predeterminato di queste regole fondanti, egualmente non era neppure concepibile l'esistenza di un organo specificamente competente a valutarne la possibile violazione. In effetti questo aspetto "indeterminato" è un carattere di fondo dell'esperienza giuridica romana. La stessa costruzione del sistema dei diritti privati, il lascito più importante del sapere giuridico romano, presenta una caratteristica tendenza al "non compiuto", al mai definitivamente stabilito. Come vedremo la portata effettiva delle norme e delle regole consuetudinarie, il funzionamento dei singoli istituti e il sistema di relazioni tra di essi non trovano mai una rigida definizione. Per concludere questo discorso sui "fondamenti costituzionali" dell'ordinamento romano, è ovvio che la sua stessa indeterminatezza si presti, ancor più di una carta scritta, a varie interpretazioni e a varie sollecitazioni in senso diverso e talora opposto. Grandissimo fu il percorso effettuato e relativamente rapido, ma sempre con un qualcosa di provvisorio. Si trattò di un continuo ritorno sulle soluzioni già acquisite perfezionando e correggendo il disegno istituzionale romano: mai definitivamente compiuto, sempre in divenire. Capitolo VI La strada per l'egemonia italica 1. Cittadini stranieri. Abbiamo seguito il progressivo rafforzamento del strutture cittadine nel corso dell'età monarchica. Un processo non certo esclusivo di Roma, ma comune a moltissime società italiche. Indipendentemente dalla discussione circa la verità storica di alcune delle conquiste attribuite in quel periodo a Roma, va ricordato comunque come il suo territorio, in origine non superiore al centinaio di kilometri quadrati, verso la fine del VI secolo a.C. fosse aumentato di circa otto o nove volte. Né meno formidabile era stato l'incremento della popolazione cittadina. Dionigi esprime il significato di questa notevole crescita: "proprio dall'inizio, dopo la sua fondazione essa cominciò ad attirare le nazioni vicine che erano numerose e atte alla guerra e crebbe continuamente soggiogando ogni avversario". Ma vi è un'altra conseguenza derivante da tale consolidamento, cioè l'accentuarsi dei caratteri di separatezza tra la 36 comunità cittadina e ciò che "ne è fuori": tra romani e stranieri. Occorre però chiarire la fisionomia delle antiche città; in essa infatti era presente una concezione del diritto abbastanza diversa da quella che caratterizza gli ordinamenti statali moderni. Vige infatti in questi il cosiddetto principio della “territorialità del diritto”. Il diritto dello Stato si applica cioè a tutti coloro che a qualsiasi titolo si trovano nel suo territorio, indipendentemente dalla loro cittadinanza. Costoro dovranno rispettare le leggi civili e penali dello Stato ospitante e automaticamente riceveranno una tutela analoga a quella dei suoi cittadini, in una condizione di sostanziale eguaglianza. Al contrario nel mondo antico e nelle poleis greco-italiche, vigeva il principio della "personalità del diritto". Ogni individuo era legato alla sua patria d'appartenenza e al diritto proprio di questa. Allorché si fosse trovato nell'ambito di un'altra comunità politica, egli sarebbe restato estraneo al diritto proprio di essa, non avendo la facoltà di utilizzarlo. Nella ricca tradizione letteraria greca si incontra spesso la richiesta di ospitalità e di protezione che lo straniero rivolge appellandosi agli dei. Se le leggi della città non estendono la loro tutela allo straniero, saranno gli dei a mostrarsi benevoli verso costui e a impegnare i loro seguaci a un atteggiamento di mitezza e ospitalità nei suoi riguardi. Le leggi degli dei si sovrappongono così e ampliano le dimensioni stesse e la portata delle leggi della città. In effetti, se l'ospite è "sacro" è perché egli, in quanto straniero, non ha diritti, può solo appellarsi agli dei, a un obbligo morale e religioso che i cittadini hanno di rispettarlo. Di qui l'importanza del sistema di templi e di santuari istituzionalmente aperti a tutti i pellegrini e in grado di offrire protezione al viaggiatore. È indubbio che si sperimentarono nuovi e più "giuridici" meccanismi per assicurare tutela adeguata ai membri delle varie comunità interessate. Uno dei primi strumenti fu la concessione a un singolo o un gruppo di stranieri dell’hospitium da parte di privati o della città, senza che ciò postulasse un accordo con la città di questi stranieri. Le radici di tale istituto, "l'ospitalità", risalgono alle forme di circolazione gentilizia. In origine era il modo in cui si formava la protezione che potenti clan privati assicuravano ai loro “amici” di altre comunità, una forma di protezione dentro il proprio ordinamento. Tra chi aveva concesso l’hospitium e il beneficiario di questo intercorreva un vero e proprio vincolo volto ad assicurare la tutela dello straniero. Presto, accanto a questo hospitium privato, intervenne un hospitium pubblico concesso dalla città stessa ad alcuni stranieri che permetteva a essi di rivolgersi ai tribunali locali per pretendere protezione legale. Lo strumento generalizzato nel mondo delle poleis per sopperire alle esigenze di tutela dei propri cittadini all'estero, fu però quello dei trattati internazionali. Essi furono utilizzati dai romani. Tali accordi, costituirono il fondamentale meccanismo per la costruzione di un tessuto entro cui la città stessa poteva sviluppare la sua azione. Solo a seguito di una nuova e più vasta articolazione del loro sistema giuridico, i romani avrebbero realizzato un sistema generalizzato e sicuro di tutela degli stranieri, indipendentemente dall'esistenza di un trattato internazionale che li vincolasse a proteggere legalmente i cittadini della controparte. È indubbio che il campo privilegiato della primitiva esperienza romana di carattere "internazionale", fosse l'antico Lazio. In effetti la politica romana di incorporazione delle comunità minori, era stata circoscritta essenzialmente alle popolazioni più omogenee, concludendosi con la fine del periodo monarchico. Ma anche in quella fase le relazioni di Roma con il mondo latino si erano venute articolando anche attraverso la conclusione di molteplici foedera: per i propri accordi internazionali. Abbiamo anche richiamato la molteplice valenza, come fattore di coagulo tra le comunità preciviche, delle leghe religiose e dei santuari comuni. Il significato politico di alcune di queste leghe religiose spiega la tendenza romana ad assorbire o comunque, ad affermare un certo controllo su questi stessi culti. Così un momento importante dell'assunzione di un ruolo egemonico di Roma nel Lazio appare l'istituzione di un culto federale di Diana con la costruzione sull'Aventino di un apposito tempio da parte di Servio. Agli ultimi anni della monarchia risale un importante federazione, di carattere religioso e politico, con un netto carattere antiromano. Si tratta del ripristinato culto di Diana presso Arriccia cui partecipano Tuscolo, Lanuvio, Laurento, Cori, Tivoli e Pomezia, esclusa Roma. Non a caso sono gli anni del grande isolamento romano e dell’acuirsi del conflitto con i Latini. Va ricordata l'operazione messa in opera da Tarquinio il superbo, volta recuperare antichissime 37 tradizioni religiose addirittura dei populi Albenses. Ci riferiamo al rinnovato culto di Giove Latiaris in Monte Albano e al ripristino delle connesse cerimonie religiose che univano i vari popoli latini: le Feriae Latinae. La superiorità politica di Roma nel Lazio è attestata da uno dei più importanti documenti relativi alla prima fase della sua storia a noi pervenuto: il primo trattato tra romani e cartaginesi che, secondo Polibio, sarebbe stato stretto proprio nell'anno seguente alla cacciata di Tarquinio il Superbo da Roma e che quasi sicuramente riprendeva uno schema di relazioni già realizzato sotto la dominazione dei re etruschi, nel quadro della più generale alleanza tra gli etruschi e cartaginesi. Gli ultimi decenni l'autenticità del testo e della datazione proposta da Polibio ha trovato ulteriori conferme. Tra le molte notizie che questo trattato ci fornisce di una conferma delle pretese egemoniche di Roma. I limiti stabiliti a possibili aggressioni da parte cartaginese riguardano tutte le città del Lazio: vi è tuttavia una netta distinzione tra alcune città che sono considerate come "soggette" o più precisamente "alleate dipendenti" e altre città indicate come non soggette. Nella prima categoria sono ricordate solo città in prossimità del mare: Ardea, Lavinio e Terracina. 2. Latini e cittadini delle colonie. Il testo di Polibio non ci offre sulla conoscenza di prima mano del quadro politico-geografico del Mediterraneo verso la fine del VI secolo a.C. Esso ci informa anche sull'insieme dei meccanismi posti in essere dai due soggetti contraenti per assicurare reciproca tutela dei propri cittadini che possano trovarsi nell'ambito di influenza della controparte. D'altra parte le disposizioni introdotte nel trattato evidenziano come solo in tal modo vi era la garanzia che i nuovi cittadini avrebbero goduto di adeguata tutela legale nell'ambito di altre comunità. Il trattato con Cartagine sarà seguito pochi anni dopo da un più importante patto d'alleanza tra Romani e Latini: il Foedus Cassianum. La logica adottata in quest'ultimo, per fornire la protezione reciproca dei cittadini delle comunità alleate, sembra essere abbastanza diversa da quella che pare ispirare l'accordo romano-cartaginese. Lo schema in esso seguito postulava dei meccanismi di parziale assimilazione tra le varie città coinvolte nel trattato, compresa Roma. Si veniva così a sancire una forma di comunanza giuridica tra Romani e Prisci Latini. Questa è infatti la portata del principio secondo cui il Latino che si fosse trovato in ambito romano non solo veniva assimilato ai cives Romani nella fruizione di tutto il diritto privato e della conseguente protezione processuale nelle forme solenni del diritto romano, ma era anche ammesso a stringere validi rapporti matrimoniali con i romani. Questi meccanismi di assimilazione sono indicati con due espressioni: ius commercii e ius connubii: “ diritto di commercio e diritto di sposarsi”. Era un principio che funzionava in base alla reciprocità di comportamento di tutte le città della lega: come tutte le relazioni di carattere internazionale. In altre parole i Latini a Roma godevano di una condizione analoga a quella dei Romani che si fossero trovati nelle altre città dell'alleanza: una parziale assimilazione ai cittadini delle varie comunità. Quasi sicuramente non appartiene all'originario regime del Foedus Cassianum, “ il diritto di emigrare” che avrebbe legittimato i membri delle città della Lega ad acquistare la cittadinanza di Roma, spostando la loro residenza in essa. Di esso le fonti parlano facendoci pensare a uno strumento definito per facilitare la mobilità degli scambi in area laziale e divenuto un ambito privilegio dei membri dei membri del Latium vetus rispetto alla sempre più prestigiosa e vantaggiosa cittadinanza romana. L'unità politica ribadita da questo trattato prevedeva la possibilità che l'insieme delle città della Lega fondasse nuove colonie che sarebbero divenute esse stesse nuovi membri dell'alleanza. Si trattava di una pratica comune a tutto il mondo delle poleis greco-italiche. Fu questa la prassi in base a cui l'intera parte meridionale della penisola era stata colonizzata dalle città greche. In questo contesto il termine colonia aveva pertanto un significato totalmente diverso da quello dei nostri giorni. Allora infatti si trattava di piccole comunità semi urbane, create ex novo dalla città-madre e situate in punti strategicamente importanti, anche se sovente assai distanti dalla fondatrice. A differenza della colonizzazione greca in Italia, i vincoli tra le colonie e Roma restarono sempre strettissimi ed energico e costante il controllo esercitato da questa su tutte le varie colonie, moltiplicatesi nel corso degli anni. Le singole città della Lega, e in particolare Roma, aderendo a questa politica coloniaria comune, non avevano comunque rinunciato al potere di fondare proprie colonie. Così Roma continuò a costituire accanto alle 40 4. La genesi del sistema municipale. Con il generale provvedimento assunto dal Senato romano nel 338 a.C., dopo la vittoria sul latini e i loro alleati, i romani avevano anche concesso ad alcune città vinte la loro piena cittadinanza. In alcuni casi poi, invece di questa, avevano attribuito a qualche comunità una cittadinanza romana "limitata": senza diritti politici (civitas sine suffragio). Si trattava di una figura giuridica particolare. Nel primo caso i nuovi cittadini, iscritti in una delle più antiche tribù territoriali romane divenivano cives, pienamente parificati sia sotto il profilo dei diritti privati che dei ruoli pubblici e istituzionali, quali il voto nei comizi e la partecipazione agli impegni militari. I cives sine suffragio restavano esclusi dalla partecipazione politica e dalla pari dignità militare, godendo solo della parificazione della sfera giuridica privata. Qui dobbiamo tornare interrogarci sul contenuto di quella reciproca concessione del ius commercii e del ius conubium già incontrati nei rapporti tra le città della Lega Latina. Attraverso questo sistema lo straniero, titolare di tale condizione di privilegio, appare assimilato al cittadino per quanto concerne l'accesso e la fruizione al diritto privato cittadino. In genere questo meccanismo è visto dalla prospettiva romana, come ammissione del latino e più in generale dello straniero agli istituti del ius civile romano, ma uno schema del genere, proprio perché fondato sulla reciprocità, può egualmente essere considerato dal punto di vista opposto: come assimilazione del romano ubicato in territorio straniero al diritto locale. A ben vedere il contenuto della nuova figura introdotta dai romani con la civitas sine suffragio, potrebbe quasi identificarsi con la duplice concessione del commercium e conubium. Sarebbe variato solo un elemento, sebbene fondamentale: il carattere di reciprocità. Diversamente dal caso del conubium e commercium, la concessione della civitas sine suffragio avrebbe comportato sempre l'assimilazione dello straniero così gratificato al Romano: sia che le relazioni tra i due si svolgessero a Roma che nell’altra città. Così, tanto il romano a Cerveteri o a Capua, quanto gli abitanti di queste città a Roma, dopo l'estensione della civitas sine suffragio da parte di Roma, nei rapporti tra loro, si sarebbero avvalsi sempre e solo del diritto romano. Egualmente il ceretano e il capuano, nei loro reciproci rapporti, non applicheranno più l'uno o l'altro dei loro diritti particolari, ma il comune diritto romano. In ciò modo, a partire dal III secolo a.C., il diritto romano divenne progressivamente l'unico medium della complessiva circolazione culturale e sociale nella penisola, assumendo la nuova funzione di generale “collante” nei rapporti tra i membri di più comunità legate a Roma. In questa nuova fase di crescita, l'estensione della cittadinanza non comportava più l'inglobamento fisico dei nuovi cives Romani nella città di Roma: al contrario le varie città conservavano pienamente la loro identità materiale, essendo solo divenute una frazione del “ popolo romano". Per i municipi sine suffragio è da ritenersi che la loro estraneità alla sfera politica romana comportasse necessariamente la persistenza dell'originaria identità istituzionale del tutto autonoma rispetto alla romana. Si disegnò così un mosaico di innumerevoli centri urbani o semi-urbani che vivevano di una loro vita autonoma e erano anche parte di una "città-superiore" enormemente dilatata: Roma. Aveva inizio, in modo frammentario e casuale, la sperimentazione di un nuovo assetto politico: l'organizzazione per municipi di Roma. Se, nel caso delle città e delle colonie latine, la loro autonomia presentava aspetti che, per quanto concerne l'organizzazione interna sembrano sfiorare un'indipendenza semi-sovrana, così non è nel caso delle comunità costituite da cittadini romani: siano esse le colonie romane o le città gratificate della cittadinanza romana piena o sine suffragio. Questi cittadini optimo iure o semi cittadini sine suffragio fanno parte infatti dell'ordinamento romano e vivono secondo le sue leggi. Qui però interviene la grande elasticità dei romani, con l'originale creazione di un sistema notevolmente fluido e ricco di intimi contrasti, però al contempo efficace e solido. In effetti le vecchie comunità indipendenti, trasformate in municipi di cittadini con pieni diritti politici o di semi cittadini senza diritti politici, dovettero conservare almeno parte della loro precedente organizzazione e anche una parte delle loro tradizioni giuridiche. In particolare lo stato giuridico delle terre dei municipi sine suffragio era retto dalle forme della proprietà privata, non identificabile tuttavia con il dominium ex iure Quiritium: la proprietà riconosciuta dal diritto civile romano e vigente nel territorio di Roma distribuito in proprietà privata ai cittadini romani. 41 Sappiamo anche come l'organizzazione di governo e l'assetto istituzionale di questi nuovi municipi sia stato reso gradualmente omogeneo con la presenza di magistrature uniformi e di senati locali. L'azione d'orientamento in tal senso di Roma appare più evidente nell'imposizione da essa effettuata, di una superiore autorità comune preposta ad amministrare la giustizia. Si tratta dei prefetti, magistrati delegati dal pretore, aventi competenze per aree territoriali e gruppi di popolazioni più o meno ampi. Questo meccanismo fu sperimentato con i praefecti Capuam Cumas, competenti per le città campane, gratificate della civitas sine suffragio, che fu poi applicato con i praaefecti iure dicundo. La loro giurisdizione concerneva le questioni di maggiore rilevanza economica, mentre è probabile che i magistrati originari delle singole città avessero conservato una competenza per le questioni di minor momento, continuando per queste ad applicare le tradizioni giuridiche locali. Più volte abbiamo insistito sul carattere cittadino della società romana, esaltato del resto proprio dalla fondazione delle colonie. Aspetto che si ritrova nella sua fase di espansione. Così, nella progressiva penetrazione politico-istituzionale di Roma in tutto il territorio della penisola e nelle forme organizzative adottate per le popolazioni sottoposte, costante fu il riferimento al modello cittadino. Anche quando la vera e propria “sovranità” fu avocata da quella che abbiamo chiamato "la città superiore" rappresentato da Roma, si favorì la persistenza di una circoscritta individualità politica nei vari municipi e colonie. Questo lo si vede nel caso di motivi che ispirarono una opposta politica, dove la massima sanzione irrogata a una comunità appare la sua cancellazione come città, quasi la soppressione di un organismo vivente. Come nel caso di Capua, punita in modo esemplare dopo la sua defezione ad Annibale, il senato romano, avendo la espropriata del suo territorio, le tolse "le magistrature, pensionato, l'assemblea pubblica", oltre a ogni altra imaginem rei publicae: l'idea e il simbolo cioè della comunità politica cittadina. D'altra parte un vincolo che contribuì a limitare un'espansione accelerata del diritto romano era la sua insuperabile connessione con l'uso della lingua latina. Il carattere formalistico e morale del diritto romano, l'uso di parole e frasi predeterminate per porre in essere una serie di atti giuridicamente rilevanti, dalla trasmissione della proprietà alle forme primitive di contratto sino ai litigi processuali, escludeva che chi non sapesse parlare latino potesse accedere al diritto romano. Ora, i romani, non solo non imponevano la loro lingua ai popoli sottoposti, ma escludevano addirittura che essi potessero usarla negli atti ufficiali, senza loro autorizzazione. Così i municipi sine suffragio continuarono per secoli a usare dei vari loro diritti come delle lingue autoctone solo molto lentamente subendo un processo di romanizzazione, peraltro inarrestabile. Dovettero essere soprattutto le elite locali, maggiormente inserite in rapporti e contatti con i romani, a intessere rapporti esterni, fruendo costantemente del diritto romano e portando avanti così il processo di romanizzazione delle loro istituzioni. D'altra parte questi municipes potevano ben imitare i romani nei loro usi, parlare la loro lingua, adottare anche, per quanto possibile, le loro istituzioni giuridiche. Ma questa è la decisione unilaterale e più atta a introdurre dal basso, in forma disordinata e semi-casuale, pezzi di ordinamento romano, che l'intero sistema del diritto civile romano e la sua integrazione costituita dal sempre più importante ius honorarium. La misura del successo di tali processi è dato dal fatto che, alla fine della Repubblica, le tradizioni, le culture e linguaggi italici erano ormai tramontati, di fronte all'espansione dei modelli romano-latini. Di qui la relativa facilità con cui si ebbe la definitiva espansione del diritto romano in tutta la penisola, almeno a partire dalla fine della guerra sociale, dopo la concessione della piena cittadinanza romana a tutti gli italici. Naturalmente uno dei principali vantaggi conseguiti dai romani con tale organizzazione fu una rapidissima crescita degli organici cittadini. Già intorno a 330 a.C., dopo la grande sistemazione del Lazio e della Campania settentrionale, il blocco politico rappresentato da Roma, con le comunità incorporate e i suoi alleati dipendenti latino- campani, raggiungeva gli 800.000 abitanti in un territorio di circa 6000 km². Nel 332 a.C. le tribù territoriali romane avevano raggiunto il numero di 29 su un totale di 35 che verrà raggiunto nel secolo successivo. È da ricordare come l'ampia estensione territoriale romanizzata di cui il sistema coloniario e quello municipale appaiono le strutture portanti presupponesse, sotto il profilo territoriale e degli assetti organizzativi, anche 42 nuclei minori. E questo soprattutto nelle aree dove i processi di urbanizzazione erano più lenti o addirittura inconsistenti. Lì si ricordano altre figure quali i fora, i conciliabula, i pagi e gli stessi villaggi, quali località in cui popolazioni rurali venivano a incontrarsi in mercati stagionali, si saldavano in comuni luoghi di culto e in distretti rurali aventi una loro identità amministrativa. Si tratta di strutture con una loro più o meno accentuata autonomia, situata all'interno e in funzione dell’ager Romanus, rispetto a cui intervenivano, con funzioni di controllo e di coordinamento, i magistrati romani. Nel mentre che i suoi antichi alleati venivano assorbiti a all'interno dell'ordinamento politico romano e regolati dal suo potere sovrano, una miriade di nuovi rapporti di alleanza venivano stretti dai romani con le varie popolazioni e comunità italiche. Il foedus, il trattato d'alleanza, era stipulato tra soggetti sovrani, talora sancendo una loro formale subalternità politica, a favore di Roma, altre volte conservando invece il carattere formale, ma solo formale, di un'alleanza tra pari. Il fatto che tra gli impegni reciproci assunti tra le parti vi fosse l'obbligo di aiutare l'alleato in caso di guerra era ed è la vera chiave di lettura di questi trattati. Giacché mai queste piccole città, queste comunità minori, sarebbero stati in grado di scatenare in modo autonomo una guerra, mentre, al contrario, le guerre le faceva in continuazione l'altro alleato, Roma. E a Roma gli innumerevoli alleati italici (che dal termine societas, utilizzato a indicare l'alleanza internazionale, prendevano nome di socii dei romani) dovevano quindi fornire supporto in termini di risorse materiali e di uomini. Così si moltiplicava la forza militare di Roma, per nuove conquiste, per nuove vittorie sancite da nuove alleanze subalterne. Il senato romano, nel definire la politica estera di Roma, si è costantemente impegnato a favorire e sostenere i gruppi aristocratici all'interno di ciascuna città alleata, a danno delle forze popolari e contro ogni spinta in senso democratico. In ciò si rifletteva anzitutto la tendenza conservatrice delle classi dirigenti romane. Ma dovevano giocare anche altri fattori: anzitutto la maggior facilità di controllare un ceto ristretto e interessato alla conservazione della "legge e ordine" e condizionato dai suoi stessi interessi economici, rispetto alle spinte meno calcolabili dei gruppi più estesi. Capitolo VII Un'aristocrazia di governo 1. La nuova direzione politica patrizio-plebea. Il compromesso patrizio-plebeo della 367 a.C. aveva sanato un punto debole del precedente assetto aristocratico costituito dal suo esclusivismo. La nuova classe di governo della Repubblica, la nobilitas patrizio-plebea, formatasi a seguito dell'accesso plebeo alle magistrature superiori. Questo blocco sociale, capace, al contrario del patriziato, di un costante rinnovamento, costruì e gestì, nel tempo, una sempre più complessa macchina istituzionale. Fu questo a guidare la più straordinaria e duratura" storia di successo" del mondo antico, realizzata con un esemplare impasto di abilità politica e diplomatica, di brutalità e competenza militare, di sapienza istituzionale e di governo. Come del resto sovente è avvenuto nei processi storici, le tradizioni la mentalità dell'antico patriziato si erano trasmesse alla nobiltà patrizio-plebea. Per renderci conto di ciò occorre riflettere sulla carriera di un romano destinato a pervenire al vertice politico e a sedere in Senato. È vero che, in teoria, ciascun cittadino che fosse nato da padre libero, ingenuus, poteva aspirare ad una carica magistratuale. Ma nei fatti questa carriera era aperta a pochi e in genere determinati individui appartenenti a un ristretto gruppo sociale. Era aperta a chi appartenesse alla non molto numerosa aristocrazia di sangue: ai patrizi. Era aperta anche ad altri: ma in che modo? Per capirlo dobbiamo riflettere sui meccanismi che regolavano i primi passi della carriera politica di un giovane romano. Nell'antichità classica, ma soprattutto in Roma, il buon cittadino, l'individuo che dà il suo contributo alla vita della città è anzitutto un potenziale soldato. È altresì una persona che partecipa attivamente alla vita politica cittadina. Il suo tempo non è dedicato all'attività economica: il sostentamento suo e della famiglia è ricavato in genere da una pietà fondiaria lavorata da altri soggetti: gli schiavi, i contadini pagati a giornata o, come coloni, con parte del prodotto del fondo. Per questo solo un giovane appartenente a una famiglia di buoni proprietari fondiari poteva pensare a una sua ascesa politica, condizione per il suo inserimento nella nobilitas patrizio-plebea. Ma occorreva 45 acquisizioni territoriali. Qui interessa la formazione di una provetta fondiaria di una certa consistenza e di patrimoni importanti da costituire il fondamento di un altro meccanismo evolutivo su cui bisogna soffermarci. Da sempre l'organizzatore statale romana si è venuta strutturando, sulla base dei ruoli assorbenti attribuiti alle varie magistrature elettive e ai loro diretti collaboratori, in un insieme di attività tutte o quasi di carattere gratuito: il vir bonus, il virtuoso cittadino dell'ideologia romana è colui che dedica i suoi sforzi a servire la patria, prima come guerriero, poi nella vita politica della città. La gratuità di tale impegno delle cariche politiche presupponeva una selezione tra aspiranti in possesso di adeguati mezzi economici. Si è già detto come tale meccanismo favorisse il sostanziale monopolio delle cariche magistratuali da parte di una nobilitas relativamente ristretta. Un effetto collaterale di questa connotazione aristocratica, unita alla generale ideologia del mondo romano, svalutativa di mestieri e professioni remunerate, è costituito dal mancato sviluppo di un ceto qualificato di amministratori e burocrati. Tuttavia nuove e molteplici esigenze e funzioni si imponevano a una macchina politico-amministrativa che iniziava ad avere un'importanza almeno regionale: si pensi solo a una politica di opere pubbliche di dimensioni ormai imponenti, con la costruzione degli edifici civili e religiosi della città, delle grandi strade militari, dei primi acquedotti. Ma si pensi anche un patrimonio pubblico, soprattutto delle terre conquistate, sempre più ingente che doveva essere amministrato attraverso un complesso articolato sistema di concessioni e di affittanze, nonché alla gestione di entrare finanziarie enormemente accresciute, anch'essa affidata in gran parte all'intermediazione privata, e infine all'opera di rifornimento di attrezzatura di eserciti sempre più importanti. Non sempre si è tenuto conto del risvolto organizzativo ed economico-finanziario che sempre il maggior impegno militare romano comportava. L'armamento degli eserciti, il loro approvvigionamento, in un ambito territoriale ormai a vasto raggio, consolavano anche se i quadri organizzativi e operativi dotati di competenze sempre più sofisticate e con crescenti risorse economiche. La risposta fu allora quella di "scaricare" tali funzioni all'esterno delle stesse strutture istituzionali della città. Gran parte degli aspetti significativi della vita finanziaria e della gestione delle ricchezze e dell'attività di interesse statale si realizzarono appaltando ai privati imprenditori le attività a ciò necessarie e lasciando a questi tutti i vantaggi economici delle intermediazioni così richieste. Così lo sfruttamento delle terre pubbliche, non distribuite in proprietà privata, fu affidato ai privati in genere a fronte del pagamento di un canone periodico. Data la debolezza organizzativa dei magistrati responsabili della loro gestione, gran parte di tali terre non veniva direttamente assegnata alla miriade di coltivatori e di allevatori interessati al loro sfruttamento, ma concessa a grandi mediatori, in grado di pagare le elevate somme richieste dai magistrati romani per aree assai ampie. Questi poi suddividevano tali estinzioni di ager publicus, tra tutti i piccoli agricoltori interessati, lucrando la differenza, sovente assai elevata, tra la cifra globale loro versata alle casse di Roma e i canoni percepiti dai subconduttori. Il guadagno di Roma era minore, ma si evitava tutto il lavoro e le funzioni di controllo che la ripartizione delle terre pubbliche avrebbe comportato e i costi a ciò connessi. Un meccanismo non diverso riguardava anche le riscossioni tributarie, delle province, gestite anch’esse attraverso appalti ai privati che si facevano carico di tali incombenza per conto di Roma, lucrando anche qui la differenza tra il percepito e quanto dovuto a essa. Ma non meno importante appare lo sviluppo delle opere pubbliche. La grande rete stradale che ebbe inizio con la via Appia, alla fine del IV secolo, la costruzione dei primi acquedotti pubblici destinati a trasformare le condizioni materiali della città e la crescita degli edifici pubblici e dei tempi, oltre alle grandi terme pubbliche. Anche questo settore si fondò su una delega alla gestione privata attraverso il consueto sistema degli appalti. Lo stesso sistema si applicò per l'organizzazione del vettovagliamento e delle strutture logistiche a sostegno di eserciti impegnati sempre più lungo e in territori sempre più lontani da Roma. Tutto ciò fu possibile grazie all'apriporta affermazione di un gruppo sociale relativamente articolato, distinto dalla nobiltà delle cariche, tutta orientata al governo della politica e agli impegni militari. Si trattava di individui provenienti dagli strati più ricchi della popolazione: quelli che fornivano all'esercito i cavalieri (equites) in grado di provvedere a 46 loro spese alla costosa cavalcatura. Non solo costoro erano i detentori dei capitali necessari a supportare le intraprese ora accennate, che sovente richiedevano forti anticipazioni finanziarie; ma essi soprattutto avevano acquisito quelle competenze e quelle tecnologie finanziarie e imprenditoriali richieste per far fronte ai compiti ora richiamati. Essi ebbero un ruolo sempre più importante nella società romana, ma, insieme segnava la separatezza dalla nobilitas patrizio-plebea, preposta alla politica è in grado di monopolizzare il governo cittadino. Un sottogruppo particolare di questo ceto di "cavalieri" e di appaltatori (redemptores) è rappresentato dagli appaltatori delle imposte, i publicani. In genere la formazione di questi nuovi gruppi sociali e l'affermarsi delle connesse attività economiche viene collocato in un periodo successivo a quello che è considerato. Ma se questo sistema non si fosse già avviato sin dalla fine del IV secolo, come sarebbe stata in grado Roma di affrontare l'imponente quantità di opere pubbliche che viene realizzata e riconvertire in pochissimi anni la sua forza militare, attrezzando una potente flotta, nel corso della prima guerra punica? 3. Appio Claudio Cieco e gli inizi della modernizzazione. Appio Claudio, discendente del famoso decemviro, che ricopriva la censura nella 312 a.C. Alla fine di quel IV secolo così ricco di mutamenti e di aperture, e gli sembra segnare per più di un aspetto i nuovi orizzonti della scena politico-istituzionale romana. La sua preminenza politica è attestata dalla sua rielezione al consolato nel 307 e 296 a.C. Neppure può apparire singolare il fatto che egli, nella sua azione di governo, svolgesse un ruolo di innovazione e di "modernizzazione", del tutto in linea con le tradizioni familiari. Colpisce l'amplissimo spettro dei suoi interventi che vanno dalle strutture materiali della città sino al cuore dei processi culturali e tecnici. Ha quasi un valore simbolico il fatto che la prima e più importante via di comunicazione costruita da Roma (la via Appia, chiamata dai romani stessi la "regina delle vie") prenda il nome da questo personaggio che ne determinò la costruzione. Non si tratta solo di una grande opera pubblica e di comunicazione civile: e se corrisponde anzitutto a un progetto politico e militare di espansione verso la Magna Grecia, in un percorso che unisce Roma alla Campania, sino al grande porto di Brindisi: la porta verso la Grecia e il Mediterraneo orientale. Progetto politico e militare, perché l'espansione verso l'Italia meridionale significava anche una scelta tra due alternative possibili che si ponevano i romani. O la mera fedeltà alla tradizione politica di crescita territoriale e della ricchezza fondiaria, o una nuova apertura verso gli orizzonti e le possibilità che il contatto con il mondo mercantile della Magna Grecia rendeva possibile. A favore della prima alternativa erano orientati soprattutto i gruppi più tradizionalisti, oltre al ceto dei medi e piccoli proprietari agrari, cui si associava quella "fame di terra" propria del mondo contadino. D'altra parte si apriva la possibilità di nuove aperture verso un'economia dominata dagli interessi commerciali e orientata verso i grandi traffici mediterranei, associata alle città e ai porti della Magna Grecia, fiorenti oltre che per i commerci e l'agricoltura, anche per un ricco artigianato. L'esito finale di questa seconda prospettiva era il mare: un grande mutamento di orizzonti per una potenza militare così "territoriale" come Roma. Lo spostamento degli orizzonti politici romani verso il Mezzogiorno significava in effetti un'alleanza più stretta con gli interessi mercantili e marinari delle città ivi situate. Appio Claudio è uno dei primi personaggi di rilievo che sembra trarre tutte le conseguenze dalla presenza romana in Campania. Egli infatti appare come uno dei precoci fautori di quella che, nel corso del secolo successivo, costituirà la grande svolta politica di Roma, che si sarebbe sostanziata anzitutto nel drammatico conflitto con Cartagine per il controllo del Mediterraneo occidentale. L'attenzione di appio Claudio verso gli aspetti mercantili e finanziari è anche alla base della riforma della composizione delle tribù che comportava la valutazione, accanto ai beni immobili, anche della ricchezza mobiliare per la distribuzione della cittadinanza. Questa innovazione si associa ad un'altra novità introdotta con la sua censura: l'iscrizione tra i nuovi senatori di alcuni liberti. Un fatto certo inaudito agli occhi dei romani, sulla cui veridicità si può nutrire qualche dubbio. Si tratta comunque di riforme troppo radicali destinati ad avere vita breve perché negli anni successivi si ebbe la revoca sia dell'iscrizione nelle tribù rustiche della turba dei non proprietari, ricondotti così all'interno delle sole 47 quattro tribù urbane, sia la cancellazione degli ex schiavi fatti senatori. Comunque malgrado ciò, profonda e duratura appare l'azione di rinnovamento realizzata da Appio; si evidenzia una linea di continuità ideale con l'antico decemviro: che si ritrova nel ruolo affatto particolare giocato dal censore nel campo del diritto. Di nuovo nel in gioco il monopolio del collegio pontificale, che anche Appio Claudio Cieco mirò a erodere, ma in modo meno radicale, più sapiente, e perciò stesso più efficace di quanto non avesse fatto il suo avo. A lui risale infatti un'iniziativa gravida di conseguenze intrapresa dal suo segretario e liberto Gneo Flavio. Questi infatti, nel 304 a.C., rese pubblici i calendari e i formulari delle azioni processuali, permettendo a tutti i concittadini di accedere direttamente alla conoscenza degli strumenti fondamentali per la tutela processuale dei loro diritti. Sino ad allora costoro erano dipesi dalla esclusiva e riservata conoscenza che ne aveva il collegio pontificale, al quale quindi dovevano rivolgersi per poter agire in giudizio. Si trattò di un formidabile salto in avanti nel processo di diffusione delle conoscenze giuridiche. I più intelligenti e consapevoli si dovessero rendere conto dell'utilità e forse della necessità urgente di rafforzare quegli strumenti logici e tecnici che sino ad allora erano stati tranquillamente affidati al lavorio separato e sicuro di un'esperta consorteria qual è il collegio pontificale, rinforzato dalla figura del pretore. Non solo si trattava di far fronte ai grandi processi istituzionali ingenerati dalla stessa espansione politica romana, ma anche al rapido accrescersi di nuove esigenze nel campo dei rapporti privatistici. Qui infatti, al diritto delle persone e alla disciplina dei rapporti familiari e successori, si era venuto sostituendo, al centro della vita sociale, l'insieme dei rapporti negoziali, funzionali a un'accresciuta circolazione di beni. Chiamato a mediare e orientare questi processi, il vecchio consesso pontificale, forse, rischiava di non essere più adeguato rispetto alla loro dimensione quantitativa e alla complessità, ingenerate dall’ accentuato processo evolutivo della società romana. Anche oggi lo possiamo constatare: quando interviene una forte accelerazione economico-sociale, sia in termini qualitativi e quantitativi le forme del diritto preesistenti e la cultura giuridica consolidata stentano a tenere il passo. E il risultato è sotto i nostri occhi: da una parte la tendenza al blocco e alla paralisi, dall'altra nuove risposte che si vengono ingenerando all'interno della società prescindendo dal formalismo statuale e che prima o poi daranno luogo a nuove forme relativamente consolidate. Perché non pensare che tensioni del genere non venissero accumulandosi di fronte alla sempre molto creativa, ma probabilmente anche conservatrice opera dei pontefici? È possibile in effetti che il pretore da solo non fosse in grado di gestire e governare la trasformazione. Ed egualmente ipotizzabile che tutto ciò, insieme alle latenti tensioni tra gli ordini potesse ingenerare un malessere, non certo tra gli strati inferiori della plebe, ma proprio tra coloro che alla crescita erano più interessati e avevano necessità di forme giuridiche adeguate, soprattutto di un accesso a esse facilitato e semplificato. Certo, è solo un'ipotesi: che però permette di inquadrare la spinta innovatrice di Appio e del suo scriba all'interno di una logica coerente. Si potrebbe dunque interpretare l'opera riformatrice di Claudio come destinata a ridisegnare ruoli e funzioni di governo all'interno del preesistente blocco sociale. Il che ci farebbe capire che la sua azione fosse il contrario di una rottura istituzionale. Pur non meno incisiva in nessun modo riprendeva l'idea di una legge della città che si sovrapponesse e si sostituisse come meccanismo di ammodernamento e di sviluppo, all’interpretatio. In modo più o meno consapevole, le sue aperture avviavano piuttosto il superamento dei tempi morti e del lento filtraggio tipici di un collegio chiuso, con le sue logiche di incorporazione, come erano i pontefici. Esse tendevano piuttosto ad avviare ed ampliare un "mercato", non di cose, ma di giuristi; che in Roma, era un mercato controllato da una logica di tipo gerarchico, tale da escludere qualsiasi forma di eguaglianza. La tradizione ci dice che lo stesso censore fosse competente nel campo del diritto, sino a essere autore di opere giuridiche. La notizia esprime una verità nascosta: che è appunto il fatto che il ceto di governo romano si impadronisse del diretto controllo del diritto, più o meno consapevole dell'enorme valore di esso: anzitutto come strumento di governo e di potere. Semmai colpisce la precoce comprensione di come la politica e le forme dell'organizzazione fossero altrettanto essenziali di quanto non fosse la forza delle armi. La fine del monopolio pontificale segna l'inizio 50 loro autorità nell'interpretarne il contenuto e la portata. Il punto di partenza della loro lavoro consisteva nella determinazione precisa della portata delle antiche formule legislative e negoziali. Anzitutto la comprensione e spiegazione del significato letterale delle parole in esse impiegate: interpretazione non facile, per l'oscurità della lingua arcaica di molte delle antiche norme, ma non neutrale perché, in molti casi, attraverso nuovi e modificati valori attribuiti al singolo vocabolo o alla frase, si poteva innovare e modificare il valore immediato e l'originaria portata della norma. Strumenti essenziali di questa prima fase dell'esperienza giuridica romana furono anzitutto l'utilizzazione su vasta scala delle finzioni giuridiche e dell'analogia. Nuovi risultati si realizzavano appunto modificando consapevolmente il significato e la portata di un istituto per giungere a conseguenze del tutto diverse da quelle ordinarie. Incontriamo così la distorsione consapevole dell'originaria finalità di antichi istituti per giungere a risultati affatto nuovi. Ad esempio utilizzando il divieto di abusare del potere di vendita del figlio sancito dalle XII Tavole, per creare il nuovo istituto dell'emancipazione: una serie di vendite fittizie con cui il padre liberava volontariamente il figlio dalla sua potestà. Egualmente si finse di "vendere" un patrimonio, quando in verità si voleva lasciare il medesimo, dopo la propria morte, ovviamente a titolo gratuito, a un successore: l'erede. Con la "laicizzazione" della scienza giuridica venne meno l'originaria forza cogente del sapere pontificale che scioglieva difficoltà e dubbi, esprimendosi con soluzioni univoche e in forma definitiva. Proprio perché i pareri non provenivano più da un'autorità unica ma da una molteplicità di individui appartenenti al ceto dei giuristi, prese forma una nuova fisionomia del diritto, concepito come ius controversum. Un diritto in cui l'effettiva portata e significato delle regole, il suo modo di funzionamento, non tendevano a sostanziarsi in forma chiara e conclusiva, ma derivavano da un continuo dibattito tra gli specialisti. Prevalevano idee e interpretazioni più convincenti proposte da personalità più autorevoli. Autorevolezza determinata essenzialmente dal consenso degli altri giuristi e dall'opinione pubblica. Certo, in tal modo, sussistevano margini ampi di incertezza circa le soluzioni di ciascun caso pratico e circa i criteri di comportamento che doveva assumere il cittadino sia in ordine ai possibili accordi e nuovi affari giuridici, sia intorno alla legittimità di una pretesa avanzata da lui o contro di lui. Ciascuno doveva orientarsi rispetto a un insieme di opinioni, talora piuttosto contraddittorie e quasi mai uniformi sostenute dai giuristi. Ma questo è appunto il carattere “controverso” del diritto romano identificabile in un corpo di soluzioni adottate dai giuristi, in relazione a un'infinità di casi, e nel corso di più generazioni. Questo accentuò il prestigio dei giuristi giureconsulti, fondato sulla loro continua attenzione alla coerenza logica delle soluzioni adottate rispetto alle premesse, sul rigoroso rapporto tra la "regola" astratta e la portata precisa del caso da risolvere. Un meccanismo del genere si sviluppò essenzialmente sotto lo stimolo di nuovi casi continuamente sottoposti all'attenzione e alla valutazione dei giuristi. Talora i casi stessi furono inventati, onde verificare la validità e la portata delle soluzioni già adottate o addivenire ad altre alternative. Questo modo di lavorare riguardava certamente problemi specifici, impegnandosi raramente in enunciazioni di carattere generale sulla base di presupposti teorici esplicitamente individuati. Le prime generazioni di giuristi laici vennero a creare nuovi istituti del diritto civile, nuove categorie di diritti e nuove relazioni, completamente e assolutamente estranei all'insieme di regole introdotte dalle XII Tavole. Questo ad esempio è stato il caso dell'usufrutto e delle servitù prediali, introdotte sicuramente tra il III e il II secolo a.C. e tutelate mediante actiones in rem. Ma ancor più innovativo appare il riconoscimento intervenuto con la netta distinzione della nozione del possesso da quella del diritto corrispondente, la proprietà. Non meno importante fu l'attività interpretativa spiegata nel campo degli illeciti extra contrattuali e il ruolo dei giuristi nella creazione nei contratti consensuali. Praticamente non c'è campo in cui l'intervento dell'interpretazione della giurisprudenza laica non abbia innovato radicalmente. Non tutti i pareri d'altra parte e le soluzioni già date e ricordate dalla stretta cerchia dei giuristi erano di eguale valore e avevano un analogo peso nell'orientare privati, magistrati e giudici nella pratica legale. Giacché il parere dell'uno pesava più che quello dell'altro giurista. Come tutte le aristocrazie era un mondo di pari, quello dei giuristi, dove non esistevano gerarchie formali, 51 non vi erano carriere interne, le valutazioni oggettive, concorsi, esami e quant'altro. Ma proprio per questo, quanto più indefinita era la dimensione dell'autorità intellettuale che disegnava e ridisegnava in continuazione gerarchie e spazi di influenza, tanto più incisivo era l'effetto di questa autorità. 2. Il pretore e l'innovazione del processo civile romano. Il pretore era caratterizzato da una forte autonomia rispetto all'ordinamento esistente. L'esistenza di circoscritti e predeterminati schemi verbali con cui si dovevano esprimere le pretese processuali bloccava l'ampliamento delle possibili pretese dei litiganti a situazioni non previste dalle forme arcaiche, vincolando la capacità innovativa della giurisprudenza e la libertà del pretore. Non si deve dimenticare che, sino alla seconda metà del III secolo a.C., egli avesse continuato ad avvalersi della consulenza dei pontefici. Ora questo collegio, per quanto capace di innovare e di adeguare, con la sua interpretatio, le antiche forme legali alle nuove esigenze, era condizionato da una visione più o meno accentuatamente tradizionalista. Per questo la perdita dell'antico monopolio pontificale nella conoscenza e nella elaborazione del diritto, affermando un sapere giuridico più aperto dovette favorire il ruolo innovatore del pretore. Gli furono forniti gli strumenti concettuali per costruire nuovi meccanismi processuali in grado di adeguare le antiche forme legali alle nuove esigenze economico-sociali e a più progrediti valori di equità. I limiti e le rigidità dell'antico processo civile vennero così progressivamente aggirati, sino alla definitiva obliterazione dell'antico sistema delle legis actiones. Era un rapporto stretto tra i pretori e il nuovo ceto dei giuristi, giacché anche nel caso non infrequente in cui codesti magistrati fossero privi di specifiche competenze nel campo del diritto, essi si avvalsero del loro consiglio ed assistenza. Del resto alcuni di questi giuristi dovettero assai di frequente far parte di quel consilium di cui il pretore si avvaleva. Per questo Gaio poteva legittimamente annoverare i responsa dei prudentes (cioè l'insieme dei pareri dei giuristi) come una delle fonti del diritto romano: dei iura populi Romani. Torniamo alla grande stagione delle innovazioni costituita dal III secolo a.C. Allora infatti s'imposero alcuni dei presupposti che contribuirono in modo determinante al superamento di tale situazione. Fu infatti in quella fase di straordinaria crescita politico-militare, ma anche economica e culturale, di Roma che un numero sempre maggiore di stranieri fu attratto in una delle principali città del Mediterraneo. La maggior parte di essi non era titolare del ius commercii con i romani, ma egualmente, nella sua vita quotidiana necessitava di una protezione giuridica. Che doveva essere fornita al di fuori delle forme del ius civile dal quale erano esclusi. Ciò avvenne per opera del pretore, con procedimenti nuovi, fondati sul suo potere di iurisdictio, investendo una serie sempre più ampia di questioni secondo criteri che potevano prescindere dagli schemi propri del ius civile, ispirate alla logica più immediatamente equitativa, più semplici e accessibili a soggetti appartenenti a culture giuridiche diverse. L'importanza di tale nuovo settore della vita giuridica fu tale da rendere necessario, 842 a.C., la creazione accanto al vecchio pretore, di un nuovo pretore con competenze specifiche sui litigi tra stranieri o tra stranieri e romani: il praetor peregrinus. Ciò accentuò ulteriormente lo sviluppo di quelle forme di litigio sottratte alla logica delle legis acriones. Si trattava di un insieme di rapporti nuovi, estranei al formalismo dei negozi del diritto civile e a quelle strutture patriarcali che dominavano tuttora l'antico ius civile. Dove l'accordo, la "stretta di mano" diveniva il momento centrale, di fronte al rispetto delle procedure, alla rigidità di atti di frasi cariche di parole arcaiche che il diritto civile richiedeva fossero rispettate perché certi effetti legali avessero luogo e che divenivano vincolanti. Questa procedura più semplice priva di formalismi, dall'ambito originario di applicazione dei litigi con o tra peregrini, si estese ben presto anche ai rapporti tra romani, sempre più insofferenti degli arcaici e ormai inutili rituali. Verso la fine del III secolo a.C. ebbe inizio il tramonto delle legis actiones. Tra la fine del terzo e la prima metà del II secolo a.C. fu introdotto motivo di processo: il “processo formulare”, fondato su “formule”, predeterminate in modo circostanziato, che il pretore rilasciava alla fine delle discussioni preliminari tra le parti, svoltesi davanti a lui, e che riassumevano e chiarivano il contenuto preciso delle opposte pretese legali e fornivano al giudice i criteri da seguire nel decidere della controversia, accertando la verità materiale dei fatti addotti dalle parti. La struttura di 52 queste formule e il loro contenuto prescrittivo potevano variare all'infinito, adeguando la rigidità e l’astrattezza delle antiche regole alla varietà dei casi pratici e alla capacità di progresso della riflessione dei giuristi. Era così assicurata al magistrato giusdicente una libertà maggiore di impostare il processo in modo aderente alla sostanza del conflitto tra le parti ed al contenuto effettivo delle loro pretese. Ma soprattutto il pretore poteva attribuire un peso adeguato a elementi di fatto, rilevanti sotto il profilo della giustizia sostanziale, che l'astrattezza delle legis actiones aveva invece impedito di prendere in considerazione del dibattito processuale. In tal modo infatti veniva integrato e in parte superato il patrimonio giuridico ancestrale con quel duro formalismo e la rigidità di struttura degli istituti arcaici che nessuna interpretazione giurisprudenziale avrebbe potuto superare. Avvalendosi della libertà concessagli dagli strumenti processuali nuovi che egli stesso si era venuto forgiando, il pretore potè ampliare gli spazi della sua tutela. Da un lato egli fu infatti in grado di fornire protezione ai privati, anche in assenza di una norma del diritto civile romano a loro favore, ove motivi di equità lo avessero richiesto. Dall'altro egli poté rifiutarsi di fornire protezione giudiziaria a certi diritti contrari al senso di giustizia. Il termine aequitas, intraducibile con la nostra "equità": evocava anche l'idea di un'eguaglianza tra le parti che la soluzione adottata doveva rispettare. 3. L'editto del pretore, il "ius gentium e ius honorarium”. Nel tempo, i criteri sostanziali cui il pretore si atteneva vennero coagulandosi in regole e prescrizioni generali. In effetti una delle facoltà proprie dei magistrati superiori, cum imperio, era quella di emanare degli editti contenenti delle prescrizioni da rendere note a tutta la popolazione. Così avvenne per le nuove forme di protezione giuridica: il pretore unico, prima, e poi i due pretori separatamente, ciascuno con un proprio diritto, all'inizio del loro anno di carica, rendevano noto quali situazioni, non rientranti nella disciplina del ius civile, avrebbero trovato tutela da parte loro, e in che modo. Le regole elaborate dal pretore peregrino, che costituivano un vero e proprio corpus di istituti e diritti nuovi furono considerate come proprie di un "diritto di tutti gli uomini": iuris gentium. I vantaggi di queste nuove e più flessibili regole di condotta non restarono però confinati ai soli rapporti tra stranieri o tra stranieri e romani, estendendosi a tutti cittadini. In tal modo l'esperienza del praetor peregrinus contribuì ad arricchire lo stesso patrimonio giuridico romano, di cui il ius gentium venne a far parte tutti gli effetti. Necessità di tutti gli ordinamenti cittadini era quella di tutelare il valore degli accordi pacificamente stipulati, garantirne i risultati privilegiando la buona fede ed evitando ogni formalismo. È indubbio che incidenza ancora maggiore, sulla storia del diritto romano, ebbe l'innovazione ricordata: del processo formulare. Questo fu lo strumento fondamentale che permise al pretore di esplorare precocemente i grandi spazi che il suo imperium/iurisdictio magistratuale gli apriva. Dove egli era veramente il "sovrano". Il pretore non era il "servo della legge", e pertanto poteva evitare di applicarla o poteva intervenire a condannare o ad assolvere anche in casi che la legge non prevedeva, se il senso comune di equità e le esigenze materiali di fronte a cui si fosse trovato avessero consigliato tali soluzioni. Di fatto era un nuovo diritto che correggeva, integrandolo, l'antico ius civile. Vanno ricordati gli ordini del pretore contenuti negli interdetti, nonché le stipulationes e le cautiones. Con queste egli poteva costringere i litiganti, in via pregiudiziale, a fornire garanzie e ad assumere specifiche obbligazioni processuali per conseguire risultati lontani dal diritto civile, ma conformi a criteri di giustizia sostanziale. Formidabile mezzo di innovazione era il potere di non ammettere una pretesa processuale pur legittima secondo lo stretto diritto civile ove ostassero motivi di equità sostanziale o come se fossero intervenuti, dei fatti non veramente esistenti (actiones ficticiae) o di giudicare a favore dell'attore sulla base di fatti di per sè irrilevanti per il diritto civile (actiones in factum). Questa vasta gamma di interventi, se derivava dalla sfera di sovranità del magistrato, non esprimeva certo un suo arbitrio personale; una sua privata alzata di ingegno. Né il successore di un pretore che aveva ben amministrato la giustizia aveva interesse ad azzerare il già fatto: lo recepiva integralmente, modificando o introducendo qualche altra novità che sembrava utile e necessaria. Così l'editto del pretore, di anno in anno, veniva ripubblicato dal nuovo magistrato, 55 modo uniforme. Alcuni di questi elementi caratterizzanti potevano essere dati materiali, facendo parte della struttura concreta del fatto, altri no, essendo essi stessi il risultato di una determinata rappresentazione intellettuale. Ad esempio se un cittadino si presentava davanti al magistrato afferrando un uomo e affermando che era suo, il diritto messo in gioco variava solo in base alla qualificazione giuridica di questa persona. Se l'individuo che si affermava "mio" era indicato come schiavo, allora era una questione di proprietà, ma se si affermava che esso era il proprio figlio, allora la controversia non riguarda più la sfera della proprietà ma gli statuti familiari. Grazie all'accresciuta circolazione delle conoscenze attraverso le opere dei giuristi, in tal modo la nobilitas senatoria, lo stesso ceto equestre e gli amici e i frequentatori dei ceti dirigenti erano in grado di conoscere, volendolo, quali soluzioni tecniche e quali interpretazioni di antiche norme fossero ormai divenute vincolanti agli occhi dei giuristi e di coloro cui si era affidata l'applicazione del diritto a Roma. Attraverso questo insieme di riflessioni e classificazioni si venne formando un sistema di regole e categorie, organizzato secondo gli schemi della dialettica greca, per generi e specie. Prendeva forma quel metodo fondato su percorsi razionali e secondo logiche precedentemente rese evidenti e discusse. È allora che si definirono alcune delle strutture fondanti dello stesso sistema del diritto: la radicale distinzione tra rapporti obbligatori e diritti sulle cose, la non meno fondamentale definizione della precisa fisionomia della proprietà, nettamente distinta dal possesso e a sua volta evidenziata dall’ articolarsi di diritti più limitati sulle cose e limitativi della stessa proprietà. Acquisizioni che hanno influenzato la scienza giuridica. È allora che le strutture patriarcali si dissolsero rapidamente con l’articolarsi dei poteri del pater familias, con il riconoscimento di una forte autonomia legale e patrimoniale della donna, anche a seguito del tipo di matrimonio, introdotto dalla scienza pontificale, che escludeva la pienezza dei poteri del marito sulla sposa. Ma è nel campo dei contratti che viene introdotto il concetto rivoluzionario che un nuovo assetto legale, derivante da un accordo volto ad assicurare uno scambio di prestazioni tra due o più parti poteva divenire il contenuto unitario di una situazione giuridicamente protetta, generatrice di obblighi specifici a carico di ciascuno dei partecipanti all'accordo. Situazione lontana dallo schema di una stipulatio o dell'antico mutuo da cui un obbligo specifico a carico dell'uno derivava esclusivamente dal fatto o da parole intercorse tra debitore e creditore. Al contrario, i nuovi contratti consensuali divennero il recipiente unitario e stereotipo in cui riversare un insieme di relazioni inerenti a processi anche economici di maggiore complessità. Va menzionata pertanto un'opera famosa i Tripertita, di Sesto Elio Peto Cato, console nel 198 a.C. Fu anche il momento creativo che coincide con l'età tragica delle guerre civili, dominato da due personalità: Quinto Mucio Scevola e Servio Sulpicio Rufo. Il primo si staglia come l'autore di una prima organizzazione del sistema giuridico. Cicerone ci dice che egli fu il primo organizzare il diritto generatim. Il grande giurista presenta un aspetto ambivalente: pontefice e cultore del diritto sacro insieme a quello civile, egli presenta la tipica fisionomia aristocratica che giungeva a sostanziarsi in una tradizione di studi e di specialismi trasmessa di padre in figlio. Quinto era figlio di un altro giurista illustre: Publio Mucio. Ma di Quinto va ricordata l'importanza delle sue opere: un libro di definizioni, sopravvissuto fino a Giustiniano, e i 18 libri iuris civilis. Ivi tutta la materia del diritto civile romano trovava una prima importante sistemazione. Cicerone era amico di Servio ed esprime la grande ammirazione nutrita per questo giurista. Per lui questi, di una generazione più giovane di Mucio, gli era senz'altro superiore, essendo merito suo quello di avere per la prima volta elevato lo studio del diritto al rango di scienza. Si è tentati di affermare che con Servio la struttura sostanziale dei problemi di fondo relativi alle grandi categorie giuridiche e alla disciplina specifica di molte vicissitudini del diritto privato romano sia stata posta in termini che non sarebbero stati modificati granché dalla giurisprudenza dei secoli successivi. Non solo, ma in certi passaggi parrebbe addirittura affiorare in Servio il tentativo di riorganizzare l'intera materia giuridica all'interno di un quadro logico sistematico nuovo. Di Servio non sopravvivono frammenti delle sue opere: sarà la numerosa schiera dei suoi allievi diretti e indiretti che ci lascerà raccolte dei suoi pareri, i responsa, relativi soprattutto la soluzione di casi pratici. Egli fu il primo giurista del quel 56 pensiero resti consistente documentazione. Resta un'ultima grande figura di giurista: Marco Antistio Labeone. La sua chiara adesione ai valori dell'antica nobilitas l’indusse ad appartarsi dalla vita politica dominata ormai dalla grande ombra del principe, rinunciando così alla prospettiva di quel cursus honorum, ormai possibile solo con il favore del nuovo potere. Dedicatosi soprattutto alla riflessione scientifica, oltre che all'insegnamento e ai responsa, fu l'autore di un numero elevatissimo di opere nelle quali dovette rifulgere la sua autonomia e peculiare creatività, che ancora oggi si riflette nelle numerosi citazioni del suo pensiero effettuate dai giuristi successivi. Capitolo IX I nuovi orizzonti del III secolo a.C. e l'egemonia romana nel Mediterraneo 1. Le guerre puniche e l'eredità di Annibale. Il controllo romano dei grandi centri mercantili e marittimi della Magna Grecia, conclusosi con la conquista di Taranto era destinato ad ampliare la spinta espansionistica di Roma verso una realtà estranea: il mare. La svolta precipitò in occasione dell'aiuto fornito dagli stessi romani ai Mamertini, mercenari impadroniti della città di Messina, sottraendola ai cartaginesi. Si trattava di una scelta politica molto grave, giacché egli poneva in diretto contrasto con l'antica alleata, dando luogo al primo conflitto militare tra Cartagine Roma. Iniziava una nuova drammatica stagione per la politica romana, destinata a concludersi nel 202 a.C., con la definitiva vittoria sull'avversaria e sul più grande nemico che Roma abbia mai avuto: Annibale. Limitiamoci ad elencare scansioni temporali: nel 265 iniziò la Prima guerra punica che si protrarrà sino al 241 a.C.; nel 238-237 si ebbe l'occupazione da parte dei romani della Sardegna e della Corsica, sottratte ai cartaginesi; nel 238 si realizzò la conquista della Liguria e della Gallia Cisalpina; nel 231 si stringe l'alleanza dei romani con Sagunto contro l'espansione cartaginese in Spagna; nel 218-202 si svolse infine la Seconda guerra punica. La dimensione stessa degli avvenimenti e dei problemi che si posero alla classe dirigente romana contribuirono ad accentuare divergenze tra i fautori di un più cauto e tradizionale espansionismo territoriale, e gruppi più avventurosi, interessati a valorizzare il recente dominio romano sulla Magna Grecia. Sin da prima dell'inizio della guerra non erano state poche le opposizioni, tra i notabili repubblicani, all'accentuarsi di una politica ostile a Cartagine. Anche durante le due guerre, si ricordano, da parte dei gruppi politici più cauti diversi tentativi di arrestare lo scontro con un ragionevole compromesso. Alla fine prevalsero comunque gruppi più radicali che vollero condurre la vicenda sino alla sua estrema conclusione. Nel caso romano, ciò non impedì che i dirigenti del partito "agrario" ottenessero un parziale successo, imponendo anche un'espansione territoriale verso il Nord. In particolare la conquista del Piceno e le campagne contro i Galli, guidate da un grande dirigente plebeo, Caio Flaminio. Emblematica in tal senso fu la costruzione della via Flaminia nel 220 a.C., sotto la censura dello stesso Flaminio. Quanto alla eredità politica di Appio Claudio, è sufficiente ricordare come, tra i magistrati che fecero pendere la bilancia a favore della guerra contro Cartagine, sia da annoverarsi un altro Claudio, appartenente alla stessa gens. Fu la seconda guerra punica, con la discesa di Annibale in Italia a dare la misura della compattezza del blocco politico costruito da Roma. In effetti Annibale, portando il suo esercito in Italia, perseguiva un disegno strategico che andava oltre il mero confronto militare con i romani, mirando alla disgregazione di quel sistema di alleanze subalterne, e di incorporazioni più o meno forzate con cui si era venuto costruendo, tra IV e III secolo, il blocco politico-militare dei popoli italici sotto il diretto controllo di Roma. Sebbene il suo genio militare gli facesse vincere tutti gli scontri diretti che i romani si illusero di potere affrontare con lui, Annibale non sarebbe riuscito a realizzare appieno il suo progetto. Solo le popolazioni più recentemente sottomesse dai romani come i Galli e gli etruschi, o alcune città da Magna Grecia, anzitutto Capua, defezionarono dalla loro fedeltà ai romani. La persistenza del blocco di alleanze- italico riuscì impedire che un disastro militare segnasse la fine politica di Roma. Il messaggio della classe dirigente romana fu quello di realizzare una lotta a oltranza. La strategia di logoramento, con la tattica della terra bruciata, mutarono le sorti della seconda guerra punica, preparando la successiva riscossa. E fu guidata dall'esponente giovane e brillante della linea "guerrafondaia": Publio Cornelio Scipione che, dalla 57 vittoria su Annibale, avrebbe preso il nome di "africano". Profonde e durature furono le conseguenze della totale vittoria militare conseguita da Roma alla fine di questo durissimo scontro. Era inevitabile che, con essa, si rafforzassero potentemente gli orientamenti espansionistici del gruppo dirigente romano, finendo con l'assumere una fisionomia imperialistica. Ma il maggior interesse del moderno dibattito sull'imperialismo romano consiste nella chiave di lettura offerta da tale concetto per valutare la natura e i motivi di fondo delle profonde trasformazioni maturate nel sistema di governo della repubblica e nei suoi equilibri interni. Questo ci fa capire come la guerra fosse maggiore investimento non solo politico ma economico di Roma: un affare straordinariamente redditizio. E non solo per la res publica, ma, ormai, anche per i capi militari e i soldati che vi partecipavano. Ciò che contribuì a un'ulteriore e più accentuato processo di concentrazione di ricchezze nelle mani dei ceti dirigenti romani. La politica espansionista si associava ormai a colossali interessi economici che coinvolgevano tutto il ceto di governo e, seppure indirettamente, l'intera società romana. Del resto la percezione del carattere cruciale di quegli anni per la storia del mondo antico fu comune a tutti i popoli del Mediterraneo e si riflette ancora oggi nel profondo della nostra visuale. Non è poi un caso che nel dibattito che si aprì verso la fine dell'ottocento, in cui intervennero anche storici del mondo antico, su cui ha richiamato l'attenzione Andrea Giardina, la stessa storia dell'Italia moderna venisse fatta risalire alle devastazioni della guerra annibalica, così a lungo guerreggiata soprattutto nell'Italia meridionale, aggravata dalla pratica della "terra bruciata". La prolungata guerra contro Annibale, lo sforzo eccezionale cui fu sottoposta l'intera organizzazione romana del potere, la grandezza della vittoria finale e infine le ulteriori conseguenze politiche non potevano non produrre effetti più o meno duraturi sull'intera società romana e sulle sue strutture e istituzioni, a più livelli. Lo testimonia l'affermarsi, sulla scena politica cittadina, di grandi personalità che tendono a mettere in ombra e a minacciare gli equilibri tipici dell'oligarchia senatoria. Ma lo cogliamo anche nella trasformazione dell'antico principio costituito dalla proroga del comando militare dei magistrati superiori, dopo la scadenza regolare del loro mandato. Fino a che non fossero stati rilevati nel comando dal successore, essi infatti continuavano esercitare il comando come "promagistrati": proconsoli e propretori. Già in precedenza questo criterio era stato applicato, quando nel 327 a.C., un plebiscito fatto votare dai tribuni della plebe su richiesta del Senato prolungò il comando del grande console plebeo Q. Publilio Filone, che conduceva la guerra contro Napoli, sino alla fine delle operazioni. Si trattava di eventi relativamente eccezionali. Rispetto alla prassi sino ad allora seguita, qualcosa di nuovo avvenne, nel momento più drammatico della Seconda guerra punica, in relazione al giovane e carismatico Publio Cornelio Scipione. Questi infatti, nel 211 a.C., fu investito del comando della guerra in Spagna contro i Cartaginesi, nel riuscito tentativo di allontanare o indebolire la pressione Annibale sull'Italia. Egli fu eletto, dai comizi centuriati, direttamente come proconsole, senza precedentemente aver rivestito la corrispondente carica di magistrato. In tal modo si innovava, prevedendo che il supremo potere di comando costituito dall’imperium potesse essere sganciato dalla titolarità della magistratura ordinaria. Più indeterminata la posizione dello stesso Publio Cornelio Scipione l’Africano, in Roma dopo la sua vittoria su Annibale. La grandezza della vittoria e il ricordo dei pericoli superati si sommavano nell'attribuire a questo personaggio un’aura particolare e un prestigio mai avuto in precedenza da alcun uomo politico, e che trascendeva anche la sua eminente posizione istituzionale, per alcuni anni come princeps del senato. Per la prima volta erano minacciati gli equilibri di questa repubblica aristocratica e il Senato appariva svuotato di autorità: l'ombra monarchica sembrava ascendere sulla città. Si trattò di un periodo in cui, formalmente, le istituzioni repubblicane continuarono immutate: ma erano modificati gli equilibri interni e i reali centri di potere. È in ragione di ciò che si spiega la durissima lotta di Catone il censore contro l’Africano; e lo strumento della vittoria finale di Catone fu un processo criminale. Non direttamente contro l'Africano, intoccabile nella sua gloria, ma contro il fratello, per un affare di "fondi neri". L'autorità dell'Africano impedì che il processo fosse condotto a termine: ma la sua esposizione intaccò il suo prestigio personale, avviandone il declino politico. Consapevole di ciò, egli addirittura lasciò 60 consolidate dalla clamorosa vittoria su Cartagine. Macedonia, Siria, Egitto, il regno del Ponto, l'Asia minore e la stessa Grecia, unite insieme, costituivano un concentrato di ricchezze, di popoli e di una tradizione militare tali da rendere assolutamente impari il confronto di Roma con una loro ipotetica alleanza: essa ne sarebbe uscita sicuramente soccombente. Il capolavoro politico Romano fu di perseguire sistematicamente la divisione tra questi Stati, stringendo alleanze con gli uni e isolando l'altro, affrontando separatamente, prima la Macedonia, poi la Siria. La graduale trasformazione di queste grandi realtà in nuove province, la riduzione della stessa Grecia a realtà provinciale sono solo ulteriori conseguenze di un gioco già definitosi. I circoli più accentuatamente imperialistici erano stati anche più riccamente filo ellenistici: aperti e interessati alla cultura e ai valori del mondo che essi si apprestavano a sottomettere. Tra l'altro i romani non erano distorti nel loro approccio alla civiltà ellenistica da quei pregiudizi religiosi e culturali che avrebbero progressivamente scavato fossati insuperabili tra governati e governanti, minando tutta l'esperienza coloniaria moderna, ivi compresa quella probabilmente di maggior successo, costituita dall'impero britannico. La continua importazione di idee, valori e tecniche nuove, contribuì alla formazione di un vero bilinguismo culturale dell'intera sua classe dirigente. Malgrado i temporanei successi di Catone che con la sua censura, tentò di ripristinare gli austeri costumi del buon tempo andato, questo processo si rivelò inarrestabile. È allora che la classe dirigente, non solo imparò il greco come sua seconda lingua e, attraverso di esso, si acculturò in tutti i campi del sapere in cui Atene e la Grecia avevano raggiunto risultati insuperati, e si educò ai canoni artistici e letterari che la civiltà antica ha trasmesso a noi. Andò a scuola dai filosofi e dagli oratori, utilizzando questo nuovo sapere nell'oratoria politica e giudiziaria, nonché nella scienza giuridica. Un fenomeno che ovviamente allargò orizzonti di romani del II secolo a.C. Ma contribuì a indebolire quelle semplici e forti idealità della Repubblica antica, inducendo questa comunità di agricoltori e guerrieri a una riflessione critica sugli stessi valori costitutivi della res publica. Affiorava l'idea di una comunità di individui più ampia di quella ristretta ai propri concittadini e che era indissolubilmente associata al destino e agli interessi di Roma: gli italici ormai pressoché totalmente assimilati, i nuovi popoli delle province, anch'essi governati e dipendenti da Roma e fondamento di gran parte del suo benessere. Maturava una tendenza di tipo universalistico e un nuovo riconoscimento di una dignità umana indipendente da gerarchie e statuti sociali e scissa dallo stesso così radicato senso di appartenenza dato dalla cittadinanza. Per un romano di quell'epoca, la grandezza del presente non poteva non far sorgere il timore che si fosse già raggiunto il punto culminante e che, da allora, iniziasse la decadenza naturale in ogni vicenda umana. D'altronde i dilatati d'orizzonti e gli accresciuti livelli di consapevolezza e di responsabilità politica del ceto dirigente romano, successivamente alle conquiste orientali, erano anche, potenzialmente, fattori di crisi. Di ciò aveva avuto l'intuizione la generazione di Catone e di quei dirigenti politici che avevano cercato di restaurare e difendere antiche tradizioni di sobrietà, mirando a limitare le conseguenze negative indotte, nella società romana, dalle grandi trasformazioni ingenerate dallo stesso successo di Roma. Nell'orazione in difesa degli abitanti di Rodi, il vecchio Catone sembra esprimere i timori profondi di una cultura consapevole di pericoli che si spalancano davanti all'uomo accecato dalla ubris (orgoglio smisurato che porta l'uomo a sfidare gli dei e a provocarne la vendetta). I romani volevano punire pesantemente Rodi, antica e fedelissima loro alleata che aveva fornito una preziosa base per il sistema delle comunicazioni militari. Volevano punirla perché, nell'ultima guerra macedonica, Rodi aveva esitato a schierarsi con costoro, non essendo a ciò obbligata in base agli accordi da essa stipulati con i romani. E qui, di fronte all'arrogante iniquità di questa progettata sanzione, interviene l'ammonimento di Catone a non abusare del proprio potere. Nei più consapevoli dei romani si annidava la preoccupazione che proprio tanto potere finisse con l'appannare e deformare la lucidità politica e la capacità di governo di Roma. 4. L'impero Mediterraneo e la trasformazione della società romana. L'altro più contraddittorio e più significativo effetto della crescita imperiale di Roma fu la trasformazione di un'importante, ma circoscritta città nel cuore di un impero mondiale. Si trattò di un processo molto rapido. Già la Roma che usciva dalle 61 guerre contro Annibale era qualcosa di radicalmente diverso dalla città dei primi decenni del secolo, e destinata a mutare ulteriormente. L'aristocrazia romana e il ceto equestre furono i beneficiari di questa crescita, con la conseguente concentrazione di grandi capitali nelle mani di pochi privilegiati. Soprattutto i cavalieri costituivano il perno di tutto il meccanismo di sfruttamento provinciale, avendo acquisito una grande gestione dei flussi di ricchezza. Il loro ruolo restava orientato alla gestione finanziaria e ai correlati investimenti nei processi mercantili, nei traffici marittimi, nelle attività bancarie e nella gestione degli appalti e delle grandi opere pubbliche cresciute in quantità e in dimensioni. La nobiltà ebbe sicuramente a lucrare dalle guerre, ma il suo stesso ruolo la vincolava alla politica cittadina. Nell'amministrazione dei loro patrimoni, i membri della classe dirigente romana fruivano di un insieme di collaboratori, schiavi o liberti con particolari competenze commerciali e finanziarie. È attraverso costoro e con l'attiva cooperazione dei banchieri e finanzieri appartenenti al ceto degli equites che molti e importanti segmenti dei patrimoni nobiliari vennero investiti in attività finanziarie e mercantili. Una quota maggioritaria di essi dovette tuttavia orientarsi verso gli investimenti immobiliari. La proprietà di grandi edifici urbani da abitazione a più piani (insulae). L'investimento privilegiato dall'oligarchia romana continuò a essere costituito dalla terra. Un investimento tanto più facilitato dalla disponibilità di terre sparse in tutta la penisola, derivante dallo sradicamento di parte del ceto rurale italico. La durata dello sforzo militare contro Annibale e la mobilitazione di tutte le risorse disponibili avevano impegnato una intera generazione di contadini a passare la maggior parte della loro vita attiva lontani dai campi. Non era facile per costoro tornare, una volta lasciato l'esercito, a una vita lontana e da cui si erano disabituati. D'altra parte il crescente splendore di Roma, la vita facile e i flussi di ricchezza, le nuove occasioni di guadagno offerte dalle attività commerciali connesse alle campagne militari e i nuovi arruolamenti per le guerre d'oriente, con il miraggio di ricchissimi bottini, costituivano un potente fattore d'attrazione. Così per molti antichi proprietari contadini, dopo la stagione di guerre era irresistibile la spinta all'inurbamento. Di contro, le campagne spopolatesi di una parte dei loro antichi contadini, vennero riorganizzate dai membri dell'oligarchia romana che estesero il loro domini, incorporando sovente i campicelli degli antichi agricoltori inurbati. Si impose allora un sistema di grandi tenute, gestite da fiduciari, spesso essi stessi schiavi o liberti dei titolari, con l'impiego promiscuo di manodopera schiavistica e di contadini liberi. Il meccanismo fu favorito dalla disponibilità di grandi masse di schiavi a buon mercato a seguito delle vittoriose guerre di Roma. Il livello degli investimenti, la specializzazione e la qualità delle culture, le necessità di crescenti derrate alimentari per i mercati cittadini contribuirono a loro volta a un continuo ampliamento delle dimensioni di tali proprietà. Le terre private restavano la base delle villae dei grandi oligarchi romani. La crisi demografica del mondo rurale a sua volta era destinata a incidere negativamente sul meccanismo che era stato, per secoli, il fondamento della forza di Roma. Si tratta dell'organico rapporto tra l'antico esercito cittadino fondato sull'ordinamento centuriato e la piccola proprietà rurale dei contadini-soldati, identificata da sempre con un ceto dei piccoli e medi proprietari agrari. Un ceto ora certamente assottigliato, tanto da non garantire più il "rifornimento" delle centurie. La fondamentale importanza della schiavitù nella società romana è sicuramente un fattore importante. Con Plauto, alla fine del III secolo abbiamo la precisa testimonianza di questa realtà come un fenomeno di massa. Da un lato colpisce lo sfruttamento sistematico e brutale di questo tipo di forza-lavoro: dal suo impiego in massa nei nuovi come negli antichi processi produttivi, soprattutto nel settore agrario, ad altre e più pesanti utilizzazioni, come il lavoro nelle miniere o l'impiego degli schiavi come rematori nelle grandi navi da trasporto da guerra. Dal lato opposto, tale istituto venne utilizzato in una molteplicità di impieghi, attraverso l'utilizzazione sistematica di peculiari ed elevate capacità tecniche di alcuni schiavi o di ex schiavi. Ciò che ha reso possibile incrementare e articolare le originarie potenzialità della società romana con la conseguenza di un formidabile sviluppo dell'intera organizzazione economico-sociale tardo repubblicana. In questa utilizzazione vennero valorizzate una vasta gamma di competenze, specializzazioni professionali, saperi e conoscenze tecniche. Questo avviene anche attraverso figure di schiavi ben diverse 62 da quelli destinati a lavorare nei latifondi: si tratta di artisti, letterati formatisi alla grande tradizione ellenistica, specialisti in ogni campo, dalla professione medica alle tecniche commerciali e bancarie o delle attività letterarie e pedagogiche. Questo tipo di schiavi era acquistato a prezzi molto elevati e destinato a lavorare a stretto contatto con i loro padroni. In questo modo la stessa capacità di gestione delle imprese agrarie, commerciali e delle attività finanziarie facenti capo al pater familias venne fortemente potenziata. Un aspetto centrale che dobbiamo avere ben presente è rappresentato dalla facoltà riconosciuta dall'ordinamento romano a ciascun proprietario di concedere al proprio schiavo, insieme alla libertà, anche la cittadinanza romana. È chiaro che i beneficiari di questo straordinario potere furono soprattutto quegli schiavi più a contatto con i loro padroni e meglio in grado di conquistarsene la benevolenza. Si mise qui si in modo il potente meccanismo di mobilità sociale rappresentato dalle manomissioni degli schiavi. Era questo che nella Roma tardo repubblicana assicurava una inevitabile penetrazione di nuovi elementi portatori di culture anche molto lontane da quella romana che, con la cittadinanza, acquistarono in essa uno statuto permanente. In effetti il sistema romano delle manomissioni evidenziano la rigida conseguenzialità delle logiche giuridiche che le ispiravano. Roma portò alle estreme conseguenze la logica intrinseca all'esclusivismo proprio della città-Stato. In essa la libertà individuale era garantita cittadino. Ma questo stretto collegamento tra libertà e cittadinanza poneva un problema nel caso della liberazione di uno schiavo, dovendosi configurarlo anche come "cittadino". Per questo fu pressoché inevitabile che lo schiavo di un romano, che aveva perso la sua cittadinanza originaria, la concessione delle libertà si accompagnasse contestualmente all'acquisizione dell'unica cittadinanza di cui Roma disponeva: quella romana. Così si ebbe il paradosso che ciascun privato cittadino di Roma, proprietario di uno schiavo, potendolo trasformare in un uomo libero con la manomissione, disponesse anche di un potere squisitamente sovrano come quello di concedere la cittadinanza. Abbiamo visto però come, a partire dal III secolo a.C., Roma disponesse anche di altre "cittadinanza": la latina e lo stesso statuto di peregrinus , "straniero", come i sudditi delle province. Ai liberti dunque si sarebbe potuto dare questo più basso statuto personale, invece della sempre più pregiata cittadinanza romana. Ma non fu questa la strada intrapresa. Divenuta la grande metropoli dell'intero Mediterraneo, Roma da tutti i popoli attrasse energie, conoscenze, saperi rifondendo e riplasmando questa realtà e con essa rinnovando la sua composizione sociale, le sue competenze e la sua popolazione. Da ricordare che i figli di ex schiavi, se nati quando il padre era già divenuto "liberto", avevano lo statuto di "ingenui" potendo ulteriormente ascendere nella scala sociale. 5. La teoria della "costituzione mista". Verso la metà del II secolo un grande intellettuale greco, Polibio, si interrogò a fondo i motivi dello straordinario successo politico di Roma. Un successo di cui egli era stato testimone da un osservatorio privilegiato: a seguito di Scipione Emiliano, uno dei più grandi comandanti militari della metà del secolo, vincitore di Cartagine nella Terza guerra punica e il figlio di Lucio Emilio Paolo che aveva guidato gli eserciti romani nelle guerre macedoniche, piegando la più forte potenza militare del mondo ellenistico, con la vittoria di Pidna nel 168. Il grande vantaggio di Roma consisterebbe, secondo Polibio, in un equilibrio difficile e sempre mutevole tra le tre forme di governo proprie delle società umane: il governo monarchico, quello aristocratico e quello democratico. L'avere selezionato il meglio di questi tre meccanismi di governo e averli fusi in un disegno unitario sarebbe dunque la ragione ultima del successo romano: il potere monarchico, identificabile nella forza dei consoli, quello aristocratico, nel ruolo del Senato e quello democratico nei comizi. Questa chiave di lettura ci aiuta a meglio cogliere la profonda diversità con cui gli antichi, non solo guardavano alla loro organizzazione politica, ma ne concepivano il concreto funzionamento, rispetto a quella dell'osservatore moderno. In essa i vari poteri che costituiscono l'attributo della sovranità appaiono individuati come sezioni differenziate, da far funzionare e gestire ciascuna in modo quanto più autonomo possibile dalle altre, onde realizzarne il reciproco bilanciamento. Di qui la consueta tripartizione del contenuto della sovranità nelle tre fondamentali funzioni legislativa, esecutiva e giudiziaria, associate a soggetti diversi e per questo in equilibrio tra loro. Tuttavia è proprio 65 nullatenenti ormai ammucchiatisi in Roma. Sin dagli inizi del II secolo a.C. era emersa la volontà di difendere il fondamento agrario della società romana, attestato da Catone e dal suo stesso trattato De agricoltura. Tra coloro che a lui si erano ispirati è da annoverarsi il padre dei due Gracchi, un onesto magistrato romano. Sin da allora, si era cercato di rivitalizzare l'antica legislazione de modo agrorum risalente addirittura alle leggi Licinie Sestie con cui si stabiliva un limite ai possessi di terre pubbliche da parte di ciascun cittadino. L'intervento aveva suscitato malumori tra le classi alte, che si aggravarono quando un altro progetto di riforma agraria fu proposta da Gaio Lelio nel 140 a.C. Di fronte alla dura reazione dei ricchi, Lelio aveva fatto marcia indietro. Questa era la situazione quando, nel 133 a.C., Tiberio, iniziò la sua carriera al tribunato della plebe. Egli avviò immediatamente una decisa politica riformatrice, tale da suscitare profonde avversioni. Tiberio propose comizi una legge con cui si affermava un limite ai possessi di terre pubbliche che ciascun cittadino poteva acquisire: 500 iugeri per ogni pater familias cui si sarebbero potuti aggiungere altri 250 iugeri per ogni figlio maschio, sino a un totale complessivo di 1000 iugeri. In base a tale proposta, gli antichi possessi di ager publicus che rientravano nei limiti previsti dalla legge sarebbero divenuti proprietà privata dei singoli possessori, mentre la terra eccedente tali misure era recuperata alla res publica per essere redistribuita tra i cittadini non abbienti, in forma di piccola proprietà contadina. Si trattava di una vera e propria riforma agraria, anche perché la legge prevedeva l'inalienabilità di questa piccola proprietà. Il compito di recuperare e redistribuire in tali terre ai piccoli proprietari- contadini venne affidato a un triumvirato eletto dai concilia plebis. La proposta toccava notevoli interessi, giacché sottraeva ai grandi proprietari terreni agricoli già colonizzati e messi a coltura e considerati ormai legittima proprietà. Questo gruppo potente si affidò a un altro tribuno, C. Ottavio, perché interponesse l’intercessio contro la proposta del collega, impedendo quindi che i concilia potessero discuterla e votarla. Ma questo espediente non bloccò Tiberio nell'attuazione del suo progetto politico: l'ostacolo dell’intercessio fu da lui rimosso. Non potendo superare la paralisi derivante dal veto del collega, egli lo aggirò, facendo votare dagli stessi concilia la deposizione di Ottavio sulla base dello specioso argomento che non poteva essere magistrato della plebe chi avesse operato contro l'interesse di quest'ultima. In questo modo si introduceva quasi il principio di un mandato vincolante tra il magistrato e i suoi elettori. Solo a seguito di un'azione unitaria come la revoca di un tribuno per le sue posizioni politiche, la legge agraria proposta da Tiberio potè essere votata. A rafforzare la propria iniziativa Tiberio sfruttò il testamento di Attalo II, re di Pergamo, il quale aveva istituito il popolo romano come suo erede (tale testamento viene utilizzato da Tiberio che fece votare dai consilia un plebiscito con cui si affidava il tesoro del re alla commissione appena istituita, al fine di realizzare un’azione di ripopolamento delle campagne previste dalla legge agraria). Tiberio era un politico che rappresentava interessi e valori condivisi: dietro di lui si era schierato non solo il popolo minuto, attirato dalla promessa della distribuzione gratuita di terre pubbliche ai non abbienti, ma anche membri dell'aristocrazia romana, compresi non pochi senatori che condividevano molti dei motivi di fondo che avevano ispirato le progettate riforme di Gracco. Tiberio volle ripresentarsi alla carica di tribuno della plebe per l'anno successivo; sebbene non esistesse un esplicito divieto, tale situazione fu sfruttata dai nemici di Tiberio che maliziosamente l'associarono all'idea che questi aspirasse a un potere monarchico. Accusa senza fondamento ma atta ad accrescere i sospetti nei gruppi dell'oligarchia romana. Fu pertanto contro l'immediata rielezione di Tiberio al tribunato per l'anno successivo che si scatenò la violentissima opposizione dei suoi avversari politici. Nei tumulti che seguirono lui stesso e alcuni suoi seguaci vennero assaliti e uccisi. Questa fine cruenta era destinata ad avviare una vera e propria persecuzione che tentò di coprirsi a sua volta con forme legali, attraverso l'emanazione di un senatus consultum ultimum per la "salvezza suprema" della Repubblica. Tale tentativo del partito antigraccano fu vanificato dalla ferma posizione di Publio Mucio Scevola, un importante giurista romano, console in carica per il 133-132 a.C. La sua opposizione, tuttavia, non fece che rinviare la persecuzione dei seguaci di Gracco. I sostenitori di Tiberio furono quindi dichiarati "nemici della Repubblica". Tuttavia il progetto di riforma 66 ideato da Tiberio non si dissolse. Gli interessi e gli appoggi che avevano sopportato il tribuno erano sufficientemente forti da impedire che la legge fatta votare da Tiberio fosse abrogata. Pochi anni dopo, nel 129 a.C., per iniziativa dello stesso Scipione Emiliano, fu votato un senato consulto che mirava a ostacolare, se non bloccare l'attività dei triumviri preposti al recupero e all'assegnazione delle terre. Malgrado tali ostacoli, la politica di distribuzione Graccana dovette durare abbastanza lungo e mettere radici, se ancora oggi troviamo nell'Italia meridionale cippi detti "graccani". 3. L'eredità politica di Tiberio e il programma di Gaio Gracco. Le violazioni delle regole su cui era retta la non scritta costituzione romana, l'assassinio politico e le persecuzioni mortali di una fazione a danno dell'altra segnano la cupa fisionomia che la lotta politica assunse nella Roma dei decenni successivi. La crisi si sarebbe riacutizzata un decennio dopo la caduta di Tiberio, a opera del più giovane fratello Gaio, che ne riprese il programma politico, potenziandolo e ampliandolo. Eletto tribuno della plebe nel 123 a.C., e rieletto nell’anno successivo. Le leggi agrarie furono riprese da Gaio. La nuova legislazione è probabile che recuperasse e insieme sostituisse integralmente quella di Tiberio. In essa si dovette rivitalizzare il lavoro dei triumviri agris dandis, restituendo ai commissari gli originali poteri giusdicenti loro attribuiti. Inoltre le terre assegnate furono sottoposte al pagamento di un vectigal, un canone, e fu diminuito il tetto dei 500 iugeri. Colpisce nell'azione di Gaio, la quantità e la complessità dei campi toccati dalle riforme. Con una fitta serie di leggi si riprendevano le linee tradizionali del "partito agrario" e dell'antica politica filo-plebea, con un forte rilancio della colonizzazione romana. Un'altra lex Sempronia può la linea anticipatoria, con la fondazione di una colonia Taranto e il progetto di un'altra colonia a Capua. Un'altra legge stabilì la fondazione di una colonia a Cartagine. Nell'ambito della politica agraria vanno ora ricordati altri provvedimenti come la costruzione di grandi magazzini pubblici per il deposito del grano e di nuove strade volte a favorire la politica di ripopolamento delle campagne. L'iniziativa di Gaio andava oltre; evidente appare nella sua azione l'obiettivo strategico che mirava all'annullamento o ad un forte ridimensionamento del Senato. Va ricordata la lex Sempronia de provincia Asia e sottraeva al controllo del Senato gli appalti per le imposte nelle ricchissime province d'Asia; la lex Sempronia de provinciis consularibus che obbligava il Senato a sorseggiare quali province fossero assegnate ai futuri consoli, prima delle elezioni. Tale procedura consentiva di sottrarre all'arbitrio di questo consesso uno strumento per premiare gli amici e penalizzare gli avversari. Una serie di leggi miranti a precisare i criteri di legittimità e le tutele di libertà dei cittadini: viene ricordata la legge che impediva la repressione di reati non previamente definiti mediante leggi comiziali e la lex Sempronia de capite civis Romani che riaffermava il ruolo di controllo dei comizi per tutti i casi d'applicazione della pena capitale nelle quaestiones. Un altro principio normativo veniva fatto valere, con cui si sanciva la legittimità formale della rielezione di un tribuno in carica, volta a chiudere la questione apertasi in età di Tiberio. Infine si interveniva anche sui comizi centuriati, proponendosi la soppressione dell'antico sistema di voto per classi di centurie, con cui i ceti economicamente più deboli erano stati ridotti in pratica all'irrilevanza. La proposta di Gaio prevedeva il sorteggio dell'ordine di voto delle varie centurie, mettendole sul piano di parità. Un intervento più pericoloso per il Senato appare la modificata composizione dei tribunali de repetundis, competenti per i reati di corruzione e concussione di cui spesso si macchiavano i titolari degli uffici di amministrazione di governo provinciale, appartenenti quasi tutti all’aristocrazia senatoria. La lex Sempronia iudiciaria mirò a modificare la composizione dei tribunali giudicanti e in particolare quella della quaestio de repetundis composta dai membri del ceto senatorio, ovviamente più indulgenti verso i loro pari rango. A seguito della nuova legislazione l'organico dei giudici veniva a essere fornito dai cavalieri, portatori di interessi in parte diversi. La politica di Gaio ci fa pensare che la sua azione mirasse a qualcosa di più della semplice resa dei conti con il Senato, o del riequilibrio nel gioco dei ruoli e delle influenze tra i vari gruppi che costituivano il tessuto complessivo della società e dell'ordinamento politico romano. Si intravede tuttavia una strategia ancora più ambiziosa che si spingeva a delineare come risultato ultimo la trasformazione della stessa res publica. Sino ad allora infatti mai era 67 stato messo in discussione il suo stesso fondamento di carattere aristocratico. Si delineava ora per la prima volta la possibilità di spostare tali assetti verso una più radicale forma di democrazia. Ad esempio la legge votata dal popolo e il diverso ruolo assunto dal tribuno, che cessava di essere titolare di un potere prevalentemente di controllo sul governo altrui per diventare invece promotore di un proprio progetto, nel suo disegno, venivano posti al centro dell'intera scena politica. La sovranità popolare rendeva così a svincolarsi da quel costante riequilibrio costituito dall’auctoritas del Senato e dallo stesso cursus honorum per divenire autonomo fondamento della politica e della legittimità repubblicana. Che questo fosse il vero nocciolo della politica graccana, sembrerebbe confermarlo la grande quantità di leggi fatte votare direttamente da Gaio. Una lex Sempronia militaris che mise a carico dello Stato le spese per le vesti dei soldati e introdusse un limite d'età per l'arruolamento, una lex Sempronia de Popilio Lenate per il processo da lui instaurato contro i seguaci di Tiberio senza autorizzazione dei comizi, una lex Sempronia de sicariis et veneficiis, con cui si estendeva la repressione criminale a nuove fattispecie, una lex Sempronia viaria e una lex Sempronia de coloniis Tarentum deducendam, con cui si destinavano i ricchi territori a una politica di ripopolamento agrario, una lex Rubria de colonia Carthaginem deducenda, lex Sempronia de novis portoris, relativa alla politica doganale e al controllo dei conti di pubblicani, una rogatio Marcia de tribunis militum, una lex Papiria de tresviris capitalibus, relativa alla repressione penale, infine oltre all'importantissima lex Acilia repetundarum, le due leggi relative alla composizione dei comizi centuriati al sistema processuale. 4. Un nuovo modello di "res publica”? Sembra delinearsi una res publica direttamente governata dal popolo e dai suoi magistrati e soprattutto dal tribunato della plebe che ritrovava l'originario significato rivoluzionario. Affiorava così la possibilità di un primato della democrazia assembleare sul costante temperamento dei poteri attraverso le mediazioni necessarie ad assicurare quelle convergenze postulate dalla costituzione romana. La partita apertasi, andava al di là degli aspetti particolari della distribuzione e del controllo delle risorse pubbliche o dell'organizzazione politica romana, investendo la natura stessa della res publica e l'intera architettura politica su cui essa si era venuta costruendo. E ancora una volta, lo scontro ebbe un esito mortale. Nel momento in cui gli equilibri vennero modificandosi, con una parziale erosione del consenso popolare di cui Gaio Gracco godeva, i suoi avversari non esitarono, nei giorni di tumulto che seguirono la mancata rielezione di Gaio al tribunato della plebe per la terza volta consecutiva, a organizzarne l'assassinio. La sconfitta di Gaio appare legata anzitutto alla precarietà del blocco politico e sociale da lui costruito in funzione anti senatoria e fondato sull'alleanza con il ceto equestre. Il binomio nobiltà senatoria e cavalieri era destinato a prevalere sui possibili vantaggi a breve termine che questi ultimi avevano potuto ricavare dalla loro alleanza con Gracco. Nella sua politica si colgono comunque delle contraddizioni: infatti se Gaio da un lato favorisce una politica di risanamento sociale attraverso la fondazione di colonie e la distribuzione di terre e piccoli agricoltori, fa poi votare una legge che assicura la distribuzione di grano a prezzo politico ai cittadini romani meno abbienti. Le distribuzioni gratuite di grano garantivano l'esistenza di una plebe parassitaria e in contrasto con il progetto di ripopolamento delle campagne perseguito dallo stesso Gracco. Una radicale trasformazione del tradizionale assetto gerarchico di Roma in una grande democrazia avrebbe potuto essere veramente praticabile solo a condizione che una stabile alleanza tra l'assemblea popolare e il ceto degli equites emarginasse il ruolo del Senato e dell'aristocrazia politica che in esso aveva il suo riferimento stabile. Il dilatarsi anche spaziale dell'ambito di efficacia di un potere che restava invece sempre più pericolosamente ristretto nella sua base politica. È questo il problema che il giovane tribuno parrebbe avere affrontato nei suoi ultimi giorni e che si manifestava in concreto nella crescente pressione dei latini e anche del gruppo di italici più legati a Roma per acquisire la cittadinanza romana. Gaio aveva valutato tale fenomeno, e del resto in questa direzione lo spingeva anche l'esigenza di estendere benefici delle leggi agrarie a un numero di interessati più ampio che non i soliti cittadini romani. Di fatto la rapida acquisizione da parte di Roma del vasto impero mediterraneo, con gli enormi vantaggi economici che ne erano seguiti, aveva modificato profondamente il quadro delle 70 Livio, furono incerte se continuare a vivere come comunità indipendenti, o accettare la cittadinanza romana. Conseguenza necessaria e prevista di tale legislazione era la trasformazione delle numerose comunità italiche in municipi romani e conseguentemente la perdita, da parte loro, delle proprie istituzioni giuridiche e politiche. Si deve anche segnalare un problema importante che derivò da questo improvviso allargamento della cittadinanza e che assunse un elevato significato politico. Si tratta delle modalità in cui nuovi cittadini romani vennero inquadrati all'interno del sistema comiziale romano. Nei primi tempi questi nuovi cives vennero inquadrati in un numero molto limitato di tribù. Il principio per cui le riunioni comiziali si svolgevano in Roma, richiedeva spostamenti più o meno gravosi, con giorni di viaggio. Di fatto solo i più ricchi tra costoro e solo per quelle votazioni che avessero avuto maggior importanza parteciparono i comizi. Resta una grande incertezza nelle fonti antiche circa il numero preciso delle tribù in cui nuovi cittadini vennero inquadrati e se queste si aggiungessero alle antiche 35 tribù e intervenissero nel voto solo successivamente a esse o se i nuovi cives fossero stati inseriti in una parte delle antiche tribù. Nei decenni successivi ai provvedimenti di estensione della cittadinanza, intervenne un radicale mutamento linguistico nella penisola italica, con un'improvvisa quanto generalizzata obliterazione delle antiche lingue indigene a favore del latino. L'integrazione italica nella cittadinanza romana, non solo comportava una diversa centralità del latino; essa dovette anche coincidere con una più vasta assimilazione culturale che ebbe per conseguenza il deperimento delle tradizioni autoctone: anzitutto giuridiche. Era il frutto del mutato orientamento di gran parte degli italici di cui la richiesta di accedere alla civitas Romana resta la traccia più evidente e significativa. 2. Le guerre in Oriente e l’affermazione di un nuovo potere personale: Silla. Le traumatiche crisi nelle relazioni con gli antichi alleati italici e il conseguente isolamento di Roma trovarono, in quello stesso lasso di tempo, un pesante riscontro nello scenario dell'oriente ellenistico. Nel corso della guerra sociale e negli anni successivi, con la lotta ormai incancrenitasi tra la fazione aristocratica e quella popolare, un grave segnale di crisi si era avuto in quella parte dell'impero. Un potente sovrano ellenistico, Mitridate, re del Ponto, provocato da una spedizione contro di lui da parte di un modesto esercito locale, guidato da forze romane, dette ai piccoli staterelli indipendenti e alle numerose città e popolazioni assoggettate da Roma un segnale di sollevazione contro il suo dominio. Si trattava dell'invito a massacrare tutti i commercianti romani e italici che si erano sparsi in tutti territori d'oriente. La vasta adesione all'ordine di eccidio e le dimensioni di questo attestano l'intensità dell'odio antiromano nell'oriente ellenistico. Questa nuova e grande minaccia rischiava di scatenare una colossale "guerra di liberazione". Si pose allora il problema del comando di questa importante campagna militare, assegnato a Lucio Cornelio Silla, un brillante esponente del partito aristocratico. Delibere e leggi comiziali, tra loro incompatibili e contraddittorie, appaiono susseguirsi rapidamente, in gran disordine, coerentemente alla violenza e all'incertezza dello scontro. Non di meno un punto significativo in cui tali vicende normative conseguirono effetti permanenti fu la liberalizzazione, perseguita dal partito popolare, delle iscrizioni degli italici nelle tribù territoriali, rafforzandone il ruolo nei comizi cittadini. Contemporaneamente una continua serie di abusi e di violazioni contribuiva a erodere le istituzioni repubblicane. Colpisce l'uso politico di un insieme di processi: da un lato i procedimenti criminali de maiestate avviati da parte popolare per eliminare o indebolire eminenti personalità di parte aristocratica. Di contro la nobilitas riproponeva l'approvazione di un senatus consultum ultimum per spezzare la forza del partito popolare. A questi abusi si accompagnava il delitto politico. Questa guerra civile trovò un punto di massima evidenza durante la prolungata assenza da Roma di Silla per la conduzione della guerra in Asia contro Mitrade. Allora infatti partito popolare, guidato dal vecchio Mario e da Cinna, si accanì con violente persecuzioni e assassini nei confronti dei familiari di Silla. Tornato in Italia del suo esercito vittorioso, Silla, nell'82 a.C., non esiterà a marciare militarmente contro Roma, debellando l'armata levata dai capi popolari. 20 costoro, egli entrò in Roma imponendo un ordine legale fondato sul terrore. Nel feroce massacro, vi fu addirittura un'ulteriore innovazione: le famose "liste di proscrizione" con 71 cui una serie di capi popolari furono dichiarati "nemici della Repubblica": i loro beni furono espropriati, e la loro stessa vita lasciata alla mercé di ogni assassino legalizzato. La lex Valeria de Sulla dictatore, imposta ai comizi ormai asserviti, attribuì a Silla la pienezza dei poteri assoluti, in qualità di "dittatore per ricostruire la Repubblica e di scrivere le leggi". Il termine dictator ci riconduce alle origini stesse della Repubblica. Tuttavia il contenuto in termini di potere, l'indeterminatezza nella durata e l'estensione, la finalizzazione stessa mirante a una generale "restaurazione" dell'ordinamento politico evidenziano immediatamente la radicale diversità della costruzione sillana rispetto ai modelli del passato. Il grande capo aristocratico restò in carica circa due anni. Alla loro scadere, malgrado nessun ostacolo si opponesse alla sua permanenza al vertice di Roma per il restante periodo della sua vita, si ritirò a vita privata. In quei due anni egli aveva portato a termine una serie eccezionalmente alta di provvedimenti legislativi tesi a riplasmare integralmente gli assetti istituzionali e l'organizzazione della res publica. Realizzato il suo disegno, con la restaurazione dell'antica Repubblica, egli rimise i suoi poteri eccezionali che riteneva ormai non più necessari. 3. Le riforme sillane. Le linee di forza della sua azione riformatrice appaiono evidenti. Egli era un convinto esponente della cultura e dei valori dell'aristocrazia romana che si sostanziava in un sistema fortemente gerarchico, con il suo punto di riferimento e di forza nel Senato. Egli mirò a riaffermare l'antica centralità del Senato come sede primaria della politica. Colpisce la complessità delle correzioni approntate, di contro alla rapidità di esecuzione del progetto di ricostruzione. In effetti il rinnovato disegno istituzionale non poteva reggere senza un parallelo riequilibrio dell'intero assetto economico-sociale e dei rapporti di forze in esso affermatisi. L'obiettivo di ridare forza al Senato fu realizzato restituendo al ceto senatorio il controllo dell'intero sistema criminale romano. Vi sopperì la rinnovata composizione di tutte le quaestiones perpetuae, i cui giudici tornarono ad essere membri dell’ordo senatorius. Si mirò a riaffermare l'antico controllo senatorio sui processi legislativi: a tal fine operarono una serie di provvedimenti con cui si attuò una parziale rivitalizzazione dell’auctoritas patrum. È comunque indubbio che le riforme Sillane mirassero soprattutto a ridimensionare il peso dell'assemblea tributa, che sin dai Gracchi abbiamo visto essere la base costante dell'azione popolare. Quanto al Senato, Silla provvide anche a integrare le file dei senatori ormai dimezzate dalla lunga stagione di guerre e di persecuzioni interne, confermando l'organico progettato da Druso figlio. In tal modo egli poté inserirvi un numero significativo di esponenti del ceto equestre, assicurando una più stretta integrazione dei due gruppi sociali al vertice della Repubblica: la nobiltà senatoria e i cavalieri. Al fine di garantire la piena indipendenza del blocco di governo così rinvigorito dalle possibili manipolazioni dei singoli magistrati e in particolar modo dei censori egli ridusse ulteriormente l'autonomia di scelta parte di costoro, rafforzando gli automatismi selettivi. Egli ridisegnò il ruolo e i poteri dei tribuni della plebe; l'obiettivo era chiaro: si trattava di impedire che, per il futuro, potesse riproporsi l'azione eversiva di questi magistrati, evidenziatasi sin dall'età dei Gracchi e divenuta il fondamento del partito popolare. La svalutazione radicale della figura del tribuno modificava un punto centrale degli equilibri consolidatisi da secoli. Al fine di rendere meno ambita tale carica e, insieme, di contenerne fortemente il potenziale rivoluzionario, Silla stabilì la preventiva approvazione del Senato dei candidati all'elezione a tribuno. Inoltre coloro che avevano ricoperto questa magistratura non potevano rivestirne altre, comprese quelle cum imperio. Parallelamente, anche l'ambito di intervento e l'efficacia del tribunato furono ridotti notevolmente. In particolare, per quanto concerne il potere di veto (intercessio), esso poteva esplicarsi ormai solo a favore del singolo cittadino, cessando quindi di essere un fattore condizionante della politica romana. Sempre in linea antipopolare si colloca l'altro provvedimento assunto da Silla volta sopprimere le frumentationes a favore della plebe urbana. Silla mirava anche a impedire che altri potessero riprendere l'esempio da lui stesso dato, guidando l'esercito contro Roma e annullando con la forza le delibere dei suoi organi costituzionali. Egli ritenne di poter realizzare tale l'obiettivo, accentuando la distinzione tra governo civile e comando militare, ribadendo l'antica tradizione che escludeva l'esercizio 72 dell’imperium militiae entro i confini sacri di Roma. Solo che, ora, i confini civili di Roma furono estesi sino a comprendere tutta l'Italia peninsulare, rendendo illegale ogni attività di tipo militare in tale ambito territoriale. Questo difatti comportò la totale spoliazione dei consoli dell’imperium militiae. Il comando militare, da allora, restò di pertinenza esclusiva delle promagistrature. La vasta ambizione istituzionale del dittatore volta a "rifondare" effettivamente la res publica, aveva ridisegnato l'intera organizzazione del governo repubblicano. Egli formalizzò è meglio definì molti dei meccanismi e principi consuetudinari. Il cambiamento appare esemplare, ad esempio, nella nuova disciplina del cursus honorum introdotta da Silla: nessun mutamento radicale, solo regole antiche razionalizzate e meglio definite: dalla proibizione del rinnovo delle cariche magistratuali per più di seguito alla contestuale precisazione dei criteri d'età per l'ammissione alle varie cariche. È ad una maggiore efficacia dell'azione di governo che si mirò, riaffermando la competenza del Senato nell'assegnazione delle province ai promagistrati, elevando gli organici complessivi nel governo provinciale ed accrescendo il numero dei magistrati minori e dei pretori. Di uguale rilievo appare il tentativo di Silla di limitare le prevaricazioni perpetrate sul governo provinciale, soprattutto quelle poste in essere dal ceto equestre e dai pubblicani. Con la violenta persecuzione dei suoi avversari egli incise profondamente sulla composizione dell'aristocrazia di governo. L'espropriazione di grandi patrimoni fondiari non ridisegnò solo il panorama delle ricchezze romano-italiche, ma permise anche l'accumulazione di un vasto demanio territoriale redistribuito ai suoi veterani. Un altro settore infine in cui il suo intervento avrebbe lasciato una traccia profonda è il processo criminale. Anche qui l'obiettivo era anzitutto politico, volendo sopprimere il ruolo delle assemblee popolari e ridurre i margini di arbitrio dei singoli magistrati in particolar modo dei tribuni. Le riforme di Silla infatti reso possibile la rapide tecnicizzazione di questo delicato settore del diritto: ma prima di esaminare tale aspetto conviene tracciare la storia delle precedenti forme di persecuzione penale realizzate dai romani. 4. L'evoluzione del diritto e del processo criminale sino alle grandi riforme di fine II secolo. Abbiamo potuto constatare il ruolo relativamente circoscritto che l'ordinamento romano sembra assolvere in questo settore. Limitata apre infatti la tipologia dei crimina perseguiti direttamente dalla città di fronte all'estensione di altre forme di repressione che richiedevano la reazione diretta e personale degli offesi. Tuttavia l'intervento diretto della città si ampliò gradualmente, ciò che comportò un maggior coinvolgimento dei magistrati cum imperio, e in particolare dei pretori aventi generali funzioni giusdicenti, nei procedimenti relativi ai vari crimini. Alla loro competenza, si aggiunse la funzione repressiva dei tribuni della plebe, anch'essa destinata ad ampliarsi progressivamente. In effetti l'originaria facoltà di irrogare sanzioni a chi avesse attentato alla loro persona sacrosanta, era stata estesa a perseguire molti altri comportamenti illeciti dei cittadini e dei magistrati. Del resto dall'originaria sfera di difesa della loro persona si era venuta sviluppando quella più ampia azione volta a tutelare in generale la maiestas populi Romani. Inoltre una serie di reati minori fu progressivamente sottoposta alla competenza dei questori e degli edili. Mentre poi la più immediata repressione per reati colti in flagranza o nei riguardi di figure di minor conto era stata affidata ai poteri "di polizia" dei tresviri capitales. Tali magistrati, istituiti per combattere le forme di illegalità dilaganti in Roma tra il III e il II secolo a.C., erano originariamente nominati dal pretore divenendo poi elettivi. Essi operavano direttamente irrogando sanzioni minori come la fustigazione o l'incarceramento, mentre per i reati più gravi, in genere, la loro funzione era quella di istruire il procedimento criminale. Nel corso del tempo si era tuttavia evidenziata una seria debolezza di questo sistema. Com'è noto, sin dalla prima età repubblicana, i giudizi criminali che comportavano la condanna a morte dell'imputato erano stati sottratti alla competenza esclusiva dei magistrati mediante la provocatio ad populum. In tal modo i magistrati repubblicani finivano con lo svolgere solo una funzione istruttoria, mentre di fatto la funzione giudicante passava l'assemblea popolare. Suprema garanzia di libertà, questo intervento popolare. Il diritto di provocatio e il conseguente controllo dei comizi centuriati appare di gran lunga preminente in ordine ai giudizi de capite, estendendosi tuttavia nel corso del tempo anche ai sempre 75 repubblica aristocratica e con la separazione tra potere militare e civile, avevano saputo o potuto dare una risposta adeguata al problema di fondo che stava erodendo dalle fondamenta l'antico edificio repubblicano. Esso era connesso alla politica imperialistica romana. I fattori della crisi restavano dunque operanti. In primo piano appare il perverso intreccio tra i grandi processi di arricchimento, soprattutto dei suoi strati dirigenti, e l'accentuato sfruttamento del mondo provinciale. Ma in ciò convergevano anche i rapidi e massicci fenomeni di inurbamento della plebe rurale, il mutamento delle strutture economiche dell'agricoltura italica, il rapido professionalizzati dell'esercito. La guerra e la conquista era da sempre stata il più colossale investimento economico, prima che politico, della società romana. Era l'intero edificio cittadino a essersi costruito in funzione della guerra: questo era il punto. La novità consisteva nel fatto che un ruolo non meno rilevante fosse stato assunto dal nuovo gruppo degli equites. Sin dall'età dei Gracchi, come si ricorderà, questo gruppo sociale era parso determinante e l'alleanza con esso aveva costituito la chiave di volta dell'aggressiva strategia politica di Gaio. Ma proprio la sconfitta del suo disegno ci aiuta a comprendere la convergenza di fondo tra i due gruppi al vertice della società romana. Per entrambi la guerra era infatti la grande occasione: di carriere per la nobiltà senatoria, di affari e di ricchezze per i cavalieri. Per questo già nel III secolo a.C., il loro ruolo appare indissolubilmente saldarsi all'avventura imperialistica e alla conquista militare romana. E a questi stessi interessi non fu estraneo alla stessa logica del partito popolare. Infatti sarà sotto un impulso popolare, di concerto con gli interessi dei cavalieri, che si sarebbe riacutizzata la guerra contro Giugurta, con l'attribuzione del comando Mario, malgrado le ragionevoli esitazioni del Senato. Le vicende successive e lo stesso esempio di Silla avevano poi reso evidente la vera conseguenza dei fenomeni verificatesi nell’età precedente: la centralità dell'esercito e la ricorrente tendenza dei suoi comandanti a sottrarsi al controllo ordinario degli organi della res publica. Capitolo XII L'età delle guerre civili 1. La perdita di centralità del Senato e i nuovi poteri personali. Vi era un altro elemento che contribuì a riaccendere la situazione di crisi di guerra civile. Si tratta della progressiva perdita di prestigio del Senato. Abbiamo visto come, proprio nell'ultima grande avventura politico-militare di Roma, con la conquista d’Oriente, fosse rifulsa l'efficacia della sua sperimentata regia, dove esperienza, capacità di tessere strategie di lungo periodo a incisività delle decisioni dettero i loro frutti migliori. Quello stesso senato che, nel giorno della sconfitta, dopo la catastrofe di Canne, quando i destini di Roma ormai sembravano perduti, aveva saputo guidare con non dimenticata energia la difesa la riscossa romana. Ma era passato ormai il tempo in cui lo straniero poteva pensare, di fronte a questo augusto consesso, di trovarsi dinanzi a una "assemblea dei re", tanta era l'autorità che circondava il Senato. Era a tutti nota l'invettiva di Giugurta, che, allontanandosi da Roma, dopo avervi spadroneggiato, esclamò come, in essa, ogni cosa fosse in vendita: anzitutto i suoi senatori. La perdita di autorità di tale consesso era ormai palese e si evidenziava proprio quando politiche giuste da esso perseguite venivano svalutate nell'opinione pubblica per i sospetti di corruzione e di debolezza diffusi. In verità il Senato era divenuto sempre più parte del gioco politico, perdendo l'antica funzione di centro di controllo dell'intero sistema politico. Questo declino ebbe conferma negli anni successivi a Silla. Ormai le divergenze si erano trasformate nello scontro di due fazioni: il Senato da un lato e il partito popolare dall'altro. Alla tradizionale dicotomia tra il sistema ordinario delle magistrature cum imperio e delle promagistrature associate al governo delle province e ormai titolari esclusive degli effettivi poteri militari, si aggiunse un ulteriore meccanismo. Ci riferiamo l'esigenza sempre più frequente di conferire, per scopi eccezionali, poteri magistratuali sganciati dal meccanismo della prorogatio imperii. E quanto timore un tipo di poteri del genere suscitasse nel ceto dirigente romano lo prova l'ostilità del Senato a conferire a Pompeo, antico collaboratore di Silla, i poteri straordinari per combattere il crescente pericolo della pirateria nel Mediterraneo orientale e nell'Adriatico che minacciava di interrompere l'intero sistema di comunicazioni marittime da cui dipendeva lo stesso 76 approvvigionamento di Roma. Fu ancora una volta per la pressione di parte popolare di essi furono conferiti a Pompeo mediante una lex Gabinia de piratis persequendis della 67 a.C. Anche in questo caso, la forma e la sostanza dell'antica costituzione si modificarono vistosamente, giacché questi poteri erano stati attribuiti a un privato cittadino, Pompeo, e non, come sarebbe stato nella prassi, a un magistrato cum imperio allo scadere della carica ordinaria. Ed erano poteri, in sé eccezionali e fuori dell'usuale: l'esigenza di non dar tregua a un avversario estremamente mobile come i pirati rendeva inevitabile che questo imperium non fosse circoscritto da limiti territoriali, e neppure limitato nel tempo. Tale imperium, mettendo il titolare nel pieno controllo di più province territoriali e dell'intera flotta, comportava di fatto per Pompeo una signoria pressoché assoluta su tutta la parte orientale dell'impero, senza alcun limite imposto da colleghi e controlli esterni. Avvalendosi egualmente del favore popolare Pompeo poté strappare, senza veri motivi, a Lucullo il comando della guerra in oriente, ingigantendo il suo già eccezionale potere personale. Al termine del suo comando in oriente, lo stesso Pompeo sarebbe scontrato con la pervicace resistenza del Senato ad approvare il suo progetto di sistemazione delle grandi conquiste in oriente, con la creazione di nuove province. 2. Il primo triumvirato. L'irresistibile sviluppo di questi poteri personali, con la sostanziale erosione della costituzione repubblicana, trovò drammatica evidenza quando un accordo privato esautorò il ruolo del Senato, affermando nuovi e complessivi equilibri sulla scena politica romana al di fuori e sopra di esso. I protagonisti furono tre eminenti personalità: da un lato due antichi e importanti seguaci di Silla, Marco Licinio Crasso, potente e ricchissimo esponente del ceto dei cavalieri, e Pompeo, il grande generale sillano all'apice del prestigio, dall'altro Gaio Giulio Cesare. Quest'ultimo, pur appartenente alla migliore aristocrazia romana, era legato alla tradizione di parte popolare anche per la stretta parentela della moglie con il grande generale Mario. Un matrimonio che aveva un notevole significato politico, se si considera come Cesare, con coraggio, si fosse rifiutato di scioglierlo malgrado le dure e pericolose pressioni in tal senso da parte di Silla all'epoca della sua dittatura. Cesare aveva già dato prova di quanto fosse forte la sua influenza sui comizi facendosi eleggere alla prestigiosa carica di pontifex maximus. Egli si riprometteva di conseguire l'appoggio politico e finanziario di Crasso, indispensabile per completare la carriera politica con il consolato e tentare poi, con i comandi provinciali, di acquisire quella rilevanza e quella forza militare di cui invece era già insigne Pompeo. Diversamente, Pompeo era stato indotto ad aderire a questo accordo dall'intendimento di ottenere, grazie ai comizi controllati da Cesare, l'approvazione del suo progetto di sistemazione delle province d’Asia che il Senato era restio a concedergli. Ma soprattutto egli mirava a rompere una situazione di progressivo isolamento. L'obiettivo di Crasso era invece quello di rinverdire il suo prestigio militare, ormai datato, con una nuova guerra contro i Parti. L'accordo fra i tre personaggi giovava dunque a tutti, seppure in forme e secondo progetti diversi, rendendo palese la marginalità del Senato. Esso fu infatti semplicemente scavalcato grazie al voto dei comizi. In tal modo questa svolta, intervenuta nel 60 a.C., rimetteva in discussione l'impianto di base della restaurazione effettuata da Silla, rendendo, non solo il Senato, ma gli stessi equilibri repubblicani una cosa del passato. Il fatto che questo stesso triumvirato non fosse altro che un accordo politico privato, sottolineava ulteriormente la debolezza di un'architettura ormai incapace di reggersi sulle sue proprie fondamenta. E del resto, quanto il "diritto" si piegasse ormai al "fatto", lo mostra l'enorme rilevanza assunta dal pubblico rinnovo dell'accordo politico tra i tre, intervenuto quattro anni dopo a Lucca. Quanto all'azione politica di Cesare, negli anni in cui resse l'accordo con Pompeo (si ricorda la precoce scomparsa di Crasso, perito nel corso della sua sfortunata spedizione contro i Parti) e, allorché maturò invece la crisi tra i due, sino allo scontro finale per il potere, sono da segnalare alcuni aspetti che ne connotano l'intima adesione alla tradizione popolare. Da una parte appaiono emblematiche le proposte di legge agraria da lui ispirate e contro cui si schiererà, a difesa di interessi oligarchici, Cicerone. Esse miravano a una nuova distribuzione di ager publicus sia in Italia che in varie province e a una nuova disciplina delle terre restate pubbliche, riprendendo un punto centrale del 77 programma di parte popolare sin dall'età dei Gracchi. Attenzione ai generali interessi di buon governo traspare poi dalla sua lex Iulia de pecuniis repetundis, con cui si riorganizzava l'intera disciplina di questo reato ed il relativo processo con tale efficacia da giustificarne la successiva durevole fortuna. Durante gli anni di assenza da Roma, per Cesare sarà fondamentale l'azione in suo appoggio dei tribuni della plebe. Sin dal primo triumvirato del resto la sua alleanza con lo spregiudicato ed energico Clodio, un patrizio fattosi plebeo per poter ricoprire tale carica, era stata un elemento importante della sua politica. Il tribuno infatti aveva solidamente tutelato gli interessi di Cesare, negli anni della lontananza di questi, andato a governare, dopo il suo consolato, la Gallia Cisalpina. Anche dopo la scomparsa violenta di Clodio, quando i rapporti con Pompeo vennero a incrinarsi, fu assolutamente indispensabile per Cesare avvalersi dell'azione di altri tribuni contro le innumerevoli iniziative legislative avviate in Roma dai suoi nemici volte a indebolirne la posizione. 3. L'ascesa di Cesare. Occorre soffermarci a considerare le ragioni profonde che portarono alla totale vittoria di Cesare tra il 47 e il 45 a.C. Richiameremo alcuni fattori: anzitutto la debolezza delle strutture politiche cittadine rispetto agli immani compiti che si ponevano per il governo e il controllo di un potere esercitato ormai, direttamente o indirettamente, su tutto il mondo civilizzato. La stessa concessione della cittadinanza romana agli italici aveva finito col rendere più evidente l'inadeguatezza della forma di governo della res publica. Allora anche l'ultima parvenza di un assetto fondato sullo schema della città-Stato era stata travolta dalla trasformazione di una molteplicità di civitates, sino ad allora stati indipendenti, in un’unica globale civitas. Non solo l'intero sistema costituzionale romano, dalle magistrature ai comizi e, ovviamente, al Senato, ma anche la struttura militare, malgrado tutte le riforme intercorse, ancora si identificavano ampiamente con la cittadinanza romana. Proprio qui, all'improvviso era venuta meno quella rigida gerarchia fra alleati italici e romani consolidata nel corso di secoli. Né poi sarebbe stato possibile pensare di conservare gli stessi principi fondanti della libertas repubblicana. Perché l'elemento democratico presente in Roma, come in molte altre città dell’antichità classica, e che le differenziava dalle forme autoritarie delle monarchie ellenistiche e orientali, erano proprio quei comizi che presupponevano non già una delega ad altri organismi intermedi e rappresentativi, ma la diretta partecipazione di tutto il popolo alle decisioni e alle scelte della città. Che senso aveva avuto l'ampliamento delle assemblee cittadine a uomini che vivevano a giorni di distanza da Roma e come avrebbero essi potuto parteciparvi in modo adeguato senza quella continua partecipazione alla vita della città che era ancora la base della politica romana? È vero che l'antichità conosceva anche altri modelli di organizzazione politica, assai più ampi e capaci di comprendere territori e popoli diversi: ma è alle monarchie e agli imperi orientali che ci si doveva rivolgere, dove la società era assoggettata alla autocratica volontà del sovrano. D'altra parte proprio questa crisi di legittimità delle istituzioni della città repubblicana era particolarmente difficile a comprendersi e pressoché impossibile da risanarsi: ciò che contribuì alle molteplici incertezze e ondeggiamenti di una lotta politica ormai senza quartiere. Vi era poi il problema del controllo politico della forza militare. Non avendo approntato un meccanismo istituzionale, di tipo burocratico, che saldasse direttamente il comando militare al governo civile, non solo era possibile, ma anche molto probabile che quest'ultimo, alla fine, cadesse alla mercé del primo. Come effettivamente avvenne con il secondo triumvirato. Vinse alla fine non solo il capo di eserciti più bravo nell'arte della guerra ma anche e soprattutto colui che aveva più chiaro, davanti a sé l'obiettivo da perseguire, gli strumenti per realizzarlo e il prezzo da pagare. La situazione precipitò dopo una prolungata e velenosa controversia, avviatasi sin da 52 a.C. e formulata in termini giuridici. Da una parte infatti il Senato voleva disarmare Cesare, tributario di un'immensa popolarità per gli straordinari successi conseguiti con la conquista della Gallia Transalpina, forte della fedeltà di un esercito ben collaudato. Il progetto dei suoi avversari era quello di costringerlo a presentare personalmente la sua candidatura al consolato come privato cittadino (il che in effetti era la prassi ordinaria). Dall'altra parte il generale chiedeva di poterlo fare non di persona, restando ancora la testa del suo esercito in Gallia, per rientrare in 80 visto come "l'opera di un monarca geniale". Un monarca rivoluzionario che non esitava a riprendere le antiche ispirazioni a un'accentuata razionalizzazione delle forme giuridiche, con un compiuto sistema normativo. E non esitava a cancellare la centralità delle forme casistiche adottate sino ad allora dalla scienza giuridica romana, a favore dell'opposto principio della codificazione e della conseguente formalizzazione e unificazione della sfera normativa. 5. L'eredità di Cesare. L'immenso potere, unito al prestigio e all'enorme popolarità presso la gente minuta, oltre che tra i suoi soldati e i suoi veterani, era venuto sfumandosi, nella figura del dittatore, in un'aura quasi religiosa. Si accentuava quella latenza monarchica presente nei suoi poteri eccezionali e accentuata dalla sua azione di governo, così incisiva e rapida, ma perciò stesso autoritaria. Il complotto contro di lui maturò proprio in questo clima di incertezza. Le Idi di marzo del 44 a.C., quando Cesare venne pugnalato in Senato da un gruppo di congiurati appartenenti ai suoi ranghi, tra cui il nobile Bruto, potrebbero anche far sospettare un certo isolamento di Cesare negli ultimi mesi di governo. Le accelerazioni da lui date erano forse state eccessive e i segnali verso la svolta istituzionale in senso monarchico troppo netti. Gli stessi imponenti preparativi per una grande spedizione in oriente, contro i tradizionali nemici di Roma, i Parti, forse accentuarono tali preoccupazioni. Essi infatti potevano far insorgere il timore che la strategia del dittatore comportasse un generale spostamento verso Oriente degli equilibri politici dell'impero e del suo sistema di governo. Il suo love affair con l'erede della dinastia dei faraoni, Cleopatra, aveva cessato di essere cosa privata. La presenza di Cleopatra in Roma e quella del figlio nato dalla loro relazione, Cesarione, erano tutti elementi che, uniti alla concentrazione unica di potere nelle sue mani, avvicinavano la sua figura a quella di un sovrano orientale. Di qui il serpeggiare di dissensi destinati a sfociare in un complotto. La fragilità del progetto politico alla base della congiura antica italiana la si può cogliere nell'incertezza di condotta dei congiurati, una volta avvenuta uccisione di Cesare, e nella mancanza di una lucida valutazione delle forze reali che l'ucciso era venuto coagulando intorno al progetto politico di rinnovamento della res publica. Richiamarsi genericamente all'antica libertas repubblicana e ai suoi valori andava bene sul piano della propaganda e come manifesto politico. Ma ci si poteva limitare a ciò dopo 50 anni di lotte civili? Quale sarebbe stato il consenso reale di un programma che rischiava di apparire solo velleitario e nostalgico? La precaria ripresa dell'aristocrazia senatoria poteva durare solo sino al momento in cui i successori di Cesare non fossero riusciti a formare un fronte compatto: si trattò di uno spazio di tempo conclusosi con il definitivo accordo tra Antonio e Ottaviano, nell'estate del 43 a.C. L’uccisione di Cesare, lungi dal riequilibrare i rapporti di forza e recuperare una centralità delle antiche istituzioni repubblicane rispetto al ruolo che eserciti e comandanti militari avevano avuto, confermò l'irrimediabile debolezza politica delle istituzioni repubblicane cui si rifacevano i congiurati. Praticamente senza soluzione di continuità si imposero al centro della scena politica gli eredi e i continuatori di Cesare. Ormai ineliminabile, dalla scena politica romana, era infatti, da un lato, la presenza di quei veri e propri" partiti" che sopravvivevano alle avventure personali e ai ruoli individuali, dall'altro l'utilizzazione dell'elemento militare nella definizione dei rapporti di forza anche politici. Dopo che i capi del partito trovarono un accordo sulla spartizione dell'eredità politica cesariana, una nuova forma di governo venne fatta votare nei comizi a sancire la irreversibile rottura con il passato: il secondo triumvirato. Esso, votato con una lex Titia de triumviris rei publicae costituende consulari potestate creandis, del 43 a.C., attribuiva ampi poteri di governo, anche militare con l’imperium proconsolare, e costituenti, al generale di Cesare, Marco Antonio, al giovane pronipote dello stesso Cesare e da lui adottato per testamento, Gaio Ottavio, nonché un capo popolare, Marco Lepido. La carica era votata per un quinquennio e sarebbe scaduta alla fine di dicembre del 38 a.C. L’esplicito richiamo all'eredità politica di Cesare, poi, comportava il recupero della sua linea intrinsecamente eversiva rispetto ai valori e alla tradizione repubblicana. Dopodiché ebbe inizio una nuova sanguinosa stagione di vendette, avviata con uno strumento già sperimentato da Silla: le liste di proscrizione. Tutti i congiurati, oltre a membri della nobiltà senatoria e del ceto equestre furono inseriti in 81 esse. In quel frangente fu ucciso anche Marco Tullio Cicerone, estraneo alla congiura, ma colpevole di aver pronunciato in Senato le feroci invettive contro Antonio. Nel 42 a.C., la lunga strada della vendetta ebbe conclusione a Filippi, quando le legioni di Ottavio e di Antonio debellarono l’esercito di Cassio e di Bruto, segnando il definitivo tramonto della tradizione repubblicana. Ma non segnò la fine delle guerre civili: mancava ancora l'ultimo atto; ma prima di giungere ad Azio, con la sconfitta e la morte di Antonio e la definitiva ascesa di Ottaviano al potere imperiale, dobbiamo esplorare le complesse trame con cui lo stesso Ottaviano venne avviando la nuova costruzione destinata a identificarsi con i destini Roma. 6. Lo scontro tra Ottaviano e Antonio. Votato triumviro con poteri eccezionali, Ottaviano condivideva con i suoi due soci una signoria sovrana, ampia ed efficace, quanto indeterminata nel contenuto. Essa era tale da assicurargli sia il controllo dell'elemento militare che del governo civile, essendo costituito l'unico limite dalla presenza dei colleghi. Si addivenne così a una divisione di competenze su base essenzialmente territoriale. Si attribuì pertanto il governo d'oriente ad Antonio, quello dell'Italia, e delle province occidentali a Ottaviano, mentre Lepido era assegnata l'Africa. Era una scelta che evidenziava l'identificazione di Antonio con i progetti politici di Cesare, tutti incentrati sul consolidamento delle frontiere orientali dell'impero e sulla grande spedizione militare progettata contro i Parti. Ottaviano sembrava invece ispirarsi alla convinzione che il nucleo centrale del potere fosse ancora situato in Italia, compresa la Cisalpina: la grande riserva militare dello stesso Cesare. Malgrado la vastità dell'impero da governare, già pochissimo tempo dopo questa grande suddivisione di potere iniziarono serie frizioni tra le due figure più eminenti: Antonio e Ottaviano. Il precario equilibrio tuttavia continuò, rendendo possibile, nel 37 a.C., il rinnovo della triumvirato per altri cinque anni, anche se, subito dopo, si addivenne alla definitiva emarginazione politica di Lepido, che conservò solo la carica onorifica di pontefice massimo. Era pressoché inevitabile che si avviasse il diretto confronto tra gli altri due personaggi, restati soli al vertice dell'intero apparato politico. A indebolire la posizione di Antonio giocava il sostanziale insuccesso nella campagna contro i Parti; infatti l'esito negativo aveva ferito l'orgoglio romano, contribuendo anche a scoprire la forza militare di Antonio. Ma qui venivano a giocare altri fattori. In particolare il dubbio che Antonio fosse intenzionato a spostare in oriente il cuore politico dell'impero era avvalorato, dopo il suo divorzio dalla sorella di Ottaviano, Ottavia, nel 32 a.C., dal suo matrimonio con Cleopatra, conservata come regina dell'Egitto. Non poteva non turbare l'opinione pubblica romana l’insistita presenza della regina, insieme al figlio Cesarione, da lei avuto da Cesare. Ad aggravare la posizione di Antonio intervenne poi, la pur illegittima pubblicazione del suo testamento da parte di Ottaviano. In esso si confermava infatti il sistema dei piccoli Stati orientali dipendenti da Roma, su cui venivano posti come sovrani locali i figli che Cleopatra aveva avuto, prima la Cesare e poi da lui; tutto ciò accentuava la sua fisionomia come monarca orientale, così estranea alla cultura politica romana. Nel frattempo Ottaviano, con l'aiuto del suo più grande generale, Marco Agrippa, aveva rafforzato la sua posizione sconfiggendo, nel 36 a.C. il figlio di Pompeo, Sesto. Questi aveva avviato da tempo una guerra sul mare contro i nemici del padre, bloccando con la sua agile flotta i commerci mediterranei e minacciando gli stessi porti italici. Contestualmente Ottaviano si era fatto attribuire dai comizi il contenuto della tribunicia potestas, senza peraltro assumerne la carica. Sempre più egli era intervenuto proponendo un'immagine di sé come difensore dell'antica centralità di Roma e dell'Italia rispetto alle tendenze "orientalizzanti" di Antonio. Erano ormai maturi tempi per lo scontro finale. Ed egli seppe bene scegliere il momento e la scenografia. Gli storici oggi non danno giustizia ad Antonio rappresentandolo come un soldataccio rozzo, infatuato della bella Cleopatra; in verità Antonio era un bravo generale, un competente magistrato, anche se ambizioso politico. Egli non fece parte della fazione estremista dei cesariani e mostrò sempre, anche nei riguardi d'Ottaviano, lealtà e rispetto degli impegni assunti. Mentre Ottaviano, appena poté, ai suoi impegni venne meno. Per non parlare poi della sua inabilità nel campo militare. L'unica vera qualità di Ottaviano era sicuramente l’abilità nella lotta per il potere. Egli possedeva infatti una superiore capacità politica; non fece guerre in prima persona, ma scelse buoni 82 generali e grandi ministri e con questa superiorità giunse allo scontro finale con Antonio. Di qui la sua costante e paziente ricerca di ogni occasione per accrescere il suo prestigio e la sua popolarità. Di qui il suo atteggiamento cauto e moderato nei riguardi della vecchia aristocrazia senatoria e lo sbandierato ruolo di difensore degli interessi italici in funzione polemica contro Antonio. I suoi poteri, al momento dello scontro, non sono tutti egualmente evidenti: in particolare la sua posizione di triumviro era assicurata, oltre che dal potere tribunizio di cui si è detto, dal consolato assunto per quell'anno, dal giuramento di fedeltà dell'Italia e delle province occidentali per la difesa dell'unità e della sovranità dell'impero di Roma. Forte di ciò, alla fine del 32, Ottaviano entrerà in guerra, non già con il romano Marco Antonio, ma con la regina d'Egitto, Cleopatra. Antonio ne era coinvolto in quanto personalmente alleato di Cleopatra, ma scendendo a difesa di una dichiarata nemica di Roma, diveniva lui stesso hostis rei publicae. Antonio giungerà allo scontro con Ottaviano nelle condizioni peggiori: incertezza e demoralizzazione infatti serpeggiavano nel suo esercito e tra numerosi senatori e amici politici che lo avevano raggiunto in oriente, per la presenza ormai dominante della "straniera Cleopatra". Attirato con la sua flotta in posizione sfavorevole da Agrippa, ad Azio, nel 31 a.C., egli quasi non combattè, preferendo allontanarsi per raggiungere Cleopatra che si era allontanata con la sua flotta. Riparati in Egitto, ad Alessandria, ormai senza difesa, nel 30 a.C., Antonio Cleopatra si uccisero al sopravvenire del vincitore. Parte IV: L’impero universale. Capitolo XIII Augusto e la costruzione di un nuovo modello politico-istituzionale 1. La sperimentazione di una forma politica. Tornato a Roma padrone assoluto dell'impero finalmente riunificato, Ottaviano doveva provvedere a dare veste formale al nuovo sistema di potere destinato ad assicurare il suo ruolo personale. In un primo momento, negli anni successivi alla riunificazione di tutto il governo nelle sue mani, si protrasse la situazione precedente. Esso si concluse nel 27 a.C. dopo che nell'anno precedente si era fatto rieleggere alla carica di console lo stesso Ottaviano con il suo fidatissimo Agrippa. Immediatamente di seguito egli assunse la funzione di princeps del Senato al quale egli apparve restituire prestigio e ruoli. Nel gennaio di quell'anno, in due solenni sedute del Senato, Ottaviano annunciò che finalmente l'opera di restaurazione della res publica era stata completata. Questa sapiente scenografia sarà fortemente sottolineata dallo stesso Augusto, nel suo testamento politico: si tratta delle Res gestae, la memoria ufficiale e il bilancio del suo governo. Ivi dunque scriveva di "avere sciolto la res publica dal suo potere e di averla restituita alla volontà del Senato del popolo romano". È però vero che, anche dopo questa "restituzione", egli restava titolare del consolato, princeps senatus e investito dei poteri propri della tribunicia potestas. Ma soprattutto, in riconoscimento di quanto da lui fatto, dal senato gli fu votato un insieme di onori straordinari e di nuovi poteri. È allora che prese forma la progressiva innovazione dell'organizzazione istituzionale romana, con una combinazione delle antiche forme repubblicane e del suo potere personale basato soprattutto sul controllo della componente militare. Di qui l'importanza del conferimento a suo favore di un imperium, con il diretto comando di tutte le province non "pacificate": in pratica quelle strategicamente rilevanti, dove erano stanziate le legioni. Si trattava di un potere incisivo perché privo di scadenze e non circoscritto ad un ambito territoriale. Era qualificato come maius, sancendo una superiorità gerarchica del suo titolare nei riguardi di tutti i magistrati e gli altri titolari di imperium. È incerto se esso avesse, sin dall'inizio, quel carattere illimitato che si definirà in seguito. Questa sua posizione fu integrata anche da un diritto di intervento per salvaguardare in generale ogni interesse pubblico, in seguito indicato da Pino come omnium rerum potestas. Successivamente al 27 a.C., Ottaviano non era più solo il princeps senatus, essendo ormai indicato come il princeps universorum: di tutti. Tale eminenza venne poi ulteriormente sottolineata dalla sua nuova designazione come Augustus, evocativa di un'autorità vaga. Non si deve poi dimenticare che egli in base all'adozione testamentaria di Cesare, aveva già assunto il praenomen di questi: Imperator, a significare la sua posizione eminente nella res publica e il 85 situazione emersa dopo il 27 o il 23 a.C. poteva essere ben interpretata come la signoria di un monarca. Oggi non è però possibile fermarsi a un'interpretazione del genere: infatti la costruzione di Augusto e la fisionomia che il potere supremo venne assumendo in capo ai suoi successori non sono riconducibili a una non esplicita, ma sostanziale forma monarchica. Ove a ciò riducessimo il principato augusteo, non solo giungeremmo a darne un quadro falsato, svalutando l'intelligenza politica e la sapienza di Ottaviano, il lungo percorso da lui effettuato e il progetto realizzato nella sua trasformazione in Imperator Caesar Augustus. Ma non saremmo più in grado di comprendere la grande complessità di una macchina istituzionale, le tensioni cui dovette far fronte e le dimensioni della sua successiva evoluzione, nel lungo arco di tempo in cui essa sopravviverà al suo autore. Mentre molti hanno interpretato il principato come una poco mascherata forma di monarchia militare, altri insistendo maggiormente sulla formale conservazione delle istituzioni e magistrature repubblicane e sul restaurato ruolo del Senato, lo hanno considerato una forma di diarchia tra il vecchio sistema repubblicano e il superiore "protettorato del principe". Bisogna effettuare una considerazione delle strutture sociali che caratterizzarono questa età. Si impone allora alla nostra visuale l’autonoma e persistente forza dell'aristocrazia senatoria: al vertice non solo delle strutture politiche, ma di un intero sistema economico fondato ancora tanto su quella ricchezza fondiaria, di cui essa aveva una parte consistente. Ma anche per le sue profonde tradizioni, da sempre associate anzitutto al governo del vasto apparato militare romano, ora direttamente sottoposto al superiore controllo di Augusto. Ma non radicalmente trasformato. La stessa fisionomia del princeps non si differenziava da questo ceto: egli era il più ricco, il titolare di un patrimonio personale immenso, ma non diverso da quello di molti altri membri dell'antica nobilitas senatoria. Il principe era titolare di un potere assolutamente sovrastante che metteva alla sua mercé qualsiasi cittadino, pur di rango elevato o appartenente al ceto senatorio, come qualsiasi magistrato in carica. E tuttavia a questo potere così espansivo e potenzialmente assoluto, reali anche se informali limiti erano posti dalla persistenza dei vari blocchi sociali e in particolare dalla struttura stessa della società imperiale. La sua azione politica non mirava certo a intaccare il fondamento di quel mondo che egli intendeva controllare e consolidare, non distruggere. Per questo essa doveva salvaguardare anche l'antica gerarchia nobiliare che di tali equilibri era insieme frutto e garanzia: come del resto il suo intervento sulla compagine senatoria mostra in modo chiaro. Ed il rapporto tra il suo nuovo ruolo e questi equilibri potrebbe essere bene evidenziato con il termine auctoritas: questa non è solo e non è tanto la nostra "autorevolezza", "prestigio", ma un vocabolo con una valenza tecnico-giuridica ampia e forte. Esso ricorre in molti aspetti della vita del diritto, sia privato che pubblico, esprimendo un compito e un potere di indirizzo, di sorveglianza e di integrazione da parte di un soggetto nei confronti dell'azione e dei poteri di un altro. Esso è impiegato anche a proposito dei compiti del tutore di un impubere o di una donna. Questi infatti possono effettuare degli atti giuridici vincolanti di un certo rilievo solo se interviene a rafforzarli l’auctoritas del tutore. La superiore volontà del princeps sembra egualmente necessaria a completare e perfezionare i processi decisionali propri degli altri organi di governo. Per questo il titolare di questa superiore auctoritas su tutta la res publica non ne è il "sovrano": ma il "protettore" e il supremo garante. In questo quadro il senato e le vecchie magistrature repubblicane svolgono ancora funzioni di governo, anche se, ormai non esclusive ed esaustive dell'immane macchinario politico. Vi è un ultimo aspetto di cui si deve tener conto ed è la presenza di quel blocco politico che fu alla base della sua conquista del potere e che, nel suo nucleo centrale, restò al centro del sistema poi realizzato. Ci riferiamo anzitutto all'importantissima figura di Livia, la sposa del princeps e incarnazione dell'antica e idealizzata immagine della matrona romana, ma anche donna di enorme influenza e di grande capacità. E poi ai grandi collaboratori del principe: Agrippa, generale e uomo di governo, designato da Augusto come suo successore, Mecenate, l'autore di quella preziosa politica culturale così importante nella scenografia del principato. Tutto ciò costituiva qualcosa di molto simile al gruppo dirigente di un partito politico, con la sua tradizione e i suoi valori, e con un capo assolutamente indiscusso. Del resto, che di un partito si 86 trattasse, lo attesta anche la presenza, in Senato, di un blocco di amici e seguaci politici del principe, operante secondo le logiche di una forza politica. Per concludere, ci sembra che ci si possa rifare alla chiave interpretativa del nuovo governo, diviso tra il principe e antiche istituzioni repubblicane, proposta da Mommsen; questi tendeva a interpretare il potere del principe in rapporto a una anomala magistratura. Tutto era, il nuovo princeps, fuorché un "magistrato", rappresentando piuttosto un soggetto politico nuovo in un quadro costruito su antichi elementi ma, anche su quella parte dell'antico edificio repubblicano di cui egli fu il protettore. 3. Un sistema dualistico. I nuovi equilibri comportavano l’inevitabile ridimensionamento dell'antico ruolo del Senato a favore del governo di Augusto. In effetti gli aspetti strategici del governo nel campo della politica estera e militare, dell'amministrazione provinciale e della politica finanziaria, passarono tutti dal suo controllo a quello del principe. Questo tuttavia non fece venir meno la diffusa aspirazione ad accedere a tale consesso. La stessa riduzione del numero di senatori da parte di Augusto, ricondotti al numero di seicento, aveva riqualificato il ruolo e il prestigio di questo organismo. Rinunciando alla politica filo provinciale di Cesare, Augusto aveva riaffermato la centralità politica della società romano-italica. Nell'età del principato la fisionomia di questo gruppo sociale venne ancor meglio definita: di esso ne facevano parte i diretti discendenti di un membro del Senato, nonché coloro che vi fossero stati fatti rientrare dallo stesso principe. In virtù di tale appartenenza sin apriva l'accesso a una serie di uffici e compiti: anzitutto l'ammissione ai quadri superiori dell'esercito. D'altra parte l'arruolamento dei nuovi senatori continuava ad effettuarsi tra coloro che avessero ricoperto le varie cariche magistratuali. La scelta di nuovi magistrati, destinati successivamente ad accedere al Senato, era controllata dal principe, attraverso il potere di designare i candidati alle varie cariche e il diritto di commendatio con cui i comizi venivano vincolati alle sue scelte. Il Senato, da un lato consacrava le carriere già realizzate; d'altra parte venne poi ulteriormente formalizzato il requisito sociale per l'accesso al Senato, costituito dal livello di ricchezza degli aspiranti. Si richiedeva infatti che i senatori avessero un patrimonio di almeno 1 milione di sesterzi, talché in alcuni casi lo stesso Augusto intervenne personalmente a integrare le insufficienti ricchezze personali dei prescelti. Il Senato non era venuto meno integralmente al suo ruolo di motore centrale del governo statale, coinvolto, seppure con costante cautela dal principe nelle sue iniziative, soprattutto in quelle volutamente più pubblicizzate. Molte delle antiche funzioni paiono persistere, seppure depotenziata: esemplare l'antica competenza finanziaria e nel campo della politica estera. Al Senato rimarrà il controllo parziale delle finanze, mentre nell'amministrazione delle province, resteranno di sua competenza quelle più antiche e "pacificate", in cui in pratica non sono stanziate significative unità militari. Ai governatori da esso nominati, il senato affiancherà legati e questori come suoi collaboratori. Alle antiche funzioni indebolite o scomparse, i successori di Augusto sostituirono nuovi compiti. Così, alla perduta rilevanza dei senatus consulta che nell'età repubblicana avevano avuto la funzione, di guidare l'azione di governo dei magistrati superiori, si accompagnò il loro nuovo valore come fonte normativa. Esse diventarono un'autonoma fonte del diritto civile, con efficacia identica a quelle delle antiche leges comiziali, anzi in loro sostituzione. Attraverso un'intensa attività del genere, furono così ridisegnati interi settori del diritto privato romano. Anche qui, il controllo e l'iniziativa restò costantemente nelle mani del princeps. Sia perché egli aveva il potere di convocare il Senato e di presiederlo, sottoponendogli direttamente proposte e delibere cui era ben difficile opporsi, sia perché poteva agire anche attraverso quei magistrati cum imperio da lui influenzati e chiamati a collaborare. Il senato consulto veniva in genere emanato dal Senato su una proposta del principe, esposta personalmente in assemblea, o letta da un magistrato da lui incaricato. Nel tempo, sempre meno la delibera del senato si discosterà dal testo proposto. Un ruolo importante viene poi conservato al Senato nel campo della repressione criminale, in riferimento al crimen maiestatis e al crimen repetundarum. 4. Gli antichi organi della “res publica”. Anche lo spazio dei comizi o significativamente ridimensionato. Questi persero anche la funzione tradizionale di selezionare i magistrati. Il potere di commendatio del 87 principe aveva infatti svuotato l'antica libertà di scelta tra più candidati che essi avevano avuto in età repubblicana. Fu un mutamento che divenne esplicito con i successori di Augusto, allorché la stessa nomina degli antichi magistrati passò direttamente nelle competenze del Senato. Di contro Augusto tese a dare un rilievo all'altra antica funzione assolta dai comizi: la legislazione. Attraverso l'ormai docile strumento comiziale egli varò una vasta ed articolata legislazione volta riformare e razionalizzare l'intero assetto sociale. Si trattò di una fase assai breve, giacché con i successori questa attività dei comizi fu integralmente sostituita dai senatoconsulti, oltre che dall'accresciuta rilevanza delle costituzioni imperiali. All'età augustea risale invece una numerosa serie di leggi comiziali con le quali si venne a incidere in tutta la vita giuridica, nei vari aspetti del diritto civile e in quelli del diritto penale oltre che nel sistema processuale. La lex Iulia iudiciorum privatorum sancì la definitiva scomparsa dell'antico processo per legis actiones, mentre un’altra lex Iulia iudiciorum publicorum introdusse una generale riforma del processo penale romano, intervenendo ampiamente sul sistema delle quaestiones. Ma particolarmente importante fu la legislazione augustea nel campo familiare: in ciò Augusto era stato stimolato da preoccupazioni di carattere demografico. Proprio il vasto impiego della vecchia aristocrazia e degli equites nel suo progetto di governo richiedeva infatti un sostanziale incremento numerico dei ceti dirigenti romani, rispetto al preoccupante calo di natalità evidenziatosi nel tempo. Con le leges Iuliae de maritandis ordinibus Augusto introdusse un insieme di meccanismi incentivanti e di sanzioni economiche per stimolare la natalità della nobilitas e favorirne i matrimoni legittimi. Questa e altre leggi furono adottate al fine di comporre un sistema normativo organico volto a disciplinare il sistema familiare e i rapporti coniugali, mentre altre leggi erano state introdotte a rafforzare le regole di moralità e la disciplina sociale all'interno dei vincoli matrimoniali, reprimendo in particolare le condotte scandalose e i disordini sessuali delle matrone romane. Negli ultimi anni del suo principato, Augusto provvide a riformare l'organizzazione dei comizi, individuando un complesso sistema di precedenze tra le varie centurie in ordine all'andamento della votazione. Pochissime parole infine a proposito delle magistrature. È indubbio che la loro antica funzione di governo appaia in rapida ed irreversibile decadenza. Ciò è evidente soprattutto per quelle figure che avevano avuto un ruolo maggiore in età repubblicana, e in particolare i consoli. Non solo abbiamo visto come la selezione fosse ora strettamente sotto il controllo del principe, ma le stesse antiche funzioni di governo, politiche e militari, di costoro erano state ormai in gran parte da lui avocate. Il peso venne poi ulteriormente ridotto con l'introduzione, accanto ai consoli ordinari di altri consoli suffecti, destinati a subentrare ai primi nel corso dell'anno. Così si poteva soddisfare un maggior numero di ambiziosi, riducendo l'effettiva rilevanza della carica. Tutto ciò non fece venir meno, però, l'interesse per tali nomine: infatti giocava un importante ruolo l'elevata posizione in Senato degli ex consoli. La stessa perdita di ruolo appare intervenire anche per altre figure: dai censori ai tribuni e agli edili (si ricorda che con Domiziano, divenuto lui stesso censor perpetuus, la censura scomparve definitivamente). Discorso in parte non diverso vale anche per il tribunato, limitato fortemente dalla diretta concorrenza della tribunicia potestas dello stesso principe. Tuttavia tale magistratura si conservò immutata, nelle sue competenze formali, né venne a variarne il numero di 10 tribuni annuali. Così come restò in essere l’edilità: ma anche qui alcune delle sue funzioni più importanti le furono sottratte e assunte direttamente dal principe con la cura annonae. Proprio per il carattere più circoscritto a specifici compiti esecutivi, la questura poté invece conservare le sue antiche funzioni. Così come per un lasso di tempo significativo la stessa pretura continuò a conservare le sue importanti competenze giurisdizionali. Qui infatti giocava anzitutto il suo ruolo come fonte di diritto e regolatore dell'intero sistema giuridico che aveva nel processo la chiave di volta. Alla persistente importanza del pretore contribuiva altresì la consolidata istituzionalizzazione delle quaestiones perpetuae nel campo criminale, tutte precedute da un pretore. Il numero di questi ultimi venne a variare durante il reggimento di Augusto, anche per nuove funzioni di governo temporaneamente assegnato ad alcuni, giungendo sino ad un massimo di 16. Va infine ricordato un altro mutamento: sappiamo come, in età repubblicana, le 90 eserciteranno codeste competenze attraverso funzionari delegati: anzitutto il praefectus annonae, preposto a tali funzioni. Egli apparteneva all'ordine equestre, con un rango inferiore solo ai due praefecti pretorio e urbi. Va infine ricordato un praefectus vigilum incaricato, con le sue cohortes vigilum, della prevenzione e della difesa delle città dagli incendi. 2. Una rete amministrativa. Ma le innovazioni perseguite da Augusto nella riorganizzazione del sistema amministrativo romano vanno al di là della sfera centrale di governo, per investire una ben più ampia e capillare articolazione del potere. Ad essa corrisponde anzitutto il ruolo dei due ordini al vertice dell'apparato: quello senatorio e l'equestre. In virtù delle sue funzioni censorie, il principe assunse, attraverso l'opera di una molteplicità di curatores, quasi tutti di rango equestre, la gestione e tutela dell'immenso patrimonio immobiliare e delle strutture materiali costituito da monumenti religiosi e pubblici, oltre che dalla splendida rete di vie, acquedotti pubblici, fognature e dalle altre strutture pubbliche esistenti in Roma e in Italia. In parallelo molteplici altre incombenze di carattere amministrativo furono deferite a un insieme di procuratores. Già tale termine evoca l’origine privatistica della loro attività, modellato sullo schema di un mandato conferito da un soggetto a un altro per l'espletamento di un insieme di attività effettuate nell'interesse del primo. La "pubblicizzazione" di tale rapporto riflette una logica tipicamente romana, dove assai spesso il magistrato aveva svolto le sue funzioni pubbliche anche con strumenti propri della sua sfera privata: con l'ausilio cioè e con il lavoro dei suoi schiavi e dei suoi liberti. Sotto i successori di Augusto, subentrò un vertice amministrativo costituito dai procuratores Augusti, di rango equestre, e con un ruolo più elevato. Al di sotto di essi si collocarono poi, per tutto il I secolo d.C., una rete di altri procuratores costituiti da liberti imperiali. Tale sistema fu generalizzato a tutti i settori di interesse pubblico: in primo luogo nell'amministrazione delle finanze. Infine, un campo di attività sempre più importante riguardò la gestione della complessa segreteria del principe e il coordinamento e la direzione dei vari uffici del governo centrale. Gli uffici preposti a attività di comunicazione vennero affidati ad altri procuratores: ab epistulis Latinis, ab epistulis Graecis, a libellis. Già si è detto come, al vertice del sistema, fossero in genere collocati funzionari scelti nel ceto equestre, sotto cui si venne poi articolando una rete di collaboratori minori, in genere costituiti da liberti imperiali. Tale presenza evidenziava la confusione tra il governo dell'impero e l'amministrazione della domus privata del principe. In effetti, con tale organizzazione, Augusto e successori non facevano che perpetuare pratiche proprie dell'oligarchia tardo repubblicana. Questa gestione, talora imponente anche per le dimensioni economiche e gli interessi coinvolti, aveva comportato la formazione di vere e proprie burocrazie private alle dipendenze del paterfamilias e dei suoi più diretti collaboratori, eventualmente i figli o alcuni liberti di fiducia. Non a caso il settore in cui tale fenomeno si rese più evidente fu quello relativo gli aspetti finanziari. Qui il patrimonio privato dell'imperatore pur progressivamente inserito nel sistema delle finanze pubbliche, continuò a essere gestito secondo le logiche delle grandi signorie aristocratiche tardo repubblicane che si erano fondate. Era questo uno dei aspetti di quell'ambigua configurazione istituzionale che caratterizzò il potere di Augusto. Si assiste al conseguente mutamento di significato della sua sfera privata, divenuto ormai anch'essa un aspetto del suo ruolo pubblico. Il nuovo sistema di governo funzionava sulla base di due logiche parallele e intersecantisi. Da una parte il sistema burocratico-amministrativo facente capo direttamente al principe, dall’altra l’azione delle vecchie istituzioni repubblicane, secondo quella logica di "dualismo squilibrato". Giacché, sin da Augusto e sempre più in seguito, la vera e unica "cabina di comando" in cui confluiva l'enorme flusso di informazioni provenienti da ogni regione dell'impero e da ogni ufficio amministrativo, a cui pervenivano le più varie richieste e quesiti di funzionari imperiali privati, dove delibare i più diversi problemi di governo era essenzialmente la figura del principe. Di qui l'importanza degli uffici centrali e la loro rapida crescita di numero, oltre che della crescente formalizzazione ed uniformazione delle procedure seguite. Il potenziamento degli uffici centrali di governo e il loro maggior coordinamento con il sistema periferico si riflesse anche su un particolare aspetto organizzativo. Ci 91 riferiamo non solo sistema di comunicazioni stradali, fluviali e marittime con il ricchissimo complesso di infrastrutture ad esso collegate. Non meno importante fu il funzionamento di quel cursus publicum un efficacissimo reticolo di supporti, che permetteva a chi ne poteva fruire di percorrere grandi distanze in tempi eccezionalmente veloci. Ad esso potevano accedere i messaggeri imperiali, e gli alti funzionari ed ufficiali in missione, oltre che i membri dell’ordo senatorius. Tale cursus passò sotto la responsabilità dei curatores. In effetti, nel sistema imperiale romano, le comunicazioni tanto via terra che per mare non furono solo condizione per la vita del commercio e dell'economia, ma anche per il governo e la politica. L'ambiguità tra le antiche forme del governo e l'innovazione augustea si ritrova anche un altro organismo destinato ad assumere particolare rilievo. In effetti sin da la Repubblica era stata prassi costante che magistrati superiori e i promagistrati in carica si avvalessero, sia per la loro azione di governo che nell'attività giurisdizionale, di un consilium, fatto di amici e di esperti. Nulla di nuovo quindi, salvo l'incomparabile posizione del princeps rispetto agli antichi magistrali repubblicani. Il consilium principis sembra proiettare anche nei tempi nuovi codesta tradizione, e, con essa, l'antico elemento costituito dalla consorteria politica: alleanze personali, ma anche ereditarie, spirito di clan, dipendenza clientelare e scambio di benefici. Nei primi tempi Augusto si limitò a valorizzare questo strumento per garantire i suoi rapporti col Senato. Egli infatti si avvalse di un consilium di senatori per istruire e predisporre il materiale di particolare rilevanza politica che intendeva sottoporre al parere del Senato. Più incerta è la presenza, negli imperatori successivi, di quel tipo di consilium che già i magistrati repubblicani avevano avuto. Comunque già con Tiberio risulta l'esistenza di un organismo siffatto. In seguito, specie dopo Claudio, esso venne prendendo maggiore consistenza, sino alla svolta intervenuta con la grande opera di riorganizzazione di Adriano. Allora se ne precisò la composizione con due fondamentali elementi: anzitutto gli esponenti autorevoli del vertice del sistema del governo imperiale, in secondo luogo i migliori giuristi dell'epoca. Anche in seguito esso non perse comunque la sua antica fisionomia di organo privato, composto da "amici" del principe, benché fosse assai più evidente il suo ruolo generale di supporto e di coordinamento del governo imperiale. Ma non meno importante divenne anche l'assistenza da esso costantemente prestata al principe nella sua attività giurisdizionale. Con Adriano l'appartenenza al consilium venne formalizzata e retribuita. Nel tempo il membro più autorevole del consilium, il prefetto al pretorio, fu chiamato a presiederlo, in caso di assenza del principe. 3. Il fisco. Un settore dove il ruolo di Augusto era destinato a incidere, riguarda la politica monetaria e finanziaria dell'impero. Ciò riguardò anzitutto il diritto di battere moneta: espressione costante della sovranità e da sempre di competenza del Senato. Anche qui si ribadisce il dualismo tra principe e Senato: a partire dal 15 a.C. le reciproche competenze verranno fissate da Augusto, che si riserverà la monetazione d'oro e d'argento, mentre quella in bronzo resterà di spettanza del Senato. Dove lo squilibrio è evidente, giacché tutto il sistema monetario si fondava sulla doppia circolazione in oro e argento, rispetto a cui, la moneta in bronzo, pur molto importante, restava subordinata. Il dualismo principe-Senato si estese in verità a tutta la politica finanziaria dell'impero: accanto al vecchio aerarium populi Romani, rimasto sotto il controllo di quest'ultimo si delineò infatti un sistema finanziario autonomo sotto la supervisione del principe. L'amministrazione del primo restò di competenza dei praefecti aerarii di rango senatorio e dei praetores, tornandosi poi, con Claudio alla figura repubblicana dei quaestores, definitivamente sostituiti, sotto Nerone, dai due praefecti aerarii Saturni. Soprattutto, però, l'intervento del principe e la confusione tra il suo patrimonio personale e il tesoro pubblico finì col ridurre l'importanza dell’aerarium populi Romani rispetto al fisco imperiale. Con questo riferimento, già in uso nell'età di Tiberio, si indicavano infatti l'insieme dell'attività finanziarie di diretta pertinenza del principe. Anche in questo campo si evidenzia l'abile saldatura tra vecchio e nuovo effettuata da Augusto, dove le antiche forme non vennero cancellate, ma in parte sostituite o integrate "dall'interno" con altre strutture le cui leve restarono invece direttamente nelle mani del nuovo centro di potere. Questo processo si sviluppò infatti attraverso la costituzione di casse 92 separate (rationes). In particolare vi rientrarono vasti settori della spesa pubblica: anzitutto le pesanti voci di bilancio relative alla macchina militare, seguita dagli oneri derivanti dal funzionamento del sempre più pesante apparato burocratico. In particolare la difesa dell'impero con il sostentamento di eserciti stanziali dislocati nelle regioni più delicate comportava un costo elevatissimo. Di qui l'accresciuta dimensione del bilancio imperiale, attraverso il costante sistematico reperimento di grandi mezzi finanziari, reso possibile dal funzionamento della nuova gestione delle entrate che aveva sostituito in gran parte il sistema degli appalti. In notevole misura questi flussi finanziari furono dirottati verso una gestione autonoma, controllata dal principe, di cui la più importante era l’aerarium militare. Esso era gestito da tre praefecti di rango pretorio, scelti con sorteggio ma che rispondevano al principe in quanto capo dell'esercito. Nell’aerarium militare confluirono una serie di entrate derivanti dalle imposte di successione, dalle vendite all'incanto e dei contributi diretti del principe dalle sue casse private. Tale settore del tesoro costituì anche lo strumento indispensabile per assicurare la liquidazione dei veterani al momento del congedo. Mentre su questa cassa non gravava anche l'onere delle spese correnti dell'esercito, in particolare, il soldo delle truppe. Le legioni che avevano seguito e garantito le sorti dei grandi capi militari erano costituite da veterani impegnati per decenni nel mestiere delle armi. Si trattava di una fedeltà personale legata a un'adeguata remunerazione economica, costituita anzitutto dagli stipendi e poi dalla "liquidazione", essenzialmente in terre, ai veterani stessi al momento del loro congedo. Una pratica che aveva contribuito a ulteriori squilibri nelle campagne italiche, con massicce espropriazioni di terre per sopperire a tali esigenze. Augusto negli ultimi anni, impresse in tal senso una svolta, orientandosi a sostituire tali terre con somme in danaro concesse al momento del congedo e prelevate dall’aerarium militare. Infine si deve ricordare la sempre più dilatata sfera del patrimonium personale di Augusto. D'altra parte, anche qui, giocava la progressiva istituzionalizzazione della sua figura, per cui la sfera privata del principe cessava di essere esclusivamente tale per assumere rilevanza pubblica. Lo si coglie nel fatto che in questo suo patrimonio personale si concentrassero nuovi flussi di ricchezza (le acquisizioni forzate per condanne criminali, i proventi provenienti dall'attivo delle province imperiali, nonché i numerosi lasciti testamentari a favore del principe). Pressoché naturale sviluppo di tale processo di pubblicizzazione fu l'affermazione di un nuovo criterio secondo cui questo stesso patrimonio privato cessò di essere devoluto secondo le logiche che presiedevano alla successione ereditaria nel campo privatistico per essere trasmesso al successore nel potere imperiale. Esso fu affidato infatti alla gestione di un procurator a patrimonio. Rilevante fu poi la concentrazione, in Italia e nelle province, di enormi proprietà fondiarie nelle mani del principe. Si trattò di un elemento importante anche per la riorganizzazione di intere regioni. In generale tale di fondi, raggruppati in regiones, vennero amministrati dai procuratores imperiali che provvedevano ad affidarli in gestione a conductores che li suddividevano poi in gestioni dirette affidate a singoli coloni. Il rapporto privatistico tra conductores e coloni restò sempre sottoposto al superiore controllo e alla responsabilità dei procuratori imperiali. Il processo di trasformazione in senso pubblico del patrimonius principis, contribuì a definire un altro settore finanziario costituito da un patrimonio ancora “più privato” del principe, la res privata. A partire da Adriano la supervisione di questo settore fu attribuita a un procurator rationis privatae con un rango elevato nella gerarchia imperiale. Solo con Adriano si avrà con l'istituzione di un advocatus fisci chiamato a rappresentare l'interesse dell'amministrazione finanziaria nei rapporti con i privati e nei relativi contenziosi cui venne a collegarsi una più vasta rete di altri advocati fisci operanti in ambito provinciale. Si deve ricordare come, tra i numerosi procuratores, cui era stato deferito di fatto il controllo dell'intera gestione finanziaria dell'impero, si imponesse in primo piano, a partire da Claudio, il procurator a rationibus, in seguito indicato semplicemente come rationalis. A lui infatti viene affidato il compito di tracciare una specie di bilancio generale dello Stato. Un ultimo cenno va fatto al sistema fiscale vigente nelle province, che appare diverso a seconda delle due categorie di province populi Romani o imperiali. In quest'ultime tale settore dell'amministrazione fu affidato a dei procuratori, mentre nelle prime analoghe 95 altri quattro di riserva. Esso, nel 5 d.C., fu poi elevato a vent'anni cui faceva seguito un ulteriore quinquennio in riserva. La liquidazione dei veterani che interveniva con il congedo, sotto Augusto consistette in una somma di denaro. La politica imperiale mirò essenzialmente al consolidamento del sistema delle frontiere dell'impero, in particolare di quelle orientali, più esposte alle pressioni di popolazioni ostili dall'esterno. La sostanziale rinuncia a ogni ulteriore tentativo espansionistico (salvo l'episodio della conquista della Britannia meridionale sotto Claudio e della Dacia con Traiano) costituì una svolta destinata a influenzare la successiva strategia militare dell'impero. Nell'organizzazione militare che ne derivò si delineano gli aspetti di maggior interesse: la composizione delle legioni e la loro dislocazione rispetto al sistema provinciale, la separatezza tra esercito e società civile, e le linee di comando che legavano le varie armate al loro supremo riferimento: il princeps. La dislocazione dell'armate romane si situò essenzialmente fuori dall'Italia, dove furono mantenute scelte coorti di pretoriani, costituite da poche migliaia di uomini. Le coorti dei pretoriani furono quasi esclusivamente composte da italici. Nei due porti di Ravenna e di Miseno, vicino a Napoli, erano inoltre riparate le potenti flotte militari, alle dipendenze dei praefecti classis, che avevano il compito di garantire la sicurezza delle coste italiche e, insieme di controllare il sistema di comunicazioni marittime e la sicurezza sia dell'Adriatico che del Mediterraneo occidentale. Secondo il carattere difensivo della strategia militare di questo periodo, in Iberia venne fortemente diminuito l'ingente organico militare. Lo stesso fatto per l'Egitto, ormai pienamente sotto il controllo romano, mentre una maggiore concentrazione di truppe fu conservata, oltre che in Africa, nella Numidia e in Mauritania, in Palestina, in Sardegna e nella parte meridionale della Britannia, dopo la sua conquista. Il grosso delle legioni tuttavia fu impiegato a consolidare i confini dell'impero: a difesa delle province della Germania superior e inferior e della Pannonia, sino alle frontiere orientali, a difesa dei temibili Parti. La lunghezza del servizio, la strategia prevalentemente difensiva, la conseguente dislocazione del grosso delle armate in aree relativamente poco sfruttate e dove raramente sussistevano grandi centri urbani, la stessa rigida disciplina militare e le tecniche romane, erano tutti elementi destinati a ingenerare un particolare isolamento degli eserciti. Essi vivevano in forma separata dalla civiltà urbana. D'altra parte, se sussisteva il divieto per i soldati di contrarre matrimonio molti di essi stringevano unioni permanenti, dando luogo a vere e proprie famiglie di fatto che vivevano anch’esse in questi isolati accampamenti militari. I governanti romani provvidero a regolare queste situazioni, sanandole al momento in cui veterani venivano licenziati dal servizio attivo. In esso si concedeva una serie importante di benefici: anzitutto la cittadinanza romana a cui veterani che non fossero cittadini, legittimandosi altresì il matrimonio con la convivente e sanando la posizione degli eventuali figli come se fossero nati da giuste nozze, e quindi acquisendoli anch'essi entro la cittadinanza romana. In tal modo, dopo il lungo e fedele servizio, il veterano ormai completamente romanizzato, veniva pienamente integrato (ma solo allora) nella comunità politica di Roma. A ciò si aggiunge il modificarsi della composizione delle legioni: se all'epoca delle guerre civili il loro organico era stato costituito da italici, ben presto il numero dei provinciali si accrebbe, diventando alla fine maggioritario nella composizione complessiva delle armate. Proprio il carattere di separatezza e di autosufficienza che finivano con l'avere i presìdi militari ai confini dell'impero divenne a sua volta un fattore di accelerazione dei processi di antropizzazione e sfruttamento dei territori più marginali, costituendo uno stimolo all'avvio di processi di urbanizzazione. A partire dalla metà del II e nel corso del III secolo d.C., l'accentuarsi di tale forma di isolamento ingenerò problemi, inducendo un elemento di sospetto verso la forza militare avvertita come una realtà estranea dalle popolazioni locali. Ricordiamo il ruolo che le coorti di pretoriani ebbero a giocare nel meccanismo della successione imperiale o nella partecipazione ai complotti che portarono all'uccisione di alcuni imperatori. In più di un caso le armate provinciali sarebbero infatti intervenute in questo gioco, acclamando i loro comandanti come imperatori. Di qui la delicatezza del sistema di controlli e di direzione delle varie armate. Il loro comando diretto era affidato a uomini di immediata fiducia del principe, sia i legati imperiali preposti al governo delle province, sia legati incaricati 96 della direzione delle operazioni militari e delle campagne di guerra, sia infine comandanti delle singole legioni. Non solo, altri personaggi di rango senatorio, erano inviati dal principe presso le legioni, sempre come suoi legati, con funzione di osservazione e di controllo. 6. Il problema della successione. Uno dei punti più delicati del nuovo sistema è rappresentato da meccanismi di perpetuazione e trasmissione del potere. Augusto preoccupandosi della sua successione intraprese la strada che escludeva l'instaurazione di un regime monarchico con le connesse logiche dinastiche. Abbiamo già visto come la somma dei vari poteri del principe fosse derivata da investiture formali da parte del Senato e dei comizi. Un'analoga investitura era quindi richiesta anche per il futuro successore di Augusto. Questi fu facilitato proprio dal fatto di non avere figli naturali di sesso maschile e pertanto di dovere "inventare un successore". A tal fine egli seguì due schemi paralleli, ma distinti. Da una parte si rifece alle logiche ereditarie proprie della società romana, investendo l'erede prescelto della rilevanza politica e sociale da lui acquisita. Il matrimonio con l'unica figlia di Augusto, Giulia, divenne così strumento di designazione politica. Questo avvenne sia nel caso di M. Claudio Marcello, figlio della sorella di Augusto, in cui l'opinione pubblica romana vedeva il successore designato, che, nel caso del suo grande collaboratore, il fedelissimo Agrippa, spostato anch'egli alla stessa Giulia. Dopo la morte di Marcello, e di Agrippa nuovamente una simile investitura opererà nei riguardi di Tiberio, fatto anch'egli sposare a Giulia, ed effettivamente destinato a succedere nel potere imperiale. Ma ai fini dell'investitura politica dovette valere lo stesso meccanismo utilizzato da Cesare e su cui Augusto aveva costruito la sua strada imperiale: l'adozione, che fu effettivamente effettuata nei confronti di Tiberio. Essa divenne la forma collaudata con cui si sarebbe designata una serie di imperatori, da Traiano a Marco Aurelio. Caligola, al contrario, non fu adottato da Tiberio, nel testamento, ma solo indicato come suo successore. Malgrado ciò, la scomparsa del principe ingenerava un vuoto istituzionale che occorreva colmare, giacché la successione dell'erede concerneva la sfera privata dei diritti, non la sfera pubblica. Lì essa aveva un importante valore morale e politico, ma non sarebbe stato concepibile per l'erede "rivendicare" il potere imperiale come avrebbe invece potuto rivendicare il patrimonio privato del principe defunto. Per questo intervenne come meccanismo, accanto all'esaltazione di vincoli familiari, ed eventualmente adottivi, con il successore designato, che consisteva nella sua integrazione nella sfera di potere e di governo durante la vita del predecessore. È quello che avvenne in modo esemplare con Tiberio, con il suo coinvolgimento, negli ultimi anni di vita del principe, nella titolarità dell’imperium proconsulare e della tribunicia potestas, i due pilastri fondamentali su cui si era eretta la costruzione augustea, consolidando fortemente il successore nel momento della scomparsa dell'imperatore in carica. E, infine, si trattava anche di attivare meccanismo per trasmettere la stessa pienezza di poteri e di ruoli del defunto al suo successore. Di qui il ruolo del Senato e del popolo che erano stati il fondamento formale del sistema di poteri di Augusto. Era il Senato infatti che, con un'unica delibera, alla morte del principe, attribuiva al suo successore l'insieme dei poteri di cui era stato titolare il defunto. Il successivo intervento del popolo che, nel comizio, confermava tale delibera aveva un valore meno netto. Nel corso del tempo la delibera del senato avrebbe assunto la forma compiuta di una vera e propria lex de imperio. Vespasiano ascese al potere imperiale con la forza delle armi, alla testa delle sue legioni, allorché, dopo l'uccisione di Nerone ad opera dei pretoriani, si erano avuti ben quattro imperatori, acclamati ciascuno dal proprio esercito o dal Senato, a contendersi con la forza il potere supremo. Allora, mancando ogni forma di designazione da parte del predecessore, l'investitura imperiale fu conferita dal Senato con un consultum, trasformato in legge comiziale. A ricordare il persistente fondamento militare del nuovo sistema di governo, le truppe imperiali, soprattutto i pretoriani, iniziavano a giocare un ruolo sostanziale che si esprimeva nella loro acclamazione del nuovo imperatore. Il problema della successione apparve particolarmente evidente al momento in cui la sequenza cripto-dinastica della stirpe Giulio-Claudia venne a interrompersi definitivamente con l'uccisione di Nerone. Allora infatti la presenza di diversi organi che rivendicavano un ruolo costitutivo nell’investitura del princeps e la contesa di 97 più aspiranti al potere sfociò in un vero e proprio scontro militare. Ed è proprio questa incertezza nella designazione del nuovo principe, la ragione delle violente lotte che segnarono il tramonto del sistema del principato. Capitolo XV La matura fisionomia dell'ordinamento imperiale 1. Una strada segnata. Alla morte di Augusto, nel 14 d.C., tra gli immediati suoi successori, appartenenti alla famiglia di Augusto si stagliano da un lato Tiberio, dall'altro Claudio. Drammatica appare la vicenda del primo, designato alla successione di Augusto solo tardivamente. Figlio della potente moglie del principe, Livia, Tiberio Claudio Nerone, legato agli antichi valori repubblicani di quell'aristocrazia guerriera cui apparteneva per nascita ed educazione, sembra aver esitato ad accettare il potere imperiale. Sotto il suo regno si accentuarono infatti gli aspetti autoritari del nuovo sistema di governo, anche in ragione del ruolo negativo, ma determinante, del suo praefectus pretorio, Seiano. Questi poté sfruttare il lungo, volontario isolamento del principe, a Capri, per infierire sul ceto senatorio e sinanco sulla famiglia imperiale. Ancora più significativo è il fatto che l'uccisione di quest'ultimo, avvenne su ordine dello stesso Tiberio. Bravo generale e attento amministratore, Tiberio contribuì a risanare la difficile situazione finanziaria dell'impero e a consolidare la strategia militare già delineata da Augusto. Si precisò la riconversione della potente macchina militare romana in funzione difensiva delle frontiere esterne: il limes, completando il disarmo di gran parte dei territori provinciali ormai stabilmente pacificati. Più innovativo apparve invece il governo di Claudio, dopo i pochi anni turbolenti di Caligola. Non solo con questo erudito imperatore si ebbe una singolare, anche se limitata, ripresa dell'espansionismo territoriale romano con la conquista della parte meridionale della Gran Bretagna, ma soprattutto si realizzò allora il primo significativo potenziamento della macchina amministrativa imperiale. Da un lato si avviò il primo coinvolgimento del ceto dei giuristi, dall'altro la burocratizzazione degli uffici di governo favorì l'impiego sistematico dei liberti imperiali. Questo fatto contribuì a limitare ulteriormente gli spazi del Senato, giustificando la latente ostilità che molti suoi membri nutrirono per questo imperatore. Tuttavia è da sottolineare come a questo indebolimento dei suoi ruoli politici corrispondesse, con Claudio, un incremento di funzioni del Senato nel campo legislativo. Si ebbe infatti un vasto sviluppo di quei senatoconsulti che, come sappiamo, si sostituirono allora alle antiche leges, costituendo uno strumento di innovazione dell'antico sistema giuridico romano. Probabilmente è il frutto dell'attenzione con cui Claudio seguiva il governo dell'impero anche la prima persecuzione dei cristiani. Questo è un punto che non può essere trascurato, giacché la storia della predicazione cristiana e della sua progressiva affermazione era destinata ad incidere in profondità non solo sulla società romana, ma anche sulla forma Imperii. Non è casuale la fine cruenta degli altri due esponenti della stirpe Giulio- Claudia: Caligola e Nerone. Essa fa pensare alla presenza di quei sostanziali equilibri che comportavano un effettivo controllo del potere imperiale, che scattava proprio quando questo tendeva ad accentuare eccessivamente un carattere autocratico. Di Nerone si deve però ricordare una riforma nel campo monetario che modifico il preesistente rapporto tra monete auree e d'argento, a favore di quest'ultime. Questo avvantaggiò il ceto dei piccoli e medi proprietari e i militari rispetto ai grandi patrimoni, beneficiari pressoché esclusivi della circolazione aurea. Riforma che durò fino alla fine del II secolo d.C. 2. Il principato dei Flavi. L'ascesa al potere di Vespasiano segnava a sua volta una rottura importante con la precedente tradizione, derivando dall'acclamazione e dal sostegno delle truppe che comandava in Giudea. Tanto più che proprio da quell'evento egli fece datare l'inizio del suo impero, e non dal giorno del successivo riconoscimento del Senato. Grande amministratore, personalità autoritaria e autorevole, Vespasiano appare la figura più importante emersa dopo Augusto. In primo piano si imponevano i valori tradizionali di quel mondo municipale da cui Vespasiano proveniva: sapienza contadina, abitudine al risparmio e al duro lavoro, cautela e tenacia. Diede una fisionomia nuova al governo imperiale: dove l'attenzione per l'amministrazione e il funzionamento ottimale della sempre più pesante macchina di