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L'eletto - Thomas Mann - ebook, Guide, Progetti e Ricerche di Letteratura Tedesca

http://www.monova.org/torrent/6549911/Thomas_Mann_-_L'eletto_(ebook_epub_mobi_doc).html

Tipologia: Guide, Progetti e Ricerche

2012/2013

Caricato il 15/06/2013

puppini
puppini 🇮🇹

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La maledizione di Edipo,
il suo peccato contro le
leggi degli uomini si
trasforma nel segno
dell'elezione, la sua
diversità e la sua
eccezionalità di creatura
che ha infranto le
proibizioni e vuole
scontarne la pena
diventa condizione di
privilegio e di gloria.
Così per Gregorio, sposo
di sua madre, regina di
Fiandra e Artois, poi
disperato e colpevole
penitente sullo scoglio
inaccessibile tra le acque
del mare che divide la
sua terra da quella
dell'antica Inghilterra,
scoglio che abbandona
soltanto quando è
chiamato a Roma per
diventare successore di
Pietro. Libera
rielaborazione di una
leggenda medioevale
sulla vita di Gregorio Magno, dissolta in un'ironia che giunge no
alla caricatura e al grottesco, L'eletto (1951) rappresenta l'ultimo
sforzo di un grande maestro per conservare, restaurare, sia pure
nell'estraniata irridente parodia dei frammenti, l'idea di una
comunità culturale, di una universalità religiosa e civile retta
dall'umano-divino rappresentante di un potere ancora protetto dai
segni della tradizione cristiana.
In copertina: Maestro dell'Altare
di Sterzing, Il danzamento di Ulma, 1460
The Cleveland Museum of Art, Cleveland, Ohio (Delia E Holden
Fund and L.E. Holden Fund)
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Scarica L'eletto - Thomas Mann - ebook e più Guide, Progetti e Ricerche in PDF di Letteratura Tedesca solo su Docsity!

La maledizione di Edipo, il suo peccato contro le leggi degli uomini si trasforma nel segno dell'elezione, la sua diversità e la sua eccezionalità di creatura che ha infranto le proibizioni e vuole scontarne la pena diventa condizione di privilegio e di gloria. Così per Gregorio, sposo di sua madre, regina di Fiandra e Artois, poi disperato e colpevole penitente sullo scoglio inaccessibile tra le acque del mare che divide la sua terra da quella dell'antica Inghilterra, scoglio che abbandona soltanto quando è chiamato a Roma per diventare successore di Pietro. Libera rielaborazione di una leggenda medioevale sulla vita di Gregorio Magno, dissolta in un'ironia che giunge fino alla caricatura e al grottesco, L'eletto (1951) rappresenta l'ultimo sforzo di un grande maestro per conservare, restaurare, sia pure nell'estraniata irridente parodia dei frammenti, l'idea di una comunità culturale, di una universalità religiosa e civile retta dall'umano-divino rappresentante di un potere ancora protetto dai segni della tradizione cristiana.

In copertina: Maestro dell'Altare

di Sterzing, Il fidanzamento di Ulma, 1460

The Cleveland Museum of Art, Cleveland, Ohio (Delia E Holden Fund and L.E. Holden Fund)

Gli Oscar

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Negli Oscar: opere classiche e di narrativa contemporanea, testi di poesia e teatro, libri di storia e testimonianze, antologie, saggi, fumetti e manuali, romanzi gialli e di fantascienza, per ogni esigenza di lettura, di studio, d'informazione, di orientamento

Negli Oscar potete leggere

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Elektra di Hugo von Hofmannsthal

Un ermellino a Cernopol di Gregor von Rezzori

La contessina Mizzi Al pappagallo verde di Arthur Schnitzler

Il povero musicante di Franz Grillparzer

Tutti i racconti [2 voll.] di Franz Kafka

Il Castello di Franz Kafka

Il mondo di ieri di Stefan Zweig

Knulp - Klein e Wagner L'ultima estate di Klingsor di Hermann Hesse

Elegie romane di J.W. Goethe

Suor Monika di E.T.A. Hoffmann

Oscar narrativa

Thomas Mann

L'eletto

Traduzione di Bruno Arzeni

Introduzione di Lea Ritter Santini

Arnoldo Mondadori Editore

© 1960, 1974 S. Fischer Verlag GmbH, Frankfurt am Main

tratta della grazia », scrive nel febbraio 1948 a Agnes Mayer, la sua generosa ammiratrice americana.

Il lavoro alla "satira", come l'ha chiamata l'autore scrivendo agli amici, necessaria, per ristabilire quell'equilibrio umanistico che sembrava minacciato dopo la tragedia del Doctor Faustus, viene interrotto per ricostruire nel Romanzo di un romanzo la genesi del Faustus e ripreso nell'inverno del 1948-49; le celebrazioni del 75° compleanno, il secondo viaggio in Europa dopo la fine della guerra e il suicidio del figlio Klaus sono gli avvenimenti che accompagnano, nella vita di Thomas Mann, la scrittura delle pagine de L'eletto terminato nell'ottobre 1950 e uscito alcuni mesi dopo, nel marzo 1951 a New York e a Francoforte. Se si vuole accettare la definizione di "satira", come intendeva comporla il suo autore, il romanzo di Gregorio appare ancora legato al travestito mondo medievale del Faustus ma precede già, nel virtuosismo della parodia, più seria di quanto non voglia far credere il suo autore, le avventure dell'ultimo eroe della tarda età di Thomas Mann, l'ambiguo e mimetico, lo scaltro e frivolo Felix Krull. L'idea delle straordinarie vicende di Gregorio, eremita per diciassette anni sulla roccia solitaria nelle acque della Manica, in cui si fondono le mitiche leggende sulle figure dei molti grandi papi di nome Gregorio, era già racchiusa nell'opera che il musicista Adrian Leverkühn, il Faustus della tragedia tedesca, aveva immaginato e composto per il teatro dei burattini, dopo la lettura dell'episodio nel gran libro di favole dell'antichità, nei Gesta Romanorum:

« Credo bene che i Gesta nel loro candore storico, nella loro cristiana pietà e nella loro ingenuità morale, con l'eccentrica casistica di parricidi, adulteri e incesti complicati, coi loro imperatori romani campati in aria e le loro figlie severissimamente custodite e offerte a condizioni raffinate - è innegabile, dico, che tutte quelle fiabe esposte in una traduzione solennemente latineggiante e indescrivibilmente primitiva, di cavalieri partenti per la Terra Santa, di mogli disoneste, di astuti ruffiani e di clerici dediti alla negromanzia potessero aver effetto rasserenante. Erano molto adatte ad eccitare il senso della parodia, sicché il pensiero di drammatizzare musicalmente in succinto alcune di quelle storie per il teatro dei burattini lo occupò fin dal giorno in cui ne aveva fatto conoscenza... il vero pezzo centrale della Suite è nella storia Della nascita del beato papa Gregorio, nascita che non si arrestava allo stato eccentrico del peccato, poiché gli orrori che il protagonista subisce non sono un ostacolo tale da impedirgli di diventare alla line il vicario di Cristo, anzi la grazia e il

divisamento di Dio lo irridono, a quanto pare, particolarmente chiamato e predestinato a tale carica. La serie delle complicazioni è lunga » ( Doctor Faust us, Oscar, pagg. 379-381).

Le complicazioni erano occasioni per sperimentare audacie musicali che provocavano il riso e la commozione fantastica negli spettatori dell'opera per i burattini; nel romanzo diventano gli incroci dei diversi piani e rapporti secondo cui Thomas Mann ha voluto ricostruire una leggenda medievale perché venisse letta da chi era uscito dagli orrori della guerra. Che il rappresentante della nuova e antica superbia intellettuale tedesca, il musicista Leverkühn, avesse già scelto la storia di Papa Gregorio per tradurla nel gioco musicale delle marionette, l'estrema parodia delle azioni essenziali, insegna a ricercare la trama costante nel desiderio di raccontare che riporta l'autore del Faustus allo stesso tema. Il patto col diavolo, i legami col demoniaco erano schermati, nelle vicende del Faustus, dal narrare del coscienzioso cronista di cultura umanistica, il buon Serenus professore di ginnasio, che deplorava e commentava, finto amanuense di una storia che coinvolgeva anche la sua non innocente ingenuità, la disperata dannazione del protagonista. Chi narra la storia de L'eletto permette al lettore la stessa distanza e si assume la stessa funzione di schermo o di maschera e rifrange, con tutti i sussidi dell'ipocrita modestia che resta uno dei sicuri strumenti dell'ironia, la volontà dell'autore che gli affida il compito di essere credibile e onesto, candido e devoto quanto prodigiose e ambigue, sacrileghe e perverse sono le vicende che deve raccontare. È Clemente, il monaco irlandese che scrive nel convento di San Gallo sull'alto leggio che è stato quello di Notker il balbuziente; sente di doversi servire ancora di un mediatore perché i suoi lettori lo seguano nei labirinti della colpa e della penitenza, della grazia e della grandezza che è stato chiamato a raccontare, e si lascia guidare dallo « spirito del racconto, lo spirito libero da ogni vincolo fino all'astrattezza, che si impersona in lui e lo rende signore del suo mezzo, la lingua ». Thomas Mann sa farne uso, con maliziosa fedeltà allo spirito della sua narrazione. Nel compiaciuto gusto per la raffinata mistificazione e per la corrosiva dissacrazione di cui la vecchiaia e l'uso della letteratura l'hanno reso maestro, confonde le tracce della storia e le fonde con gli allusivi insegnamenti del mito, affabula i quadri delle antiche leggende per offrirli alla lettura di chi li può vedere come miracolose reliquie di passate vicende, sante e peccaminose insieme. Per chi invece li sa riconoscere come i preziosi involucri raccontati di costrizioni e di colpe, esempi di archetipiche leggi e dimostrazioni di teologica intelligenza, essi acquistano il simbolico

fatale mitologia in una ben più sottile e perversa intenzione letteraria, usando l'elegante atmosfera del salone Jugendstil non per indurre il lettore in tentazione ma per spiegargli proprio le sue contorte vie e i non rimossi meccanismi. Come la novella dei primi del novecento, il romanzo scritto dopo il terrore della guerra demistifica la fatalità retorica, la deride con l'ironia dei luoghi comuni per giungere al complicato nodo di cui Thomas Mann sa ricondurre i fili alla logica di una trama che non è più leggenda ma l'analisi, condotta con l'abilità fatta di partecipazione, di divertimento e di sfida, di una struttura psichica riflessa nel consolante esempio della storia. Come per Siegmund e Sieglinde, ricchi e privilegiati gemelli nella Monaco wagneriana, il rapporto immobile tra creature legate dalla propria affinità che esclude con inconscio e naturale assolutismo l'esistenza e lo spazio degli altri, rende prigionieri del proprio superbo bisogno di se stessi anche i protagonisti del romanzo L'eletto, Wiligis e Sibilla, figli di regnanti, i bellissimi adolescenti cresciuti nel castello di Belrapeire. La loro vicenda che - secondo l'indicazione del suo autore - finge di voler essere soltanto il più preciso racconto di un'antica leggenda inseguita nelle sue variazioni nord-europee, traduce invece, col pretesto del divertimento letterario il modello forse più comune e più crudele, più innocente e più esemplare della condizione umana: quello della paura di sé e dell'ansia di conoscersi e riconoscersi nell'altro, dell'insicurezza di fronte all'estraneo e al diverso, dell'impossibilità di riconoscere la separazione, la divisione dell'altro da sé, di accettare il confine o il limite della propria persona o della propria immagine: il mito del disperato Narciso che muore per non saper amare altri che il riflesso della sua persona.

Scegliendo la storia che aveva provocato il gusto iconoclasta, il piacere della perversa parodia di Faustus-Leverkühn, l'economia inventiva di Thomas Mann recupera non soltanto i temi che l'avevano accompagnato durante la stesura del suo ultimo romanzo, ma li ricollega alle vene nascoste che affluivano nel « profondo pozzo del passato » da cui erano uscite le storie mitiche di Giuseppe e i suoi fratelli. Il giovane eroe solare, la cui nascita straordinaria, l'esposizione e il ritrovamento sulle acque del Nilo erano stati i segni della sua elezione, il « fanciullo divino » riappare nelle avventure del giovane Gregorio, nato ancora una volta in condizioni eccezionali, dalla trasgressione della norma: l'incesto e l'amore che riconosce solo il nato-uguale, non il diverso da sé, di Wiligis e Sibilla, i gemelli regali signori di un regno più grande della storica Fiandra designata da Mann, quello del mito e della letteratura. Per raccontare la storia difficile e straordinaria

di questo amore-trasgressione l'esperto cronista segue i segni delle leggende e del mito, per umanizzarli li interpreta, per provarne la resistenza li estrania, per restituirli a una lettura provocatoria e innocente insieme li diluisce nel grande neutralizzatore dello scandalo e della ripulsa, quello della storia, resa tutta credibile dalla precisione dei dettagli, da quella acribìa evocativa che Thomas Mann aveva scelto come espediente narrativo per riuscire a ricostruire, e spesso da uno studio non accurato e solo curiosamente divertito delle fonti, le vicende e le figure di cui visibili, quindi reali, si disegnano sulla pagina le pieghe degli abiti o dei visi come ogni nascosta vibrazione dei sentimenti.

« Io mi do l'aria di saper raccontare esattamente come il junker Wiligis venne educato, e faccio solo mostra di parole. Non ho mai preso in mano un giavellotto né mai ho tenuto sotto il mio braccio una lunga lancia; neppure ho mai ingannato soffiando su una foglia gli animali del bosco... Ma questa è la maniera dello spirito della narrazione che io incarno; fingersi esperto e familiare di ogni cosa di cui narra. Anche il buhurd, il divertente gioco cavalleresco che il giovane Wiligis esercitava sul molle terreno della valle ai piedi del castello... anche questa azzuffaglia mi è, in fondo, del tutto estranea e piuttosto ripugnante; nondimeno io narro con sicurezza come Willo con la sua schiera si lanciava nella mischia... Willo, il più bel quindicenne che si possa immaginare sul suo cavallo pezzato, senza armatura, solo con l'elmo e la gorgiera fatta di leggeri anelli di acciaio che incorniciava il volto pallido e fine di adolescente, col mantello stemmato e il corsetto di rossa seta di Alessandria. » (pag. 37).

Lo spirito del racconto accompagna Wiligis nella morbosa attrazione erotica verso la sua immagine femminile, la leggiadra Sibilla vestita di velluto verde erba di Assagauk come l'aveva dipinta il maestro di Sterzing nella sua pala d'altare e come la descrive minuziosamente Thomas Mann, non dimenticando i granati verdi e rossi e gli anelli, fedele alla grazia pittorica del tardo quattrocento di cui sfuma l'inventato tempo medievale della sua storia. Un bambino bello e radioso come se non fosse nato dalla colpa è il loro figlio cui l'abate che ritroverà la botticella esposta come quella di Mosè sulle acque darà il suo nome: Gregorio. Wiligis sconta la sua temerarietà partendo per la crociata da cui non tornerà; Sibilla vergine madre continuerà a regnare in Fiandra negandosi a tutti i pretendenti che la voglia del racconto, quella di amplificare e di precisare, le presenta per farla scegliere soltanto, ancora una volta, l'unico a lei simile, il giovane

dei suoi vizi originali, l'incesto, deve compiere le trasgressioni più esemplari che la sua storia, a cui è fedele, gli prescrive, ma non può essere soltanto, dopo tanti secoli, per un mondo che dopo il regno del nazismo non sapeva ancora né capire né riconoscere la colpa del fascinoso annebbiamento da cui sembrava appena scuotersi, solo inconsciamente disperato e perduto come Edipo, dannato come Giuda o solo santo e sereno come il grande papa della Roma dell'oscuro medioevo.

La fatalità o l'ignoranza, la disperazione o l'orgoglio che condannano ad essere diversi dagli altri sono accompagnati ora dal dubbio rimosso nell'ambigua coscienza di esserlo e dalla sottile dolorosa superbia di resistere ad esserlo in società che non hanno ancora imparato a distinguere le forme e le ragioni della diversità e dell'eccezione ma solo i suoi grossolani contorni. Thomas Mann accetta e adopera le linee esteriori ma le differenzia nelle loro origini e motivazioni, le complica delle sfide e delle astuzie dell'intelligenza che vuol cedere ai superficiali inganni, alle persuasioni esteriori per raggiungere gli strati più profondi in cui l'essere lotta, fino alla implacabile distruzione, con le sue leggi, per giungere alla soglia di una propria scoperta divinità: l'elezione della colpa. « Dov'è macchia è anche nobiltà. »

Forse questa dimensione è sfuggita finora alla interpretazione di un romanzo che ha suscitato nella Germania degli anni cinquanta tante risentite discussioni critiche, che ha mosso la filologia a tanti sforzi per rintracciare ogni motivo e scoprire ogni fonte, ogni prestito camuffato del suo travestimento ironico, ogni sacrilega trasposizione dai grandi poemi della tradizione germanica - la purezza del Parsifal e le rigide sante leggende di Gottfried von Strassburg ma che le ha impedito di cercare al di là delle parodie e dei paradossi religiosi l'attualità umana e politica di una storia raccontata come l'ultima variazione epica sull'eterno ritorno della confusione e del male nel mondo. Non il legame del narratore con le sue maschere e con i suoi personaggi, non il virtuoso gioco con i modelli, ma la patologia del divino, la sua origine nell'estrema consanguinea affinità con l'umano-troppo umano, le sue miserie e depravazioni riconosciute come la necessaria condizione di grandezza e di sopravvivenza nella memoria.

Nella storia di Gregorio penitente sullo scoglio, la creatura- riccio, l'uomo regredito al nutrimento della grande madre pietra, ristretto nella sua superficie di sofferenza e di sensibilità alle misure dell'animale adattato all'ambiente del suo castigo, l'elezione da colpevole al trono di capo della religione, a

rappresentante del dio cristiano sulla terra non può solo voler ritradurre l'agostiniano « Ama Deum et fac quod vis » o in avvincente parabola ricca di moderna psicoanalitica saggezza il superbo insegnamento luterano « pecca fortiter sed crede fortius », la regola valida per la tedesca salvazione, se è vero, come scriveva Adorno, che dopo Auschwitz non sarebbe stato più possibile scrivere poesie. O divertirsi con la letteratura, si potrebbe aggiungere. Se non appunto ritornando al mito e alla leggenda che permette di ritrovare le categorie distrutte dal trionfo della disumanità e dalla sparizione del divino. Forse la storia di Gregorio non è solo una dissacrante narrazione che gioca con la perduta ricchezza letteraria dell'occidente e ricerca la verità nei paradossi della religione che già ai tempi dei lontani papi di nome Gregorio inneggiava alla « felix culpa » di Adamo che avrebbe permesso di far nascere un redentore. Rappresenta l'ultimo oltraggio intellettuale alla convinta e non convinta obbedienza, la ribellione del rifiuto utile, quello di non sottomettersi alla legge del consueto, alla norma imposta dalla finzione della bontà di tutti, ma accettare la sfida difficile della propria perversa um?nità per conoscerne le costrizioni e l'inestinguibile desiderio di grandezza e di purificazione. Il trasgressore cosciente, il diverso che si tormenta e sa scontare la sua pena diventa, è come-dio, la coscienza di esserlo e di poterlo diventare lo salva appunto dalla morte fisica e dalle tenebre della mente. Ma è pur sempre la vicenda di un grande rappresentante, di un superbo grande « peccatore buono » quella che Thomas Mann celebra, dopo il mito dell'empietà di Faustus in una Europa devastata dai tedeschi. L'astrazione del suo medioevo ricostruito nella finzione dei frammenti delle diverse lingue si apriva alla universalità di un mondo in cui le nazionalità non avevano storia se non quella comune e fatalmente innocente della colpa e della grazia. Così il romanzo di Gregorio può essere letto non solo come un'ultima parodia della cultura occidentale prima che cada la notte della barbarie e dell'oblio, come voleva il suo autore, ma anche come un ultimo simbolico tentativo di ricondurre alla latinità romano-cristiana il mondo germanico afflitto dall'incapacità di pentimento e dall'impossibilità di concepire il lutto della propria colpa, di riconciliarlo con la coscienza europea; una confortante parabola affidata prima di tutto ai tedeschi perché la credano e la attuino, secondo le loro intenzioni, si sentano alleviati e consolati scoprendo nel passato la naturalità di colpe sempre commesse, tutte redente nel grande prodigio della grazia immanente. Un libro dalle caleidoscopiche prospettive, non solo quelle che hanno provocato risentimenti o ammirazione, un

Schulze, Joachim, Joseph, Gregorius und der Mythos vom Sonnenhelden. Zum psychologischen Hintergrund eines Handlungsschemas bei T. Mann, in: Schiller-Jb. 15 (1971), S. 465-

Stackmann, Karl, « Der Erwählte ». Th. M's MA-Parodie. In: Th. Mann, Darmstadt 1975, S. 227-

Wysling, Hans, Die Technik der Montage. Zu Th. M's Erwähltem. In: Th. Mann, Darmstadt 1975, S. 257-319.

In lingua italiana:

G. Antonio Borgese, « L'ultimo Mann », in Da Dante a Thomas Mann, Milano, Mondadori 1958

A. Cori, Il nuovo romanzo di Thomas Mann. La leggenda di Papa Gregorio, in Annali della Scuola Normale di Pisa, Firenze 1951, Anno 20, n. 1, pagg. 140-

F. Jesi, Thomas Mann pedagogo e astrologo, in « Comunità », agosto 1977

F. Rizzo, « L'eletto » di Thomas Mann. In « Letterature moderne », Milano, marzo-aprile 1954 anno 5, pagg. 223-228.

Nota sul romanzo « L'eletto », 1951

di Thomas Mann

Il mio primo incontro con la leggenda di Gregorio risale al tempo in cui lavoravo al Doctor Faustus. Allora ero alla ricerca di motivi per la produzione di Adrian Leverkühn e nel vecchio libro dei Gesta Romanorum, il cui autore o meglio compilatore fu un monaco tedesco o inglese di nome Elimando morto intorno al 1230, leggevo alcune storie che affidai poi al mio compositore per la elaborazione di grottesche sceneggiature per il teatro delle marionette. Fra tutte me ne era piaciuta soprattutto una raccontata nei Gesta in poco più di una dozzina di pagine e che porta il titolo: « Della prodigiosa grazia di Dio e della nascita del beato Papa Gregorio ». Mi era piaciuta davvero così tanto e mi sembrava offrire così grandi possibilità narrative al lavoro della fantasia che mi riproposi subito di riprenderla un giorno all'eroe del mio romanzo e di tirarne fuori qualcosa io stesso. Non sapevo che il fascino che il soggetto esercitava su di me era stato esperienza di molti che erano stati attratti a dargli nuova forma.

Tranne la storia di Giuseppe, forse nessuna è stata raccontata tante volte come questa: ma le mie ricerche mi fecero riconoscere solo grado per grado i suoi nessi storici, le ramificazioni dei suoi rapporti in tutta Europa, fino in Russia, le sue affinità e le sue variazioni. Che la storia venga dall'antichità e sia una derivazione della saga di Edipo è evidente. Appartiene alla sfera, o meglio alla lunga serie dei miti di Edipo, in cui il motivo imposto dal destino dell'incesto-orrore con la madre (insieme all'uccisione del padre) gioca il suo ruolo; ne è un esempio la leggenda di Giuda Iscariota, secondo la quale Giuda, in seguito a un sogno premonitore di disgrazia, venne, da bambino, abbandonato ed esposto; ritornato in patria uccise, in occasione di un furto, suo padre e sposò sua madre.

Quando la confusione e l'errore vennero alla luce si uni, per purificarsi, ai discepoli di Gesù, cosa che come è noto, non andò a finire proprio a suo vantaggio. Il tema si ritrova in canti popolari serbi.

In una leggenda bulgara l'infelice eroe si chiama Paolo di Cesarea. Ne è venuta alla luce una più antica in cui si chiama Andrea, e inizia con la predizione, che inevitabilmente si compirà, di un doppio-orrore.

La via della evoluzione della saga sembra passare da Edipo attraverso Giuda, Andrea, Paolo di Cesarea fino a Gregorio, anche se a volte il motivo dell'uccisione del padre è sostituito da un secondo - e poi cosciente - peccato di incesto commesso o tra padre e figlia o tra fratello e sorella.

L'uomo che in stato di annebbiamento sposa la propria madre, ed è già figlio del peccato, frutto di un amore tra fratelli: in questa forma l'Europa Occidentale ha creato la favola e ha circondato dell'aura di leggenda l'origine di grandi figure di papi. In Francia, in Inghilterra, in Germania il nome dell'eroe ora è Gregorio. La sua origine è vergogna, la sua vita peccato e penitenza senza riserve, la sua fine illuminazione per mezzo della grazia divina. Un poema in antico francese La vie de Saint-Grégoire, da cui ne deriva anche uno medio antico inglese, è servito allo svevo Hartmann von Aue come idea modello per un breve poema epico in versi che intitola Gregorio sullo scoglio o semplicemente Gregorio o La storia del buon peccatore.

L'attività poetica di Hartmann cade nell'ultimo decennio del mille e cento e nei primi anni del duecento. Era un cavaliere

Dovevo avvolgerlo in una specie di apparenza del possibile e per questo sono ricorso all'antico motivo del latte della terra di cui si è nutrito l'infantile uomo primitivo, ho fatto diventare il penitente un raggrinzito essere della natura che cade in letargo invernale e infine solo una cosa della natura ricoperta di muschio, insensibile ai rigori del tempo. Ho dovuto però accettare che questo significasse una diminuzione della durezza della sua pena. La sua volontà di radicale penitenza mi è sembrata la cosa essenziale e la grazia riconosce questa volontà elevando chi si è tanto abbassato, di nuovo alla dignità umana, addirittura sopra tutti gli altri uomini.

L'eletto è un'opera tarda, in ogni senso, non solo per gli anni del suo autore, ma come prodotto di una tarda epoca che gioca, usandole, con le onorate antiche forme di una lunga tradizione. Vi si mescolano molti travestimenti - ma non senza cura partecipe -. L'epica cortese, il Parsifal di Wolfram, antichi canti della Mariologia, la canzone dei Nibelunghi sono gli echi parodistici, le caratteristiche di una tarda maniera per cui cultura e parodia sono concetti molto affini.

Amor fati - io non ho nulla in contrario ad essere qualcuno arrivato tardi, un ultimo, uno che conclude e chiude e non credo che, dopo di me, questa storia e la storia di Giuseppe verranno raccontate ancora una volta. Quando ero molto giovane feci tirare al piccolo Hanno Buddenbrook una lunga linea sotto la genealogia della sua famiglia, e quando fu rimproverato per questo, lo feci balbettare: « Pensavo, pensavo, che non venisse più niente ».

Per me, ho l'impressione come se non dovesse venire più nulla. Spesso la nostra letteratura contemporanea, le cose più sottili e più alte mi paiono quasi un congedo, un ricordare rapido, un ricapitolare ed evocare ancora una volta il mito occidentale - prima che cada la notte, forse una lunga notte e un profondo oblio. Una piccola opera come questa è tarda cultura che viene prima della barbarie, già guardata dal tempo quasi con occhi estranei. Anche se la leggenda irride parodisticamente le vecchie e pie cose, questo sorridere è più melanconico che frivolo e lo stile giocoso del romanzo, la forma finale della leggenda, conserva in pura severità il suo nucleo religioso, il suo cristianesimo, l'idea del peccato e della grazia.

(Pubblicato la prima volta in « Altes und Neues », Fischer Frankfurt 1953. Traduzione di Lea Ritter-Santini)

L'eletto

CHI SUONA?

Suonar di campane, tripudiar di campane supra urbem, sopra l'intera città, nell'aria tutta traboccante di suoni! Campane, campane, che si muovono e oscillano, ondeggiano e si slanciano, vanno e vengono vibrando ampie e solenni dalle loro travi, nei loro castelli, con mille voci, in un assordante tumulto. Lente e veloci, rombanti e tintinnanti, in esse non ce ritmo né accordo; parlano tutte in una volta e la parola dell'una sopraffa la parola dell'altra, sopraffà la sua propria: i battagli cominciano a percuotere il bronzo ma non lasciano tempo all'eccitato metallo di placarsi che già vibrano percotendo all'orlo opposto e sopraffacendo il proprio rombo, così che mentre echeggia ancora: « In te Domine speravi », risuona già: « Beati, quorum tecta sunt peccata », ma vi si ode anche il tintinnio chiaro di chiese più piccole, come se il sagrestano agitasse la campanella all'elevazione.

Suona dall'alto e dal profondo, dai sette sacrosanti luoghi di pellegrinaggio e da tutte le chiese delle sette parrocchie ai lati del Tevere, che in due curve si piega. Suona dall'Aventino, dai santuari del Palatino e da S. Giovanni in Laterano, suona sopra la tomba di colui che detiene le chiavi, sul colle del Vaticano, da S. Maria Maggiore, in Foro, in Domnica, in Cosmedin e in Trastevere, da Ara Coeli, da S. Paolo fuor delle Mura, da S. Pietro in Vincoli e dalla chiesa della Sacrosanta Croce in Gerusalemme. Ma suona anche dalle cappelle dei cimiteri e dai tetti delle chiese e dagli oratori nelle vie., Chi può nominar tutti i nomi, chi sa tutti i titoli? Come quando il vento, anzi la tempesta fa impeto nell'arpa eolia e tutto il mondo dei suoni si desta, suoni vicini e lontani, tutti fusi nel fremito di una sola armonia; cosi, ma tradotto nel bronzo, avviene nell'aria fremente di suoni, perché tutte le campane suonano per la grande festa, per l'ingresso sublime.

Chi suona le campane? Non i campanari. Anch'essi come tutto il popolo sono accorsi sulla strada chiamati da quello scampanare misterioso e immenso. Persuadetevi: le celle campanarie sono vuote. Inerti pendono le funi, e tuttavia le campane ondeggiano e sbattagliano. Si dirà forse che nessuno le suona? No, solo una testa ignara di grammatica e di logica potrebbe affermare una cosa simile. "Le campane suonano" vuol dire: vengono suonate, anche se tutte le celle campanarie sono vuote. - Chi dunque suona le campane di Roma? - Lo spirito della narrazione. - Può dunque egli essere da per tutto, hic et ubique, può, per esempio, essere

Io amo molto la mia patria, l'isola di S. Patrizio, ricca di insenature, i suoi pascoli, le sue siepi, le sue paludi. Là spirano arie umide e miti, e mite è anche l'aria che si respira nel nostro chiostro. Voglio dire: propizia a una cultura temperata da moderato ascetismo. Con il nostro abate Chiliano io sono del ben ponderato parere che la religione di Cristo e la cura degli antichi studi debbano andare di pari passo nella lotta contro la rozzezza: è sempre la stessa ignoranza a non voler saper nulla né dell'una né dell'altra, ma dove luna ha messo le radici, sempre si diffonde anche l'altra. In verità il grado di cultura del nostro ordine è notevolmente alto, e, secondo la mia esperienza, superiore perfino alla cultura del clerus romano che spesso mostra di curar troppo poco la sapienza degli antichi e i cui membri scrivono talora un latino davvero miserevole, pur se non così cattivo come quello che si scrive dai monaci tedeschi. Uno di questi, vero è che è un agostiniano, mi scriveva recentemente: « Habeo tibi aliqua secreta dicere. Robustissimus in corpore sum et saepe propterea temptationibus Diaboli succumbo ». Dichiarazione mal tollerabile, sia per lo stile, sia anche per il resto. Una rozzezza simile non sarebbe certamente potuta venir mai da una penna romana. Comunque sarebbe errato credere che io voglia gene-

Talmente parlar male di Roma e della sua supremazia, di cui anzi mi professo seguace fedele. Certo noi monaci irlandesi abbiamo sempre tenuto molto all'indipendenza del nostro agire e siamo stati i primi a predicare la dottrina cristiana in molte contrade del continente, acquistando meriti straordinari con l'erigere da per tutto, in Borgogna, in Frisia, in Turingia e in Alemagna monasteri, come baluardi della fede e della missione. Questo non impedisce che noi, fino dai tempi più antichi, abbiamo riconosciuto il vescovo del Laterano come capo della chiesa cristiana, ravvisando in lui un essere di specie quasi divina, e reputiamo forse solo il luogo della divina risurrezione più sacro di S. Pietro. Si può dire apertamente, senza mentire, che le chiese di Gerusalemme, di Efeso, di Antiochia, sono più antiche della romana, e se Pietro - nel considerare il suo nome incrollabile non piace ricordare certi canti di gallo - ha fondato il vescovato di Roma (e l'ha fondato), lo stesso si può dire incontestabilmente della comunità di Antiochia. Ma queste cose possono aver solo il valore di osservazioni occasionali al margine della verità, e la verità è che prima di tutto il nostro Signore e Salvatore, come si legge in Matteo, a dir vero solo in lui, ha eletto a suo vicario quaggiù Pietro, che ha trasmesso il vicariato al vescovo di Roma, dandogli la preminenza su tutti gli episcopati del mondo. Leggiamo anzi in decretali e protocolli dei primi tempi perfino il

discorso che lo stesso apostolo tenne nell'ordinare il suo primo successore, il papa Lino: ciò che io reputo una vera prova di fede e che è una sfida allo spirito umano, affinché provi la sua forza e mostri tutto quanto è capace di credere.

Nella mia condizione molto più modesta di monaco, in cui s'incarna lo spirito della narrazione, mi sta molto a cuore che si consideri con me l'elevamento alla sedia gestatoria come l'elezione più alta e più ricca di grazie. E un segno della mia devozione a Roma si può veder subito già in questo: che io porto il nome di Clemente. Il mio nome nel mondo è infatti Moroldo. Ma io non ho mai amato questo nome perché mi sembrava barbaro e pagano e con la tonaca ho assunto quello del terzo successore di Pietro, e così ora nella tonaca cinta dal cordone e nello scapolare non c'è più il volgare Moroldo ma un ingentilito Clemente. Si è avverato ciò che S. Paolo nell'epistola ad Ephesios chiama con parola così felice: « L'esser vestiti dell'uomo nuovo ». Sì, non è più il corpo di carne, che andava in giro nella veste di quel Moroldo, ma è un corpo spirituale, stretto dal cingolo, un corpo quindi per cui la mia parola precedente, che qualchecosa "s'incarna" in me, ciò è lo spirito della narrazione, non sarebbe stata del tutto degna di lode. Io non amo molto questa parola "incarnazione": essa deriva dal corpo e dalla carne, di cui mi sono spogliato insieme col nome di Moroldo. Il corpo è da per tutto dominio di Satana ed è capace e si sente pronto a commettere orrori per mezzo di lui, orrori ai quali non si concepisce come non si sottragga. D'altro lato è il portatore dell'anima e della ragione di Dio, senza cui queste sarebbero prive del loro appoggio, cosicché bisogna chiamare il corpo un male necessario. Questo è il riconoscimento che gli compete, uno più alto e gioioso non gli spetta nella sua miseria e nella sua vergogna. E come del resto, mentre si è in procinto di narrare o di rinnovare (perché già raccontata e perfino più volte, anche se insufficientemente) una storia tutta piena degli orrori del corpo e che offre una prova terribile di tutto ciò a cui esso senza ribellarsi si abbandona, come si potrebbe esser disposti a menar gran vanto di essere un'incarnazione?

No, lo spirito della narrazione incarnatosi nella mia persona, in me, monaco, detto Clemente l'irlandese, ha conservato molto di quell'astrattezza che lo rende capace di suonare nello stesso tempo da tutte le basiliche titolari dell'urbe. E ne porterò subito due prove. E primieramente l'una, che al lettore di questo manoscritto potrà forse essere sfuggita, ed è tuttavia degna di nota: io gli ho fornito, è vero, l'indicazione del luogo dove siedo, che è S. Gallo, presso il leggìo di Notkero, ma non ho detto in che